La truffa dell’anticipo pensionistico, col “sì” dei sindacati complici Alessandro Avvisato | contropiano.org

13/09/2016

I complici si vedono nel momento del bisogno. E Cgil-Cisl-Uil sono complici di vecchia data di ogni governo degli ultimi 25 anni, quelli che hanno segnato un accellerato smantellamento delle conquiste raggiunte – a forza di scioperi, botte, arresti, denunce, licenziamenti e morti – dagli anni ’50 a metà degli anni ’70.

Il pre-accordo siglato ieri con il governo è forse un episodio minore nella catena di infamie siglate dalle segreterie dei tre sindacati di regime, ma segna un ulteriore passo verso la completa privatizzazione della previdenza sociale. Va sottolineato come lo stesso governo abbia snobbato l’incontro, col ministro del lavoro – l’ex amministratore della Coop, Giuliano Poletti – che ha lasciato la poltrona vuota, facendosi sostituire dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Tommaso Nannicini (che è peraltro il vero architetto dell’Ape – ci scuserete la citazione deformante). Segno che l’ok di Camusso, Furlan e Barbagallo era stato dato molto prima.

Sul meccanismo dell’Ape abbiamo poco da aggiungere a quanto più volte scritto (ed anche qui). La filosofia è quella già esplicitata da mesi: se un lavoratore anziano (oltre i 63 anni) vuole andare in pensione prima dei 66 e 7 mesi previsti attualmente dalla legge Fornero si deve pagare da sé per tutto il periodo dell’anticipo (da una anno a 3 e sette emsi). In pratica, perdere il salario relativo e accettare un assegno pensionistico molto più basso del previsto. Un vero affare…

Eppure la cosa viene presentata come una “concessione”, quasi un “favore” escogitato dalla bontà di un governo che si preoccupa di chi lavora. Se ne preoccupa a tal punto da immaginare sempre nuovi metodi per abbassargli il reddito e svuotare le tasche (un po’ come Banca Etruria e le altre con i correntisti abbindolati, no?).

Qual che c’è di nuovo è l’entità certa della perdita, perché – a meno di improbabili ripensamenti da qui al 21 settembre, quando governo e complici si rivedranno per la firma definitiva dell’accordo – sono finalmente state prodotte delle cifre nero su bianco.

Il governo assicura che l’anticipo sarà a costo zero – bontà sua – per i disoccupati “di lungo corso” (quelli che hanno esaurito ogni possibile ammortizzatore sociale), oltre a disabili e “usurati”. Ma soltanto se l’assegno pensionistico previsto è inferiore ai 1.200 euro netti (circa 1.500 lordi). Oltre questa soglia e comunque se si ha la sfortuna di essere “non svantaggiati”, ti dovrai fare un mutuo ventennale in banca per coprire il periodo di anticipo.

Il “costo quasi zero” di cui parlano i media oggi è riferito ai conti dello Stato, non a quelli dei lavoratori. E la differenza è decisiva.

Chi invece volesse andarsene in pensione prima di restare secco sul posto di lavoro, magari alla tenera età di 63 anni, dovrà farsi bene i conti, perché il buco che si aprirà nel suo bilancio familiare sarà una voragine.

Una prima perdita secca sarà proprio sull’assegno pensionistico: meno 5 o 6% per ogni anno di anticipo (il governo non ha ancora deciso, i complici assentiranno in ogni caso; e va ricordato che si tratta di una percentuale ancora più alta di quelle ipotizzate in precedenza: 3%). In pratica chi si prenderà tutti i 3 anni e sette mesi ci rimetterà tra il 18 e il 21%. Nel caso di un assegno netto atteso di 1.500 euro ci sarà un taglio oscillante tra i 270 e i 315 euro al mese. Il che significa incassare tra i 1.230 e i 1.185 euro.

Ma non è finita. A questa prima sforbiciata bisognerà aggiungere la rata del muto ventennale da restituire. Gli interessi sono a carico dello stato, quindi il calcolo da fare è tutto sul netto, senza altre complicazioni. Teniamo fermo l’esempio appena fatto (assegno netto atteso di 1.500 euro): nel caso di massimo anticipo la banca dovrà prestare 43 mensilità, per un totale di 64.500 euro. Che andranno restituiti in 240 rate mensili, vale a dire 268,75 euro.

A questo punto basta sommare la prima perdita e la seconda per ottenere una sforbiciata impressionante: tra i 538,75 e i 583,75 euro al mese. Quella “favolosa” pensione da 1.500 euro si ridurrebbe così a una miseria: da 961,25 a 916,25 euro mensili.

Il calcolo fatto non tiene conto, per semplicità delle trattenute Irpef, anche se non è chiaro – al momento – quale dinamica avranno in questo decalage radicale.

In alternativa, e nella misura in cui i fondi depositati lo permettono, si potrà utilizzare il Rita, ossia il prelievo di questi soldi dal fondo pensione integrativo invece che dalla banca. Il risultato però non cambia: si tratta sempre di redditi del lavoratore, accantonati per avere una pensione più dignitosa.

Ovvio che potrà fare questa scelta solo chi ha altri redditi (rendite patrimoniali, case in affitto, ecc), ma la maggior parte sarà costretta a continuare a lavorare e magari a morire sul lavoro.

Una variante intermedia è quella dei lavoratori anziani coinvolti in ristrutturazioni aziendali. In questo caso la penalizzazione sarà “solo” del 3% per ogni anno di anticipo, ossia oltre il 10% dell’assegno pensionistico per i 63enni. Cui bisognerà ovviamente aggiungere le “rate del mutuo”, come nel caso della scelta volontaria.

Come si comprede facilmente, questo sventagliare di percentuali punta a creare una casistica pressoché infinita, tale da dividere i singoli lavoratori in base ad età, anzianità contributiva, tipo di mansione, ecc.

Ma tutta questa operazione, invece, si scarica integralmente sulle spalle dei lavoratori prossimi alla pensione. Lo Stato dovrebbe spendere appena 5-600 milioni, destinati a pagare gli interessi sui mutui pensionistici (dipende ovviamente da quanti lavoratori sceglieranno di passare sotto le forche caudine dell’Ape).

Spesa che salirà un poco (previsti fino a due miliardi, complessivamente) con l’altro punto del pre-accordo: la “quattordicesima” per le pensioni minime, oggi al di sotto dei 750 euro lordi, fino al limite dei 1.000 (lordi, ovviamente). Altrettanto ovviamente non sarà la stessza cifra per tuutti, ma a scalare (una quattordicesima vera e propria per i livelli mionimi, quelli a 501 euro mensili, e un “bonus” che diminuisce progressivamente verso i 1.000. Il resto sono solo promesse (tipo gli “80 euro mensili per tutti i pensionati”, ma solo “quando i conti pubblici lo permetteranno”

Corte suprema israeliana: “Giusto nutrire con la forza i prigionieri palestinesi in sciopero della fame” Roberto Prinzi | nena-news.it

12/09/2016

Rigettato ieri l’appello dell’Associazione dei medici israeliani (Ima) e di diverse associazioni per i diritti umani. La sinistra: “è una legge crudele e immorale”. Proteste, intanto, per un video diffuso in rete venerdì in cui il premier Netanyahu sostiene che i leader palestinesi contrari alle colonie israeliane vogliono una “pulizia etnica” degli ebrei

Nutrire con la forza i prigionieri palestinesi in sciopero della fame è un atto giusto. Ad affermarlo è la Corte Suprema israeliana che ha respinto ieri un appello dell’Associazione dei medici israeliani (Ima) e di diverse associazioni per i diritti umani. “Questa legge è legale sia per il nostro ordinamento che per quello internazionale. Salvare le vite deve restare una priorità. Lo stato è responsabile delle vite dei prigionieri” hanno scritto i giudici nella loro sentenza. Chi protesta non mangiando “non è un paziente ordinario, ma una persona che volutamente e consapevolmente si pone in una situazione pericolosa per protestare o per raggiungere un obiettivo personale o collettivo – recita ancora la nota – lo sciopero della fame e i suoi risultati hanno implicazioni che vanno al di là della questione personale di chi lo compie”.

Il provvedimento, passato nel luglio del 2015, nasce dalla necessità del governo Netanyahu di porre fine al “ricatto” portato avanti dai detenuti palestinesi con la loro protesta degli “stomaci vuoti”. Una disposizione che aveva sin da subito generato forti proteste da parte dell’Ima. Intervistato dal quotidiano HaAretz, il presidente dell’associazione dei medici Leonid Eidelman era stato chiaro: “alimentare con forza [qualcuno] è come compiere una tortura. Nessun dottore dovrebbe prendervi parte”.

La decisione della corte israeliana è stata criticata anche dal partito israeliano Meretz (sinistra).”Si tratta di una legge crudele e immorale che non verrà rispettata da nessun dottore. La nutrizione forzata è definita un abuso ed è contraria al giuramento di Ippocrate”, ha detto la parlamentare Tamar Zandeberg. “Vuole essere intimidatoria, non è pensata per essere messa in pratica – ha poi aggiunto – coloro che sono preoccupati per l’immagine d’Israele al mondo, la stanno infangando con questo provvedimento che non avrebbe mai dovuto vedere luce”.

Negli ultimi anni numerosi prigionieri palestinesi hanno deciso di non toccare cibo per protestare contro la pratica israeliana della detenzione amministrativa (arresto senza processo o capo di accusa) che Tel Aviv può decidere di rinnovare di sei mesi in sei mesi con il pretesto di raccogliere prove contro i sospetti. Una disposizione che risale ai tempi del mandato britannico in Palestina e che è stata più volte stigmatizzata non solo dai palestinesi, ma anche dalle associazioni dei diritti umani e dai membri della comunità internazionale. Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc), “la nutrizione forzata non è mai accettabile eticamente. È un’ulteriore violazione dell’etica medica accettata internazionalmente e potrebbe portare a inosservanze della legge umanitaria internazionale”. Attualmente sono 7.000 i detenuti palestinesi. Di questi, 700 si trovano in carcere a causa di questo procedimento.

La decisione di ieri giunge a pochi giorni da un’altra sentenza della Corte suprema israeliana che ha sospeso la detenzione amministrativa di tre palestinesi, Malik al-Qadi e i fratelli Mahmoud e Muhammad Balboul, che erano in sciopero della fame rispettivamente dal 17, 7 e 6 luglio. Il primo è entrato in coma sabato. Gli altri due, invece, sono apparsi in un video diffuso in queste ore sui social media mentre parlano con i loro familiari. I due ragazzi, scheletrici e visibilmente deboli, dicono alla madre e alla sorella che continueranno la loro protesta finché non verranno rilasciati. Mohammad sembrerebbe soffrire anche di una cecità temporanea.

A generare un putiferio in Israele e nei Territori Occupati palestinese in queste ore, però, non è solo la sentenza di ieri della Corte Suprema. In un video postato venerdì sul suo account personale di Facebook e Twitter, il premier israeliano Netanyahu ha detto che i leader palestinesi contrari alle colonie israeliane vogliono una “pulizia etnica” degli ebrei. Pertanto, il primo ministro ha difeso gli insediamenti in Cisgiordania accusando di crimine contro l’umanità chi vuole smantellarli.

Dura, sebbene tardiva, è stata la risposta del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas che ieri sera, in occasione dell’inizio della festa sacra musulmana dell’Eid al-Adha, ha detto che chi sta commettendo la “pulizia etnica” è proprio lo stato ebraico. “Israele è isolato internazionalmente perché non vuole fare nemmeno un passo verso la pace. Continua a costruire insediamenti, a profanare luoghi sacri e a compiere [operazioni] di pulizia etnica”.

Critici nei confronti di Tel Aviv sono stati anche gli alleati statunitensi. Il Dipartimento di Stato Usa ha definito le parole del premier “inappropriate e inutili”. “Noi, chiaramente, condanniamo con forza la rappresentazione di chi si oppone all’attività degli insediamenti come sostenitore della pulizia etnica degli ebrei dalla Cisgiordania” ha affermato la portavoce del Dipartimento Elizabeth Trudeau. Secondo Washington, è l’espansione delle colonie a sollevare “domande vere sulle intenzioni [israeliane] a lungo termine nei Territori”.

Dura condanna è giunta anche dal mondo politico palestinese d’Israele. In un editoriale su Haaretz, il parlamentare della Lista Araba Unita Ahmad Tibi ha scritto che “il recente paragone del sign. Netanyahu tra i cittadini palestinesi d’Israele con i suoi coloni illegali nella Palestina occupata non solo è immorale, ma è una totale deviazione dalla razionalità, dalla storia e dalle obbligazioni d’Israele per la legge internazionale”.

Pieno sostegno al premier è invece giunto dal suo esecutivo. “Quando dici la verità, devi prevedere che ci saranno quelli a cui quella verità indignerà” ha dichiarato il ministro Tzachi Hanegbi. Nena News

Autore: fabrizio salvatori Sistema sanitario nazionale, medici di nuovo pronti allo sciopero da: controlacrisi.org

La Direzione Nazionale dell’Anaao-Assomed, il maggiore sindacato della galassia delle organizzazioni dei medici, considera estremamente preoccupante lo stato di crisi del Ssn, “costretto tra definanziamento progressivo, federalismo di abbandono, mortificazione dei professionisti, iniquità crescenti a danno dei cittadini”. E dovendosi battere anche per il rinnovo del contratto di lavoro e il turn over, dichiara lo stato di agitazione della categoria invitando le altre organizzazioni sindacali a concordare tutte le iniziative ritenute necessarie e mettendo a disposizione del Segretario Nazionale 72 ore di sciopero nazionale.

“Il finanziamento a disposizione del rinnovo del contratto di lavoro, simbolico come ha riconosciuto lo stesso Presidente del Consiglio – si legge in un comunicato – si accompagna ad una demolizione dei contratti precedenti operata ogni anno dalle leggi finanziarie, che ha fatto sì che la riduzione numerica del personale non apportasse alcun beneficio ai fondi contrattuali fino a rendere le risorse accessorie a disposizione nel 2016 inferiori a quelle concordate nel 2010. In un far west di regole, un fai da te applicativo che non riconosce valore nemmeno alla legge”.

I medici ed i dirigenti sanitari, specie i giovani, hanno già pagato un alto prezzo al risanamento dei conti in termini di valore assoluto e potere d’acquisto delle loro retribuzioni nonché di crescente disagio lavorativo. L’innalzamento dell’età media, giunta al vertice mondiale, e il lavoro notturno oltre i 65 anni, si accompagna “ad un abuso di contratti atipici ed una precarizzazione del lavoro, privando una intera generazione di certezza di vita personale e professionale”. “Il fallimento del sistema formativo universitario ha creato una sacca di medici privi di sbocco lavorativo e di possibilità di accesso alla formazione post laurea, terreno di coltura per caporali pubblici privati, che li utilizzano per garantire i servizi ed assicurare un formale rispetto della direttiva europea sull’orario di lavoro”, aggiunge l’Anaao.

La Direzione Nazionale ritiene che senza risorse ulteriori non esistano le condizioni per un rinnovo del CCNL che non sia peggiorativo dell’esistente, viste anche le voci ricorrenti di ennesima elusione dell’impegno ad un sostanziale incremento del fondo sanitario, se non di ulteriori tagli. E inoltre, ritiene necessario che la legge di stabilità si faccia carico delle esigenze di sostenibilità del SSN e di un CCNL “che sia strumento di governo e di innovazione del sistema, oltre che di cambiamenti delle condizioni di lavoro che restituiscano dignità e sicurezza ai professionisti”.

Fonte: il manifestoAutore: Guido Viale Gli operai suicidi e la sentenza iniqua

Parlare della vicenda dei licenziamenti di rappresaglia nello stabilimento di Nola-Pomigliano, di quella rappresentazione del suicidio dell’amministratore delegato di Fiat-FCA addotta come motivo del licenziamento degli operai che l’avevano messa in scena, è difficile perché è una vicenda che coinvolge una grande mole di sofferenza. Mi è difficile soprattutto circoscrivere alla sola categoria della satira quello che in realtà è un urlo disperato che, di fronte a un atto estremo come il suicidio di lavoratori colpiti dal dispotismo padronale, fa appello alle coscienze. Non certo alla coscienza di Marchionne. Quella è protetta da una corazza fatta di denaro, di potere e del suo ruolo, che difficilmente la rende raggiungibile dal rimorso. Bensì alle coscienze di coloro che per il lavoro che svolgono sono stati coinvolti in questa vicenda: i capi della gerarchia di fabbrica, innanzitutto; poi quei sindacalisti che trovano l’emarginazione a vita dal mondo del lavoro di quegli operai il prezzo da pagare per non turbare gli accordi firmati o che vorrebbero firmare; poi i giornalisti che in qualche modo sono venuti a conoscenza della vicenda, ma che non hanno dedicato a un moto di indignazione per quei suicidi niente di più dello spazio di routine che è stato loro concesso dai rispettivi direttori.

Ma oggi quell’urlo è rivolto soprattutto alla coscienza di quei magistrati che hanno perseguito, giudicato e di fatto condannato al licenziamento gli autori di quella recita, contraddicendo, prima ancora che la lettera e lo spirito della legge, il più elementare senso della giustizia: quello che dovrebbe accomunare tutti gli esseri umani. Sia quel senso della giustizia che, almeno per ora, lo spirito e la lettera della legge non impongono certo l’obbligo di parlar bene del padrone, o di non farlo sfigurare quando mette in atto misure talmente gravi da portare al suicidio, e non una sola volta, di un lavoratore .

È a loro, a quei magistrati, alla loro coscienza, che va riferito ora il senso profondo di quella rappresentazione, che è, o dovrebbe essere, il rimorso. Come è possibile non provare rimorso per una sentenza che antepone al rispetto della pari dignità e al diritto alla vita di tutti i lavoratori l’ego tronfio di un padrone e di una gestione aziendale? Di un sistema che include tra i materiali e i fattori del processo produttivo anche la pretesa di essere esentati da una critica che porta in piazza le gravissime conseguenze di quelle discriminazioni?

Si è lasciato volutamente per strada quel briciolo di umanità che dovrebbe impedire di invertire le parti tra una serie di suicidi veri, di lavoratori ridotti alla disperazione, e un suicidio finto, e solo rappresentato con un’effige di stracci e cartone. Di quei suicidi veri si è scritto in sentenza che è impossibile ricondurli alla discriminazione e alla conseguente miseria che li hanno generati. Mentre quel suicidio finto e solo rappresentato è stato invece considerato un irrimediabile intoppo alla produzione o alla possibilità di dargli un adeguato sbocco sul mercato. Perdere quel briciolo di umanità con una inversione delle parti come questa, e non senza un gravissimo stravolgimento dello spirito e della lettera della legge, dà la misura di quanto siamo ormai precipitati, o stiamo precipitando, in un clima di barbarie.

Una barbarie che non è più confinata solo entro i muri della fabbrica, un luogo in cui ai lavoratori non sono mai stati garantiti giustizia e benessere, perché diritto e amministrazione della giustizia se ne sono sempre tenuti lontani per non disturbare l’«ordinario andamento» dei processi produttivi. Ma qui c’è qualcosa di più: c’è una barbarie che si è mossa alla difesa del processo produttivo anche all’esterno della fabbrica, circondandola con un «cordone sanitario», per impedire che anche solo l’eco delle malefatte che si perpetrano al suo interno possa raggiungere le orecchie dei non addetti ai lavori. Con questa sentenza i giudici che l’hanno emessa ci stanno dicendo che la discriminazione all’interno della fabbrica è una componente «naturale» dell’ordine produttivo; che non va denunciata neanche quando porta a conseguenze gravissime come il suicidio; che il suicidio di chi è stato discriminato non è che una «opzione» individuale; e che il richiamo alla coscienza dei responsabili di quelle discriminazioni e di quei suicidi – e di chi dovrebbe farsi carico di quell’urlo di disperazione – è un atto indebito. È un maldestro tentativo di far ricorso a quel senso di umanità che dovrebbe albergare in ciascuno di noi e che invece va spento una volta per sempre, perché il processo produttivo e le prospettive di mercato non subiscano intoppi.

La cattiveria umana, e non il caso, ha fatto sì che proprio in questi giorni venisse messo in chiaro dove portano sentenze secondo cui la vita di un operaio o di una operaia non vale niente, mentre le esigenze della produzione sono tutto. Al grido di «Spianatelo come con un ferro da stiro» un lavoratore che partecipava a un picchetto è stato ucciso da un camion lanciato contro di lui su incitazione di un manager. Aveva cinque figli ed era egiziano. Due ragioni in più per sostenere che non era niente. Infatti sembra che la Procura di Piacenza abbia declassato quel l’omicidio a «incidente stradale».

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Su questo numero di ANPInews (in allegato):

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►”SI’ e NO: gli interessi del Paese, dei cittadini e dei lavoratori”: il 23 settembre a Monza iniziativa pubblica sulla riforma costituzionale. Interverranno Susanna Camusso, Carlo Smuraglia e Tommaso Nannicini

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Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia:

► Carlo Azeglio Ciampi ci ha lasciati

► A proposito del confronto del 15 settembre

► Ancora morti sul lavoro
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