Fonte: agenzia direAutore: redazione Terremoti, la grande rapina del Governo sui fondi accumulati con le accise

Per far fronte alle opere di ricostruzione delle zone interessate dai terremoti del Belice (1968), del Friuli (1976), dell’Irpinia (1980), delle Marche/Umbria (1997), della Puglia/Molise (2002), dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna (2012) lo Stato in questi anni ha aumentato 5 volte le accise sui carburanti, consentendo all’erario di incassare in quasi 50 anni 145 miliardi di euro in valore nominale.
Se teniamo conto che il Consiglio Nazionale degli Ingegneri stima in 70,4 miliardi di euro nominali (121,6 miliardi se attualizzati) il costo complessivo resosi necessario per ricostruire tutte e 7 le aree fortemente danneggiate dal terremoto (Valle del Belice, Friuli, Irpinia, Marche/Umbria, Molise/Puglia, Abruzzo ed Emilia Romagna), possiamo dire che in quasi 50 anni in entrambi i casi (sia in termini nominali sia con valori attualizzati) abbiamo versato piu’ del doppio rispetto alle spese sostenute. Solo i piu’ recenti, ovvero i sismi dell’Aquila e dell’Emilia Romagna, presentano dei costi nettamente superiori a quanto fino ad ora e’ stato incassato con l’applicazione delle rispettive accise.L’Ufficio studi della CGIA, infatti, ha calcolato, sulla base dei consumi annui di carburante, quanti soldi ha riscosso lo Stato con l’introduzione delle accise che avevano la finalita’ di finanziare la ricostruzione di 5 delle 7 aree devastate dal terremoto.
“Quando facciamo il pieno alla nostra auto- esordisce il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo- 11 centesimi di euro al litro ci vengono prelevati per finanziare la ricostruzione delle zone che sono state devastate negli ultimi decenni da questi eventi sismici. Con questa destinazione d’uso gli italiani continuano a versare all’erario circa 4 miliardi di euro all’anno”.

Fonte: agenzia direAutore: redazione Un piano Marshall per i migranti e l’istituzione del permesso di soggiorno temporaneo. La proposta di Angelo Scola, arcivescovo di Milano

Una sorta di “piano Marshall” a livello europeo per affrontare la crisi migratoria in Europa, trovando anche “soluzioni nuove, come ad esempio permessi di soggiorno temporanei”: e’ la proposta dell’arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola, parlando con i giornalisti a margine del convegno diocesano della Caritas ambrosiana con Milano 700 responsabili parrocchiali e decanali. “Sono contento della risposta che le comunita’ hanno dato all’accoglienza dei profughi e mi auguro che si dilati ulteriormente perche’ questa forma di ospitalita’ e’ gia’ un inizio di integrazione, di conoscenza, di coinvolgimento- ha detto- mi ha anche colpito che non poca gente abbia accolto nella propria casa ospiti sconosciuti. Per me questo e’ un esempio straordinario di cosa significhi voler bene”.
Di fronte “a un fenomeno cosi’ complesso e inarrestabile bisogna inventare politiche nuove- ha affermato- avremmo bisogno di un piano Marshall almeno a livello europeo, entro il quale iscrivere anche soluzioni nuove, come ad esempio permessi di soggiorno temporanei”. La richiesta di un intervento legislativo per introdurre un nuovo status per i migranti accolti e’ stata precisata dal direttore di Caritas ambrosiana, Luciano Gualzetti: “Dopo l’accoglienza dobbiamo ora pensare all’integrazione. Questa e’ la nostra prossima sfida”. Le Caritas lombarde propongono percio’ che sia istituito “un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie a tempo prestabilito, per quelli che sono gia’ accolti e rischiano, se le loro domande di asilo fossero respinte, di ritornare di nuovo a chiederci aiuto ma questa volta da irregolari”. Gualzetti ha anche richiamato i politici alle loro responsabilita’: “Non e’ possibile che vi siano Regioni e Comuni impegnati in modo serio ad altri che erigono muri: questo atteggiamento mi sembra proprio un esempio grave poverta’ istituzionale”.
Ad un anno e mezzo dall’appello di Papa Francesco alle parrocchie e dall’invito del cardinale Scola a costruire un piano di accoglienza diffusa, la diocesi di Milano dispone di una rete di assistenza che ospita attualmente 2.248 profughi. Di questi 663 sono accolti in 108 immobili (in genere appartamenti) messi a disposizione da parrocchie, 722 in 24 strutture di proprieta’ di ordini religiosi, 226 in 10 centri di accoglienza di proprieta’ della Curia. Gli altri (249) sono ospitati in 34 proprieta’ immobiliari di cooperative collegate alla Caritas Ambrosiana o di cui e’ titolare lo stesso organismo diocesano o (317) in 17 edifici di amministrazioni comunali che hanno affidato a soggetti ecclesiali la gestione dei progetti. 71 profughi sono accolti anche in 17 appartamenti offerti da privati.

No a FRONTEX, né a Catania, né altrove! da: rete antirazzista catanese

No alle stragi in mare! No all’Europa dei muri e dei confini!

Milioni di persone fuggono da guerra e miseria, prodotte, in gran parte, dalle politiche dei paesi “più evoluti”, i cosiddetti grandi del mondo. Invece di cambiare queste politiche la “civile” Europa costruisce muri, esaspera le contraddizioni e le contrapposizioni, trasforma un dramma sociale in problema di ordine pubblico, blinda i propri confini, causando migliaia di morti (oltre 4200  nel 2016! ).

Occorre fermare le operazioni di guerra in corso in Medioriente ed in Libia e le politiche  militariste di respingimento dei/lle migranti. Non serve la lotta tra e contro i “poveri”. La stessa crisi, che da anni attraversiamo, non dipende dall’arrivo dei migranti extracomunitari, ma da un sistema di sfruttamento (delle persone e delle risorse) che, a favore di pochi, rende sempre più difficile la vita per la maggioranza delle popolazioni.

Nel pieno centro di Catania (zona castello Ursino) l’amministrazione comunale ha concesso all’agenzia europea Frontex l’ex convento S. Chiara, edificio storico cittadino dove oltre a celebrare i matrimoni negli uffici dell’anagrafe, si inscrivevano le nascite, le residenze, si dichiaravano le morti; adesso l’anagrafe è stata trasferita nel quartiere periferico di S. Leone, cancellando così un pezzo della memoria storica dei/lle cittadini/e.  Denunciamo il significato mortifero e devastante che la presenza di Frontex nella zona, emanerà nel territorio circostante, mentre il porto di Catania è sempre più militarizzato.

Frontex è una vergogna per Catania! Si deve vergognare chi ha accettato questa odiosa presenza militarizzata che calpesta i diritti umani dei/lle migranti inquinando un luogo da sempre al servizio della cittadinanza! Non vogliamo Frontex  perché ha il solo scopo di chiudere le frontiere e organizzare operazioni di rimpatrio, che servono solo a rispedire chi fugge nelle mani delle organizzazioni criminali e di nuove mafie mediterranee, che ricavano ingenti guadagni da questa situazione. I governi europei con il Migration Compact stanno finanziando i peggiori regimi liberticidi in Africa, come già hanno fatto con la Turchia, per impedire le partenze dei/lle profughi/e. Nessun essere umano è clandestino, nessuno deve morire in mare, tutte/i hanno diritto al futuro.

Nel Mediterraneo mai più naufragi

L’Europa fortezza è causa delle stragi

Martedì 8 novembre

alle ore 11 conferenza stampa in piazza Maravigna

con Overthefortress

alle  ore 18  assemblea “Catania oltre le frontiere”

alla palestra Lupo (piazza P.Lupo 25), alle ore 20,30 cena sociale

Rete Antirazzista Catanese

Fonte: www.rifondazione.itAutore: tommaso nencioni Giovane, comunista, cilena. Esce in Italia una raccolta di interventi di Camila Vallejo

Segnaliamo l’uscita di una raccolta di scritti e discorsi della compagna cilena Camila Vallejo, La mia terra fiorita (Castelvecchi 2016). Pubblichiamo la prefazione al volume.
Di cosa ci parla, in queste pagine, Camila Vallejo Dowling, leader del movimento studentesco cileno e attualmente deputata al Parlamento per il Partito comunista cileno e per la coalizione di sinistra Nueva Mayoria? Innanzi tutto, della lotta degli studenti cileni per un sistema educativo più giusto e inclusivo, in un Paese in cui, come apertamente riconosciuto dall’OCSE, l’intero impianto scolastico e universitario è pensato e concretamente architettato per essere posto al servizio di una oligarchia di censo e di potere. Fino dall’epoca della dittatura di Augusto Pinochet la ristrutturazione in senso gerarchico ed elitista del sistema educativo fu individuata dai gruppi dirigenti del Paese andino come uno dei pilastri della propria auto-riproduzione come classe dominante, impermeabile alla mobilità sociale e ai desideri di emancipazione popolare.In un panorama come quello italiano, in cui i mezzi di comunicazione di massa gettano su quanto avviene nel resto del mondo uno sguardo che oscilla tra il distratto, il deliberatamente deformato e il provincialmente ripiegato sulla ricerca forzata di analogie con ciò che si muove nel ristretto ambito della penisola, la riproposizione di questi interventi ha un valore di per sé. Attraverso gli scritti di Camila Vallejo possiamo ripercorrere le tappe di un movimento che ha sconvolto uno dei Paesi-chiave del continente latino-americano, rimesso in moto una stagione politica ingessata e contribuito in maniera forse decisiva alla costituzione di una nuova maggioranza politica che ha insediato di nuovo la socialista Michelle Bachelet alla Presidenza della Repubblica del Cile.
C’è stato un tempo della storia della nostra Repubblica in cui nel Cile ci siamo specchiati. Da una riflessione sui fatti del Cile Enrico Berlinguer fece scaturire la proposta del compromesso storico. E dal golpe in poi tra i due Paesi si è creato un legame che dura tutt’ora, grazie al ruolo giocato sia dai partiti italiani che dalle nostre istituzioni democratiche nella salvezza fisica e nell’accoglienza di centinaia di esuli dalla dittatura. E ancor oggi, attraverso queste pagine di lotta e di analisi , passione e speranza politica, da quanto accaduto in Cile possiamo trarre, se non lezioni, riflessioni utili a comprendere il presente globale.

Ai tempi della belle époque clintoniana e del Washington Consensus ci è stato raccontato un edificante apologo intitolato “globalizzazione”. L’impero del male era caduto, il matrimonio tra democrazia e libero mercato stava abbattendo tutti i muri e tutte le barriere, i benefici delle magnifiche sorti e progressive con un po’ di pazienza sarebbero ricaduti a pioggia su tutte le nazioni e su tutti gli strati sociali. Il conflitto sociale era bandito dalla narrazione ufficiale, e la Democrazia, salvata dai suoi eccessi, aveva davanti a sé un avvenire radioso, dal Baltico alle Ande. Il globo era finalmente libero dalla minaccia del “totalitarismo”, purché gli Stati si fornissero su un solido sistema di argini interni – il “bipartitismo” – ed esterni – le tecnocrazie virtuose insediate ai vertici dei ministeri del Tesoro e delle istituzioni sovranazionali, casta sacerdotale della nuova ortodossia neo-liberale chiamata a vigilare affinché i popoli non tornassero protervamente a “vivere al di sopra delle proprie possibilità”.

L’operazione riuscì perfettamente, ma un po’ all’improvviso, nel 2008, il paziente è morto. E l’autopsia ci ha permesso di ricostruire, a posteriori, tutt’altra storia. Una storia di espropriazioni, concentrazioni inimmaginabili di ricchezze, guerre, disastri ambientali, giganteschi indebitamenti privati e collettivi che facevano da sfondo (nascosto) alla favola bella della globalizzazione. Eppure, per chi lo avesse voluto vedere, proprio nel Cile di Augusto Pinochet il meccanismo della Grande Espropriazione era stato per la prima volta messo in moto. Abbattuto con la violenza il Presidente legittimo Salvador Allende, calarono sulle Ande le schiere dei “Chicago Boys”, gli allievi di Milton Friedman all’Università di Chicago, con il loro bagaglio di ricette neo-liberiste da applicare, per così dire, in vitro, senza le fastidiose interferenze dell’ambiente esterno corrotto dai movimenti sociali, i partiti politici e il ruolo diretto dello Stato nell’economia. Quel progetto che a Santiago (e a Buenos Aires) alla metà degli anni Settanta fu messo in pratica sotto forma di brutale dominio, nei paesi più avanzati giunse sotto forma di (apparentemente) placida egemonia, prima negli Stati Uniti di Reagan e nella Gran Bretagna di Margareth Thatcher, e poi giù per li rami, in varie guise, fin negli angoli più sperduti del globo.

Ed è proprio questa l’asse portante della globalizzazione/espropriazione: l’espansione orizzontale e verticale di ciò che viene sottoposto a “mercato”. Dallo spazio post-sovietico, alla Cina, all’Africa subsahariana, l’economia di mercato ha conquistato lo spazio terrestre in maniera totalitaria, sconvolgendo modi di vita ancestrali, comunità stratificate, ambienti umani e naturali. Ancor più in profondità di quanto aveva fatto la prima rivoluzione industriale, esportata sul dorso delle “mule” dei telai di Manchester, dalle bocche di fuoco delle cannoniere di Sua Maestà Britannica e dalle stive ricolme di schiavi e di spezie sulla rotta del commercio triangolare atlantico. In maniera apparentemente livellatrice, ma in realtà intimamente gerarchica. Costituendo divaricazioni di sviluppo e di ricchezza spaventose tra le zone ricche ed il “Sud globale”, così come recinti di lusso all’interno delle periferie sottosviluppate e sacche di miseria e privazioni fin dentro il cuore stesso dello sviluppo capitalistico. E, allo stesso tempo, “elevando” al rango di “merce” elementi costitutivi della vita in società, come la terra, il lavoro, le cure mediche e, appunto, l’educazione.

La crisi del 2008 ha messo in luce la filigrana dei meccanismi di espropriazione, e nella società, a livello globale, hanno preso l’avvio contro-movimenti emancipatori la cui portata comincia ad apparire sotto gli occhi di tutti. Dalla Wall Street assediata dal movimento Occupy del 99% a Piazza Tahrir, dalle acampadas degli indignados alla nuit debout francese, dalla rivolta di Gezi Park a quella di Piazza Syntagma, la storia si è rimessa in movimento. Il moto di emancipazione delle classi subalterne, privo della solida bussola della centralità del conflitto nella grande fabbrica fordista e della struttura politica che gli aveva dato istituzionalità nel Lungo Novecento, si è ri-strutturato lungo un’asse molteplice.

In questo panorama si inserisce a pieno il movimento studentesco cileno esploso nel 2011. Di fronte all’arroccamento dell’élite tradizionale a difesa di un sistema educativo oligarchico funzionale alla riproduzione del proprio potere e della mercificazione del sapere come una delle tante vie all’espropriazione capitalistica, la mobilitazione guidata da Camila Vallejo ha aperto spazi di riforma democratica del sistema scolastico universitario ed al contempo di cambiamento globale.
Perché non solo di riforma universitaria si parla in queste pagine. È continuo il richiamo di Camila Vallejo alla necessità di ampliare il raggio della protesta, di non isolare il movimento studentesco in una cappa “illuministica” (come Vallejo la definisce), di far comprendere alle altre fasce di popolazione escluse dalla Grande Espropriazione la valenza generale del movimento. E, insieme, è altrettanto continuo il richiamo alla necessità di inserire il movimento all’interno di una più vasta trama di “lotte per il potere” e per il recupero della “sovranità nazionale e popolare”.

È pressante, in questa giovane leader della Federazione degli studenti dell’Universidad de Chile e della Joventud Comunista, la necessità dell’articolazione unitaria del conflitto da un lato e del suo sbocco Politico dell’altra: la ricostruzione di quella che un altro grande pensatore del Sud globale, Ernesto Laclau, ha definito la dialettica tra la dimensione orizzontale dei movimenti sociali e la dimensione verticale della lotta per l’egemonia.

È stata infatti una caratteristica della sinistra nella prima fase della globalizzazione l’accettazione
subalterna della separatezza tra i due momenti in cui si articola della lotta politica. Per cui si è oscillato tra un’esaltazione delle virtù taumaturgiche intrinseche della società civile e dei suoi movimenti cosiddetti single issue da un lato, e l’arroccamento attorno alle Istituzioni della politica tradizionale, che ha reciso ogni legame con conflitto sociale in nome della governabilità. Così se i movimenti – che ignorando la questione del Potere non per questo l’hanno abolita – sono stati facilmente disarticolati dai centri oligarchici attraverso un mix di repressione e cooptazione, i partiti della sinistra storica sono stati travolti dal crollo di quelle stesse istituzioni alle quali si erano abbarbicati.
Nello sforzo di Camila Vallejo e di tutto il movimento cileno, così come di altre esperienze coeve sulla cui portata anche in Italia è più che mai necessario cominciare a riflettere, si possono scorgere un immane tentativo reale di emancipazione e un disegno complessivo di ricostruzione della trama del Politico.

Ancora una volta, a distanza di oltre quaranta anni, una lezione da apprendere da un remoto paese chiamato Cile.