Sergio Mattarella a Nino Di Matteo: Vai via da Palermo! da: antimafiaduemila.info

E giornali e tv fanno finta di nulla
di Saverio Lodato
E’ accaduto qualcosa di molto grave. Lo Stato pare si sia accorto che Nino Di Matteo rischia la vita. Deve esserci qualcosa di vero nel progetto criminale che prevede, prima o poi, di fare saltare per aria Nino Di Matteo. La novità non è di poco conto.
E con quali conseguenze?
Dimenticare Palermo. Dimenticare il processo sulla Trattativa Stato-Mafia. Dimenticare i rospi che ha dovuto ingoiare essendosi trovato al centro, suo malgrado, di un gigantesco affaire che da anni emana un tanfo nauseabondo. Rimuovere, troncare e sopire: è quanto viene infatti oggi richiesto da massime cariche dello Stato al pm più minacciato d’Italia, più a rischio, più esposto. Il più mal visto dai vertici delle istituzioni, il più mal tollerato da una gran parte dei suoi colleghi, il più snobbato, ignorato, dileggiato dalla stragrande maggioranza dei media.
Nessuno, sinora, ha messo in evidenza che la richiesta a Di Matteo di appendere i guantoni, viene dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, nella sua qualità di presidente del CSM. I fatti sono noti. Per quanto possano esserli al grande pubblico, visto lo striminzito rilievo dato dai giornali a una notizia da loro considerata delicata, imbarazzante, di difficilissima gestione. In giro, su quest’argomento c’è tanta coscienza sporca.
Qualche giorno fa, il CSM ha convocato a Roma d’urgenza il magistrato che non si è mai rassegnato a far finta che in questi decenni la mafia abbia fatto tutta da sola. E senza tanti giri di parole, prima il vice presidente Giovanni Legnini, poi l’intera “Terza Commissione” gli hanno comunicato che è troppo rischioso che lui rimanga a Palermo. E si sono messi a disposizione per derogare a quei criteri interni che impedirebbero a Di Matteo, in questa fase, di andare a far parte della Procura nazionale antimafia, strappandogli infine l’impegno a decidere entro e non oltre un mese.
Apriamo una parentesi.
Da oltre 3 anni Di Matteo usufruisce per i suoi spostamenti di una scorta di “primo livello di protezione eccezionale”. Le minacce di Totò Riina dal carcere di “Opera”, durante amichevoli conversari in ora d’aria con un ceffo della Sacra Corona Unita, quando ‘u zù Totò disse che gli avrebbe fatto fare “la fine del tonno”, numerosissime analoghe informazioni provenienti da tanti pentiti, la segnalazione che perfino Matteo Messina Denaro, altro gaglioffo ancora in libertà, avrebbe dato il suo ok alla sentenza di morte, si sono cumulate nel tempo, rafforzando quel profilo di pericolosità del quale oggi si parla. Infine, si sono aggiunte le rivelazioni di Vito Galatolo, boss della famiglia dell’Acquasanta, che non ha fatto mistero dell’acquisto da parte delle cosche palermitane di 200 chili di tritolo con la causale: “eliminazione Di Matteo”.
Questo scenario però non impedì allo stesso CSM, che convoca ora di gran carriera a Roma il pm, in ben due occasioni, di segare tutte le domande con le quali l’interessato chiedeva di entrare a far parte della Procura nazionale antimafia.
Ecco perché ci siamo permessi di ricordare che Sergio Mattarella è presidente del CSM. Abbiamo fortissimi dubbi infatti nel credere che questa accelerazione sia solo farina di quello stesso CSM che si comportò nel modo che abbiamo appena descritto. Con tutto il rispetto per il suo vicepresidente Legnini, non crediamo cioè che potesse impegnarsi con Di Matteo per un eventuale provvedimento di deroga che gli spianerebbe quella stessa strada che tanto pervicacemente lo stesso CSM gli aveva ostruito.
Mattarella non può non aver dato il suo via libera.
Ma se le cose stanno così, ciò significa che la situazione della sicurezza, nonostante la scorta di tutto rispetto, si è aggravata, ove possibile, ancora di più.
Girano infatti strane voci circa l’esistenza di un’intercettazione ambientale, che risalirebbe a un po’ di tempo fa, finita fra le scartoffie senza che nessuno le avesse dato il giusto peso. Alcuni ceffi di mafia, molto noti però agli investigatori, si sarebbero vantati fra loro di avere spostato i fusti contenenti il tritolo per l’attentato in concomitanza con la “cantata” del Galatolo. Pura distrazione investigativa, è la giustificazione alquanto surreale. Ma potrebbe essere questa la spiegazione del fatto che il Capo dello Stato è entrato pesantemente in campo.
Ora non vorremmo essere nei panni di Nino Di Matteo.
Gli avvoltoi, quelli che detestano lui e il processo che rappresenta, stanno sul trespolo.
Se Di Matteo dovesse accogliere l’invito a lasciare Palermo, gli avvoltoi tirerebbero un respiro di sollievo accusandolo di “vigliaccheria”; di “abbandono” dei suoi colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia; di avere imbastito, anche se non da solo, un processo “boiata” – per citare l’insigne professor Giovanni Fiandaca -, che non stava né in cielo né in terra.
Se Di Matteo, viceversa, si ostinasse a rimanere, lo metterebbero in croce per reato di “protagonismo”, per questo suo voler insistere in una caccia alle farfalle che già tanto è costata “a noi della collettività che paghiamo le tasse”, magari perché esporrebbe a rischio la vita degli uomini della sua scorta.
Poi, qualche giornalista di buona plume, lo paragonerebbe – su questo dettaglio garantiamo noi – a Bartleby, lo scrivano di un racconto di Melville, che rispondeva al notaio nel cui studio lavorava, e che di lui non ne poteva più tanto da volerlo licenziare, con un laconico e più volte ripetuto: “Preferirei di no”.
E’ in questa situazione che oggi si trova Di Matteo. Gli avvoltoi, che per ora come dicevamo stanno sul trespolo, cosa pensano in cuor loro?
Questo è chiaro. Che Di Matteo prima si toglie dai coglioni e meglio è.
Il processo sulla Trattativa Stato-Mafia fa paura a molti. Tanto che sarebbero in molti a volergliela fare pagare al Di Matteo, magari facendolo a pezzi.
Due verità lapalissiane che si integrano a meraviglia. Ma è questa sintonia di vedute che dovrebbe farci accapponare la pelle. E che ci fa anche un po’ schifo.

Foto © Paolo Bassani

saverio.lodato@virgilio.it

La rubrica di Saverio Lodato

Autore: federico giusti Igiene ambientale, dall’assemblea di Firenze nasce il coordinamento nazionale per dare forza al “No” all’accordo: il 13 novembre altra assemblea a Roma da: controlacrisi.org

Un appuntamento come non si vedeva da tempo, decine di delegati\e, lavoratori\trici dell’igiene ambientale si sono dati appuntamento a Firenze per la prima assemblea nazionale.
Una giornata di discussione alla quale hanno partecipato delegati dell’igiene ambientale pubblica e privata. Pochi sanno che da anni nei cantieri operano lavoratori con differenti contratti e retribuzioni, ai due Ccnl menzionati si aggiungono quelli del multiservizi (40 ore settimanali) e delle cooperative sociali, per questo la parola d’ordine di un solo contratto di settore (ovviamente il piu’ favorevole) e il mantenimento dell’orario settimanale a 36 ore (l’intesa sottoscritta il 10 e 2 luglio prevede 38 ore) sono tra le rivendicazioni piu’ gettonate nel corso dell’assembleaDa settimane, tramite internet, si erano messe in rete lavoratori di varie aziende e regioni. I risultati delle assemblee vedono vincere nettamente il no a Milano, a Genova, a Roma, a Napoli e in molte aziende toscane, eppure dai primi dati diffusi dalle segreterie cgil cisl uil e fiadel sembrerebbe che il si’ avesse stravintoDati smentiti dal coordinamento nazionale che nell’ordine del giorno finale scrive

L’assemblea considerando che la maggioranza della forza lavoro del settore, laddove ha potuto pronunciarsi, ha bocciato nettamente tali accordi decide di costituire un coordinamento nazionale stabile per dar vita ad una mobilitazione generale della categoria su una piattaforma alternativa e dal basso che sia reale espressione degli interessi reali dei lavoratori.

Parlavamo appunto di rivendicazioni, il coordinamento si dà appuntamento il 13 novembre,a Roma, per definire una piattaforma alternativa a quella dei confederali e degli autonomi ma già nella mozione finale si evidenziano alcuni punti programmatici da sviluppare-ci dicono- in assemblee territoriali

PER UN CONTRATTO UNICO DI SETTORE
PER AUMENTI SALARIALI REALI SVINCOLATI DAL FINANZIAMENTO FORZOSO DEGLI ENTI BILATERALI
PER IL RICONOSCIMENTO DEL CARATTERE USURANTE DEL NOSTRO LAVORO
NO ALL’AUMENTO DELL’ORARIO E DEI CARICHI DI LAVORO
NO ALL’INTRODUZIONE DEL LIVELLO S
PER GARANTIRE LE TUTELE PREVISTE DALL’ARTICOLO 18 SULLA SALVAGUARDIA DEL POSTO DI LAVORO

All’assemblea hanno partecipato rappresentanze del sindacalismo di base, Cub, Usb e Cobas, tuttavia i delegati tengono molto alla loro autonomia e a sviluppare un percorso conflittuale all’interno della categoria e nei prossimi giorni partiranno le procedure per indire uno sciopero nazionale il prossimo 12 dicembre vista la impossibilità di una indizione a novembre per la concomitanza di altri scioperi e le regole, criticate da tutti, che limitano il diritto di sciopero e lo limiteranno ancor di piu’ nei prossimi mesi. Da Firenze nasce un percorso nuovo in contrapposizione ai contratti siglati nel luglio scorso che “rappresentano un modello da seguire con aumento dell’orario di lavoro anche per i 3 milioni di dipendenti pubblici ”

Referendum, iniziativa comune tra Libertà e Giustizia e MicroMega: cinquanta giorni di lotta per il NO Su entrambi i siti l’appello comune e ogni giorno dichiarazioni, interventi, interviste di personalità della cultura e della società civile www.libertaegiustizia.it www.micromega.net

 

Ancora cinquanta giorni di lotta per dire NO ai nemici della Costituzione più bella del mondo

 

appello di Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Tomaso Montanari, Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky

(link: https://goo.gl/fk9g0Q)

Tra cinquanta giorni, il prossimo 4 dicembre, il Governo Renzi chiederà agli italiani: «volete contare di meno, volete meno democrazia, volete darci mano libera?».
Noi risponderemo di No. Perché non vogliamo contare di meno, non vogliamo meno democrazia, non vogliamo dare mano libera a questo, come a qualunque altro governo.
Una classe politica incapace e spesso corrotta prova a convincerci che la colpa è della Costituzione: ma non è così. A chi ci dice che per far funzionare l’Italia bisogna cambiare le regole, rispondiamo: noi, invece, vogliamo cambiare i giocatori.

Questa riforma non abbatte i costi della politica: fa risparmiare 50 milioni l’anno (non 500 come dice il Presidente del Consiglio, mentendo), che è quanto gettiamo ogni giorno in spesa militare. Come possiamo credere alla buona fede di un governo che sottrae somme enormi al bilancio pubblico permettendo alla Fiat (ma anche all’Eni, controllata dallo Stato) di pagare le tasse in altri paesi, e poi viene a chiederci di fare a brandelli le garanzie costituzionali per risparmiare un pugno di soldi?

Questa riforma non abolisce il Senato: che continuerà a fare le leggi seguendo numerosi e tortuosi percorsi. Quella che viene abolita è la sua elezione democratica diretta: il Senato farà la fine delle attuali provincie, che esistono ancora, spendono denaro pubblico, ma sono in mano ad un personale nominato dalla politica, e non eletto dal popolo.

Questa riforma consentirà a una maggioranza gonfiata in modo truffaldino dalla legge elettorale su cui il governo Renzi ha chiesto per ben tre volte la fiducia di scegliersi il Presidente della Repubblica e di condizionare la composizione della Corte Costituzionale e del CSM.

Questa riforma attua in modo servile le indicazioni esplicite della più importante banca d’affari americana, la JP Morgan, che in un documento del 2013 ha scritto che l’Italia avrebbe dovuto liberarsi di alcuni ‘problemi’ dovuti al fatto che la sua Costituzione è troppo «socialista». Quei ‘problemi’ sono – nelle parole di JP Morgan –: «governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo». Matteo Renzi dice che il suo modello politico è Tony Blair, il quale oggi percepisce due milioni e mezzo di sterline all’anno come consulente di JP Morgan. E la domanda è: a chi giova questa riforma costituzionale, ai cittadini italiani o agli speculatori internazionali?

Ma negli ultimi giorni anche osservatori legati alla finanza internazionale stanno iniziando a farsi qualche domanda. Il «Financial Times» ha definito la riforma Napolitano-Renzi-Boschi «un ponte che non porta da nessuna parte». La metafora è particolarmente felice, visto che la campagna referendaria di Renzi è partita con la resurrezione del Ponte sullo Stretto, di berlusconiana memoria.

E in effetti c’è un forte nesso tra la riforma e le Grandi Opere inutili e devastanti: il nuovo Titolo V della Carta è scritto per eliminare ogni competenza delle Regioni in fatto di porti, aeroporti, autostrade e infrastrutture per l’energia di interesse nazionale: e spetta ai governi stabilire quali lo siano.

Così il disegno si chiarisce perfettamente: lo scopo ultimo della riforma è umiliare e depotenziare la partecipazione democratica. Sarà il Presidente del Consiglio e il suo Governo, quali che essi siano oggi e domani, a decidere dove fare un inceneritore o un aeroporto: senza possibilità di appello. È la filosofia brutale dello Sblocca Italia: mani libere per il cemento e bavaglio alle comunità locali. Il motto dello Sblocca Italia è lo stesso della Legge Obiettivo di Berlusconi: «Padroni in casa propria». Un motto dalla genealogia dirigistica che ben riassumeva l’idea di poter disporre del territorio come padroni.

Ebbene, nel Mulino del Po di Riccardo Bacchelli un personaggio dice che la sua idea di buongoverno è che «tutti siano padroni in casa propria e uno solo comandi in piazza». Non è questa la nostra idea di democrazia: è a tutto questo che, il 4 dicembre, diremo NO.
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