Una pagina poco nota di storia contemporanea. 18 stragi e 64 vittime fra luglio e agosto 1943. L’uccisione dei coniugi Lombardo. Il massacro di Castiglione
Un aspetto interessante della recente pubblicazione sul web dell’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia è dato dal carattere interlocutorio, volto a stimolare nuove testimonianze su episodi stragisti perpetrati in Italia durante l’occupazione tedesca. Ed è una caratteristica che si apprezza maggiornente se si guarda da una prospettiva meridionale e, per quanto riguarda la nota che segue, siciliana. È questa la parte del Paese in cui la memoria delle stragi stenta di più a travalicare l’ambito di memoria famigliare o tutt’al più locale per emergere nel discorso pubblico. Diversamente che al centro-nord dove, pur con le note difficoltà, la memoria delle stragi si sovrappone alla memoria della Resistenza, qui manca questo elemento diciamo facilitatore della contestualizzazzione. È quindi merito non trascurabile l’aver esteso così l’indagine, da ascrivere alla sensibilità del curatore Paolo Pezzino, studioso fra l’altro di storia del Mezzogiorno, oltre che alla disponibilità di un più ricco panorama di studi sulla società meridionale e la guerra.
Le schede sulle 18 stragi e 64 vittime siciliane riportate dall’Atlante (il bilancio è comunque provvisorio) non rappresentano solo un doveroso completamento della dimensione nazionale dell’indagine, ma consentono di mettere in evidenza una prospettiva un po’ diversa da quella che si ottiene analizzando le altre stragi. Gli episodi siciliani vengono percepiti e ricordati con difficoltà dalla popolazione, anche quelli in cui la brutalità si manifesta in modo più evidente, come a Castiglione, in provincia di Messina, per via della difficile percezione del ruolo del nemico e dell’amico.
Siamo nei giorni dello sbarco in Sicilia, gli Alleati ancora nemici stanno bombardando ogni angolo dell’isola, il loro arrivo è anche contrassegnato da episodi stragisti nei confronti della popolazione civile e dei prigionieri, tuttavia ben presto la popolazione li percepisce come coloro i quali porranno fine alla guerra e alla fame (questa seconda speranza in gran parte frustrata). I tedeschi sono ancora alleati, la convivenza con loro nei mesi precedenti è stata talvolta difficile fino a registrare alcuni episodi di brutalità con uccisioni, e tuttavia è nel corso dei 38 giorni successivi allo sbarco e fino alla completa occupazione alleata dell’isola che si manifesta una inattesa ferocia. Qui la dissociazione tra i reali comportamenti e gli aspetti isituzionali è notevole, dato che le autorità politiche (governo, monarchia) avrebbero denunciato l’alleanza e proclamato l’armistizio solo dopo l’avvenuta occupazione della Sicilia.
Gli episodi stragisti veri e propri si concentrarono nel tempo dell’occupazione e nello spazio della Sicilia orientale, con l’eccezione di Canicattì (Ag), che si trova nella Sicilia occidentale. La zona etnea fu quella con maggior numero di episodi e di vittime. Le stragi appaiono subito legate alla direttrice principale della Resistenza e della ritirata tedesca; nella maggior parte dei casi furono legate a saccheggi, furti e tentativi di violenza sulle donne, ma in altri appare chiara la reazione rabbiosa nei confronti della popolazione che accoglieva favorevolmente gli anglo-americani. Così avvenne a Canicattì, dove il 12 luglio cinque malcapitati scambiarono una retroguardia tedesca per un plotone americano; le loro manifestazioni di gioia provocarono l’immediata fucilazione. Il paese nel frattempo era sottoposto a un cannoneggiamento alleato e solo due giorni dopo, quando gli americani lo occuparono si resero responsabili della strage di sedici o diciotto civili, rei del saccheggio di un saponificio. Su tutto si stese una coltre di silenzio fino a tempi recenti, sicuramente conseguenza dello smarrimento provocato da questo susseguirsi di avvenimenti.
Un altro caso riemerso di recente è quello della uccisione di due coniugi, Carmelo Lombardo e Carmela Sapuppo, e del ferimento di due loro figli nascosti in una grotta nei pressi di Lentini, mentre (era oltre la metà luglio) infuriava la battaglia sulla vicina Piana di Catania. Secondo le testimonianze raccolte da una pronipote, Letizia Ravidà, «quando sembrò che il frastuono delle bombe e dei cannoni fosse cessato il nonno Carmelo uscì a guardare. Da dentro si sentì uno sparo. Alcuni soldati tedeschi appostati davanti alla grotta avevano fatto fuoco colpendo l’uomo alla gola. In rapida sequenza la tragedia si allargò: Carmela Sapuppo, accorsa sul corpo sanguinante del marito, fu crivellata di colpi al torace e così i figli Teresa a Sebastiano, che però sopravvissero. Sul corpo esamine della bisnonna Carmela fu trovata la foto dell’altro figlio Giuseppe, militare e al fronte: la teneva stretta durante i bombardamenti, forse pensando a quali più grandi pericoli era esposto il figlio. Una piccola macchia di sangue si era depositata in corrispondenza della mano del soldato, quella che poi fu lavata e lasciò un segno sbiadito».
Quella macchia sulla foto sarebbe rimasta a futura memoria: le foto delle due vittime e del loro figlio militare incorniciate ed esposte in casa, avrebbero rivelato a Letizia il tragico episodio proprio mentre lei preparava la tesi di laurea sulla più nota rivolta antitedesca di Mascalucia del 3 agosto. Una più adeguata capacità di lettura del contesto generale consente dunque di leggere i segni di un passato sepolto che pure è paradossalmente così prossimo. D’altronde anche i fatti noti hanno sofferto di una difficoltà di lettura, come appunto Mascalucia e Castiglione (12 agosto), e molte altre uccisioni di civili nell’area etnea. Si è insistito talvolta nel voler interpretare la reazione di alcuni civili e militari alle violenze e ruberie tedesche come un inizio della Resistenza. Una conclusione affrettata che ha fatto perdere la possibilità di cogliere gli aspetti più complessi del difficile momento di crisi avviatosi in Sicilia con l’occupazione alleata. Ma soprattutto ha sortito l’effetto di non agevolare il recupero di memoria rendendo irriconoscibili agli occhi degli stessi protagonisti le violenze di cui erano stati vittime. Mentre l’avvio della Resistenza comportò delle scelte e la progressiva acquisizione di consapevolezza politica, qui rimase un senso di smarrimento e di vuoto, difficile da colmare anche negli anni successivi. Si racconta il caso del contadino che uccise un soldato tedesco che gli stava rubando il mulo. La notizia si sparse e arrivò al comandante delle truppe britanniche sopraggiunte pochi giorni dopo, che volle incontrare l’intrepido siciliano. Il contadino si presentò preoccupato di ricevere un castigo per l’uccisione; ancora incredulo raccontò di avere ricevuto le congratulazioni per il danno arrecato al nemico.
Furti e saccheggi furono la norma in quei giorni, suscitando talvolta la reazione degli interessati, e quella di Mascalucia fu la più consistente.
Le cause della strage di Castiglione, con 16 vittime, restano invece meno chiare, forse una rappresaglia tedesca a furti subiti dalle truppe in transito. In ogni caso si trattò di un attacco organizzato e non di un episodio casuale, con ufficiali al comando della colonna che il 12 agosto irruppe nell’abitato seminando morte e promettendo altrettanto ai circa 300 ostaggi. Si risolse con la trattativa grazie all’intervento di alcuni maggiorenti del paese e di una suora. Pochi giorni dopo, tra settembre e ottobre, finita la battaglia e riavviate le pubblicazioni dei giornali, i commenti che si susseguirono sui più noti di questi avvenimenti stigmatizzavano la barbarie teutonica, con accenti risorgimentali. Nessun articolo faceva riferimento al fascismo e al nazismo.
La strada per la Liberazione era ancora lunga da percorrere e difficile. La pubblicazione dell’Atlante ha ora il merito di fornire dati, che possono ridare dignità alle vittime e ai loro parenti, riconoscendo la specificità della loro condizione; ha anche il merito di consentire ipotesi interpretative e prospettive di ricerca nuove che ci aiutino a mettere in luce la profondità del coinvolgimento dei civili nella guerra.
Rosario Mangiameli, docente di Storia Contemporanea all’Università di Catania
La Relazione 2016 sul costo del lavoro pubblico della Corte dei conti, pubblicata nei giorni scorsi, ha evidenziato quanto denunciato da tempo dal sindacato dal mondo della scuola: tra il 2008 e il 2014 il personale docente di ruolo è sceso di 9 punti, i dirigenti scolastici sono stati ridotti di oltre il 30%, si è risparmiato sugli automatismi stipendiali bloccando gli scatti di anzianità, si è negato il rinnovo contrattuale e l’adeguamento stipendiale anche al solo costo della vita.
Dopo il dimensionamento degli istituti, è così arrivato pure quello del personale e del relativo trattamento economico. Nel 2014 un docente ha guadagnato in media 30.699 euro lordi; un dirigente scolastico 62.890 euro, mentre un dirigente di seconda fascia dell’Università ha percepito 94.455 euro; un dirigente delle Regioni 93.450 euro; un dirigente ministeriale di prima fascia 178.301 euro. Per il personale Ata, sottolinea il sindacato Anief, poi, i compensi rasentano la soglia di povertà: 22.000 euro. A scanso di equivoci, è bene sapere che la riforma della Buona Scuola, approvata un anno fa, se si eccettua l’immissione in ruolo di circa 47.000 nuovi docenti “potenziatori”, non ha sanato nulla.
Con il nuovo anno scolastico, intanto, spariranno 51 scuole. La perdita arriva a 102 istituti, perché il taglio riguarda altrettante sedi sottodimensionate, che scenderanno da 385 a 334. In tutto, si passerà da 8.382 scuole dello scorso anno a 8.281. È la solita operazione in chiave spending review, aggravata dal dato Miur che ha certificato un incremento di allievi. E a rifilarla è quell’Esecutivo che, più di tutti, si è professato promotore di una scuola di qualità.
Marcello Pacifico (Anief-Cisal) commenta: in questo modo si costringono i presidi a fare i salti mortali per gestire due o anche tre scuole a testa, con spesso una decina di plessi distanti chilometri tra loro. Dal 1° settembre saranno 2mila, uno su quattro, gli istituti che andranno in reggenza. In questo modo continueremo ad avere scuole abbandonate al loro destino, affidate a vicari sottopagati e a presidi, a loro volta, con stipendi dimezzati e costretti a vivere alla giornata e a tamponare a distanza le emergenze.
L’impegno di Rifondazione Comunista per il NO. Il documento approvato dal CPN
Pubblicato il 3 lug 2016
Pubblichiamo il documento approvato al termine del Comitato politico nazionale del Partito della Rifondazione Comunista sulla campagna referendaria.
Il CPN di Rifondazione Comunista
impegna i compagni e le compagne di Rifondazione Comunista a dar vita ad una campagna di massa per il NO nel referendum sulla manomissione costituzionale, in piena sintonia con i comitati locali e nazionali per i referendum costituzionali e sociali. L’esito del referendum è infatti decisivo per la democrazia nel paese e per evitare la stabilizzazione antidemocratica che perseguono il PD e Confindustria.
Propone che nell’ambito della campagna unitaria per il No Rifondazione Comunista, sviluppi una propria mobilitazione specifica su due livelli:
In primo luogo, intrecciando il NO nel referendum con il NO al CETA ed in particolare al TTIP, che, nel caso venisse approvato, determinerebbe una completa messa in mora della Costituzione Repubblicana. La democrazia è infatti aggredita dai trattati neoliberisti, a partire da quelli europei.
In secondo luogo intrecciando la battaglia per il NO nel referendum alle nostre proposte sociali contenute nella campagna “i soldi ci sono” e rivolte ai soggetti colpiti dalla crisi: dalla richiesta della firma dei contratti di lavoro, alla proposta del reddito sociale, al piano per il lavoro, alla difesa e rilancio del welfare. Difendere la democrazia e redistribuire la ricchezza garantendo i diritti sociali: tassare le grandi ricchezze e dar vita ad un Quantitative Easing per i popoli.
Sulla riforma costituzionale ho l’impressione che si continui a non capire, o meglio, a non voler capire, che si sta maneggiando una materia di estrema delicatezza, dove i tasselli non possono essere spostati come su una tastiera di scacchi (dove al più si può perdere una partita), ma si rischia invece di intaccare sistemi e procedimenti che furono studiati a suo tempo con estrema attenzione, e che sono stati formulati per rispondere a un’intima e profonda coerenza.
Il pericolo è reale e grave, e la mobilitazione futura dovrà essere costante e continuativa, capace di coinvolgere associazioni, cittadini ed anche tanti che, pur all’interno dei partiti disponibili a questo tipo di processi riformatori, sono fermamente convinti che si debbano apportare solo le modifiche considerate compatibili e coerenti con i principi fondamentali della Carta.
La verità è purtroppo che nel nostro paese ha fatto sempre fatica ad affermarsi quello che alcuni costituzionalisti definiscono come il “sentimento costituzionale”. E questo può diventare pericoloso, nel momento in cui al difetto di tale sentimento può sostituirsi o aggiungersi una tendenza alla semplificazione di un “riformismo” a tutti i costi, e alla prospettazione di un futuro senza memoria e senza identità civica.
Ecco perché la prima cosa che occorre fare è una massiccia iniezione di “sentimento costituzionale”, che metta al riparo dalla improvvisazione e dalle smanie revisionistiche, ed eriga un argine ampio e fortemente condiviso contro quelli che potrebbero diventare veri e propri attentati alla Costituzione. Insomma bisogna diffondere e sostenere quell’attaccamento alla Costituzione, come cosa propria, che è il miglior presupposto per creare una vera allerta, e la precondizione per contrastare i propositi di chi minaccia di stravolgere la nostra Carta costituzionale.
Non illudiamoci: la battaglia – nella imminente campagna elettorale referendaria – sarà dura e difficile. Dunque ci vorrà, ripeto, una mobilitazione permanente, come quando scendemmo in campo nel 2006 per il referendum che poi riuscì a battere progetti davvero eversivi. Ci vorranno energie, sforzi, impegno e soprattutto continuità.
Bisogna chiarire ai cittadini che opporsi a certi intendimenti non significa essere conservatori e oppositori di qualsiasi modifica, ma solo pretendere il rispetto e la coerenza intima di una Costituzione che, pur non applicata in tante parti, è stata in questi anni la nostra guida e la nostra più forte garanzia.
Bisogna chiarire che non siamo disponibili a compromessi e a soluzioni pasticciate, noi che non siamo soggetti a vincoli di nessun genere, soprattutto quando si tratta di difendere gelosamente una Costituzione che abbiamo nel cuore, che consideriamo il frutto del più straordinario momento della storia del nostro paese, e per la quale tanti si sono impegnati e sacrificati.
Lo dico con forza e con fermezza, anche perché penso di esprimere i sentimenti, la volontà, le idee non solo di coloro che hanno combattuto per conquistare libertà e democrazia e dunque anche per dar vita a questa Costituzione, che di essi è l’espressione più alta, ma anche dei tanti che – dichiarandosi antifascisti e condividendo le nostre finalità e i nostri ideali – sono affluiti in questi anni nelle nostre file.