Banchetti a Catania e provincia e convocazione assemblea comitato per la democrazia

Coordinamento Democrazia Costituzionale Catania

É convocata l´ASSEMBLEA del CDC Comitato catanese per LUNEDÍ 30 p.v. ore 18.00  presso il circolo RL del PRC via L.Capuana, 89 per rilanciare ed intensificare la raccolta firme. Dobbiamo coinvolgere quanti piú territori possibile ed accelerare la nostra azione. Allego report dell´ultima assemblea e riporto qui sotto il calendario banchetti con presenze.
CHI NON POTESSE PARTECIPARE PUR AVENDO DATO DISPONIBILITÁ , per piacere CONTATTI LA SOTTOSCRITTA. Grazie !
GCV
340 3073948
BANCHETTI Catania e provincia 28  MAGGIO-GIUGNO 2016REFERENDUM COSTITUZIONALI
SABATO 28 ore 17,30-20.00 p.zza StesicoroToti Secchi, Luciano Daniele, Gisella Napoli , Gabriele Famoso.
DOMENICA 29ore 9,30 -13.00 Mercatino Raffaello SanzioTina Bonaventura, Emanuele Ungheri, Gisella Napoli, Micio Stimolo, Paolo Fichera
DOMENICA 29  ore 9,30 -13.00 Mercatino p.zza Verga Ciccio Giuffrida, Rita Mavilia, Irene Cirino, Giancarlo Consoli, Antonio Ribaudo.
ACIREALE Tutti i sabati pomeriggio e Domenica mattina , p.zza San Pancrazio, ore 10.00GIARRE  Tutti i sabati ore 16,30 – 20,30 P.zza Arcoleo SANTA MARIA DI LICODIA  Domenica 29 maggio e domenica 5 giugno ore 9.00-12.00 e 15.00-18.00 P.zza delle ConsuetudiniVIZZINI Domenica 29 maggio ore 10.00-12,30 P.zza MarconiBIANCAVILLA domenica 5 giugno ore 17,30-20 P.zza Roma.Sabato 11 giugno ore 17,30-20.00 P.zza Roma
É POSSIBILE FIRMARE nei seguenti COMUNI:ACIREALEACICATENAACI SANT´ANTONIO SANTA VENERINAPIEDIMONTE ETNEO               SAN GIOVANNI LA PUNTA

L’ospedale di Aosta cancella i controlli periodici per le donne che hanno avuto il cancro al seno da: lastampa.it

L’associazione Viola: “Problema da risolvere in fretta”
26/05/2016
cristian pellissier

Le telefonate stanno arrivando da qualche giorno. «Sono un’infermiera dell’Usl. Le devo comunicare che la sua visita di controllo è stata cancellata, deve rivolgersi al suo medico di famiglia». A ricevere la comunicazione molte donne che hanno avuto un cancro al seno e che devono sottoporsi alla visita di controllo, per i primi tempi ogni sei mesi e poi ogni anno. Si chiama follow up. «L’ho sempre fatto al Parini» racconta una donna. Ora non più: il consiglio è di rivolgersi al medico di famiglia, sarà poi lui, se dovesse notare anomalie, a rimandare allo specialista. «Mi chiedo come possa notarle, quella è una visita senologica con palpazione e avere un senologo esperto è più sicuro» aggiunge la donna.

 

«MANCANO SPECIALISTI»

Chi in Valle da sempre si occupa di donne con tumore alla mammella è preoccupato. «E’ vero – spiega Tiziana Casarano, vicepresidente dell’associazione Viola -, ci hanno comunicato che momentaneamente le visite di follow up al Parini sono sospese. Il problema è che sono andati in pensione dei medici, è rimasta una sola dottoressa che, ovviamente, non può far tutto. Si occupa perlopiù delle prime visite e delle urgenze. Speriamo che risolvano presto il problema».

 

Ma un cambiamento non pare vicino, anzi. Il direttore generale dell’Usl, Massimo Veglio, spiega: « Il medico di medicina generale può decidere di inviare per un consulto specialistico le persone che hanno un problema di salute emergente» e, puntualizza: «In ambito specialistico si effettuano interventi diagnostici e terapeutici e si imposta un programma di “follow up” fino a quando le condizioni cliniche e le indagini diagnostiche permettono di concludere che il problema di salute è risolto. Questo percorso è solitamente descritto, previsto nelle sue fasi e nei suoi snodi decisionali».

 

Solitamente, ma non in queste settimane, come confermano le donne che avevano già in calendario una visita e hanno scoperto, con una telefonata, che era stata cancellata. Il passaggio dal medico di famiglia è voluto, come spiega ancora Veglio: «Il medico di medicina generale è il regista della cura dei pazienti che lo hanno scelto e ha diritto di essere sempre messo al corrente del percorso di cura in atto. Una volta terminato il percorso le persone non vengono più riprenotate presso la struttura specialistica, a meno che non emerga un nuovo problema, caso che il medico di base può trattare iniziando nuovamente il percorso. Fortunatamente anche molti casi oncologici oggigiorno guariscono, e quindi possono essere considerati “sani” e seguire le normali procedure di prevenzione e cura presso il proprio medico curante».

 

L’obiettivo dell’Usl, in periodi di tagli al bilancio e con problemi di organico, è anche quello di non sovraccaricare l’ospedale: «Gli specialisti – ancora il dg – sono incoraggiati a non effettuare controlli inappropriati a favore di persone “guarite”, perché ciò ridurrebbe la possibilità di accogliere in tempi appropriati le persone con nuovi problemi di salute».

30 ragioni per votare No al referendum di ottobre da: micromega

 


Un utile vademecum che demolisce, punto per punto, le argomentazioni (alcune fuorvianti, altre palesemente false) dei sostenitori della deforma costituzionale e dell’Italicum.

di Massimo Villone, Domenico Gallo e Alfiero Grandi, da Il Fatto quotidiano, 26 maggio 2016

1. Perché raccogliere le firme, se il referendum è stato già chiesto dai parlamentari?

Non si può lasciare al Palazzo la scelta se votare su una vasta modifica della Costituzione, facendone un plebiscito Renzi sì-Renzi no. La richiesta dei cittadini corregge la torsione plebiscitaria, inaccettabile perché impedisce la discussione di merito su una modifica pessima e stravolgente, che va respinta a prescindere dalla sorte del governo.

2. Ma anche Renzi ha avviato la raccolta delle firme.

Lo ha fatto non per amore di democrazia, ma solo perché i sondaggi hanno dimostrato che la via del plebiscito personale era per lui pericolosa. È anche un tentativo di scippare la bandiera della raccolta firme ai sostenitori del no. Tutto deve essere nel nome del governo.

3. Finalmente si riesce dove tutti avevano fallito.

È decisivo il come. Un Parlamento illegittimo per l’incostituzionalità della legge elettorale, e una maggioranza raccogliticcia e occasionale, col sostegno decisivo dei voltagabbana, stravolgono la Costituzione nata dalla Resistenza. L’irrisione e gli insulti rivolti agli avversari vogliono nascondere l’incapacità di rispondere alle critiche.

4. La legge Renzi-Boschi riduce i costi della politica, cancellando le indennità per i senatori non elettivi.

Il risparmio è di spiccioli. La gran parte dei costi viene non dalle indennità, ma dalla gestione degli immobili, dai servizi, dal personale. Mentre anche il senatore non elettivo ha un costo per la trasferta e la permanenza a Roma, nonché per l’esercizio delle funzioni (segreteria, assistente parlamentare, etc). Risparmi con certezza maggiori si avrebbero – anche mantenendo il carattere elettivo – riducendo la Camera a 400 deputati, e il Senato a 200. Avremmo in totale 600 parlamentari, invece dei 730 che la legge Renzi-Boschi ci consegna.

5. I senatori eletti dai consigli regionali nel proprio ambito, insieme a un sindaco per ogni regione, rappresentano le istituzioni di autonomia. È la Camera delle Regioni, da tempo richiesta.

Falso. Un consigliere regionale è espressione di un territorio limitato e infraregionale, cui rimane legato per la sua carriera politica. Lo stesso vale per il sindaco-senatore. Avendo pochi senatori, ogni regione sarà rappresentata a macchia di leopardo. Pochi territori avranno voce nel Senato, e tutti gli altri non l’avranno. È la Camera dei localismi, non delle regioni.

6. Sarebbe stato meglio con l’elezione diretta?

Certo, perché i senatori eletti avrebbero dato rappresentanza a tutto il territorio regionale e a tutti i comuni. Una vera Camera delle regioni richiede l’elezione diretta, mentre l’elezione di secondo grado apre la via ai localismi e agli egoismi territoriali.

7. Il riconoscimento del seggio senatoriale può essere la via per creare un circuito di eccellenza nel ceto politico regionale e locale.

È vero piuttosto, al contrario, che si rischia un abbassamento della qualità nei massimi livelli di rappresentanza nazionale. Basta considerare le cronache di stampa e giudiziarie. Soprattutto perché ai consiglieri-senatori e ai sindaci-senatori si riconoscono le prerogative dei parlamentari quanto ad arresti, perquisizioni, intercettazioni. Un’inchiesta penale a loro carico può diventare molto difficile, o di fatto impossibile.

8. Ma le prerogative non riguardano le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, che rimangono senza copertura costituzionale.

E come si possono distinguere? Se il sindaco-senatore o il consigliere-senatore usa il proprio telefono nell’esercizio delle funzioni connesse alla carica locale diventa per questo intercettabile? E se tiene riunioni nella sua segreteria di senatore? Le attività di indagine verrebbero scoraggiate, o quanto meno gravemente impedite.

9. L’elezione diretta dei senatori è stata sostanzialmente recuperata nell’ultima stesura per le pressioni della minoranza Pd.

Falso. Rimane scritto che i senatori sono eletti dai consigli regionali tra i propri componenti. È stato solo aggiunto il principio che debba essere assicurata la conformità agli indirizzi espressi dagli elettori nel voto per il consiglio. Ma è tecnicamente impossibile. A 10 regioni e province (Valle d’Aosta, Bolzano, Trento, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Umbria, Marche, Abruzzo, Molise, Basilicata) spettano 2 seggi, e a Calabria e Sardegna ne spettano 3. Uno dei seggi è riservato a un sindaco. Come si può rispettare la volontà degli elettori quando il consiglio elegge un solo consigliere-senatore, o due?

10. Il principio della conformità al volere degli elettori è comunque stabilito.

Ma cosa la “conformità” significhi, come possa realizzarsi, e cosa accadrebbe nel caso non si realizzasse rimane oscuro. In ogni caso si rinvia a una successiva legge, che – vista l’impossibilità di risolvere il problema – potrebbe anche non venire mai. Una norma transitoria rimette in pieno la scelta ai consigli regionali.

11. Ma il Senato non elettivo serve a superare il bicameralismo paritario, fonte di continui e gravi ritardi.

Falso. Si poteva giungere a un identico bicameralismo differenziato lasciando la natura elettiva del Senato. In ogni caso, le statistiche parlamentari – disponibili sul sito del Senato – ci dicono che nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono arrivate all’approvazione definitiva mediamente in 116 giorni. Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati 38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati alla manovra finanziaria. Numeri, non chiacchiere.

12. Il bicameralismo differenziato semplifica comunque i processi decisionali e assicura maggiore rapidità.

Solo in apparenza. Negli art. 70 e 72 vigenti il procedimento legislativo è disciplinato con 198 parole. La legge Renzi-Boschi sostituisce i due articoli con 870 parole. Può mai essere una semplificazione? In realtà si moltiplicano i procedimenti legislativi diversificandoli in rapporto all’oggetto della legislazione. Ne vengono incertezze e potenziali conflitti tra le due camere, che potrebbero arrivare fino alla Corte costituzionale.

13. Ma su molte materie la Camera ha l’ultima parola, e questo evita le “navette”.

Le navette prolungate, con reiterati passaggi tra le due Camere, sono in genere sintomo di difficoltà politiche nella maggioranza, che – se ci fossero – si manifesterebbero anche con una sola Camera. Mentre il Senato comunque partecipa paritariamente su materie di grande rilievo, come le riforme costituzionali. Con quale legittimazione sostanziale, data la sua composizione non elettiva?

14. La fiducia viene data dalla sola Camera e questo contribuisce alla stabilità.

Poco o nulla. Nell’intera storia repubblicana il diniego della fiducia ha fatto cadere soltanto due governi (i due Prodi). Lo stesso governo Renzi è nato con una manovra di palazzo volta all’omicidio politico di Letta. Senza quella manovra, Letta potrebbe essere ancora in carica dall’inizio della legislatura.

15. Il rapporto di fiducia verso la sola Camera rafforza la governabilità.

La governabilità dipende non dal numero delle Camere, ma dalla coesione della maggioranza che sostiene il governo. Una maggioranza composita e frammentata non potrà mai produrre governabilità. È decisiva una buona legge elettorale, che componga in modo corretto i valori “governabilità” e “rappresentanza”.

16. Per questo l’Italicum è il giusto complemento alla riforma della Costituzione.

Niente affatto. L’Italicum riproduce i vizi del Porcellum già dichiarati costituzionalmente illegittimi: eccesso di disproporzionalità tra i voti e i seggi attribuiti con il premio di maggioranza, per di più dato a un singolo partito; lesione della libertà di voto dell’elettore per il voto bloccato sui capilista, che possono anche essere candidati in più collegi.

17. Ma l’Italicum prevede una soglia al 40%, superata la quale la lista ottiene 340 deputati, e il ballottaggio a due nel caso la soglia non venga raggiunta. Con il ballottaggio ci sarà comunque un vincitore che supera il 50%.

Al ballottaggio e al premio si accede senza alcuna soglia. Se nel ballottaggio un partito prendesse 2 voti e l’altro 1, il primo avrebbe comunque 340 seggi. Come col Porcellum è possibile che un singolo partito con pochi consensi nel Paese abbia in Parlamento una maggioranza blindata di 340 seggi, mentre tutti gli altri soggetti politici, che pure assommano nel totale maggiori consensi, si dividono i seggi rimanenti. Conseguenza: il voto dato alla lista vincente pesa sull’esito elettorale fino a 4 volte il voto per le altre liste. Un grave elemento di diseguaglianza tra gli elettori.

18. Un premio di maggioranza non è di per sé incostituzionale.

Ma è incostituzionale quello dell’Italicum. Già la soglia al 40% configura un premio di maggioranza enorme, con 340 deputati garantiti. Per di più, essendo sempre 340 i seggi assegnati alla lista vincente, il premio sarà maggiore per chi ha il 40% dei voti, minore per chi ha il 41%, e così via. Meno voti si prendono, più seggi aggiuntivi si ottengono con il premio. Un elemento di manifesta irrazionalità.

19. Ma l’Italicum garantisce che si sappia chi vince la sera del giorno in cui si vota. Un elemento di certezza.

Che nessun sistema elettorale potrà sempre e comunque assicurare. E in ogni caso la governabilità non si assicura dando un potere blindato con artifici aritmetici a chi ha una minoranza – anche ristretta – di consensi reali nel paese. Sarà pur sempre un governo al quale la parte prevalente del corpo elettorale ha negato adesione e sostegno.

20. Non è corretto censurare l’Italicum con l’argomento che apre la via all’uomo solo al comando.

Invece sì. L’Italicum prevede, come già il Porcellum, la figura del “capo” del partito. Il voto bloccato sui capilista e le candidature plurime per gli stessi capilista consentono al leader del partito di controllare in ampia misura la scelta dei parlamentari da eleggere, per la maggioranza blindata dal premio. La concentrazione del potere è indiscutibile.

21. Ma chi firma per il referendum abrogativo sull’Italicum vuole tornare al proporzionale puro di lista e preferenza, con tutti i rischi di ingovernabilità?

Niente affatto. Si vuole soltanto ristabilire una condizione politica non viziata da meccanismi elettorali costituzionalmente illegittimi. Si potrà allora scegliere – con corretta partecipazione demcratica e piena rappresentanza politica – di quali riforme il paese ha bisogno, inclusa la scelta di una legge elettorale conforme a Costituzione.

22. È comunque eccessiva l’accusa di deriva autoritaria. Resta intatto il sistema di checks and balances.

Ma l’effetto sinergico della riduzione del numero dei senatori e il dominio sulla Camera assicurato dal premio rendono decisiva l’influenza della maggioranza di governo nell’elezione in seduta comune del capo dello Stato e dei membri del Csm, come anche per la Camera dei membri della Corte costituzionale o delle Autorità indipendenti.

23. Sono effetti bilanciati dal rafforzamento degli istituti di democrazia diretta, ad esempio per l’iniziativa legislativa popolare.

Falso. Le firme richieste per la presentazione di una proposta di legge sono triplicate, da 50 a 150 mila. Le garanzie sono rinviate al Regolamento, e la maggioranza parlamentare rimane libera di rigettare o modificare la proposta. In altri ordinamenti, la proposta può andare all’approvazione per via referendaria, quanto meno nel caso di modifica o rigetto del Parlamento.

24. Ma il referendum abrogativo si rafforza per l’abbassamento del quorum di validità, fissato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera.

Solo nel caso che sia stato richiesto con ben 800.000 firme, tetto quasi impossibile da raggiungere in un tempo in cui i corpi intermedi – partiti, sindacati – sono indeboliti o sostanzialmente dissolti. E non si capisce perché un referendum debba avere un quorum più alto se richiesto da 500.000 cittadini e più basso se richiesto da 800.000.

25. Si prevedono i referendum propositivi e di indirizzo.

È fumo negli occhi. I referendum propositivi e di indirizzo sono solo menzionati a futura memoria nella legge Renzi-Boschi, che ne rinvia la disciplina a una successiva legge costituzionale. Tutto rimane da fare. Cosa impediva di introdurre fin da ora una disciplina compiuta? Un chiaro intento di non provvedere.

26. Si correggono gli errori fatti nella revisione del Titolo V approvata nel 2001.

Non si correggono gli errori vecchi facendone di nuovi e sostituendo alla frammentazione un neo-centralismo statalista. Ad esempio, non è accettabile che il governo passi sulla testa delle popolazioni locali nella gestione del territorio sotto l’etichetta di opere di interesse nazionale o simili. La vicenda trivelle deve insegnarci qualcosa.

27. Si semplifica il rapporto tra Stato e Regioni, che ha dato luogo a un enorme contenzioso davanti alla Corte costituzionale.

Ma non mancano contraddizioni e ambiguità, che possono tradursi in nuovo contenzioso. La soppressione della potestà concorrente in chiave di semplificazione del rapporto Stato-Regioni è ad esempio pubblicità ingannevole, perché si crea una nuova categoria di “disposizioni generali e comuni” che è difficile distinguere dalle leggi cornice della attuale potestà concorrente. E c’è anche un richiamo a “disposizioni di principio”.

28. Si rafforza lo Stato riportando a esso potestà legislative importanti.

La legge Renzi-Boschi riduce sostanzialmente lo spazio costituzionalmente riconosciuto alle autonomie. Alcuni profili potrebbero essere – se isolatamente considerati – apprezzabili. Ma il neo-centralismo statale è negativo in un contesto di complessiva riduzione degli spazi di partecipazione democratica e di rappresentanza politica.

29. La de-costituzionalizzazione delle Province è un momento importante di semplificazione istituzionale.

Vale anche per le Province quanto detto per il neo-centralismo statale. Inoltre, sono un elemento marginale nell’impianto della legge Renzi-Boschi. Una parte persino non necessaria, come è provato dal fatto che la riforma delle Province è stata già da tempo avviata. Il punto dolente è il modo in cui si sta realizzando.

30. La soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) è positiva.

Vero, dal momento che il Cnel non esercita alcuna essenziale funzione politica o istituzionale. Ma la soppressione prende solo poche righe in una modifica della Costituzione per altro verso ampia e stravolgente. Bastava una leggina costituzionale mirata, che non avrebbe dato luogo a polemiche. La positività della soppressione non può certo bilanciare la valutazione negativa di tutto il resto.

(26 maggio 2016)

Referendum: Le 10 bugie dei sostenitori del “Sì” alla riforma Renzi-Boschi da: libertàegiustizia.it

Referendum: Le 10 bugie dei sostenitori del “Sì” alla riforma Renzi-Boschi

1. «Al referendum si vota per abolire il Senato».

Falso. Il Senato, seppur ridotto di poteri e per numero di senatori, continuerà a esistere, nello stesso Palazzo in cui si trova. Sembra ovvio, ma solo pochi giorni fa una tivù nazionale ha mostrato un cartello secondo il quale si sarebbe votato «per abolire il Senato». Lo stesso Renzi oggi a Firenze ha detto testualmente che «non esisteranno più i senatori», un’evidente falsità.

2. «Con la riforma si faranno le leggi più in fretta».

Falso. A parte le materie in cui il Senato mantiene funzione legislativa paritaria (“leggi bicamerali”), negli altri casi il Senato può proporre modifiche per una seconda lettura alla Camera e in molti casi la Camera, per approvare le leggi senza conformarsi al parere del Senato, deve poi riapprovarle a maggioranza assoluta dei suoi componenti (non basta quella dei presenti in aula). In tutto, sono una decina le diverse modalità possibili di approvazione di una legge. Il che porterà non solo a una serie di rimpalli, ma soprattutto a conflitti sulla tipologia a cui appartiene una proposta di legge, quindi sul suo iter.

3. «Il nuovo Senato abbatterà i costi della politica».

Parzialmente falso e di sicuro molto esagerato. I risparmi consistono nel fatto che i nuovi senatori (in quanto consiglieri regionali o sindaci) non saranno pagati per le loro funzioni senatoriali, ma avranno comunque le spese di trasferta a Roma dalle Regioni di provenienza e probabili forme di rimborso. Il personale di palazzo Madama che non resterà al Senato verrà trasferito. Si calcola ottimisticamente che il risparmio sulle spese oggi a carico di Palazzo Madama sarà di circa il 20 per cento rispetto alle spese attuali. Una riforma che avesse avuto come obiettivo il risparmio sui costi della politica avrebbe potuto dimezzare il numero complessivo dei parlamentari (315 deputati e 150 senatori, totale 450) ottenendo risparmi molto maggiori. Con questa riforma i parlamentari stipendiati restano infatti 630 (i deputati), più i rimborsi e le trasferte a Roma dei 100 senatori.

4. «Il nuovo Senato non sbilancia i contrappesi democratici».

Falso, se combinato con l’Italicum. La legge elettorale per la Camera (Italicum) assegna al partito vincente e al suo leader il controllo di 340 seggi. Data l’assenza di un’altra Camera con funzioni legislative altrettanto forti, ne consegue un accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo e del premier. Inoltre nelle elezioni in seduta comune con i senatori (ad esempio per la scelta del Presidente della Repubblica e dei membri non togati del Csm) questo meccanismo consegna al premier un potere molto maggiore. La possibilità che il Quirinale diventi un’espressione più diretta della sola maggioranza rende a sua volta maggiori i poteri del premier anche nell’elezione dei giudici della Consulta: la maggioranza di governo ne esprimerebbe direttamente 3 (tramite la Camera) e altri 5 attraverso il Presidente della Repubblica (se questi fosse espressione della sola maggioranza), più altri 2 se la maggioranza al Senato è la stessa che c’è alla Camera. Quindi su 15 giudici della Consulta un numero tra 8 e 10 (su 15) rischia di essere scelto direttamente o indirettamente dalla maggioranza di governo.

5. «Con il nuovo Senato ci sarà più stabilità».

Potenzialmente falso. La maggiore stabilità c’è se al ballottaggio per la Camera vince lo stesso partito che ha già la maggioranza al Senato, il che non è scontato. Ad esempio, se nascesse domani, il Senato previsto dalla riforma Boschi sarebbe a grande maggioranza Pd (in quanto eletto dai consigli regionali quasi tutti Pd) ma se poi al ballottaggio per la Camera vincesse il Centrodestra o il M5S si creerebbe una conflittualità perenne tra Camera e Senato.

6. «Il nuovo Senato ricalca il modello tedesco».
Falso. In Germania i membri del Bundesrat sono vincolati al mandato ricevuto dai governi dei Länder di provenienza. In altre parole, devono votare come deciso dai loro Länder e così ne rispecchiano la volontà, ne sono espressione diretta: in modo da costituire un contrappeso federale e locale al potere centrale. Secondo la riforma Boschi, invece, i senatori non hanno alcun vincolo di mandato rispetto alla regione di provenienza, quindi non ne esprimono le volontà: sono solo espressioni dello loro appartenenze politico-partitiche.

7. «Il nuovo Senato aumenta la rappresentanza locale quindi il federalismo»,
Falso. Al contrario, la riforma Boschi toglie alle regioni molti margini legislativi e ne riduce autonomia (salvo le Regioni a Statuto speciale). L’ambiguità del testo e il rimando a leggi ordinarie aumenterà inoltre il contenzioso tra Stato e Regioni.

8. «La Costituzione è uguale da 70 anni, basta!».

Falso. Dal 1948 a oggi la Costituzione è già stata modificata diverse volte anche su questioni importanti: dall’istituzione delle Regioni al pareggio di bilancio, dal Titolo V sulla struttura dello Stato fino all’abolizione completa della pena di morte. Si può discutere se una modifica è o è stata un miglioramento, ma è difficile sostenere che la Costituzione italiana sia inerte e uguale a se stessa da 70 anni.

9. «Se vincono i no Renzi si dimette e sarà il caos».

Falso e ricattatorio. Non è costituzionalmente un referendum su Renzi: nessuno lo obbliga a dimettersi se vincono i no. Quello che sta facendo il premier è quindi un ricatto politico che distorce il voto su una cosa più importante di qualsiasi premier “pro tempore”, cioé la Costituzione. I premier passano, la Costituzione li trascende. In ogni caso, anche se Renzi si dimettesse, il presidente Mattarella potrebbe dare un altro incarico per terminare la legislatura, che del resto ha già avuto un altro governo con la stessa maggioranza prima che ci fosse quello di Renzi.

10. «Questo referendum è la scelta tra l’Italia che dice sì al futuro e l’Italia che sa dire solo no»,
Falso. Questo referendum è solo la scelta tra chi ritiene che la riforma Boschi sia migliorativa della Carta attuale e chi ritiene che sia peggiorativa. La formuletta mediatica “Italia dei sì contro Italia dei no” è, di nuovo, svilente rispetto alla rilevanza della Costituzione, legge fondamentale del nostro vivere comune che non ha nulla a che fare con la narrazione renziana, con la presunta o reale modernità del premier. Allo stesso modo, questo referendum non ingabbia chi è contrario alla riforma Boschi tra quanti ritengono immodificabile e non migliorabile la Costituzione: semplicemente, chi vota no ritiene che queste modifiche non siano migliorative ma (nel loro complesso e fatto il bilancio) prevalentemente peggiorative.

 

giglioli.blogautore.espresso, 2 maggio 2016

Strategia del golpe globale da: www.resistenze.org

Manlio Dinucci | ilmanifesto.info

24/05/2016

Quale colIegamento c’è tra società geograficamente, storicamente e culturalmente distanti, dal Kosovo alla Libia e alla Siria, dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Ucraina al Brasile e al Venezuela? Quello di essere coinvolte nella strategia globale degli Stati uniti, esemplificata dalla «geografia» del Pentagono.

Il mondo intero viene diviso in «aree di responsabilità», ciascuna affidata a uno dei sei «comandi combattenti unificati» degli Stati uniti: il Comando Nord copre il Nordamerica, il Comando Sud il Sudamerica, il Comando Europeo la regione comprendente Europa e Russia, il Comando Africa il continente africano, il Comando Centrale Medioriente e Asia Centrale, il Comando Pacifico la regione Asia/Pacifico.

Ai 6 comandi geografici se ne aggiungono 3 operativi su scala globale: il Comando strategico (responsabile delle forze nucleari), il Comando per le operazioni speciali, il Comando per il trasporto. A capo del Comando Europeo c’è un generale o ammiraglio nominato dal presidente degli Stati uniti, che assume automaticamente la carica di Comandante supremo alleato in Europa.

La Nato è quindi inserita nella catena di comando del Pentagono, opera cioè fondamentalmente in funzione della strategia statunitense. Essa consiste nell’eliminare qualsiasi Stato o movimento politico/sociale minacci gli interessi politici, economici e militari degli Stati uniti che, pur essendo ancora la maggiore potenza mondiale, stanno perdendo terreno di fronte all’emergere di nuovi soggetti statuali e sociali.

Gli strumenti di tale strategia sono molteplici: dalla guerra aperta – vedi gli attacchi aeronavali e terrestri in Iugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia – alle operazioni coperte condotte sia in questi che in altri paesi, ultimamente in Siria e Ucraina. Per tali operazioni il Pentagono dispone delle forze speciali, circa 70000 specialisti che «ogni giorno operano in oltre 80 paesi su scala mondiale». Dispone inoltre di un esercito ombra di contractors (mercenari): in Afghanistan, documenta Foreign Policy, i mercenari del Pentagono sono circa 29.000, ossia tre per ogni soldato Usa; in Iraq circa 8.000, due per ogni soldato Usa.

Ai mercenari del Pentagono si aggiungono quelli della tentacolare Comunità di intelligence comprendente, oltre la Cia, altre 15 agenzie federali.

I mercenari sono doppiamente utili: possono assassinare e torturare, senza che ciò sia attribuito agli Usa, e quando sono uccisi i loro nomi non compaiono nella lista dei caduti. Inoltre il Pentagono e i servizi segreti dispongono dei gruppi che essi armano e addestrano, tipo quelli islamici usati per attaccare dall’interno la Libia e la Siria, e quelli neonazisti usati per il colpo di stato in Ucraina.

Altro strumento della stessa strategia sono quelle «organizzazioni non-governative» che, dotate di ingenti mezzi, vengono usate dalla Cia e dal Dipartimento di stato per azioni di destabilizzazione interna in nome della «difesa dei diritti dei cittadini».

Nello stesso quadro rientra l’azione del gruppo Bilderberg – che il magistrato Ferdinando Imposimato denuncia come «uno dei responsabili della strategia della tensione e delle stragi» in Italia – e quella della Open Society dell’«investitore e filantropo George Soros», artefice delle «rivoluzioni colorate».

Nel mirino della strategia golpista di Washington vi sono oggi il Brasile, per minare dall’interno i Brics, e il Venezuela per minare l’Alleanza Bolivariana per le Americhe. Per destabiizzare il Venezuela – indica il Comando Sud in un documento venuto alla luce – si deve provocare «uno scenario di tensione che permetta di combinare azioni di strada con l’impiego dosato della violenza armata».

Uscire dall’Euro? da: www.resistenze.org

Domenico Moro

22/05/2016

L’analisi di quanto accaduto a partire dall’introduzione dell’euro e soprattutto dallo scoppio della crisi nel 2007-2008 dimostra la necessità di mettere a tema la disgregazione dell’area euro. Su questo bisogna fare due precisazioni. La prima è che l’obiettivo primario deve essere la Uem (Unione economica e monetaria) e non la Ue nel suo complesso. Nonostante la Ue sia una istituzione tutt’altro che neutrale dal punto di vista di classe e funzionale alle istanze del capitale, è l’euro lo strumento attraverso cui passa la ristrutturazione capitalistica a livello continentale. Senza di esso il capitale perderebbe gran parte della sua capacità di imporre politiche antipopolari e alla Ue mancherebbe il braccio operativo. La seconda è che il nostro primo compito consiste nel chiarire la necessità della disgregazione dell’area euro. Il come questo debba avvenire è importante, ma è successivo. La disgregazione dall’euro può avvenire in modi diversi: per mutua decisione di tutti i Paesi partecipanti, oppure per decisione unilaterale di uno o di più Paesi. La mia opinione è che l’uscita dall’euro anche unilaterale di uno o più Paesi non debba più essere considerata un tabù, bensì come una opzione praticabile e soprattutto necessaria. Tuttavia, il quando e il come ciò possa avvenire non è indifferente, ed è legato alle condizioni del contesto generale e della lotta di classe, sebbene già oggi, come accennerò più avanti, sia necessario inserire l’uscita dall’euro in una elaborazione programmatica più complessiva. L’aspetto più importante, però, è che chi intende rappresentare il punto di vista dei lavoratori abbia, e presenti pubblicamente, una posizione chiara, la quale non può che essere la necessità del superamento dell’euro.

Graf. 1 – Pil pro capite a parità di potere d’acquisto di Germania, Francia, Italia e Spagna (2001-2014)

La necessità del superamento della Uem deve partire dai dati economici di fondo. Sulla base di questi dati la nostra prima osservazione è l’aumento del divario economico della Uem nei confronti del resto delle aree più avanzate, che pure hanno caratteristiche strutturali e livelli di sovraccumulazione di capitale simili. Ciò è accaduto soprattutto nel periodo successivo alla crisi, tra 2008 e 2014, durante il quale i divari con Ue e Usa aumentano e la maggiore crescita rispetto al Giappone si converte in minore crescita. La Uem presenta una crescita media annua del Pil del -0,1%, la Ue del+0,1%, gli Usa del +1,1% e il Giappone del +0,1%. Sempre in Europa, ma al di fuori della Uem, il Regno Unito, sebbene la crisi del 2008 sia stata molto forte, ha registrato una crescita del +0,6%, e la Svezia del +0,9% [1].

La seconda osservazione è che il divario interno tra i vari Paesi della Uem è aumentato. Tra 2001 (anno precedente all’introduzione dell’euro) e 2014 il Pil pro capite, a parità di potere d’acquisto, è drasticamente calato per la maggioranza dei Paesi europei, compresi Paesi “centrali” come i Paesi Bassi, la Finlandia e la Francia, ma è aumentato per la Germania e l’Austria. La Francia passa dal 115% del Pil medio della Ue nel 2001 al 107% nel 2014 e la Spagna dal 98% al 91%. A registrare il calo e la divergenza maggiore rispetto alla Germania è il nostro Paese che passa dal 119% nel 2001 al 96% del 2014, perdendo ben 23 punti, mentre la Germania sale dal 118% al 125%, guadagnando 7 punti[2] (Graf. 1).

Osservato l’aumento della divergenza della Uem con l’esterno e al suo interno, bisogna evidenziare le cause di tali divergenze, che sono connesse alle caratteristiche della partecipazione alla Uem.

Queste sono essenzialmente tre:

I vincoli al deficit e al debito pubblico, che sono ispirati alla riduzione degli stessi, fino a determinati limiti stabiliti dai trattati, e al pareggio di bilancio, che è stato introdotto nelle Costituzioni nazionali, come avvenuto in Italia con l’articolo 81. Le norme di controllo sul deficit e sul debito sono state inasprite nel 2011 con il cosiddetto Six pack e nel 2012 con il Fiscal compact, che non è stato sottoscritto da tre Paesi che non aderivano all’euro, Regno Unito, Croazia e Repubblica Ceca.

La fine della sovranità monetaria, in quanto il controllo della quantità di moneta e dei tassi di interesse è delegato ad un organismo sovrannazionale, la Bce.

L’esistenza di tassi di cambio fissi, determinati dall’esistenza di una moneta comune ai vari Paesi della Uem.

Spesso ci si è concentrati, giustamente, sui vincoli di bilancio. Del resto, i vincoli di bilancio rendono difficili se non impossibili le politiche anticicliche di contrasto alla crisi, basate sulla spesa pubblica, e sono utilizzati per imporre tagli alla spesa sociale e controriforme sul mercato del lavoro, pensioni, ecc. Ciò che invece è meno sottolineato è il ruolo dei tassi di cambio fissi e quello della cessione della sovranità monetaria nella gestione del debito pubblico e soprattutto nella decrescita economica. Senza dimenticare che per un Paese appartenente alla Uem risulterebbe praticamente impossibile non aderire a trattati come il Six pack e Fiscal compact, in quanto maggiormente integrato e privo di tassi di cambio flessibili e di sovranità monetaria.

I tassi di cambio fissi, come quelli che esistono di fatto tra i Paesi della Uem, impediscono di compensare con la variazione del cambio gli squilibri competitivi tra i vari Paesi. Ciò comporta tre conseguenze. La prima è il peggioramento delle condizioni di scambio tra Paesi della stessa area valutaria, che si traduce in un aumento del surplus commerciale di alcuni a fronte dell’aumento del deficit commerciale di altri. La seconda risiede nel fatto che l’aumento del debito commerciale peggiora la bilancia delle partite correnti, rendendo ancora più difficile sostenere il debito pubblico. La terza sta nel fatto che l’impossibilità di ricorrere a una riduzione dei prezzi internazionali spinge i Paesi meno competitivi a ridurre i salari, a chiudere imprese o a delocalizzare la produzione all’estero. In pratica, deprimendo ulteriormente Pil, la capacità d’acquisto delle famiglie e il mercato domestici, i singoli Paesi sono forzati ad adeguare la propria economia a criteri mercantilisti, privilegiando l’export di merci e di capitale, e a ristrutturare l’apparato produttivo, eliminando imprese e centralizzando proprietà e produzione. Tutto ciò incentiva i processi di fusione e acquisizione interni e internazionali, favorendo le multinazionali e le transnazionali. Ovviamente l’impatto di tutto questo su occupazione e gettito fiscale non può che essere negativo, pregiudicando ulteriormente la sostenibilità del debito e del welfare.

Ciò è esattamente quanto avvenuto nella Uem, dove a partire dal 1999-2002 assistiamo a una divaricazione tra la Germania, da una parte, e Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, dall’altra, favorita anche dall’aumento del flusso dei prestiti dal centro dell’Europa verso la sua periferia, dovuto ai bassi tassi d’interesse della prima fase dell’euro (Graf. 2).  In realtà, la crisi del debito pubblico europea del 2011 nasce dall’indebitamento estero, in particolare da quello commerciale. Il surplus commerciale della Germania è aumentato da 85,6 miliardi di dollari nel 2001 al picco di 287,6 miliardi nel 2014. Il deficit della Francia è passato da 5 miliardi di dollari nel 2001 a un picco di 123 miliardi nel 2011, mentre quello della Spagna è passato da 39 miliardi nel 2001 a un picco di 139 miliardi del 2008. L’Italia aveva invece un surplus di 8,3 miliardi nel 2001 ma arriva a un deficit di 39 miliardi nel 2010[3].

Graf. 2 – Andamento della bilancia commerciale di Germania, Francia, Italia e Spagna (1995-2015)

Negli ultimi quattro anni, l’Italia è ritornata a surplus commerciali consistenti, mentre la Spagna e soprattutto la Francia mostrano ancora forti deficit, anche se meno gravi. Il ritorno al surplus e la riduzione del deficit, però, non sono causati tanto da una ripresa economica o dall’aumento delle esportazioni quanto dalla drastica riduzione delle importazioni, dovuta al crollo dell’economia e della domanda interne e alla fine del credito facile alle famiglie. Ben Bernanke, ex capo della Fed, ha rintracciato nel surplus della Germania un grave fattore di destabilizzazione dell’economia mondiale[4], indicandone la causa nella sottovalutazione del cambio, che deriva dall’adesione all’euro e che, secondo il Fmi, nel 2014 era tra il 5 e il 15%[5]. Viceversa, il cambio di altri Paesi europei, tra cui l’Italia, risultava e risulta tutt’ora sopravvalutato. Le svalutazioni dell’euro, che tra 2014 e 2015 ha perso un ulteriore 20% rispetto al dollaro grazie al Qe di Draghi, favoriscono gli scambi tra la Uem e l’esterno, ma non servono a risolvere lo squilibrio all’interno della Uem, che poi è il vero problema per i Paesi europei. Infatti, nel 2015 il surplus della Germania nei confronti di Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo, dopo essere aumentato vertiginosamente a seguito dell’introduzione dell’euro ed essere calato nel momento più grave della crisi, è aumentato di nuovo, superando i 62 miliardi[6].

Anche il capoeconomista del Fondo monetario internazionale, Maurice Obstfeld, negli ultimi anni ha ribadito la validità del cosiddetto trilemma monetario, cioè l’incompatibilità di tassi di cambio fissi, perfetta mobilità dei flussi dei capitali e sovranità monetaria, indicando, però, che ciò che va evitato sono i tassi fissi. Obstfeld ha sostenuto che il primo elemento da perseguire, per garantire un sistema internazionale efficiente, sono proprio i tassi di cambio flessibili[7]. Infatti, in una economia mondiale come quella attuale, caratterizzata dall’esistenza di un mercato finanziario mondiale molto mobile, i tassi di cambio fissi implicano una rigidità sistemica che impedisce adattamenti rapidi e risposte adeguate ai flussi e deflussi dei capitali.

Anche la cessione della sovranità monetaria, l’altro pilastro della Uem, strettamente collegato all’esistenza dei tassi di cambio fissi, rende complicato l’adattamento alla realtà del mercato capitalistico attuale. Il fatto di delegare il controllo della valuta ad una autorità sovrannazionale e indipendente statutariamente, la Bce, implica l’impossibilità di procedere a manovre in grado di alleggerire sia il debito pubblico sia quello commerciale dei singoli Paesi della Uem. Il primo problema risiede nell’impossibilità della Bce ad assumere il ruolo di prestatore di ultima istanza, che rende per l’appunto complicato difendere le singole economie dagli attacchi speculativi. Alcuni hanno ritenuto e ritengono che, comunque, l’espansione monetaria possa essere effettuata con beneficio per l’economia anche dalla Bce. In realtà, i cosiddetti Qe decisi da Draghi,  dimostrano che tali espansioni monetarie hanno, al massimo, un effetto limitato nei rapporti tra la Uem nel suo complesso e l’esterno. Ma i Qe non sono in grado né di ridare fiato alla domanda interna né soprattutto hanno alcun effetto nella risoluzione degli squilibri interni alla Uem, che sono il vero problema. Al contrario, i Qe hanno favorito la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, avvantaggiando l’export della Germania verso gli Usa, e hanno ampliato i divari tra i rendimenti dei titoli di stato tedeschi e quelli italiani e degli altri Paesi. Soprattutto, i Qe hanno favorito soprattutto i mercati finanziari e non la ripresa della crescita e della produzione in Europa, specie in quella meridionale. Infatti, i Qe si sono tradotti in drenaggio di liquidità alle banche, sostenendone i profitti e provocando la bolla dei titoli di stato, e ora si sono tradotti in drenaggio di liquidità alle imprese multinazionali, anche americane, favorendo il carry trade, cioè l’attività di speculazione in cui ci si indebita a basso costo in euro per investire in valute, come il dollaro, che consentono rendimenti più alti[8].

Alcuni, curiosamente anche chi rigetta l’uscita dall’euro come neonazionalismo, ritengono che il problema principale dell’Europa sia la Germania, a causa della sua determinazione a perseguire politiche di austerity e della sua opposizione ai Qe. In realtà, il vero problema nasce dal fatto che l’ euro è il progetto non solo della Germania, e forse non tanto della Germania, quanto della frazione vincente del capitale europeo nel suo complesso, cioè quella più internazionalizzata. La questione centrale, dietro l’euro e le politiche europee di austerity, è il divorzio tra capitalismo e economia nazionale o, per essere più precisi, tra accumulazione capitalistica (profitto) e crescita economica (Pil). Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di un fenomeno che rappresenta il fondamento più importante dell’analisi marxista del capitalismo e della prospettiva socialista. Secondo Marx, ad un certo punto dell’accumulazione di capitale i rapporti di produzione capitalistici entrano in contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive. In parole povere, il capitalismo cessa di essere un fattore di crescita e diventa un fattore di decrescita. È quanto stiamo vivendo nella fase presente, caratterizzata dalla cosiddetta “stagnazione secolare”, a sua volta conseguenza dalla permanente tendenza alla caduta del saggio di profitto. Oggi, il capitale ha perduto interesse all’economia domestica e quindi alle politiche di stimolo keynesiane, che implicano l’indebitamento pubblico. Ciò che è importante è il mercato mondiale e quindi la capacità di realizzare economie di scala internazionali[9]. L’euro è funzionale a tutto questo perché a) elimina gli ostacoli all’export di capitale e di merci, b) favorisce la crescita di un mercato unico dei capitali europeo e c) determina la deflazione salariale e la riduzione del salario indiretto (welfare) e differito (pensioni). Gli obiettivi, fondanti per la Uem, di stabilità monetaria (la lotta all’inflazione) e di riduzione del debito pubblico sono condizioni necessarie a drenare il risparmio nazionale verso il mercato dei capitali e verso le imprese europee, favorendone i processi di centralizzazione proprietaria e produttiva e di internazionalizzazione.

Il problema per noi non è soltanto quello della redistribuzione della ricchezza, come poteva essere in fasi espansive dell’economia capitalistica, ma oggi è diventato anche quello della produzione della ricchezza, a causa della distruzione di forze produttive attraverso la ristrutturazione complessiva dei processi di accumulazione in corso in Europa. L’euro è lo strumento strategico per l’attuazione di tale ristrutturazione. Di conseguenza un nostro orientamento che si limiti a invocare politiche di taglio neokeynesiano o antiliberiste senza considerare il dissolvimento dell’euro è destinato a rimanere su un terreno perdente. Una delle argomentazioni contro l’uscita dall’euro è il pericolo di una esplosione dell’inflazione. Oggi, però, il problema non è quello dell’inflazione, ma quello della crescita. Infatti, l’Europa occidentale è, per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, in deflazione, e lo è soltanto perché non riesce ad uscire dalla recessione. La disgregazione e/o l’uscita dall’euro ovviamente non risolve da sola tutti il problemi del capitalismo, ma di certo consente di rimettere all’ordine del giorno, ponendola su basi reali, la questione centrale della crescita e, insieme ad essa, quella dell’occupazione. Per questa ragione è nostro compito inserire l’uscita dall’euro in una elaborazione programmatica più complessiva, che includa, ad esempio, l’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico nell’economia, specie sul piano degli investimenti fissi, l’introduzione di aspetti di programmazione economica, e l’annullamento della indipendenza della Banca centrale.

Lo scetticismo verso una fuoriuscita dall’euro spesso nasce dal timore di appiattirsi su posizioni di destra e xenofobe, e affonda le sue radici in un radicato spirito antinazionalista ed europeista che permea la sinistra e i comunisti italiani. Credo però che la questione vada dialetticamente rovesciata. È l’esistenza dell’euro e la natura – funzionale al capitale – di questa Europa che determina il ripresentarsi, a livello di massa, di nazionalismi e xenofobia. Infatti, è l’Uem che, determinando divergenze economiche fra i paesi e divergenze sociali all’interno dei singoli paesi, alimenta i nazionalismi e la xenofobia, che non attecchiscono tra la classe dominante, coerentemente europeista, ma in settori della società non solo piccolo borghesi ma anche operai e proletari. Ed è sempre la Uem a essere con i suoi meccanismi economici “oggettivi” il fattore determinante di compressione della democrazia, in modo molto più forte di qualsiasi riforma costituzionale e di qualsiasi riforma elettorale maggioritaria. Del resto, l’integrazione valutaria europea fu elaborata già negli anni ’50-’70 con l’obiettivo dichiarato di bypassare i parlamenti nazionali riguardo al bilancio pubblico[10]. Senza dimenticare che le divergenze tra Paesi e la decadenza dell’economia domestica rappresentano una spinta all’imperialismo e alla guerra, come nel caso della Francia[11]. Dunque, in una situazione così pericolosa sarebbe un grave errore lasciare che le forze di destra egemonizzino la critica alla Uem, soprattutto limitandosi ad assumere una posizione, a mio parere, debole e ambigua come la semplice disobbedienza ai trattati, che, se praticata coerentemente, porterebbe di necessità alla fuoriuscita dall’euro, senza però la chiarezza necessaria ad affrontare i compiti politici e le difficoltà concrete che ne deriverebbero.

Se non ci si vuole allineare alle posizioni nazionaliste e non si vuole neanche porsi da sinistra in coda al progetto europeista del capitale, c’è un unico modo: porre come obiettivo programmatico il recupero della sovranità popolare e democratica, il cui primo passo è l’uscita dall’euro. L’uscita dall’euro non è un tema di destra, è un nostro tema, un tema di sinistra e rappresenta  l’unica base reale su cui tentare di ricostruire in Italia un blocco sociale alternativo a quello ormai obsoleto di centro-sinistra e in Europa un nuovo e attuale internazionalismo.

Note:

[1] Medie elaborate su dati Unctad, Gross Domestic Product, growth rates, total and per capita 1970-2014.

[2] L’indice è calcolato su dati Eurostat, relativi al Pil pro capite a parità di potere d’acquisto, facendo 100 il Pil annuale della Ue.

[3] Data base Unctad, International Trade, Merchandise Trade balance, annual 1948-2015.

[4] Ben Bernanke, Germany trade surplus is a problem, April 3, 2015. (Pubblicato sul Blog di Bernanke).

[5] IMF, Germany – Country Report No 14/216, July 2014, p. 20.

[6] I dati sull’interscambio tra la Germania e il gruppo di Paesi europei citati sono ricavati dal data base del sito dell’istituto nazionale di statistica della Germania.

[7] Maurice Obstfeld, Exchange rates and financial globalization, IMF 15th annual research conference, 13-14 November 2014.  https://www.imf.org/external/np/res/seminars/2014/arc/pdf/Obstfeld.pdf

[8] Grazie a questo gioco tra euro e dollaro, diretto da Fed e Bce, le multinazionali Usa si indebitano in euro, mediante emissione di bond, e acquistano azioni proprie aumentano così l’utile per azione. I bond delle multinazionali europee e delle filiali europee della multinazionali con sede fuori dalla Ue verranno acquistati dalla Bce.

[9] Su queste tematiche inerenti alle trasformazioni di questa fase storica del modo di produzione capitalistico rimando al mio “Globalizzazione e decadenza industriale. L’Italia tra delocalizzazioni, crisi secolare e euro”, Imprimatur 2015.

[10] Su questi aspetti si veda il mio “Il Gruppo Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo”, Aliberti 2014. Qui sono riportati ampi estratti di documenti del Bilderberg e della Trilaterale sul progetto di integrazione economica e valutaria europea. Significativo è quanto riportato nella relazione riferita alla conferenza di Buxton (1958): “La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è difficile da raggiungere. I ministri della finanze sono di solito ragionevoli e potrebbero accettare occasionalmente pressioni esterne, ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Chi parla dubita che a lungo termine il problema potrebbe essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda a una valuta unica come a una soluzione definitiva.” L’appropriato meccanismo istituzionale si è evidentemente concretizzato nell’integrazione valutaria europea.

[11] La relazione tra austerity e meccanismi dell’euro, da una parte, e accentuazione della spinta verso l’imperialismo e la guerra, dall’altra, è approfondita nel mio recente  “La terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico”, Imprimatur 2016.

Cgil, altri due abbandoni nell’area “Il sindacato è un’altra cosa”: “Superata la nostra esperienza” Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

“Il sindacato è un’altra cosa”, l’area di opposizione nella Cgil, ancora interessata da sommovimenti e abbandoni. Dopo l’addio di Sergio Bellavita insieme a una lunga lista di delegati, ecco che va registrato l’abbandono di altri due esponenti di rilievo: Claudio Amato e Giuliana Righi. I due, in una lettera, annunciano di lasciare l’area ma di voler rimanere in Cgil. Una posizione che può essere considerata “nuova” perché fino a pochi giorni fa ci si è divisi tra chi usciva dalla Cgil e chi rimaneva.
“Abbiamo atteso qualche giorno prima di esprimere il nostro punto di vista in merito alle vicende che hanno riguardato da vicino la nostra esperienza collettiva di opposizione in Cgil”, scrivono Amato e Righi.
“Abbiamo condiviso con Giorgio Cremaschi e tanti altri compagni e compagne l’esperienza della Rete 28 Aprile e nell’ultimo congresso abbiamo sostenuto il documento alternativo “il sindacato è un’altra cosa. Il licenziamento di Sergio Bellavita – continuano – e la conseguente destituzione da portavoce nazionale dell’area, e la decretata “incompatibilità” tra l’appartenenza alla CGIL e la libera iniziativa sociale che ha cosi’ pesantemene colpito i delegati FCA in prima linea contro il modello Marchionne ci mettono davanti ad una condizione del tutto inedita”.
Righi e Amato pur sottolineando che la CGIL ha voluto sancire “il superamento della possibilità di organizzare e praticare in forma collettiva l’opposizione interna a favore di un pluralismo confinato alla mera discussione degli organismi dirigenti”, affermano di non avere intenzione “di smettere di lottare in CGIL contro l’attuale linea e gestione dell’organizzazione, ma allo stesso tempo non intendiamo sottostare alle nuove compatibilità imposte alle esperienze collettiive. Per questa ragione riteniamo superata l’area il sindacato è un’altra cosa”.

Fonte: help consumatoriAutore: redazione In Italia ci sono stati più di 50mila morti causati dall’inadeguatezza delle cure sanitarie. La protesta delle associazioni dei consumatori

Secondo i dati Eurtostat, relativi al 2013, in Italia 52.098 persone sotto i 75 anni sono morte per non avere avuto cure sanitarie adeguate: un 33% di popolazione che si sarebbe potuta salvare grazie alle conoscenze e alle tecnologie mediche oggi a disposizione. Questi numeri, per quanto preoccupanti, non sembrano aver destato più di tanta preoccupazione nel Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, che ha commentato l’insuccesso citando il caso della Svezia, paese con un’incidenza di morti evitabili superiore a quella italiana. “Magra consolazione, considerato che in Svezia, quinto paese europeo per estensione, più grande dell’Italia del 50%, con i suoi 10 milioni di abitanti, un sesto dei nostri, è difficile soccorre un infartuato in mezzo alla foreste o alla tundra” ha dichiarato Massimiliano Dona, segretario di Unione Nazionale Consumatori.
L’Italia è all’undicesimo posto sui 28 paesi Ue ma il fatto che si riesca a superare, peraltro di poco, la media Ue, pari al 33,7%, dipende esclusivamente dal fatto che quest’ultima peggiora per colpa di paesi come la Romania che raggiunge quasi il 50% (49,4%) o la Lettonia (48,5%), la Lituania (45,4%), la Slovacchia (44,6%), l’Estonia (42,5%), la Bulgaria (42,4%). Osservando la parte alta della classifica, si scopre però che“tutti i paesi confrontabili con il nostro, invece, stanno decisamente meglio: Francia (23,8%), Danimarca (27,1%), Belgio (27,5%), Olanda (29,1%), Spagna (31,3%), Germania (31,4%), Polonia (31,4%), Portogallo (32%), Austria (32,4%), Finlandia (32,6%)”, ha proseguito Dona.Secondo l’Unione Nazionale Consumatori il dato delle morti evitabili è direttamente collegato con un altro dato Eurostat, ossia quanto si spende in spesa sanitaria rispetto al Pil. Nel 2013, secondo Eurostat, in Italia si è speso il 7,2% del Pil, pari alla media Ue, ma sotto l’Eurozona (7,3%). Al vertice della classifica, guarda caso, gli stessi paesi che hanno meno morti evitabili: Danimarca (8,7%), Finlandia (8,3%), Francia (8,2%), Belgio e Olanda (entrambi all’8,1%), Austria (7,9%). Se a questo aggiungiamo che la spesa sanitaria su Pil cala al 6,87% nel 2015 e che nel Def di aprile si prevede un’ulteriore e costante discesa (6,78% nel 2016, 6,69% nel 2017, 6,58% nel 2017, 6,52% nel 2019), ecco che il quadro sconsolante è completo.
“Pensiamo che sulla salute non si possa fare cassa, riducendo le prestazioni sanitarie. Ecco perché chiediamo che sia ripristinata la Guardia medica da mezzanotte alle 8 e che la determina dell’Agenzia Italiana del Farmaco sui farmaci con profilo rischio-beneficio sovrapponibile, farmaci che non sono affatto equivalenti, non sia solo sospesa per 90 giorni ma definitivamente ritirata”, ha concluso Dona.