Operazione Mammasantissima: ‘ndrangheta, massoneria e politica nel mirino da: l’espresso

Ecco i segreti dell’indagine antimafia che scuote i salotti buoni di Reggio Calabria. E mette a nudo i rapporti tra criminalità e Stato

di Gianfrancesco Turano

21 settembre 2016

La tempesta sta per arrivare. C’è chi conta i giorni: fine settembre, ottobre al massimo. C’è chi per la paura dà i numeri: centodieci candidati al carcere. Un’enormità per una città come Reggio Calabria. Significa uno ogni mille abitanti circa. Se poi non saranno centodieci, saranno pochi in meno e farà poca differenza.
Zona altamente sismica, Reggio. Quasi mezzo secolo di edilizia politica arditissima, realizzata con i materiali in teoria antagonistici di ’ndrangheta, massoneria e Stato, rischia di crollare sui grandi architetti che l’hanno ideata. È un oggetto con molti nomi che si può chiamare Santa o Cosa Unita ma fino a poco tempo fa è stato Cosa Ignota.

L’elenco dei vip è già piuttosto robusto. Mammasantissima e le altre inchieste della direzione distrettuale antimafia reggina hanno già inguaiato parlamentari, ministri, politici: l’ex deputato Amedeo Matacena, latitante da quasi tre anni, il senatore Antonio Caridi, che nel 2010 andava in visita a casa del boss Giuseppe Pelle ed è stato arrestato il 4 agosto scorso, l’ex ministro Claudio Scajola a processo ma ancora invitato vip alla festa della polizia dello scorso 26 maggio, Giuseppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio ed ex governatore calabrese. Fondatore del Ncd con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, Scopelliti è stato condannato in primo grado a sei anni per le malversazioni delle finanze municipali. È ancora sotto scorta in quanto minacciato dalla ’ndrangheta (dal 2004) e dalle Brigate Rosse (dal 2012). Nelle carte figurano anche Angela Napoli, già membro della commissione antimafia, l’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio che, secondo il braccio destro di Scopelliti arrestato, Alberto Sarra, era il suo consigliere insieme al sottosegretario alla giustizia Giuseppe Valentino. E poi ci sono gli amici dei bei tempi della destra, Gianni Alemanno e Maurizio Gasparri.
La Reggio bene, la Reggio che conta non solo a Reggio è investita da un’onda che, per alcuni, è tardiva e per altri meglio tardiva che sospesa in eterno.

Si teme che gli effetti collaterali colpiscano anche chi non è colluso, ma semplice vittima dell’attitudine reggina al “me la vedo io”, quando qualcuno offre qualcosa, senza chiedere nulla in cambio o non subito. Giuseppe De Stefano, “Crimine” del clan di Archi oggi al 41 bis, l’ha battezzata brillantemente “la banca dei favori”. È un istituto di credito che ha prosperato oltre ogni speranza, in simbiosi con le strutture istituzionali, trasformandosi in apparato statale fin dagli anni in cui la Cosa Nostra di Totò Riina dichiarava guerra alla Repubblica.

Il procuratore Federico Cafiero de Raho e il suo sostituto Giuseppe Lombardo hanno impresso una svolta. Adelante con juicio, per dirla con il Manzoni. Per dirla con Totò, chi sa dove vogliono arrivare.

«La procura mette in ginocchio la città», risponde Massimo Canale, ex Comunisti Italiani e poi candidato sindaco per il Pd sconfitto nel 2010 dal centrodestra di Demetrio Arena, lo scopellitiano che guiderà Reggio allo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Oggi Canale è tornato al suo mestiere di avvocato e difende Marcello Cammera, uno dei funzionari più influenti e chiacchierati del Comune di Reggio, alla guida del settore lavori pubblici. Si dichiara garantista a oltranza ma si chiede dov’era lo Stato quando Caridi, consigliere comunale con la prima giunta del sindaco Scopelliti, veniva eletto in Senato a rappresentare, secondo l’accusa che lo ha portato dietro le sbarre, un’organizzazione criminale che non si può più chiamare ’ndrangheta e forse neppure criminale vista la presenza di magistrati, imprenditori, avvocati patrocinanti in Cassazione e commercialisti con studio in centro a Milano. Un’organizzazione che controlla sistemi operativi di rilievo internazionale come il porto di Gioia Tauro, dove sono attivi Cia, Mossad e MI6, e ha accesso ai più evoluti strumenti finanziari del globo, dalle grandi banche svizzere a fondi come il malesiano 1MDB, una vasca da miliardi messa sotto sequestro negli Stati Uniti. Il fondo asiatico è uno dei fronti di indagine in fase di sviluppo, come quello che riguarda il banchiere Robert K. Sursock, numero uno di Gazprombank a Beirut.

Un investigatore che da anni lavora sul cono d’ombra della città dello Stretto dice: «Qualcuno si è chiesto come mai il Credito Svizzero, che sponsorizza solo le nazionali elvetiche di calcio e il tennista Roger Federer, doveva comparire per due anni sulle magliette della Reggina in serie A tra l’altro con soldi mandati attraverso la branch di Hong Kong?».

Quasi fra le righe di Mammasantissima torna un nome di grande peso a Lugano, quello di Vittorio Peer, ex proprietario dell’isola di Budelli, amministratore della Ciga e mediatore di opere d’arte, citato dai pentiti Nino Fiume (clan De Stefano) e dal colletto bianco massone Michele Amandini, oggi collaboratore di giustizia dopo che, scrivono i magistrati, «aveva svolto, per conto della ’ndrangheta, il compito di riciclare, attraverso canali finanziari svizzeri, i proventi dei sequestri di persona a scopo di estorsione».

Giuliano Di Bernardo, ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la maggiore obbedienza massonica italiana, sta spiegando la sua uscita dal Goi proprio con l’infiltrazione della ’ndrangheta nelle logge (28 su 32 secondo l’allora vice del Goi). Di Bernardo ha anche detto di avere messo al corrente della situazione il capo supremo della massoneria inglese, il principe Edward duca di Kent, che per questo motivo non ha voluto riconoscere il Goi.

La nuova interpretazione del rapporto fra ’ndrangheta e massoneria è che sia stata proprio la seconda a infiltrare la prima dopo una sorta di “reverse merger” operato dalla componente gelliana fin dai primi anni Settanta. Con la nascita della Santa, la ’ndrangheta è rimasta una cosa per “quattro storti”, i quattro stupidi di cui parla Pantaleone “Luni” Mancuso del clan di Limbadi.

Sono i manovali del crimine che i capi sacrificano in nome delle relazioni diplomatiche con il potere ufficiale. «Non ho mai conosciuto un grande boss che non fosse il confidente di polizia, carabinieri, finanza o servizi», dice Enzo Macrì, procuratore capo ad Ancona, ex numero due della Dna e uno dei magistrati di Olimpia, il primo processo su ’ndrangheta e politica. «Soprattutto gli apparati di intelligence controllano Reggio fin dagli anni Settanta».
“Mammasantissima” ha due assi nella manica. Uno sono le dichiarazioni di Alberto Sarra, ex consigliere regionale, amico d’infanzia e di basket dell’ex sindaco e governatore Giuseppe Scopelliti.

I verbali di Sarra sono definiti “dirompenti” da chi sta seguendo l’inchiesta. Ma c’è un secondo personaggio capace di portare l’indagine a livelli altissimi. È Cosimo Virgiglio, curiosa figura di imprenditore implicato in un processo (“Maestro”) con potenzialità enormi poi rimpicciolito a un traffico di merci contraffatte sbarcate al porto di Gioia Tauro.

Lì erano emerse le relazioni di Virgiglio con il clan Molè, da una parte, e con un contesto eterogeneo rappresentato dal piduista Giorgio Hugo Balestrieri, autore di un memoriale su ’ndrangheta e politica finora rimasto lettera morta, e da esponenti del clan Casamonica. Attivo nell’immobiliare e proprietario della stazione dei carabinieri di Rosarno, Virgiglio sta descrivendo riti e affari di un’organizzazione che non può essere definita semplicemente criminale perché include gli uomini dello Stato e diventa essa stessa apparato dello Stato.
Nell’ordinanza Mammasantissima i verbali di Virgiglio sono in larga parte coperti da omissis perché vengono integrati in corso d’opera con i riscontri sull’enorme deposito di documenti e fotografie trovato a Villa Vecchia, l’albergo di Monte Porzio Catone al quale erano interessati gli uomini del clan Molè.

L’ordinanza Mammasantissima non è solo, come la definisce il sindaco Giuseppe Falcomatà, «la madre di tutte le inchieste». Raccoglie il lavoro fatto in vent’anni, dai processi Olimpia e Meta a Crimine-Infinito. Chi ha interesse a smontare la madre di tutte le inchieste ripete una cantilena già sentita: possibile che Paolo Romeo, o il senatore Antonio Caridi o uno qualunque degli altri imputati in arrivo, siano il capo dei capi?

Ma è un falso problema. Si chiami Santa o Cosa Nuova o Stato, il potere nato nel cono d’ombra di una città del sud di 200 mila abitanti e cresciuto fino a essere l’interlocutore delle potenze statali internazionali, oltre che potenza economica globale in sé, è un’oligarchia. L’oligarchia, per definizione, non ammette monarchi.
Un magistrato che ha vissuto la lotta alla ’ndrangheta fin dagli anni Novanta si mostra più critico e avverte che bisogna stare attenti a distinguere, all’interno del reale, tra fossili e esseri viventi.

Ma da questo punto di osservazione, uno dei “Mammasantissima” arrestati dovrebbe essere un fossile. Invece è piuttosto un mediatore politico dotato di eccezionale longevità. Paolo Romeo, 69 anni, inizia la carriera quasi mezzo secolo fa, quando da militante di Avanguardia nazionale porta le bombe a mano dentro l’università di Roma durante gli scontri studenteschi del 1968. Nello stesso anno, il fratello Vincenzo uccide per futili motivi – una lite per un ballo alla Festa della Madonna della Consolazione patrona di Reggio – il camerata Benedetto Dominici, a sua volta fratello di Carmine che diventerà uno dei principali collaboratori di giustizia sulle vicende al confine fra ’ndrangheta ed eversione neofascista.

Iscritto al Fuan, l’organizzazione giovanile del Msi, e fermato per partecipazione a manifestazione sediziosa durante i Moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, Romeo prende presto la strada giusta al bivio dei rivoluzionari neri. Con la sveltezza ideologica prescritta dal trasversalismo santista, diventa deputato del partito socialdemocratico. Non dimentica di aiutare i camerati in difficoltà, come i fuggitivi Stefano Delle Chiaie e Franco Freda, ma mette a disposizione la sua influenza anche verso i compagni con i quali si è preso a sprangate.
Per usare la terminologia bolscevica, diventa il commissario politico del clan De Stefano mentre il collega avvocato Giorgio De Stefano, anch’egli patrocinante in Cassazione, determina le strategie affaristico-militari della famiglia del quartiere Archi.

«Per loro la condanna come concorrenti esterni in associazione mafiosa è stata meglio di un’assoluzione», ha detto il pm Lombardo. Il terzo dei concorrenti esterni è Amedeo Matacena junior, figlio di uno dei finanziatori dei Moti per Reggio capoluogo del 1970, vera data di nozze fra massoneria, servizi segreti e quella che allora era nota come mafia calabrese, perché non aveva nemmeno un nome proprio.

Dopo cinquant’anni dai suoi esordi, Paolo Romeo parlava con tutti, dava ordini a tutti. A dispetto delle sue condanne, suggeriva al presidente di Confindustria Reggio, Andrea Cuzzocrea, editore del “Garantista”, l’assunzione della giornalista Teresa Munari, ritenuta utile in quanto amica del componente dell’Antimafia Angela Napoli. Pochi giorni prima di essere di nuovo arrestato, Romeo era nelle sale del Comune, a partecipare a incontri sulla città metropolitana come membro dell’associazione Forum Reggio Nord 2020, creando imbarazzi a un sindaco eletto contro il blocco di potere santista.

Del resto, Romeo considerava la città metropolitana una sua creatura. Lo ha rivendicato lui stesso davanti al tribunale del Riesame: se non era per lui, Reggio non entrava nella shortlist. Alla faccia, si può aggiungere, di città più grandi e più ricche, come Brescia o Verona.

In fondo, è la vecchia storia della mafia che dà lavoro. Il rischio è che i sequestri giudiziari e la chiusura di lidi, negozi, bar, siano il colpo di grazia a un’economia fragile.

Falcomatà la cui candidatura è stata imposta a un Pd a rischio di infiltrazioni dal reggino più potente del momento, il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti, sta formulando un piano sul modello Expo per consentire alle imprese impegnate in lavori pubblici urgenti ma colpite da interdittive antimafia di completare le commesse sotto controllo.

«Non deve passare il messaggio che con la ’ndrangheta si lavora e con lo Stato no», dice il sindaco che invita la città a reagire nei suoi corpi intermedi, senza affidarsi alle sole inchieste di polizia. Lui non lo può dire ma il marcio è lì, nelle associazioni gestite dai professionisti dell’antimafia e della mafia, fra gli imprenditori, negli ordini professionali che mantengono nell’albo gli avvocati Romeo e De Stefano, che propongono come probi viri legali coinvolti in inchieste di ’ndrangheta, che conservano l’iscrizione al dottore commercialista Pasquale “Lino” Guaglianone, ex tesoriere dei Nar di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.

Ma la reazione c’è. C’è sempre stata, a smentire la leggenda razzista sull’incapacità genetica dei calabresi a ribellarsi. Continua a esserci. Dopo il cuoco Filippo Cogliandro, il commerciante di prodotti sanitari Tiberio Bentivoglio, il costruttore Gaetano Saffioti, il gestore di agriturismo Cristofaro Tedioso, emigrato di ritorno dal Canada, c’è un fioraio che si chiama Vincenzo Romeo, nessuna parentela con Paolo.

Il fioraio aveva un chiosco al centro commerciale Perla dello Stretto a Villa San Giovanni. Per non avere firmato l’accordo con il consorzio il cui dominus era l’avvocato Paolo Romeo, nella notte del 3 giugno 2015 il chiosco è stato bruciato. Un servizio sul network la C ha trasmesso le telefonate dopo il rogo fra il commerciante e il suo finanziatore di Gabetti.

«Senti, vedi che glielo puoi segnalare alla banca. Io domani mattina sono là che ricostruisco», dice Romeo cercando con scarso successo di non piangere. «A me se mi ammazzano… La mia famiglia campa sempre là. Campa là perché non so dove andare. A 50 anni non so dove andare. Non so rubare. Mi possono ammazzare. Sono sempre là».

Il funzionario di Gabetti riferisce ai superiori di Milano, che in conference call reagiscono sghignazzando. Alla fine, uno dei manager replica, finalmente preoccupato: «E adesso che cacchio gli vendiamo? Il suolo?»
Ma il titolare del chiosco è stato di parola e ha tenuto duro. La Perla dello Stretto, il centro commerciale controllato dall’avvocato Romeo, è stata riaperta dopo il sequestro giudiziario disposto nell’inchiesta Fata Morgana. Se passate da Villa San Giovanni e vi servono fiori, sapete dove andare.

il governo Gentiloni ha giurato, ministri confermati tranne Giannini. Alfano agli Esteri. Minniti all’Interno. Boschi sottosegretario da:repubblica.it

Concluso il primo cdm con il nuovo premier. Renzi dà al successore la felpa con la scritta ‘Amatrice’ donatagli dal sindaco del paese terremotato. Verdini: “No fiducia senza rappresentanza Ala-Sc”. Il presidente dem Orfini: “Inconcepibile che arrivi a fine legislatura”.

di PAOLO GALLORI e MONICA RUBINO

ROMA – Ecco i ministri del nuovo governo che ha già concluso il suo primo consiglio dei ministri. Ministri senza portafoglio: Anna Finocchiaro alle Riforme e Rapporti con il Parlamento, Marianna Madia conermata alla Semplificazione e Pa, Enrico Costa agli Affari Regionali. Claudio De Vincenti alla Coesione Territoriale e Mezzogiorno, Luca Lotti allo Sport. Con portafoglio: Angelino Alfano agli Esteri, all’Interno Marco Minniti, alla Giustizia Andrea Orlando, alla Difesa Roberta Pinotti, all’Economia Pier Carlo Padoan, allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. E poi alle Politiche agricole Maurizio Martina, all’Ambiente Gian Luca Galletti, ai Trasporti Graziano Del Rio, al Lavoro Giuliano Poletti, all’Istruzione Valeria Fedeli, ai Beni Culturali Dario Franceschini, alla Salute Beatrice Lorenzin. Sottosegretario di Stato alla presidenza del consiglio Maria Elena Boschi. Il premier al momento tiene per sé la delega ai Servizi segreti che era stata affidata a Minniti durante il governo Renzi. Dopo la cerimonia del giuramento del nuovo governo al Quirinale, il neo premier si è recato a Palazzo Chigi – accolto nel cortile dal picchetto d’onore dei Lanceri di Montebello – per il passaggio di consegne con Matteo Renzi.

Il discorso di Gentiloni. “Come si può vedere dalla sua composizione, il governo proseguirà nell’azione di innovazione” dell’Esecutivo Renzi. È con questa promessa che Paolo Gentiloni, dopo aver sciolto la riserva da Presidente del Consiglio incaricato, inizia il suo mandato. “Ho messo tutto il mio impegno per la soluzione più rapida possibile” della crisi, ha sottolineato, “il governo si adopererà per aiutare il lavoro tra le forze politiche per l’estensione delle nuove regole elettorali”. Ma non solo questo: lo stesso referendum dimostra come “vi siano sacche di disagio tra il ceto medio e soprattutto nel Mezzogiorno. Il lavoro sarà la vera priorità dei prossimi mesi”.

La cerimonia della Campanella. Dopo il giuramento al Quirinale, si svolge a Palazzo Chigi la tradizionale cerimonia del passaggio di consegne tra il presidente uscente e il nuovo presidente del Consiglio. Il presidente del Consiglio in carica e il presidente del Consiglio uscente, con i rispettivi Sottosegretari di Stato, si recano nel Salone dei Galeoni dove ha luogo la cerimonia simbolica di consegna della Campanella del Consiglio dei Ministri. Il presidente del Consiglio rientra nel proprio studio, mentre il Presidente uscente, accompagnato dal Capo dell’Ufficio del Cerimoniale di Stato e per le onorificenze attraverso lo Scalone, giunge nel cortile e, dopo aver ricevuto gli onori militari da parte del reparto schierato, lascia a piedi Palazzo Chigi.

La felpa Amatrice. La cerimonia della Campanella si è svolta in un’atmosfera molto rilassata, tra strette di mano e sorrisi. Il premier uscente ha dato al suo successore anche una felpa con la scritta “Amatrice”, che gli era stata donata da Sergio Pirozzi, sindaco del comune laziale fortemente colpito dal sisma del 24 agosto.

Giovedì al Consiglio Europeo. Quella del neo premier è stata una marcia a tappe forzate che consentirà all’ex capo della Farnesina di partecipare già giovedì al Consiglio europeo nel pieno dei suoi poteri, una volta ottenuta la fiducia dalle Camere presumibilmente entro dopodomani. Tra i dossier urgenti sul tavolo del nuovo governo, oltre alla legge elettorale, anche la decisione sul decreto per Mps e le banche e le iniziative per sostenere i cittadini delle Regioni colpite dal terremoto.

Il No alla fiducia di Ala-Sc. Sulla formazione del governo incombe la posizione dei verdiniani che annunciano il loro No alla fiducia “senza rappresentanza Ala-Sc”. “Non voteremo la fiducia a un governo intenzionato a mantenere uno status quo”, dicono in una nota Denis Verdini e Enrico Zanetti. “Il governo – aggiungono – deve assicurare il giusto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, senza rinunciare, in nome di pasticciate maggioranze, a quest’ultimo principio”. “Preferiamo l’originale alla fotocopia. Il gruppo Sc-Ala ha avanzato contenuti e programmi: su questi chiediamo ascolto. Cosi da noi nessuna fiducia”. Ha precisato Saverio Romano, capogruppo Ala-Sc.

I numeri al Senato. Sulla carta il governo Gentiloni può contare in Senato su una forbice che va da un minimo di 160 voti a un massimo di oltre 170. Quindi il gruppo di Verdini – in tutto 18 – non risulta, secondo il pallottoliere, determinante perchè il nuovo Governo a Palazzo Madama incassi la fiducia.

La cronaca. L’ultima delegazione a essere ricevuta alla Camera da Gentiloni è stata quella del Pd, che in direzione aveva votato all’unanimità uno scontato quanto obbligato appoggio al suo esecutivo. Anche se il presidente dem Matteo Orfini aveva chiarito nel corso della riunione di partito: “È inconcepibile che arrivi a fine legislatura”. Diversa era l’opinione delle opposizioni, come ha evidenziato da Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, al termine delle consultazioni: “Gentiloni è stato onesto – ha detto La Russa –  ci ha confermato che resterà in carica finchè avrà la fiducia” delle Camere, “anche fino al termine della legislatura” nel 2018, ha spiegato l’ex ministro della Difesa. “Noi invece abbiamo chiesto tempi certi per andare al voto, vedremo…”, ha concluso l’esponente di Fratelli d’Italia. Tra gli altri partiti ricevuti in mattinata anche i centristi di Angelino Alfano (Ap-Ncd), pronti a rinnovare il loro appoggio all’esecutivo, e i verdiniani di Ala che puntavano a conquistare qualche poltrona nella compagine governativa in cambio del loro sostegno alla maggioranza.

Fi: “Opposizioni senza sconti”. Forza Italia ha invece promesso “un’opposizione senza sconti”, per voce del capogruppo dei deputati azzurri Renato Brunetta, per una legge elettorale “che va fatta in Parlamento” e per la quale le diverse anime del centrodestra sono invitate a sedersi attorno a un tavolo per trovare una posizione comune.

M5s e Lega disertano colloqui. Il M5s e la Lega, regolarmente convocate, hanno invece deciso di disertare i colloqui. “È un gioco di palazzo a cui non partecipiamo”, hanno detto i grillini annunciando una manifestazione di piazza per il 24 gennaio, giorno del pronunciamento della Consulta sull’Italicum. Mentre Salvini conferma gazebo in tutta Italia il prossimo weekend dove raccogliere firme per le elezioni immediate. Con quale legge? “La nostra proposta, che presenteremo in Camera e Senato, è sperimentata e riadattabile: il Mattarellum”.

Autore: redazione “Far unire le forze che a sinistra hanno contribuito alla straordinaria vittoria del No”. Il testo del documento finale dell’assemblea di Roma da: controlacrisi.org

“Far unire tutte le forze che a sinistra hanno contribuito alla straordinaria vittoria del No”. E’ il primo punto del documento politico uscito dalla grande assemblea che si è tenuta ieri a Roma nella sala conferenze di l.go dello Scoutismo a Roma. Un’assemblea alla quale hanno partecipato diverse realtà politiche e sociali che hanno partecipato da soggetti attivi alla vittoria referendaria del “No”. Alla fine dell’assemblea “Ricominciamo dal NO(i)” è stato stilato un documento che vi riproponiamo qui in versione integrale e che contiene l’invito ad unire i percorsi con l’iniziativa del 18 dicembre a Bologna. 

Come promotori e partecipanti agli incontri di “politica in comune”, in occasione dell’assemblea nazionale dell’11 dicembre a Roma, riaffermiamo la necessità di far dialogare e unire tutte le forze che a sinistra hanno contribuito alla straordinaria vittoria del No alla revisione costituzionale proposta dal governo Renzi.
Questa vittoria deve spingerci a far maturare nel nostro paese un profondo cambiamento politico, economico e sociale, che dia rappresentanza alle tante domande presenti nella società per la giustizia, la democrazia, il lavoro, i diritti sociali, la salvaguardia dell’ambiente, un’economica sostenibile. La Costituzione ora deve essere attuata compiutamente; e anzi il suo orientamento ideale rappresenta per noi l’indirizzo politico-programmatico di una nuova stagione della sinistra.
Dopo anni di separazione tra paese e istituzioni, società e politica riteniamo si debba andare alle elezioni generali con una legge elettorale che non può non avere un impianto proporzionale, in grado di dare effettiva rappresentanza a tutti gli orientamenti e sensibilità presenti nella società italiana, oltreché in contrasto con lo schiacciamento maggioritario del sistema politico, di cui sono evidenti i danni prodotti. Starà poi a noi lavorare a costruire, con il metodo della “politica in comune”, un’alternativa politica a tutte le forze neo-liberiste, Partito democratico compreso.
Serve una politica capace di valorizzare la dimensione democratico-partecipativa nelle comunità locali, attraverso il sostegno alle tante liste civiche che si sono misurate nelle diverse elezioni amministrative che si sono succedute, e il protagonismo sociale e culturale che si esprime in associazioni, movimenti, civismo, nei loro conflitti, nelle loro campagne. Il tutto con il decisivo contributo di una rinnovata e non autoreferenziale sinistra politica, capace di superare la frammentarietà organizzativa, la subalternità politica, le chiusure ideologiche.
Noi vogliamo dare un contributo alla costruzione di uno spazio aperto e inclusivo, plurale e cooperativo, dove ciascuno, ciascuna possano fare la propria parte per costruire una nuova stagione di cambiamento.
E per questo c’impegniamo a lavorare per realizzare tre obiettivi:

* La costruzione di una proposta legata al “metodo” che deve essere alla base di quello spazio politico che intendiamo offrire. La forma è importante quanto il contenuto, le pratiche significative quanto i programmi, i comportamenti quanto i documenti. Bisogna mettere al bando derive autoreferenziali e politiciste per dar vita a forme e procedure partecipative, che incidano in modo radicalmente nuovo sul come si sta insieme, su come si decide, su come si formano nuove soggettività dal basso verso l’alto, forme e procedure non schiacciate su schieramenti, posizionamenti, assetti. Ciò significa inoltre riconoscere e valorizzare la pari dignità delle diverse forme della politica presenti a sinistra, che insieme si sono impegnate, ciascuna con un proprio ruolo, nella battaglia referendaria, e che possono allo stesso modo costruire una sinistra larga e plurale, un campo della trasformazione, in grado di misurarsi in modo innovativo con le prossime scadenze elettorali. E su questi temi c’impegniamo infine a promuovere un’assemblea nazionale entro gennaio, invitando le realtà locali a organizzare iniziative in preparazione di quest’appuntamento centrale.

* Il contributo alla vittoria nei prossimi appuntamenti politici e sociali contro le politiche neo-liberiste attuate in questi anni. Proprio perché per noi la sinistra o è sociale o non è e la politica o è cambiamento sociale o non è, si svolgano o meno nel 2017 le elezioni politiche, chiediamo che si possano celebrare i referendum sul lavoro, su cui la Cgil ha raccolto più di tre milioni di firme. Ci impegniamo altresì a contribuire alla costituzione di Comitati per il Sì per sostenere la prossima campagna referendaria.

* Il prosieguo del nostro percorso di “politica in comune”, attraverso un rafforzamento della comunicazione e della collaborazione tra le nostre realtà e allargando l’ambito del lavoro e delle iniziative fin qui svolte, attraverso un collegamento organico con le esperienze che si ritroveranno il prossimo 18 dicembre a Bologna, con le quali condividiamo il percorso politico e culturale, i temi del confronto e la domanda di un cambiamento radicale. Rivolgiamo pertanto ai promotori dell’iniziativa bolognese l’invito a incontrarci e continuare il nostro lavoro insieme.

Valeria Fedeli ministro dell’Istruzione, storia di una sindacalista che si definisce “femminista riformista di sinistra” da: ilfattoquotidiano.it

La sua lunga carriera sindacale spiega probabilmente le ragioni della sua nomina: ricucire i rapporti con le sigle che sono arrivate a rottura totale con Stefania Giannini nelle trattative su Buona scuola e concorsi
Potrebbe passare alla storia come la “Penelope” del ministero dell’Istruzione nella speranza che stavolta alle nozze con i sindacati ci si arrivi: Valeria Fedeli, 67 anni, neo ministro dell’Istruzione università e ricerca, fino a ieri vicepresidente del Senato, ha un passato da sindacalista della Cgil. Il suo biglietto da visita è il suo sito: “Sono una sindacalista pragmatica. Sono femminista riformista e di sinistra”. Dove non è riuscita Stefania Giannini potrebbe arrivare lei, la lady rossa che dagli anni settanta ha la tessera del sindacato in borsa.Di scuola, ammettono anche nel Partito Democratico da dove proviene, ne sa poco ma è una chiara garanzia nei rapporti con quel mondo che finora era stato snobbato dalla Giannini.
Ed è bastato il nome della Fedeli per suscitare qualche sorriso da parte del sindacato: “Sicuramente sul piano delle relazioni cambierà qualcosa. Non ci sarà più l’ostilità preconcetta che c’era fino ad oggi”, ha commentato un ex dirigente dei vertici della Flc Cgil.

La nuova inquilina di viale Trastevere, dall’altro canto lo conosce bene quel mondo: nata a Treviglio ha iniziato la sua attività sindacale a Milano per trasferirsi dieci anni dopo nella capitale per assumere incarichi di segreteria prima nel settore pubblico e poi nel tessile, settore che ha guidato dal 2001 al 2012 prima di candidarsi nelle liste del Partito Democratico. Chi ha lavorato con lei la definisce “scaltra” e ricorda che prima di passare al “renzismo” in epoche lontane ha lavorato al quotidiano “Il Manifesto”.

I primi segnali di fumo non a caso arrivano dalla Cisl attraverso la segretaria Lena Gissi: “Siamo certi che la sua intelligenza e la sua sensibilità possano contribuire, dopo una lunga stagione di disagio e tensione, a ristabilire un clima di serenità nel mondo della scuola che attende anche, attraverso il rinnovo del contratto di vedere più giustamente riconosciuto il valore del lavoro di tutto il personale che vi opera”. Sul tavolo del Miur senza dubbio il primo faldone che dovrà aprire la neo ministro sarà quello della mobilità e del contratto lasciato in sospeso ad hoc dalla Giannini.

Resta la preoccupazione degli insegnanti che si aspettavano la nomina del maestro Marco Rossi Doria, tra i nomi più quotati fino a qualche ora prima della salita al colle del premier Gentiloni.
Nessuno lo urla ma tra i corridoi del ministero e del “Transatlantico” sono in molti a confidare la preoccupazione per un ministro che non si è mai occupato di pagelle e voti : “Dall’altro canto – scherza un deputato del Pd – quando mai un ministro dell’Istruzione ne ha saputo di scuola?”. Una cosa è certa: anche la sponda nemica la definisce una seria, capace di fare squadra, sensibile ai temi legati alle donne. “Finalmente – sorride una deputata di Forza Italia – usciranno le linee guida sull’educazione di genere”.

Ora si apre la partita dei sottosegretari: Davide Faraone, renziano doc, non dovrebbe avere alcun problema. Qualche mal di pancia l’ha invece Gabriele Toccafondi del Nuovo Centrodestra.

Anna Finocchiaro, vita e opere di una Ségolène con l’inciucio da: micromega.net luglio- agosto 2007

martedì 12 febbraio 2008

Odio avere ragione quando si tratta dei giochi di partito a discapito di un’intera regione. Ma guardate cosa stanno facendo, non hanno nemmeno il coraggio di pubblicizzare la candidatura di Anna Finocchiaro. Li immagino alla finestra che guardano come tira il vento, aspettando tempi migliori per comunicare una decisione che li porterà alla disfatta. Fa bene Anna Finocchiaro a fregarsene di come andranno le elezioni in Sicilia e prenotarsi un posto in Senato. Si chiama previdenza. Ho sempre detto che la signora Finocchiaro è una persona degna, e non cambio idea. E’ molto incoerente però. Trascrivo l’articolo di Travaglio e Giustolisi. E’ molto lungo, ma vale la pena leggerlo, davvero.

Anna Finocchiaro, vita e opere di una Ségolène con l’inciucio

La Ségolène de’ noantri è nota per la sua modestia. Infatti, l’anno scorso, quando Giorgio Napolitano fu eletto al Quirinale, dichiarò al Corriere: “ Un uomo con il mio curriculum , l’avrebbero già fatto presidente della Repubblica”. Ma Anna Finocchiaro è nota pure per le sue eccezionali capacità politiche. Infatti, come capogruppo dell’Ulivo al Senato, all’inizio di quest’anno riuscì a far passare una mozione di Calderoli sull’Afghanistan. E quando, a fine febbraio, Fassino ebbe la bella pensata di far prelevare a Torino Sergio Pininfarina, assente al Senato da otto mesi, per rafforzare le esangui truppe unioniste intorno alla mozione D’Alema sulla politica estera, lei rassicurò il suo gruppo: «Tranquilli, è arrivato Pininfarina». Cinque minuti dopo, la mozione D’Alema veniva bocciata grazie anche all’astensione di Pininfarina, che con la sua presenza aveva alzato il quorum senza che nessuno gli spiegasse che astenersi, al Senato, equivale a votare contro. Un’ora dopo, Prodi saliva al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Eppure, per imperscrutabili motivi (a parte la sua proverbiale, quasi leggendaria avvenenza), Anna Maria Finocchiaro detta Annuzza, nata il 31 marzo 1955 a Modica (Ragusa) ma cresciuta a Catania, iscritta al Pci a 17 anni, laureata in legge a 25, funzionario alla Banca d’Italia filiale di Savona a 26, pretore di Leonforte (Enna) a 27, pm di Catania a 30, parlamentare da quando ne aveva 32, cioè da vent’anni giusti, è l’astro nascente dei Ds. l’amica dalemiana in grado di contendere la leadership del futuro Partito democratico a Walter Veltroni, suo coetaneo. All’ultimo congresso Ds, quello di Firenze, il suo discorso di 21 minuti interrotto da 21 applausi con citazioni di Temistocle e Aristide nella guerra ai Persiani, è stato più elogiato di quello di Walter. E, come di Walter, anche di lei parlano tutti benissimo. Anzi, è più facile trovarle qualche detrattore nel centro-sinistra (soprattutto fra i fassiniani e fra le donne uliviste, gelose del suo fascino) che nel centro-destra. Qui, in partibus infidelium, piace proprio a tutti. Lino Jannuzzi, che pranza spesso con lei nel ristorante del Senato, l’adora e le ha dedicato un giulebboso ritratto-intervista sul Giornale. Un altro ancor più zuccheroso glie l’ha riservato, sempre sul quotidiano berlusconiano, il solitamente perfido Giancarlo Perna. Il Foglio di Giuliano Ferrara s’è sperticato in un’imbarazzante paginata di elogi. E di lei parla un gran bene anche l’onorevole avvocato professore Gaetano Pecorella, che nella scorsa legislatura le subentrò come presidente della commissione Giustizia della Camera. Lei ricambiò l’affetto invitandolo a un dialogante dibattito sulla giustizia alla festa dell’Unità di Genova nel 2004, passando sopra qualche dozzina di leggi vergogna. Quando ha voluto illustrare in un libro le sue idee sulla giustizia, ha scelto come ghost writer un giornalista del Tg4 e del Foglio Antonello Capurso, e come titolo una frase da perfetto inciucio: Dialogo sulla giustizia. Per un nuovo patto di legalità (Passigli, 2005). E, per presentarlo a Catania, ha voluto al proprio fianco Salvo Andò, il dinosauro del vecchio, Psi uscito indenne da vari processi per mafia e tangenti, ora per assoluzione ora per prescrizione. Quand’era in pretura e si occupava di liti fra pecorai, già fumava Muratti e si mangiava le unghie. La chiamavano «la pretora bona», ma lei preferiva «la professoressa». In quell’ambiente decisamente popolano la raffinata rampolla della buona borghesia catanese, con i suoi studi classici al liceo Cutelli, le sue ascendenze risorgimentali (pare che il bisnonno fosse l’avvocato difensore di Giuseppe Garibaldi), il marito ginecologo Melchiorre Fidelbo (con cui ha avuto due figlie, Miranda e Costanza), incutesse soggezione. A Catania – ricorda Aldo Cazzullo sul Corriere – «i Finocchiaro abitano da generazioni nella villa ottocentesca sulla via Etnea, dove sono passati Verga, Capuana, De Roberto». «Famiglia di garibaldini, mazziniani, repubblicani», precisa lei, «sempre dalla parte progressiva. Mio padre mi ha cresciuto con i racconti di suo nonno Lucio, grande avvocato, che da bambino vedeva don Blasco, il personaggio dei Viceré, appendersi all’architrave delle porte e dondolarsi con il suo mantello nero come un pipistrello, per spaventare i piccoli». Il padre Luigi era procuratore capo di Enna e presidente di sezione della Corte d’Appello di Catania. E a Catania lei approdò nel 1985, ma come pubblico ministero. Iscritta a Magistratura democratica, ne divenne subito segretaria per la Sicilia orientale. Arrivò in una procura scossa dallo scandalo che aveva portato in carcere alcuni magistrati catanesi accusati di collusioni mafiose. Ma non ci restò molto. Due anni, non di più: giusto il tempo di mettersi in evidenza e di incriminare un manager dell’Asl (che poi ritroverà molti anni dopo tra i suoi colleghi deputati) per un supercontratto d’affitto che pagava a peso d’oro un immobile del padrone di Catania, l’editore monopolista Mario Ciancio, proprietario di tv e dell’unico quotidiano cittadino. Una perizia accertò poi che l’affitto era congruo e la posizione del manager fu archiviata. Così Ciancio continuò a incassare soldi a palate dalle casse della sanità pubblica. Nel 1987 la prima elezione a deputata e l’anno successivo anche a consigliera comunale. Passava per una dura e pura (la sezione della sua prima tessera era tutta ingraiana). Tant’è che nel ’90, quando Occhetto promosse la svolta della Bolognina dal Pci al Pds, lei s’oppose. E pianse. Voleva fortissimamente restare comunista sotto la falce e il martello. Ma quando capì di essere in minoranza, si convertì al nuovo corso dalla parte del più forte: Massimo D’Alema. «Un uomo delizioso», almeno per lei. Gli ex magistrati che sbarcano in politica passano tutti, chissà perché, per «giustizialisti». Lei, come pure l’amico Luciano Violante, è la smentita vivente di questa leggenda metropolitana. Tutta la sua carriera politica, quattro volte più lunga di quella giudiziaria, sembra fatta apposta per far dimenticare quella precedente. Il 6 dicembre 1994, quando i ricatti berlusconiani costringono Antonio Di Pietro a lasciare il pool Mani Pulite alla vigilia dell’interrogatorio del Cavaliere, la capogruppo dei progressisti in commissione Giustizia Anna Finocchiaro dichiara all’Ansa: «Avevo già auspicato un calo di tensione fra il pool e l’esecutivo, poiché lo scontro si era troppo personalizzato, e da istituzionale era divenuta una battaglia tra Borrelli e Berlusconi. Il leaderismo non è indice di democrazia e identificare una persona con le regole non giova a nessuno». Come se quella che si sta consumando fra il Polo e i Pool fosse una guerra per bande. L’indomani l’avvenente Annuzza rincara la dose in un’intervista al Corriere. Non contro i berluscones. Contro Di Pietro e Borrellli: «Basta con queste vergini violate, sembra che in Italia ci sia solo il pool di Milano. Non siamo più allo scontro fra poteri, ma alla radicalizzazione di un conflitto personalizzato. Berlusconi e i suoi da una parte, Borrelli e i suoi dall’altra. I giudici di Milano farebbero bene ad evitare di rincorrere sempre l’ultimo fatto e l’ultima dichiarazione, sapendo che saranno poi al centro di attacchi… Quando il paese si divide tra chi sta con Borrelli e chi sta contro Borrelli, significa che nel paese è passata l’idea che la procura di Milano sia l’unico soggetto capace di esercitare il controllo giurisdizionale. Questo è un pericolo». Né con il pool né con Berlusconi. Perfetta ortodossia dalemiana, un antipasto della Bicamerale che verrà. Figurarsi 1’entusiasmo del popolo della sinistra, che scende in piazza angosciato contro le vergogne del primo governo Berlusconi. Ma Annuzza tira dritto, continua a vaneggiare di un non meglio precisato «protagonismo» dei suoi ex colleghi, almeno di quelli che lavorano bene. Nel ’96, quando Prodi va al governo per la prima volta, D’Alema la impone come ministro. Lei, sempre modesta, dice di avere «tutti i titoli per essere ministro della Giustizia». Invece Prodi la manda alle Pari opportunità. Farà molto fumo e poco arrosto, con battaglie di pura demagogia come la legge sul doppio cognome. Poi nel ‘98, perduto il ministero, diverrà presidente della commissione Giustizia della Camera. Di Catania s’interessa poco o punto. Tant’è che, quando cambia il sistema elettorale da proporzionale a uninominale, non riesce più a farsi eleggere nel suo collegio: si salva regolarmente grazie al paracadute della quota proporzionale. All’ ombra dell’Etna, intanto, è esploso il secondo «caso Catania», che vede magistrati l’un contro l’altro armati per un verminaio di mafia, politica, toghe, affari e malaffari. Il nome di Annuzza affiora in una complicata storia di ville costruite da un’impresa vicina a Cosa Nostra a San Giovanni La Punta, incantevole comune turistico ai piedi del vulcano, dove nei primi anni Settanta latitavano Luciano Liggio e Bernardo Provenzano. Dagli anni Ottanta su San Giovainni regna e governa il clan Laudani, una delle famiglie più sanguinarie della Sicilia orientale che, a furia di speculazioni selvagge. ha trasformatio quel piccolo paese agricolo in una cittadina di 25 mila abitanti. Secondo gli inquirenti, la cosca agisce tramite un suo affiliato, Carmelo Rizzo, molto attivo nell’edilizia anche grazie alle sue entrature negli uffici pubblici. Rizzo gestisce alcune società di costruzioni, intestate o a lui o ad altri (come la Di Stefano Costruzioni). I suoi rapporti col clan Laudani sono noti fin dal 1981, quando la «famiglia» lo incarica di lottizzare (abusivamente) un loro fondo. Due anni dopo Rizzo vende i terreni, divisi in 19 lotti, ad altrettanti acquirenti. E su San Giovanni incombe anche il re dei supermercati Sebastiano Scuto, sospettato anche lui di rapporti con i Laudani e oggi imputato di concorso esterno in associazione maliosa: il trait d’union fra il suo gruppo e la cosca, secondo l’accusa, sarebbe stato proprio Rizzo, ben introdotto nella buona società catanese. Un suo stretto collaboratore, un certo Cali, racconterà ai giudici che «da noi venivano magistrati e politici a comprare ville con sconti di centinaia di milioni. Uno di essi pretese l’abbattimento di un albero secolare, segnato sulle mappe, che dava fastidio perché prossimo all’ immobile da lui comprato». Le ville sono quelle costruite da Rizzo sotto il nome della Di Stefano su un terreno ceduto da un certo cavalier Vincenzo Arcidiacono. Una, bifamiliarc, l’acquista nel febbraio 1991 il pm catanese Giuseppe Gennaro, futuro membro del Csm e poi presidente dell’Anm. Un’altra la compra il cognato di Anna Finocchiaro. Rizzo, sotto processo per mafia, sentendosi ormai spacciato, lascia trapelare propositi di collaborazione con la giustizia. Ma non fa in tempo a parlare: nel 1997 viene assassinato dalla mafia, e non si può dire che sulla sua morte si indaghi in profondità. Ma della sua figura si torna a parlare al processo a carico di Scuto. Fra i testimoni c’è un ispettore di polizia che la sa lunga sui rapporti fra mafia e affari a San Giovanni La Punta, dove lui stesso risiede: si chiama Antonino Gemma ed è un militante Ds. In questa veste ha avuto modo di conoscere la Finocchiaro. E il 29 gennaio 2002 consegna alla procura generale di Catania un appunto, ricordando un episodio di qualche anno prima, legato proprio ai villini acquistati dal giudice Gennaro e dal cognato della Finocchiaro: «Era notorio a San Giovanni La Punta che Rizzo fosse il prestanome del clan Laudani. Rizzo costruiva villette lussuose da vendere a persone rispettabili. Posso dire di conoscere la situazione criminale di San Giovanni La Punta, non solo in quanto poliziotto, ma anche perché ho vissuto in quel territorio. Capitò, così, che avendo dei rapporti di conoscenza con l’onorevole Finocchiaro Anna, sentii il bisogno di informarla allorché appresi che il dottor Gennaro stava acquistando una delle villette realizzate dal Rizzo. Ciò avvenne all’inizio degli anni Novanta [la proposta della questura di Catania di sottoporre e misura di prevenzione della sorveglianza speciale Carmelo Rizzo è del 20 ottobre 1992 e nel 1993 il nome di Rizzo compare nel decreto di scioglimento per mafia del comune di San Giovanni La Punta; dieci anni dopo il comune verrà sciolto per mafia una seconda volta] dopo che io avevo ultimato il servizio di tutela al figlio Roberto del giudice [sic!]. Ricordo che l’onorevole rimase molto turbata, anche perché il cognato di quest’ultima stava acquistando o aveva acquistato la villa adiacente a quella che doveva comprare il dottor Gennaro: e nella circostanza riferì che avrebbe parlato col giudice per dissuaderlo dall’acquisto dell’immobile». Che cos’abbia poi detto la Finocchiaro a Gennaro e al cognato, non è dato sapere. Si sa invece che sia Gennaro sia il cognato della Finocchiaro acquistarono la villa costruita dal mafioso. La deputata, se tentò di dissuaderli dal loro proposito, non fu molto persuasiva. Gennaro ha sempre rivendicato la propria buona fede e querelato chiunque abbia rievocato quella vicenda. La Finocchiaro invece non ha mai detto una parola in proposito. Nemmeno sul caso Catania. Nemmeno quando i magistrati che l’hanno denunciato – il pm Niccolo Marino e il presidente del Tribunale dei minori Giovanni Battista Scidà – finiscono nel mirino dei politici e di una parte del Csm. Quando palazzo dei Marescialli propone di trasferire Scidà per incompatibilità ambientale, molti politici — da Lumia a Vendola, da Fava a Pacione – intervengono in sua difesa. La Finocchiaro no, a dispetto dell’amicizia che in passato la legava all’anziano collega. Un silenzio, il suo, che la allontana vieppiù dalla società civile più impegnata sul fronte antimafia in città. Qualcuno la ribattezza «la compagna c’arriniscìu», la compagna che ha avuto successo e dimentica le radici. Recentemente uno dei leader di Legambiente, il giurista catanese Ugo Salanitro,l’ha accusata in un dibattito antimafia organizzato da Rifondazione comunista, a proposito di un mostruoso megaparco costruito nel centro della Sicilia: il parco di Regalbuto (Enna). «E un’operazione», ha tuonato Salanitro, «che a livello economico non ha alcun senso. Eppure è stato proposto al giudizio per il finanziamento di Sviluppo Italia ed era sostenuto da due sponsor politici di rilievo: il forzista Gianfranco Miccichè e il diessino Vladimiro Crisafulli [filmato a colloquio con un boss mafioso nel 2002 e tutt’oggi indagato nello scandalo Messinambiente insieme a Cuffaro, dunque promosso senatore nel 2006]. Qualcuno vicino a Sviluppo Italia ci contattò perché li aiutassimo a non buttar soldi in quella struttura. E il progetto fu bocciato. Ma quel che non è riuscito a Miccichè alcuni anni fa, è riuscito a Crisafulli di recente. Infatti l’anno scorso il progetto è stato approvato. Il senatore Ferrante di Legambiente ha fatto battaglie contro il progetto; ma quando ha presentato interrogazioni parlamentari, chi è venuto in qualche modo a interloquire con quel senatore? Non è stato certo Crisafulli, ma è stata una persona che poteva farlo. E’ stata una donna, un’importante donna della nostra classe politica di sinistra». «La Finocchiaro!», ha indovinato qualcuno dalla platea. Cioè la capogruppo del senatore ambientalista. Salanitro ha sorriso: «In tutto questo, è chiaro che si tratta solo di politica…». Che la società civile catanese non la veda più di buon occhio lo conferma padre Salvatore Resca, anima di Cittainsieme, movimento nato una ventina d^anni fa per il riscatto della città intorno a una delle parrocchie più attive nella denuncia del malaffare: «Roma si disinteressa di Catania. Dovrebbe interessarsene sotto lo stimolo dei deputati e senatori eletti qui, non tanto uno stimolo clientelare, ma politico. Anna Finocchiaro è sparita, Bianco pure. Dove sono i parlamentari eletti in città? Se li inviti. non vengono». Nel 2001, col ritorno di Berlusconi al governo e del centro-sinistra all’opposizione, Annuzza rimane responsabile Giustizia dei Ds. E non si può dire che si scaldi più di tanto contro le leggi vergogna sfornate a getto continuo dal governo più losco della storia repubblicana. Mentre alcuni parlamentari ulivisti organizzano sparuti ostruzionismi e la società civile promuove girotondi e manifestazioni contro la legislazione ad personam e l’attacco continuo alla legalità, lei cura il «dialogo» bipartisan. Nel dicembre 2001 il governo Berlusconi depenalizza il falso in bilancio e cancella per legge le rogatorie. Lei si dice pronta a discutere sulla fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e dell’indipendenza delle procure: «Non abbiamo paura di affrontare i nodi che pesano sul dibattito istituzionale, come l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pm». Poi conclude che «oggi i giudici si occupano di troppe questioni» (.Ansa, 14-12-2001). Il 14 settembre 2002 oltre un milione di persone autorganizzate scendono in piazza San Giovanni a Roma per la manifestazione promossa da Nanni Moretti e Paolo Flores d’Arcais contro la legge Cirami. Qualche giorno dopo un giornalista dell’Espresso «intercetta» una conversazione tra la Finocchiaro e l’onorevole avvocato del premier, Niccolo Ghedini. Questi sonda una disponibilità della prima a trattare sull’ approvazione definitiva della Girami. Lei, sempre secondo l’Espresso, risponde: «Cercate di capire i nostri problemi… a partire dai girotondi… ». Come a dire che, sopite le proteste degli elettori, ci si può pure mettere d’accordo. Qualche giorno dopo, a una festa dell’Unità, un gruppo di girotondini furibondi la contestano e le chiedono conto dello scoop dell’ Espresso. Lei, come raramente le accade, perde la calma. Paonazza in volto, le vene che si gonfiano sul collo, esplode: «l’Espresso non è il Vangelo!». Voci dal pubblico: «E allora smentisci!». E lei: «Le smentite non servono a niente. Semmai si querela! ». Per la cronaca, la querela non è mai arrivata. Nel 2003, mentre Berlusconi prepara la propria impunità prima tentando di traslocare i suoi processi a Brescia, poi di abrogarli per legge con il lodo Maccanico-Schifani e con una guerra senza quartiere alla giustizia e alla magistratura, Annuzza dichiara serafica al Sole-240re che il premier non dovrebbe dimettersi nemmeno in caso di condanna per corruzione giudiziaria: «Nella malaugurata ipotesi [sic!] in cui dovesse essere condannato, ricorra in Appello e in Cassazione. Per quanto mi riguarda, il presidente Berlusconi resta non colpevole fino a sentenza definitiva, come qualunque altro cittadino» (Ansa 18-1-2003). Il fatto che quel «cittadino qualunque» sia anche presidente del Consiglio e stia per diventare presidente di turno dell’Unione europea, non la sfiora proprio. Anzi, a fine anno caldeggia addirittura il ritorno all’immunità parlamentare per tutti gli eletti e annuncia un’iniziativa del suo partito: «Ho già presentato una proposta di legge che prevede una composizione paritaria della giunta per le autorizzazioni, e la necessità che l’aula si pronunci con un quorum dei due terzi. L’immunità è uno strumento di protezione delle funzioni parlamentari tipico delle democrazie liberali» ( Giornale, 8-12-2003). Il solco con la società civile catanese più impegnata sulla legalità si allarga vieppiù. E diventerà un autentico fossato nel 2005, quando in vista delle elezioni regionali in Sicilia, i movimenti antimafia candidano Rita Borsellino per il centro-sinistra contro il governatore Totò Cuffaro. Metà dei Ds isolani, dopo aver impallinato ed esiliato in Europa Claudio Fava, osteggiano la sorella del giudice assassinato. Le preferiscono il barone universitario catanese Fernando Latteri, trasmigrato un anno prima da Forza Italia alla Margherita e già sonoramente trombato alle europee del 2004. In prima fila a sponsorizzare il voltagabbana sono Anna Finocchiaro, Sergio D’Antoni (altro transfuga dalla Cdl) e l’ex sindaco Enzo Bianco, luogotenente di Rutelli appena sconfitto ignominiosamente alle comunali dal forzista Umberto Scapagnini, medico personale di Berlusconi. Nell’occasione, la Finocchiaro è capolista dei Ds, che infatti precipitano ai minimi storici raccogliendo un misero 5,5 per cento. Ora, se alle primarie Latteri battesse la Borsellino, i siciliani dovrebbero scegliere (si fa per dire) fra un democristiano del centro-sinistra passato al centro-destra (Cuffaro) e un democristiano del centro-destra passato al centro-sinistra (Latteri). Qualche mese prima la Finocchiaro ha avuto parole di elogio addirittura per Cuffaro che, nonostante le sue disdicevoli frequentazioni, «al contrario di altri non si è sottratto ai suoi giudici, pur avendone la possibilità» (Ansa 1-10-2004) : come se un governatore imputato per favoreggiamento alla mafia meritasse un encomio solenne solo perché si fa processare come tutti i cittadini. Alla fine le primarie le stravince la Borsellino, che alle regionali — pur battendosi a mani nude, nel disinteresse degli apparati di partito – raccoglierà 5,5 punti in più della somma della coalizione. Un mezzo miracolo. Il 2 maggio 2003 la Corte d’Appello di Palermo ribalta l’assoluzione di Andreotti nel processo per mafia e lo dichiara colpevole (reato commesso ma prescritto) fino alla primavera del 1980. La Finocchiaro commenta che è stato così premiato «il suo comportamento esemplare», alimentando la leggenda di una nuova assoluzione del senatore a vita. Quando poi, il 30 ottobre 2003, la Cassazione annulla senza rinvio la condanna d’appello a 24 anni subita da Andreotti a Perugia per il delitto Pecorelli, lei concede il bis: «La sentenza della Cassazione è per me un motivo di grande sollievo. Il fatto che uno degli uomini politici più rappresentativi della storia della Repubblica italiana non venga ritenuto dalla Corte di Cassazione come un mandante di un omicidio dovrebbe essere un sollievo per il paese, per tutti i cittadini di questa Repubblica». Insomma va sempre tutto bene, sia che il senatore sia colpevole di mafia, sia che sia assolto dall’omicidio. E lo stesso vale per Berlusconi, imputato di corruzione giudiziaria. Il 10 dicembre 2004 il Tribunale di Milano gli regala le attenuanti generiche, mandando così in prescrizione la sua tangente da 500 milioni di lire al giudice Squillante. Anche stavolta Annuzza spaccia la prescrizione per un’assoluzione: «Io credo che una sentenza di assoluzione per il presidente del Consiglio, rispetto a fatti così gravi, sia una buona notizia. Un Tribunale della Repubblica ha deciso dopo un lungo processo che il premier di questo paese non è colpevole di reato gravissimo come la corruzione in atti giudiziali. Mi fa piacere per l’Italia». Da suonare le campane, da vantarsene in tutto il mondo. Il vizio di non chiamare mai le cose con il loro nome la tradisce anche il 30 ottobre 2003. Quella sera è ospite di Porta a Porta, quando Giuliano Ferrara definisce l’Unità « foglio linguisticamente e tecnicamente omicida che predica l’annientamento dell’avversario ». Vespa, col consueto coraggio, balbetta: «Omicida mi pare una parola un po’ forte». E Ferrara: «Me ne assumo la piena responsabilità». A questo punto tocca alla Finocchiaro, che lancia il cuore oltre l’ostacolo con queste parole: «Anche il Giornale, però…». Come se l’house organ berlusconiano fosse paragonabile a l’Unità. Come se i linciaggi base di Telekom Serbia, Mitrokhin e altre bufale inventate a tavolino fossero paragonabili alle polemiche del quotidiano della sinistra. E, soprattutto, come se non ci fosse proprio nulla da dire sull’accusa di «omicidio» lanciata al quotidiano di Furio Colombo. Molti lettori, per quell’incredibile performance, protesteranno sul giornale. Come pure quando, nel maggio 2006, la neocapogruppo dell’Ulivo a palazzo Madama difenderà Andreotti, candidato del centro-destra alla presidenza del Senato, da un articolo dellUnità che ricorda la sua prescrizione per mafia. Quella volta Annuzza si fa intervistare dal Corriere della Sera per dichiarare che è «sbagliato politicamente e anche strategicamente ricordare le vicissitudini processuali di Andreotti, come invece ha fatto Marco Travaglio su l’Unità». Ci sono infatti – spiega – «ben altri argomenti a sfavore di Andreotti: per esempio l’età». E dunque non è il caso di «perdere tempo a discutere delle sue vicissitudini giudiziarie». La nota stratega, forse, ignora che quelle di Andreotti non sono «vicissitudini processuali»: c’è una sentenza definitiva che dichiara il senatore a vita mafioso fino al 1980. Ai tempi della vecchia Dc, si diceva «meglio mafiosi che rossi». Ora, grazie a lei, lo slogan va leggermente corretto: «Meglio mafiosi che vecchi». Nella nuova legislatura, dinanzi al crollo verticale d”immagine e di credibilità della vecchio establishment unionista, la Ségolène de’ noantri è candidata un po’ a tutto: ministero delI’Interno, ministero della Giustizia, addirittura presidenza della Repubblica e ultimamente segreteria del Partito democratico prossimo venturo. La qual cosa solletica la sua sconfinata ambizione e, nell’ansia di non farsi nemici, la porta a esercizi di equilibrismo al limite della temerarietà. Come quando critica il Family Day, ma anche la contemporanea giornata del Coraggio laico. Del resto, la Finocchiaro è quella che telefonò a una giornalista del Manifesto che la criticava e le propose di andare a lavorare con lei perchè «quando uno è bravo a sparare, è meglio averlo a sparare dalla propria parte». Il 27 aprile 2005, in piena campagna per le elezioni comunali catanesi, aveva dichiarato: «La Sicilia dev’essere dotata di nuove infrastrutture, anche con il ponte sullo Stretto di Messina». Un anno dopo, il 19 settembre 2006, il governatore Cuffaro scende in piazza per il ponte. E allora, contrordine compagni: «II ponte sullo Stretto», dichiara Annuzza, «è un’opera inutile e difficilmente sostenibile economicamente». Idem sull’ indulto. Il 4 maggio Previti viene condannato definitivamente a 6 anni per la corruzione giudiziaria dell’Imi-Sir e finisce in carcere per quattro giorni. poi grazie all’ex Cirielli spunta i domiciliari. La Cdl preme per un condono di 3 anni che gli risparmi anche quelli e gli restituisca la libertà. Sulle prime, la Finocchiaro non ci sente proprio: «Sono storicamente a favore dell”amnistia che sia accompagnata dall’indulto e che non riguardi i reati più gravi e quelli contro la pubblica amministrazione» (Ansa. 22 -0-2006). Poi i vertici di Ds e Margherita concordano con Forza Italia un indulto che comprende tutti i reati contro la pubblica amministrazione, compresa addirittura la corruzione giudiziaria. E lei, capogruppo al senato, non fa una piega. Anzi, finge di dimenticare la sua prima dichiarazione e si batte come una leonessa per mandare in porto l’operazione, in nome di un fantomatico «dialogo con l’opposizione sulla giustizia in generale». Sostiene che «il collante dell’antiberlusconismo non basta e rende effimero il progetto del Partito democratico». Poi plaude alla proposta Pecorella di condonare pregiudizialmente i reati contro la pubblica amministrazione che lei fino a un mese prima voleva escludere: «Sono assolutamente con l’idea di Pecorella di fare subito l’indulto prima dell’estate, per fare poi l’amnistia in un secondo momento dopo la pausa estiva. I tempi, per quanto mi riguarda, si possono accelerare» (Ansa, 5-7-2006). Sandro Bondi, naturalmente, trova la cosa «ragionevole e promettente». E quando il ministro Di Pietro denuncia gli inciuci sottobanco per includere i reati finanziari e di Tangentopoli, la Finocchiaro che un mese prima diceva la stessa cosa ora lo liquida sprezzante: «Parole semplicemente ridicole». L’inciucio col centro-destra prosegue in autunno: ma non sull’amnistia (Previti è ormai in salvo, l’opinione pubblica è inferocita per il boom di criminalità seguito all’indulto e nessuno ne parla più), ma sull’ordinamento giudiziario. Prodi e tutto il centro-sinistra, Ds in testa, avevano promesso agli elettori di «cancellare» tout court con un decreto urgente, l’entrata in vigore dei decreti delegati attuativi della legge Castelli che controriforma la magistratura. Invece il ministro Mastella e la capogruppo Finocchiaro la mandano in vigore quasi tutta, con qualche ritocco concordato con i vari Pecorella, Castelli e Schifani. Il tutto con la scusa della maggioranza risicata in Senato. Senonché alla fine, nonostante i continui cedimenti ai desiderata della Cdl, nemmeno un voto arriverà dal centro-destra. Ma Annuzza esalta come un memorabile successo politico il compromesso al ribasso con chi negli ultimi anni ha devastato la giustizia: «L’accordo fra Unione e Cdl sull’ordinamento giudiziario è frutto della volontà del governo, dell’intelligenza politica dei gruppi della maggioranza e dell’opposizione» (Ansa, 28-9-2006). «Piena soddisfazione per l’accordo raggiunto sulla giustizia tra maggioranza e opposizione. La ricerca di un accordo è fondamentale su questioni centrali come quelle istituzionali. Va dato particolare valore ai meriti del ministro Mastella e del governo. Siamo partiti da una semplice sospensione [della legge Castelli] e siamo arrivati a un accordo tra maggioranza e opposizione» (Ansa., 4-10-2006). Dopo l’indulto, per tenere a bada la base, la Finocchiaro aveva promesso almeno l’immediata cancellazione delle leggi vergogna: «La Cirielli sulla recidiva e la Cirami sul legittimo sospetto vanno abrogate e basta: rimetterci le mani è praticamente impossibile. Il falso in bilancio deve tornare un reato e la Cassazione deve essere salvata dalla paralisi totale alla quale la condannerebbe la legge Pecorella» (Ansa, 20-7-2006). Naturalmente non se ne parlerà più. Anzi Annuzza fa autocritica sulla passata legislatura. Ma non per l’opposizione troppo morbida, al contrario: «Abbiamo commesso il peccato di remare contro il governo Berlusconi» (La Stampa, 20-5-2007). La sua tecnica è sempre la stessa. Dire una cosa, poi lasciarla cadere nel silenzio e nell’oblio collettivo, infine fare il contrario. Così, finora, non ha avuto risposta la lettera aperta inviata dal vecchio giudice Scidà a lei e al presidente rifondarolo dell’Antimafia, Francese Forgione, con la proposta di un pubblico dibattito sulla giustizia a Catania. Un dibattito per affrontare, fra l’altro, la discussa nomina a consulente della stessa commissione Antimafia di un pm catanese «a cui dovrebbero essere chieste spiegazioni di ciò che è stato fatto in procura o di ciò che è stato omesso o ritardato a vantaggio della cosca mafìosa di San Giovanni La Punta in offesa al normale funzionamento dell’ufficio» Una questione che, secondo l’ex presidente del Tribunale dei minori di Catania, dovrebbe stare a cuore anche «alla senatrice Finocchiaro, catanese, magistrato, in servizio – prima dei fatti – proprio presso la procura di Catania, parlamentare già da vent’anni, sempre eletta in queste circoscrizioni, e in vari tempi ministro o presidente della commissione Giustizia alla Camera o incaricata del suo partito per il settore giudiziario». Difficile però che Annuzza accetti. O risponda. Lei non ha tempo per queste cosucce locali. Lei volteggia nell’empireo della politica nazionale tra squilli di tromba e rulli di tamburi: «E’ come il Concorde, vola troppo alto per planare a terra», osserva il segretario dei Ds catanesi, o di quel che ne resta. La Ségolène de’ noantri si prepara per le primarie ottobrine del Pd. Un partito che, a suo modesto avviso, sarà «il partito delle donne e dei giovani. Con un leader fresco anche dal punto di vista anagrafico. E possibilmente di sesso femminile». E possibilmente lei.