Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”. Qui potete leggere il testo completo.

Palmiro Togliatti parla alla Camera l’8 dicembre 1952

Questo è uno stralcio del lungo discorso con cui Palmiro Togliatti chiede sia votata la pregiudiziale di incostituzionalità sulla riforma della legge elettorale presentata dal ministro degli interni Mario Scelba, la cosiddetta “legge truffa”.
Qui potete leggere il testo completo.

Togliatti
La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.
Ma vi è di più. Questo ordinamento costituzionale democratico e rappresentativo ha una natura particolare, che nessuno può negare, perché la Costituzione non soltanto dice che l’Italia è una Repubblica democratica ma che essa è una Repubblica fondata sul lavoro. E di qui derivano molte cose. Di qui derivano tutti i diritti economici e sociali, deriva la previsione di quelle riforme delle strutture economiche,che volemmo fosse nella Costituzione come indicazione di una strada per l’avvenire, e a proposito della quale un dibattito elegante ebbi allora con l’onorevole Calamandrei, e risolvemmo la cosa accontentandoci di metterci d’accordo su una citazione di Dante. Le riforme economiche, però, sono rimaste nella Costituzione e ne sono parte essenziale.
Da questa definizione particolare del nostro ordinamento democratico non possono non derivare, però, particolari conseguenze per quanto si riferisce al diritto politico .e ai rapporti fra lo Stato e i cittadini.
Quando si asserisce che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando si dice che i cittadini hanno eguaglianza di diritti, pari dignità sociale, e quando si aggiunge che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica dello Stato, non si può non riconoscere che il fatto che noi abbiamo definito la Repubblica italiana come Repubblica fondata sul lavoro ha particolari conseguenze per il diritto politico, per la definizione esatta, cioè, dell’ordinamento costituzionale dello Stato.
Infine, vi è una organizzazione storicamente determinata, quella dei partiti politici, che la Costituzione stessa richiama in quel suo articolo 49 dove dice che i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico (cioè in eguaglianza) a determinare la politica nazionale.
Questo è il nostro ordinamento costituzionale, questo e non altro. È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente e che certamente è essenziale è la rappresentatività. È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato. Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?
[…]
Se guardiamo alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando i quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori. Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba. Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico. Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione. Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.
[…]
Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti. Noi siamo, sì, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare. Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio. Mi rincresce doverglielo dire e sottolineare: fa naufragio.
La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire. Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi allora appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.
[…]
Lei ha peccato contro lo spirito, onorevole Tesauro, e questo peccato non è remissibile. Lei lo sa!
La difficoltà da cui Ella non è riuscito a districarsi è di comprendere come mai il deputato, eletto da un gruppo di cittadini, sia rappresentante di tutto il paese. Sono nato a Genova, mi hanno eletto a Roma, rappresento tutta l’Italia. Come mai? Perché? Questo non si comprende, se non si guarda a tutto lo sviluppo del sistema. La cosa – dice Vittorio Emanuele Orlando -, cioè la rappresentanza come tale, è una nozione che non presenta difficoltà se si riconduce a un «fatto esterno e visivo». Qui affiora, attraverso questa ardita semplificazione, il concetto giusto, che è in pari tempo, vedremo subito, il concetto nuovo della rappresentanza politica e, quindi, dell’ordinamento costituzionale rappresentativo.
Curioso! Questo concetto nuovo venne formulato la prima volta più di 150 anni fa, nell’Assemblea nazionale francese, nel 1789, dal conte di Mirabeau. «Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori». Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.
[…]
II 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una nuova classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale. Nel 1871 la classe operaia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa. Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.
Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti. Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi. Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale, anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie. La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue. Sull’atto di nascita del regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune. È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria! Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano. Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare. Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi. Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919, di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico. Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.
Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme […]. Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema. Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio. Quello che interessa è il principio. Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione. Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte. Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.

Studenti in piazza il 7 ottobre. Contro la scuola di classe di Renzi, UE e Confindustria da: www.resistenze.org

Fronte della Gioventù Comunista (FGC) | gioventucomunista.it

11/09/2016

Il 7 ottobre la gioventù comunista chiama gli studenti di tutta Italia a mobilitarsi contro la scuola di classe imposta in Italia dai governi di centro-destra e centro-sinistra e dall’Unione Europea. Scenderemo in piazza per rivendicare una scuola diversa, che sia fatta su misura degli studenti e dei futuri lavoratori, e non modellata in base agli interessi delle grandi imprese, della Confindustria e dei padroni.

Sono ormai decenni che in Italia è in atto un processo di mutazione genetica della scuola statale, che parte dalla riforma Berlinguer passando per le riforme Moratti e Gelmini fino alla “buona scuola” di Renzi. Con lo slogan della “autonomia” scolastica si è promossa, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, una crescente aziendalizzazione e privatizzazione dell’istruzione pubblica in Italia. Con lo slogan del “merito” vengono sistematicamente ridotte le spese per garantire a tutti il diritto allo studio. Questo processo ha subito un’accelerazione dal 2008 in poi, con lo scoppio della crisi economica. Da allora sono stati tagliati più di 22 miliardi alla scuola pubblica; il governo Renzi con la legge di stabilità 2016 ha programmato altri 660 milioni di tagli all’istruzione fino al 2018. Il risultato è che oggi la scuola in Italia è sempre più inaccessibile: migliaia di studenti scelgono dove studiare in base alle proprie possibilità economiche, mentre l’abbandono scolastico è alle stelle e uno studente su tre non porta a termine gli studi. Si afferma che i soldi per la scuola non ci sono, ma ogni anno si spendono decine di miliardi di euro per pagare i soli interessi sul debito pubblico o per le spese militari, e si regalano milioni alle scuole private: in tutto questo c’è una precisa volontà politica.

Mentre gli studenti finanziano la scuola di tasca propria, pagando i contributi economici che vengono ormai imposti dalle scuole per sopperire alla carenza di fondi, si cerca di legare sempre più la scuola pubblica alle imprese e al capitale privato. La riforma di Renzi va in questa direzione: sostituire progressivamente i finanziamenti statali con i finanziamenti privati, in un meccanismo perverso che renderà le scuole sempre più dipendenti dai finanziamenti delle imprese, che in cambio potranno asservire la scuola e la didattica ai propri interessi. A questo serve l’alternanza scuola-lavoro, oggi tutt’altro che formativa ma funzionale alla fornitura alle aziende private di manodopera gratuita o a bassissimo costo. Nei casi peggiori, intere scuole (in particolare istituti tecnici e professionali) vengono progressivamente convertite in un grande corso di formazione aziendale per una singola grande azienda (capofila di questa tendenza è ad esempio l’ENEL) , cioè in un grande bacino da cui attingere nuova forza-lavoro da assumere con contratti precari.

Tutto questo avviene nel contesto di una profonda ristrutturazione del sistema produttivo in Italia, che si ripercuote sul mercato del lavoro e sull’istruzione. I padroni hanno scelto di far fronte alla crisi con l’abbattimento del costo del lavoro, cioè con la distruzione sistematica di tutti i diritti sociali e con una dequalificazione complessiva del lavoro e dell’istruzione, pur di difendere i loro profitti. Il Jobs Act di Renzi ha definitivamente sancito la libertà di licenziare, eliminando di fatto il contratto a tempo indeterminato e condannando la gioventù a un futuro di precarietà e disoccupazione. La scuola e l’università vengono adattate a un mercato del lavoro che non necessita più di lavoratori specializzati, ma di lavoratori dequalificati e ricattabili: per questo sull’istruzione si taglia e la scuola diventa sempre più di classe, fatta su misura dei padroni e non degli studenti, per i quali è sempre più inaccessibile.

Da anni si riscontra una profonda arretratezza del movimento studentesco in Italia, ingabbiato nella logica delle battaglie giocate in difesa, per cui si lotta ogni volta contro una riforma peggiore della precedente senza mai avanzare di un passo, ma anzi arretrando sempre di più. Non si può più scendere in piazza nell’illusione che avanzare semplici richieste di riforma indirizzate al Governo possa comportare qualche cambiamento reale, né ci si può accontentare di mobilitazioni costruite sulla base del semplice ribellismo giovanile senza alcuna prospettiva chiara. Quello che serve oggi è una inversione di marcia. Bisogna uscire dalla logica degli studenti come soggetto autonomo del conflitto, comprendere che lottare per una scuola migliore significa inevitabilmente lottare contro un sistema che oggi ci impone una scuola fatta su misura per i padroni, che nega il diritto allo studio in favore del privilegio di pochi; significa legare le lotte degli studenti a quelle del lavoro, dei giovani disoccupati, in un fronte di classe che deve vederci protagonisti.

In questo senso il 7 ottobre può diventare un’occasione per rilanciare il movimento studentesco in Italia. Un’occasione per sferrare il primo vero contrattacco dopo anni di battaglie giocate in difesa. Il 7 ottobre costruiremo in ogni città spezzoni contro la scuola di classe, organizzando la lotta contro il modello di scuola imposto da questo sistema. Scenderemo in piazza per rivendicare una scuola totalmente gratuita, dai libri di testo ai trasporti, rivendicando la piena copertura dei costi dell’istruzione con finanziamenti statali. Rivendichiamo l’abolizione dei finanziamenti alle scuole private e dei contributi scolastici, per una scuola che sia accessibile a tutti. Lottiamo contro lo sfruttamento in alternanza scuola-lavoro, rivendicando una giusta retribuzione e tutele per gli studenti in stage, per un’alternanza che sia davvero formativa e non funzionale agli interessi dei padroni, per una scuola che insegni il lavoro e non la precarietà. Vogliamo una riqualificazione di tutta l’istruzione pubblica e in particolare dell’istruzione tecnica e professionale, un aumento della collegialità nella gestione delle scuole contro le ingerenze dei privati e lo strapotere dei Dirigenti Scolastici, rivendichiamo un piano nazionale di interventi per l’edilizia scolastica. Lottiamo contro la scuola di classe imposta dai dettami di UE, BCE e FMI, contro questo sistema che ci condanna a un futuro di precarietà, disoccupazione e assenza di diritti.

 

Fonte: agenzia direAutore: redazione Stessa azienda, stesso lavoro, stesso stipendio: la campagna del Nidil Cgil per la parità di trattamento

Stessa azienda, stesso lavoro, stesso stipendio. La parita’ di trattamento e’ un diritto, anche quando si parla di premi di risultato aziendali. E’ stata lanciata in queste ore la seconda parte della campagna di Nidil Cgil nazionale sul diritto alla “Parita’ di trattamento” nei luoghi di lavoro.
Questa volta, il sindacato che organizza lavoratori atipici e in somministrazione punta l’attenzione sulla disparita’ riscontrata nel mondo del lavoro quando si parla di premi di produzione e di risultato. Una parte variabile del salario che vede ancora oggi forti e ingiuste discriminazioni per i lavoratori in somministrazione. Sull’onda del successo registrato dal primo video lanciato in rete lo scorso aprile, diventato virale e condiviso centinaia di volte, ecco arrivare una nuova versione che punta a sensibilizzare il mondo del lavoro sulla parita’ di trattamento nell’elargizione dei premi di risultato (i video sono visibili sul sito e sulla pagina Facebook NidilCgil qui). Se nel primo video animato i protagonisti erano due lavoratori che lamentavano una differenza di trattamento economico, dovuta a scorretto inquadramento, in busta paga a fine mese, impiegati uno direttamente dall’azienda e l’altro attraverso un’agenzia per i lavoro, nell’ultimo video si vedono due lavoratrici donne che rappresentano un’altra,
ingiusta, disparita’ da correggere. A un primo sguardo, infatti, le due protagoniste del nuovo video sembrano uguali in tutto e per tutto. Dal percorso formativo che le porta a varcare la soglia del mondo del lavoro fino all’assegnazione di qualifiche e mansioni.Identiche, dicevamo, ma fino ad un certo punto. Quando si tratta di ricevere il “premio di risultato”, per una – quella assunta direttamente dall’azienda, sono gioie, mentre per l’altra – assunta tramite agenzia, possono essere dolori. “E’ un trattamento iniquo e ingiusto: le due lavoratrici hanno diritto alla parita’ di trattamento anche quando viene corrisposto il premio di risultato”, spiegano da Nidil in occasione del lancio della seconda parte della campagna. La trilateralita’ del rapporto di lavoro presente nella
somministrazione (dipendente-azienda utilizzatrice-agenzia) rischia di essere un perimetro che comprime i diritti. “Si persegue cosi’ una riduzione dei costi in cui in molti casi le aziende utilizzatrici e le agenzie di somministrazione eludono il diritto alla parita’ di trattamento attraverso un inquadramento scorretto e il mancato pagamento dei premi di risultato e di produttivita’”, spiega Claudio Treves, segretario generale Nidil, sottolineando come il sindacato degli atipici stia portando avanti “sia sul piano vertenziale, sia su quello politico sindacale l’obiettivo della parita’ di retribuzione. Un versante fondamentale per ottenere la parita’ di trattamento”