Julio Cota * | elcomunista.nuevaradio.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
12/07/2016
Attualmente, mentre il sistema capitalista nella fase imperialistica si trova nella crisi più acuta e prolungata della sua storia, mentre in varie parti del mondo l’insurrezione operaia avanza verso lo scontro più diretto tra capitale e lavoro, è pertinente dibattere la questione della presa del potere attraverso l’uso della violenza rivoluzionaria. Oggi mentre il sistema capitalista evidenza la sua incapacità storica a risolvere i problemi ad esso connaturati come la fame, la disoccupazione, il diritto all’abitare, la conservazione dell’ambiente e la pace, è necessario discutere se il capitalismo possa esser riformato o debba esser rovesciato. Riformato con misure neokeynesiane, attraverso nuove gestioni socialdemocratiche di governi progressisti e di “sinistra”, mediante l’avallo e il consenso dei monopoli che simulano processi elettorali democratici? O rovesciato mediante processi di rottura, di creazione di nuove forme di potere operaio e popolare, fuori dal quadro della legalità borghese, mediante l’uso della violenza rivoluzionaria? Il dilemma non è o lotta armata violenta o via elettorale pacifica, ma quali devono essere i criteri dei rivoluzionari per poter utilizzare ognuna di queste forme di lotta?
Un principio dei comunisti e dei rivoluzionari è quello della combinazione di tutte le forme di lotta, sapendo in ogni momento qual è il fattore principale nei differenti periodi della lotta di classe. Ossia, noi comunisti non escludiamo l’uso del parlamento, la via elettorale, la lotta pacifica e politica aperta, come nemmeno denigriamo, per principio, la lotta armata. Pertanto si può dire che la lotta armata non solo è una forma difensiva imposta dal nemico mediante la sua violenza contro gli sfruttati, ma è un principio reale e oggettivo per esercitare la volontà degli oppressi per la loro emancipazione. Questo non è un dogma come i riformisti e i detrattori del marxismo leninismo affermano, ma un principio di lotta di classe nella risoluzione delle contraddizioni politiche e sociali tra classi antagoniste. La lotta di classe non solo è politica e ideologica, ma è intrinsecamente una lotta militare dove ognuna delle parti utilizza i propri strumenti per disarmare il nemico e imporre la propria volontà. Questo non è solo dimostrato dai pensatori del socialismo scientifico come Marx, Engels e Lenin, ma soprattutto dalle centinaia di teorici militari delle classi dominanti nella storia dell’umanità. Per questo noi comunisti dobbiamo esser molto chiari in questo senso: la violenza che esercitano gli sfruttati per la loro liberazione non può esser perseguita dai concetti morali di una cultura e di una società borghese nella quale le basi economiche, politiche, ideologiche e giuridiche trovano il loro sostegno nella spoliazione dei lavoratori e nella loro dominazione mediante una violenza strutturale.
Per i comunisti è chiaro che la violenza rivoluzionaria non solo “è la levatrice della nuova società”, ma è soprattutto un atto di legittimità che hanno gli oppressi una volta giunto il momento storico per togliere il potere politico ed economico ai loro oppressori. La sparizione della proprietà privata sui mezzi di produzione che origina la divisione tra classi sociali e i loro antagonismi e pertanto la violenza, finora non è avvenuta attraverso conciliazione e accordi duraturi. Le leggi sociali e politiche dentro il regime borghese contengono patti momentanei tra le classi per mantenere periodi relativi di pace sociale, che sono in realtà momenti di preparazione alla guerra. Tuttavia, questo non vuol dire che lo Stato sia un garante del concretizzarsi di questa legalità e conciliazione tra classi. Al contrario, noi comunisti abbiamo ben chiaro che lo Stato è un apparato di dominazione di una classe su un’altra e oggi a dominare sono l’oligarchia e i monopoli. Pertanto non sorprende che la corruzione e l’impunità mostrino da che parte sta la giustizia. Nei cicli del capitalismo, dove le crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione sono congenite, è sempre più frequente e duratura la tendenza dello Stato borghese alla repressione, l’incarceramento, l’assassinio e la sparizione forzata, con metodi legali e illegali, nei confronti delle classi sfruttate che lottano per un mondo migliore. Per questo noi comunisti non possiamo accettare che la violenza sia unicamente l’aggressione fisica dei corpi di polizia, militari e paramilitari dello Stato, ma anche e soprattutto la disoccupazione, la mancanza di potere d’acquisto, la miseria, la mancanza di accesso ai servizi sanitari ed educativi; una situazione quasi naturalizzata e impercettibile che fa parte della violenza strutturale del capitalismo.
In questo senso, la violenza rivoluzionaria non è un invenzione, un dogma o un unico metodo con il quale noi comunisti affermiamo il nostro lavoro politico. Nella storia dell’umanità, nei fatti e nella realtà contemporanea, le classi oppresse, con i comunisti o senza, hanno preso il monopolio della violenza a chi per un certo periodo di tempo lo ha esercitato per mantenere i propri privilegi di classe e il suo dominio. Il marxismo-leninismo ha sintetizzato queste esperienze storiche e in modo chiaro e franco indica che questa violenza degli sfruttati deve esser organizzata e diretta con l’obiettivo di metter fine alla violenza stessa, non come un effetto, ma come causa: il sistema capitalista, la proprietà privata dei mezzi di produzione e la divisione in classi sociali. Ossia noi comunisti non siamo apologeti della violenza, come reazione alla violenza; siamo al contrario organizzatori politici delle forme e metodi di lotta che gli stessi sfruttati hanno sviluppato in maniera quasi intuitiva, ma creativa, per riuscire a rompere le laceranti catene della miseria, dello sfruttamento e della repressione che esercitano oggi i monopoli. Questo non significa dire al nostro popolo che per ottenere cambiamenti veri alla radice è possibile solo mediante una schiacciante massa di seguaci di un progetto politico, ma che è un dovere e una necessità contare su uno strumento militare organizzato e subordinato a questo progetto politico che supporta non solo la volontà degli oppressi, ma che sconfigge anche la volontà degli sfruttatori. Conquistare le coscienze della classe operaia e degli strati sfruttati con un progetto politico senza uno strumento che sostiene questa volontà, è portare la nostra classe a una sconfitta e a una tragedia, perché finora l’esperienza storica ci dimostra che le classi dominanti non esitano ad utilizzare mezzi violenti per conservare i propri privilegi.
Noi marxisti-leninisti analizziamo in modo dialettico la realtà e le sue contraddizioni, per questo dichiariamo che le forme di lotta politica e pacifica non devono escludere le forme di lotta violenta e armata. Rinunciare a una di queste forme categoricamente senza conoscere la loro essenza e il loro ruolo nella lotta di classe, è essere dogmatici. Queste forme di lotta non sono escludenti, ma non possiamo rinunciare a nessuna di loro, come nemmeno possiamo esercitarle allo stesso tempo, come fa il revisionismo armato o condannando la violenza rivoluzionaria, come fa l’opportunismo elettorale e il pacifismo piccolo borghese. Finora i rappresentanti dell’opportunismo fanno del parlamentarismo e delle elezioni un dogma. I rappresentanti del riformismo propongono di limare le unghie della ferocia del capitale con misure keynesiane e con il ritorno dei diritti sociali e lavorativi oggi eliminati. I rappresentanti del revisionismo armato o civile rinnegano il ruolo della violenza organizzata per la presa del potere da parte della classe operaia. Mentre l’ultra-sinistrismo e l’anarchismo fanno dell’azione diretta la loro forma di lotta principale slegata dalle masse e senza una strategia più o meno coordinata. Ciononostante, tutti questi condividono qualcosa in comune: escludono forme di lotta storiche della classe operaia senza sapere qual è la forma di lotta principale, secondo l’analisi concreta della realtà concreta.
Tuttavia, in tempi di crisi economica e politica del capitalismo, esso si rende più violento e le sue forme principali di accumulazione di capitale avvengono mediante la svalorizzazione della forza lavoro e l’estrazione di plusvalore da milioni di operai, così come tramite la spoliazione di territori attraverso l’occupazione violenta, distruggendoli e ricostruendoli secondo gli interessi del capitale. Nel mondo capitalista, lo Stato democratico borghese al servizio dei monopoli e delle oligarchie esercita all’interno dei distinti paesi la repressione maggiore verso la classe operaia e gli strati sfruttati che resistono alle misure antioperaie e antipopolari. All’estero gli stati capitalisti più sviluppati economicamente esercitano l’occupazione di altri stati nazione, mentre altri stati meno sviluppati collaborano finanziariamente e militarmente con le potenze economiche in funzione della loro posizione nella piramide imperialista.
Di fronte a questo panorama, ricordiamo che la controrivoluzione in URSS non solo è stata una sconfitta momentanea per i comunisti e i rivoluzionari, ma per tutta la classe operaia mondiale. L’aggressività dell’imperialismo verso i popoli è stata devastante in Europa, Asia e Africa. Tuttavia, in America Latina viviamo negli ultimi 20 anni una resistenza all’introduzione di politiche economiche di cui, col sangue e col fuoco, beneficiano solo i monopoli. Per un piccolo lasso di tempo le misure antimperialiste dei cosiddetti processi progressisti e bolivariani hanno resistito all’assalto del capitale. Tuttavia, oggi questi processi si vedono minacciati per non aver radicalizzato la loro politica a favore della classe operaia e compiuto una rottura con le leggi di mercato ed economiche del capitalismo, conquistato la maggioranza dei lavoratori, isolato i settori reazionari ed esercitato la violenza rivoluzionaria contro gli sfruttatori mediante la creazione di uno Stato operaio e contadino dal vero carattere socialista. I processi caratterizzati da questo tipo di gestione del capitalismo si stanno rilevando disastrosi in Venezuela, Brasile, Ecuador, Argentina, Bolivia, El Salvador e Nicaragua.
Fino a questo momento, in America Latina, Cuba socialista e le Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia – Esercito del Popolo (FARC-EP), erano le forze fondamentali che mantenevano alta la bandiera del socialismo nonostante tutta la macchina militare, economica e ideologica dell’imperialismo e non solo degli USA. Come sappiamo, l’insorgenza colombiana è nata dalla necessità dell’impotenza di un popolo di fronte alla repressione e alla violenza esercitata da uno Stato colombiano che fino ad oggi serve le oligarchie per imporre i loro interessi col sangue e col fuoco. Per oltre 50 anni le FARC-EP hanno resistito eroicamente insieme al loro popolo alla guerra diseguale in termini militari, economici e ideologici che l’imperialismo ha imposto sul nostro continente. Tuttavia, dopo quattro anni di processo di pace all’Avana, Cuba, le FARC-EP hanno accordato una serie di misure preoccupanti per molti rivoluzionari nel mondo. Gli accordi tra lo Stato colombiano e le FARC-EP aprono un dibattito intorno alla vigenza della violenza rivoluzionaria per la presa del potere, ma anche una preoccupazione per coloro che in modo pubblico e fraterno hanno appoggiato le FARC-EP nei momenti più difficili, senza dare importanza ai rischi. Le domande e le preoccupazioni vanno intese nel senso più fraterno e solidale tra i rivoluzionari e non come fa l’opportunismo vile che oggi dice di rispettare le FARC-EP mentre mesi indietro condannava questa organizzazione e accettava anche gli appellativi dettati dall’imperialismo, come quello di “narco-terrorista”. In questo senso, è necessario aprire un dibattito intorno al ruolo della violenza rivoluzionaria come mezzo per la presa del potere e il socialismo. Un dibattito necessario e urgente nei termini più rispettosi della critica e dell’autocritica che caratterizza i comunisti.
In questo contesto, lo Stato Maggiore Centrale delle FARC-EP parla di “consegna delle armi”, un accordo preoccupante poiché la memoria storica ci ricorda lo sterminio che esercitò lo Stato colombiano contro migliaia di dirigenti e militanti dell’Unione Patriottica negli anni ’80 del secolo passato. Un processo nobile, civile e pacifico su cui le FARC-EP e l’insorgenza colombiana hanno puntato con le migliori intenzioni per realizzare la loro politica senza l’uso delle armi. Questo senza contare l’esperienza storica contemporanea di altri processi latinoamericani dove le forze rivoluzionarie hanno realizzato processi di pace senza che nel lungo periodo avessero ottenuto cambiamenti sostanziali in senso socialista. Al contrario, l’esperienza storica ci dice che una parte di questi processi pacificatori, come in El Salvador, Nicaragua o Venezuela, lo sviluppo della lotta politica e pacifica, hanno portato i popoli latinoamericani e le classi oppresse a legittimare e rafforzare, in un modo o nell’altro, il regime della democrazia rappresentativa e i rapporti mercantili del capitalismo. Dall’altro lato, di fronte alla sconfitta elettorale delle forze progressiste, la costante è stata la formazione di governi più reazionari nei vari paesi dell’America Latina. E’ certo che in certi periodi della lotta di classe, i processi progressisti o bolivariani hanno migliorato la qualità della vita delle classi espropriate, tuttavia oggi la tendenza è contraria. L’imperialismo avanza a passi da gigante in America Latina in modo aperto o velato, facendo ripiegare le forze rivoluzionarie, nonostante si possa colpire l’imperialismo con maggiore forza in virtù della crisi più acuta e prolungata del sistema capitalista mondiale.
D’altro lato, quali sono le garanzie che gli apparati militari e la mafia internazionale delle bande di narcotrafficanti siano smobilitate in Colombia e non esercitino più la loro violenza contro il popolo colombiano? E’ troppo rischioso avere fiducia che, nella maggior parte dei casi, le bande paramilitari al servizio dei monopoli, finanziate e create da politici della reazione colombiana, non faranno fuoco contro chi ha un progetto politico che attenta al business delle armi, dei privilegi e dei loro padrini. Come credere che le mafie dei narcotrafficanti non guadagneranno forza nelle zone smobilitate dall’insorgenza, portando i contadini poveri alla produzione di coca non vedendo essi risolte nell’immediato le proprie necessità di lavoro e di risorse? Come confidare in organismi per nulla neutrali e filo-imperialisti come l’ONU, che dalla controrivoluzione in URSS è stato un organo internazionale a favore dei monopoli, che ha violato anche i suoi stessi protocolli sui diritti umani, come dimostrano i recenti casi di Haiti e di altri paesi in Africa e Medio Oriente? Come confidare nelle leggi e negli accordi di uno Stato colombiano che continua ad attentare a iniziative politiche e pacifiche come quella della Marcia Patriottica, i cui dirigenti e militanti sono stati assassinati, incarcerati nell’impunità dello Stato Colombiano, senza che nessuno di questi casi sia stato chiarito e portato davanti alla giustizia?
Oggi come ieri le voci e le penne dell’opportunismo e del riformismo raffigurano come un dogma l’esercizio della violenza rivoluzionaria per la presa del potere da parte delle classi sfruttate. Tuttavia, finora, la pratica storica dimostra che solo coloro che hanno esercitato in modo cosciente e organizzato la violenza rivoluzionaria hanno realizzato cambiamenti radicali rovesciando le basi del sistema capitalista a favore degli operai e dei contadini. Gli esempi e i riferimenti storici sono evidenti nonostante i loro detrattori: la Rivoluzione Socialista d’Ottobre e al suo momento la Rivoluzione Cubana, solo per menzionarne alcuni. E in questo senso, la stessa esperienza storica dimostra che nella costruzione del socialismo, se non si ha chiaro il ruolo del Partito comunista come dirigente della rivoluzione, nella sua composizione operaia, nei principi del marxismo-leninismo come quello della dittatura del proletariato e dello stesso esercizio della violenza da parte dello Stato rivoluzionario, la reazione contrattacca e può prendere il potere politico e economico. Noi comunisti non possiamo continuare a commettere gli stessi errori nel nostro cammino storico. E’ dovere dei rivoluzionari non perdere i principi delle nostre concezioni politiche e ideologiche che la stessa realtà ci dimostra nella lotta dei nostri popoli per la loro emancipazione. Oggi che le contraddizioni del sistema capitalista sono più evidenti, mentre la classe operaia comincia a rafforzare la sua capacità organizzativa e politica, la violenza rivoluzionaria si rende necessaria come un mezzo per strappare il potere ai monopoli e conquistare una pace duratura, solo nel socialismo.
* Direttore di El Comunista, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista del Messico.
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