Dieci parlamentari Pd per il No al referendum costituzionale

giovedì, 4 agosto 2016

Pubblico il documento firmato da dieci parlamentari del PD che si schierano per il No al referendum costituzionale del prossimo autunno.

NOI PARLAMENTARI PD PER IL NO AL REFERENDUM

I firmatari di questo documento sono parlamentari del PD che voteranno no al prossimo referendum costituzionale. Con la consapevolezza che la propria è posizione in dissenso da quella deliberata dal PD, ma nella convinzione che essa possa essere da noi assunta grazie al carattere liberale dello statuto del partito, il quale mette in conto che non si dia un vincolo disciplinare quando sono in gioco principi e impianto costituzionale. Una posizione, la nostra, che confidiamo possa essere doppiamente utile. Da un lato, contribuendo a centrare il confronto sul merito della riforma, anziché su pregiudiziali posizioni di schieramento, come un po’ tutti, a cominciare dal PD, dichiarano di auspicare. Dall’altro, ritenendo che non siano pochi, tra elettori e militanti democratici, coloro che coltivano una opinione diversa da quella “ufficiale” del partito, pensiamo sia bene che essi abbiano voce. Circostanza che conferisce autorevolezza e forza al PD come grande partito pluralistico, inclusivo e appunto liberale. Sinteticamente, le motivazioni del nostro no sono le seguenti:
1) le priorità in agenda. È nostra convinzione che le riforme costituzionali, pur necessarie, non rappresentino la priorità in agenda. Di più: che da gran tempo è invalsa l’abitudine – una sorta di alibi per la classe politica – di imputare alla Costituzione la responsabilità di insufficienze che semmai vanno intestate alla politica e all’amministrazione; nonché di spostare tutta l’attenzione dall’esigenza di dare attuazione a principi e diritti scolpiti nella Carta alla ingegneria costituzionale in una sorta di frenesia riformatrice;
2) legittimazione o, meglio, autorevolezza di questo parlamento. Conosciamo la sentenza n. 1 del 2014 che autorizza l’operatività del parlamento ancorché eletto con il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Ma una cosa è la sua operatività ordinaria, altra cosa è la riscrittura di ben 47 articoli della Costituzione, un ridisegno della sua seconda parte (per altro già rinnovata in taluni suoi articoli), per il quale si richiederebbero ben altra autorevolezza e forse un più esplicito mandato da parte degli elettori. Abbiamo la memoria corta: dopo l’esito delle elezioni politiche del 2013, dalle quali non è sortita una maggioranza, era opinione unanime che si dovesse dare vita a un governo istituzionale che portasse entro un anno a nuove elezioni, non a governi o a una legislatura costituenti;
3) metodo. È profilo cruciale. Le revisioni costituzionali sono materia parlamentare per eccellenza. Nel nostro caso, l’intero processo è stato ideato, gestito, votato dal governo, per altro facendo appello a motivazioni giuste ma francamente incongrue rispetto alla portata della riforma quali la riduzione dei costi. Un protagonismo esorbitante e improprio del governo, non privo di gravi conseguenze. Tra le quali quella di non giovare al fine di raccogliere una maggioranza larga, quale si conviene alla riscrittura della Legge fondamentale della Repubblica; quella inoltre di smentire il solenne impegno a non ripetere l’errore del passato di riforme varate da una stretta maggioranza di governo; quella infine di porre l’ennesimo, insidioso precedente foriero di altri futuri strappi da parte di maggioranze politiche contingenti, in un tempo che ci suggerisce di non escludere, per il futuro, governi dal segno illiberale. E ancora: quella di porre le premesse per un referendum costituzionale il cui oggetto slitta dal quesito di merito formale al quesito implicito sul sì o no al governo, dunque un plebiscito. Anche a motivo della non omogeneità dell’oggetto, come prescrive la giurisprudenza costituzionale e, prima ancora, l’art. 138 la cui “ratio” chiaramente sottintende revisioni mirate e puntuali;
4) il merito. In estrema sintesi, la nostra opinione è che la riforma non riesca a perseguire gli obiettivi dichiarati: di semplificazione e di conferimento di efficienza e di efficacia al sistema istituzionale. Più specificamente, essa disegna un bicameralismo confuso – va da sé che siamo favorevoli al superamento del bicameralismo paritario – nel quale il Senato, privo per altro di adeguata autorevolezza e rappresentatività, rischia semmai di costituire un ulteriore ostacolo al processo decisionale (davvero si pensa che il problema sia quello di fare più celermente nuove leggi, anziché quello di farne meno e di scriverle meglio?); un procedimento legislativo farraginoso e foriero di conflitti; un Senato la cui estrazione locale mal si concilia con le rilevanti competenze europee e internazionali affidategli; una esorbitante ricentralizzazione nel rapporto Stato-regioni che revoca il principio/valore delle autonomie ex art. 5 della Carta (paradossalmente ignorando l’esigenza di ripensare le regioni ad autonomia speciale); una complessiva alterazione degli equilibri, delle garanzie e dei bilanciamenti di cui si nutre il costituzionalismo tutto a vantaggio del governo, un vantaggio ulteriormente avvalorato dall’Italicum; il conferimento ai futuri consiglieri regionali e sindaci senatori dell’istituto dell’immunità sino a oggi riservato ai soli rappresentanti della nazione in senso proprio;
5) elettività dei senatori. Nell’ultimo e decisivo passaggio della riforma al Senato la questione più dibattuta fu quella della sua elettività, motivata in ragione delle competenze ad esso assegnate – dalle leggi di revisione costituzionale alla materia comunitaria sino alla ratifica dei trattati internazionali – che palesemente presuppongono senatori eletti direttamente dai cittadini in quanto fonte della sovranità nazionale. Ne è sortita una elaborata mediazione sul testo che di fatto rinvia la questione a una legge elettorale (del Senato) ordinaria di attuazione. Sul punto, vi fu l’intesa di fare precedere il referendum costituzionale da un impegnativo atto politico se non dalla messa a punto di una bozza di tale legge attuativa, della quale non si ha più notizia. Rilasciando così nell’incertezza la cruciale questione della elettività dei senatori;
6) infine una ragione politica, che riguarda il PD e, più complessivamente, l’evoluzione del sistema politico. Non è un mistero che, anche a motivo della impropria drammatizzazione politica della questione, si attende il referendum come uno spartiacque. Al punto che vi è chi rappresenta il fronte del sì come il laboratorio di uno schieramento o addirittura di un partito che muova dal PD, ma che vada oltre il PD. Una sorta di partito unico di governo, posizionato al centro, che si concepisce come alternativo alla destra e alla sinistra. Una prospettiva, per noi, tre volte sbagliata: perché snatura il confronto referendario; perché allontana il sistema politico dalla fisiologia di una competizione tra centrodestra, centrosinistra e 5 Stelle; perché altera il profilo costitutivo del PD quale partito di centrosinistra, ancorché non presuntuosamente autosufficiente, nel solco dell’Ulivo. Quel profilo e quell’assetto che, alle recenti amministrative, nel quadro di una bruciante sconfitta, ha consentito al PD di vincere la partita a Milano.
La nostra posizione per il no può riuscire utile sotto un altro, decisivo profilo. Quello delle gestione delle conseguenze a valle di una eventuale bocciatura della riforma. Il nostro è un no di merito alla riforma. La circostanza che anche elettori e militanti del PD possano avere contribuito al no non autorizzerebbe a stabilire un improprio automatismo: no alla riforma=crisi di governo. Qualcuno di sicuro lo sosterrà, anche perché, non certo noi, ma il premier, sbagliando, ha contribuito ad avvalorare tale tesi. Un automatismo che noi contestiamo, con il nostro no, rigorosamente distinto dal no al governo, che, lo ripetiamo, esula completamente dalle nostre intenzioni.


Paolo Corsini, Nerina Dirindin, Luigi Manconi, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Lucrezia Ricchiutti, Walter Tocci, Luisa Bossa, Angelo Capodicasa, Franco Monaco

Governo se ci sei batti un colpo, 70 femminicidi e la sinistra tace da: linckiesta.it

Dopo il terribile caso di Vania Vannucchi, né la Boschi, né Alfano, né Orlando, né Padoan spendono una parola. Il Governo sembra assente, ma la cosa più grave è che tutta la cultura di sinistra sembra aver rimosso il problema

Se dall’inizio dell’anno fossero morte settanta persone per singoli attacchi terroristici, ma anche per meningite o intossicazioni alimentari, avremmo la legge marziale e presidi medici in strada a vaccinare a forza la gente e una valanga di spot contro l’incauto acquisto di cibo.
Ma le settanta donne ammazzate dagli ex da gennaio a oggi (forse 68, forse 72, i conteggi sono diversi) pesano molto meno delle vittime del terrorismo o dei virus. Pesano così poco che di loro non si occupa nessuno. O meglio, in dichiarazioni sempre più stanche, si occupano soltanto le parlamentari o la ministra preposta alle questioni “rosa”: la Boschi, la Carfagna, la Finocchiaro e giù per li rami fino alle titolari di Telefono Rosa o dei Centri Antiviolenza. Sembra un dibattito sulla Xilella, che interessa solo chi coltiva olivi e il responsabile dell’Agricoltura. Nel caso specifico, rabbrividiscono solo le amiche o le “vicine di genere” delle ammazzate, che per gli altri sono evidentemente questione marginale e poco interessante.

Il ministro dell’Interno Alfano: non pervenuto. Il ministro della Giustizia Orlando: non pervenuto. Il ministro Giuliano Poletti, con delega alle politiche sociali: non pervenuto. Non pervenuto anche Padoan, che pure potrebbe spiegare qualcosa dell’intricata storia dei fondi ai centri Anti-violenza, ne’ è pervenuta la ministra della Sanità Beatrice Lorenzin (sono gli assessorati regionali alla Sanità a erogare i medesimi soldi) o la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini, alla quale molte si appellano perché faccia qualcosa nelle scuole allo scopo di evitare che la prossima generazione segua le orme diseducative dell’attuale. Questo “non pervenuto” stupisce perché al potere c’è un governo che continua a definirsi di sinistra, e la questione delle donne, e della violenza, e del sostegno a chi si ribella alla violenza, è stata storicamente bandiera della sinistra: una cosa che tra l’altro gli ha portato un consenso diffuso nel mondo femminile, molti voti e moltissime risorse di immagine quando il tema del maschilismo berlusconiano teneva banco.

Il ministro dell’Interno Alfano: non pervenuto. Il ministro della Giustizia Orlando: non pervenuto. Il ministro Giuliano Poletti, con delega alle politiche sociali: non pervenuto. Non pervenuto anche Padoan, che pure potrebbe spiegare qualcosa dell’intricata storia dei fondi ai centri Anti-violenza, ne’ è pervenuta la ministra della Sanità Beatrice Lorenzin (sono gli assessorati regionali alla Sanità a erogare i medesimi soldi) o la ministra dell’Istruzione Stefania Giannini

Ma le cose sono cambiate anche qui. Si fanno strada altre visioni. L’Unità ospita, nel giorno del rogo della signora Vania Vannucchi a Lucca, un’opinione del prof. Luigi Cancrini secondo cui le condanne troppo tranchant – dire ad esempio che questi uomini che bruciano le donne «sono squallidi criminali e schifosi assassini» – altro non fanno che aumentare la solitudine e la disperazione «di chi sta male e commette atti inconsulti». «Odio e amore si alternano continuamente, come nella poesia straordinaria di Catullo» scrive Cancrini sul giornale ufficiale del Pd, il che fa immaginare qualcosa che somiglia a un’inversione di tendenza culturale. Il femminicidio come malattia dell’anima, lato oscuro della patologia bipolare dell’amore. E davvero sarebbe il trionfo di quella che Clint Eastwood chiama la “Pussy Generation” del politicamente corretto se la politica di sinistra finissse lì, nel catalogare sotto la voce “disagio individuale” un fenomeno sociale che ha fatto settanta morti ammazzati in otto mesi.

Qualcuno comincia ad accorgersene. Loredana Taddei, area Cgil, denuncia in un comunicato all’Ansa «la reticenza degli uomini a prendere la parola e il fatto che continuino a consideralo un problema di qualche maschio violento o malato, non di un sistema, che dunque, non li riguarda». Marina Terragni, che ha scritto un e-book contro l’utero in affitto (“Temporary Mother”), avanza il dubbio che stia mutando l’identità della sinistra, e che quella parte politica stia scansando «la fatica del limite, del rigore, del non possumus, per continuare a zampettare allegri in una confortevole acquetta di rose». Lo dice parlando di Gestazione per Altri, ma è una chiave interpretativa utile anche a capire la nonchalance con cui vengono archiviati i titoli su quelle uccise con la benzina, col martello, col coltello, con l’acido, in una galleria di orrori che rimanda a culture tribali, dove persino le modalità parlano di regressione culturale collettiva.

Marina Terragni, che ha scritto un e-book contro l’utero in affitto (“Temporary Mother”), avanza il dubbio che stia mutando l’identità della sinistra, e che quella parte politica stia scansando «la fatica del limite, del rigore, del non possumus, per continuare a zampettare allegri in una confortevole acquetta di rose»

Si zampetta nell’acqua di rose per negare una realtà palese: l’Italia sta tornando indietro in molte cose, e nel rispetto delle donne, nel riconoscimento della loro libertà, più di tutte. E non è colpa solo di quelli che esibiscono bambole gonfiabili sui palchi ma anche degli altri, quelli che governano e trattano queste 70 cittadine morte tutte per lo stesso motivo come casi di ordinaria violenza privata, nulla che debba interessare più di tanto lo Stato, le istituzioni, la politica. Il prossimo passo sarà dire che chi uccide è un innamorato malato. Quello dopo, che lei se l’è cercata, e saremo così tornati trionfalmente alla preistoria del delitto d’onore e della pubblica indulgenza in nome dell’«odio et amo» di Catullo, o del «vis grata puellae» di Ovidio tante volte citati nei processi degli anni ’60.

Lo psichiatra Andreoli: “L’Italia è un Paese malato di mente.” da : huffngtonpost.it

Il professor Vittorino Andreoli:

“L’Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti”
 

“L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave.
Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo.

Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia.

Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.


Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto.

Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.


“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale

Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.


“Proprio così.
Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”.


Fontehttp://www.huffingtonpost.it/2013/08/06/vittorino-andreoli-intervista-italia-malato-psichiatrico_n_3712591.html

Il pilota che disse il cielo è sereno su Hiroshima. 71 anni fa la bomba atomica da: left.it

Fu il texano Claude Robert Eatherly (1918-1978), pilota e meteorologo, a dare il via libera allo sgancio della prima bomba atomica della storia, “little boy”, che colpì Hiroshima il 6 agosto 1945. Earthely aveva solo 27 anni, ma era già un esperto nel suo settore. Quel giorno agì sulla base di considerazioni pratiche e razionali: il cielo era sgombro e non c’erano perturbazioni in arrivo su Hiroshima. Le conseguenze furono devastanti: la bomba provocò la morte immediata di 70mila persone. Altrettante morirono poi a causa delle radiazioni e delle ustioni. Tre giorni dopo un’altra bomba, detta “fat men”, fu sganciata su Nagasaki: 39mila persone furono disintegrate e altre 25mila morirono in modo atroce nei giorni successivi. Ma sappiamo anche che effetti devastanti quelle due bombe ebbero sulle generazioni successive.

Un ritratto fotografico di Claude Eatherly

Un ritratto fotografico di Claude Eatherly

«Alla fine della guerra i piloti venivano celebrati e acclamati in patria come “eroi sorridenti”, come portatori di pace. Tutti godevano di questa gloria, ma non Eatherly, che rinunciò a trarre vantaggio da tale popolarità, si chiuse nel riserbo e dedicò tutta la sua vita successiva al tentativo di venire a capo della propria colpa e di renderne consapevoli gli altri», scrive Michaela Latini, curatrice del libro L’ultima vittima di Hiroshima,  (Mimesis), uno importante volume che raccoglie l’epistolario fra il filosofo Günther Anders e Claude Eatherly.
«Nella testa del pilota l’ombra lunga del ricordo dell’azione di Hiroshima non si lascia accantonare facilmente: le furie scatenate dal suo gesto e i fantasmi dei corpi in fiamme nell’isola bombardata iniziarono ad affollare il suo sonno», prosegue la germanista dell’Università di Cassino.

Eatherly cade in depressione e tenta più volte il suicidio. «Il matrimonio con l’attrice italo americana Concetta Margetti entra in crisi e gli viene interdetta la frequentazione dei figli.  E compie gesti autodistruttivi e anti sociali: viola un domicilio privato, falsifica un assegno per pochi dollari, «cerca in ogni modo di distruggere l’immagine epica che la società occidentale si è fatta di lui per poter continuare a giustificare se stessa». Ed è proprio questo l’aspetto che colpisce il filosofo Günther Anders che nel 1959 scrive a una lettera a Eatherly, che poi diventerà un ampio e toccante carteggio, di cui Mimesis pubblica la traduzione italiana.
«Il caso di Claude Eatherly non è solo un caso di ingiustizia enorme e prolungata ai danni di una persona ma è anche simbolico della pazzia suicida dei nostri tempi», ha scritto i filosofo Bertrand Russell nell’introduzione alla prima edizione  uscita nel 1961. Perché la  decisione di Eatherly fu giudicata folle e lui ostracizzato ,«punito», scriveva Russell perché aveva aveva fatto una cosa inaccettabile per l’America: pentirsi di aver collaborato al bombardamento.

Il caso Eatherly diventa la cartina di tornasole di una cultura americana malata, svela gli inquietanti contorni di una ideologia che ha bisogno di un nemico esterno e di una missione da compiere per cementificare l’unità nazionale. Un’ideologia religiosa e guerrafondaia che rende ciechi, non permette di vedere che le bombe atomiche colpiscono anche chi le usa. «C’è un effetto boomerang dei mezzi distruzione di massa, non di natura fisica, ma psichica», scrive Robert Jungk nella prefazione all’edizione tedesca di questo epistolario pubblicato da Mimesis «La violenza distruttiva delle armi atomiche – aggiunge Jungk – impone a chi le ha usate un carico psichico che non sono in grado di elaborare consciamente e inconsciamente». È proprio quel devastante effetto boomerang che gli americani cercarono di negare stigmatizzando la decisione di Claude Eatherly di lasciare l’esercito e di rifiutare gli onori. Quel gesto fu letto come un pericoloso attacco alla nazione.