I congressi dell’ANPI: una biografia del Paese Valerio Strinati
Il primo (1947) e l’avvio della guerra fredda. L’abbandono di Parri nel 1949 e la vocazione unitaria del 1956. Torino (1959) e la nascita del Consiglio federativo della Resistenza. La lotta unitaria contro Tambroni e i tentativi autoritari. 1976 e 1981: la lotta al terrorismo e in difesa della Carta. La P2 e il contrasto al revisionismo. L’appello alla partecipazione del 2001 (Napoli) e l’impegno del 2006 contro la riforma proposta dal centrodestra. Il 15° congresso e l’ANPI “casa di tutti gli antifascisti”
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TERZA PAGINA ELZEVIRO – “Paisà” e “Sciuscià”: i ragazzi del 1946. E quelli del 2016 Irene Barichello
Nelle sale cinematografiche del 1946, dopo cinque anni di guerra, gli italiani cercavano distrazione e oblio. Il neorealismo di Rossellini e De Sica invece scava tra le macerie alla ricerca di ricostruzione e democrazia ma anche di responsabilità e presa di coscienza, di fronte all’infanzia soprattutto: sfregiata e abbandonata da una società dove si salva chi può. Settant’anni fa come oggi
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CRONACHE ANTIFASCISTE – La Costituzione a Torino. In arabo Redazionale
Consegnata alla comunità islamica durante la Festa della Cittadinanza. L’iniziativa promossa dal Presidente della sezione ANPI “Nicola Grosa” Raffaele Scassellati in collaborazione con il Presidente, consigliere Nino Boeti del Comitato “Resistenza e Costituzione” della Regione Piemonte
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Chissà cosa direbbero Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutte le altre vittime della mafia davanti ai recenti fatti di corruzione, malaffare e connivenze che si continuano a manifestare nel nostro paese, coinvolgendo anche il vasto e variegato mondo dell’antimafia…
Tacerebbero?
Da 24 anni la nostra associazione organizza un momento di commemorazione davanti al Tribunale della nostra città, per ricordare queste persone che, con la propria vita, hanno testimoniato la lotta alla mafia, al malaffare, e difeso per il bene di tutti valori imprescindibili come la civile convivenza, l’onestà e il rispetto delle regole. E negli ultimi anni lo ha fatto con l’ausilio di parole, immagini e suoni.
Ma dinanzi all’affarismo di “certa” antimafia, dinanzi ad istituzioni coinvolte da scandali quotidiani, dinanzi alla realtà di associazioni nate per sostenere la cultura della legalità che sgomitano per accaparrarsi contributi ed elargizioni pubbliche …
Dinanzi a tutto questo la parola ci muore sulle labbra! Non abbiamo più la forza di parlare!
Per il 24° anniversario sarà soltanto la musica a dire la sua. Eseguita da giovani che ancora osano sperare!
Non diremo nulla. Vogliamo solo che urli il nostro silenzio, la nostra rabbia, il nostro dolore!
Ci vedremo Lunedì 23 maggio alle ore 20.00 davanti alla scalinata del Palazzo di Giustizia in Piazza Verga. Senza banchetti, vendite, raccolte fondi, sarà curato dai gruppi musicali della Parrocchia Santi Pietro e Paolo e della giovane band catanese The Acoustic Sunlight, il gruppo Giovani di CittàInsieme e gli Scout di Catania AGESCI Zona Etnea Liotru. Prima dell’inizio, alle ore 18.30 partirà da Piazza Roma un corteo organizzato dai giovani Scout, con arrivo in Piazza Verga.
A loro, ai giovani che osano ancora sperare, auguriamo di sapere testimoniare ogni giorno quei valori che molte vittime prima di loro hanno cercato di mantenere vivi fino alla morte.
Da Bologna parte una raccolta firme per il Sì, ma Carlo Smuraglia, capo dell’associazione partigiani, non dà spazio a voci discordi. “Il nostro congresso si è chiuso con un voto inequivocabile, su 300 nessuno a favore della riforma voluta da Renzi”. E ancora: “Questo misto di revisione del Senato e nuova legge elettorale penalizza la rappresentanza dei cittadini. E il vecchio articolo 70 era di una riga, il nuovo è di tre pagine”
di MATTEO PUCCIARELLI
19 maggio 2016
MILANO – “La stragrande maggioranza dei partigiani che conosco mi dice ‘Matteo vai avanti'”, assicura il premier Matteo Renzi. Ma il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, scuote la testa: “Abbiamo appena fatto un congresso che ha coinvolto tutti i 124mila iscritti della nostra associazione: la linea è chiara ed è per il no alla riforma”.
Ma non ci sono delle divergenze al vostro interno?
“Guardi, quello che conta è la sostanza di un congresso che c’è stato da poco e che ha tirato le somme di una lunga discussione. Si è concluso con una votazione inequivocabile: 300 voti a favore e tre astensioni. Nessuno del comitato nazionale, quindi, si è espresso per il sì”.
Però qua e là si legge di iscritti all’Anpi che comunque sostengono la riforma.
“Che ci sia chi la pensi diversamente è normale in una organizzazione che ha 124mila iscritti, ci mancherebbe. Ma la democrazia noi la applichiamo con dei processi, appunto, democratici. Dove ci si confronta, si discute, e infine si vota”.
Staino sull’Unità ha fatto una vignetta in cui dice che per non riformare la Costituzione l’Anpi riforma la libertà.
“Non l’ho vista, ma non capisco in che senso si possa parlare di mancanza di libertà, ripeto: c’è stato un congresso. Dopo il quale non mi sembra giusto che si facciano atti contrari all’unità dell’associazione”.
Quando il ministro Boschi dice che chi è per il no la vede come i fascisti di CasaPound, lei cosa pensa?
“Una frase del genere non la prendo nemmeno in considerazione, vorrei che si parlasse di politica senza queste frasi ad effetto. Bisognerebbe confrontare le idee, sarebbe tutto più semplice, non occorre ricorrere a queste boutade che possono anche essere ritenute offensive”.
Lei si è sentito offeso?
“No, non mi sento neanche offeso, la considero una cosa fuori dal mondo e basta. Conta la libera informazione del cittadino, lasciamolo libero di documentarsi. Vorrei discutere civilmente, ecco”.
L’Anpi è per il no, perché?
“Noi da due anni, da una manifestazione che facemmo il 31 marzo 2014, diciamo che questo misto di riforma del Senato e la nuova legge elettorale finisce per diminuire la rappresentanza dei cittadini e così la partecipazione e la sovranità popolare. Non potrà funzionare il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione. Senza contraltari si concentra il potere in una sola Camera. Se poi come avviene ci sono problemi sul procedimento legislativo, dipende dal sistema politico, non dalla Costituzione. Il vecchio articolo 70 era di una riga: il nuovo è di tre pagine. Per dire che peggiorerà ulteriormente la situazione”.
La Costituzione è intoccabile?
“No, non si tratta di conservazione. Anzi. Ma i principi fondamentali vogliamo preservarli”.
Il premier sta personalizzando lo scontro?
“C’è stato un primo momento in cui è stato così, ma per l’Anpi il punto non è questo. Si tratta di impedire uno stravolgimento e basta, a noi non interessano le sorti del governo, che dipendono dal Parlamento”.
Per la sinistra questa rottura tra gli eredi del Pci e l’Anpi è qualcosa di storico, o no?
“L’Anpi ha sempre cercato di avere una sua autonomia, da sempre sostengo che non bisogna avere governi amici o nemici. Vogliamo essere liberi e indipendenti”.
Quindi lei non si sente né professorone né
gufo…
(sorride) “Ho fatto il professore per anni all’università con piacere, ma mai nessuno mi ha chiamato in quel modo. Non è il nostro mestiere fare i gufi, anzi chi guarda al futuro siamo proprio noi partigiani, forti dei nostri valori”.
La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta. Odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile. Tra digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo. Storia di un uomo che con le sue battaglie ha cambiato l’Italia più di tanti partiti
di Marco Damilano
19 maggio 2016
«Un gigionesco mattatore capace di rubare il posto a un morto nella bara pur di mettersi al centro del funerale», scriveva Indro Montanelli di Marco Pannella negli anni Settanta, in un ritratto pur affettuoso: «È figlio nostro, un figlio discolo e protervo, un gianburrasca devastatore, un brancaleone, uno sparafucile, un saccheggiatore di pollai». Ma sempre figlio nostro: di un’Italia laica, liberale, anarchica. Ora che non c’è più, in molti spereranno di vederlo prendere la parola al suo funerale, per non abbandonarla. Alzandosi in piedi, come aveva fatto una volta citando il Calvero di Chaplin in “Luci della ribalta”, Marco Pannella dirà: «Non vi preoccupate, sono già morto tante volte».
La morte, la vita, la fame, la sete, i liquidi, la pipì. Il corpo come arma di lotta politica: il corpo delle donne, la libertà dell’utero contro il potere delle mammane, il corpo costretto in cella dei detenuti, il corpo prigioniero della malattia come quello di Luca Coscioni, ma anche il corpo di Ilona Staller nell’aula della Camera, con il seno nudo in piazza Montecitorio, a scandalizzare i benpensanti. E, più di tutto, il corpo del Marco, offerto a riscatto dei non rappresentati, quasi cristologico ma più di ogni cosa pannellacentrico, brandito come un oggetto contundente, gettato nella mischia, slentato, deformato. Carne, sangue, guance infossate, labbra screpolate, occhi vitrei. E la voce che non si fermava mai.
Il primo digiuno pannelliano risale al 10 novembre 1969, un mese prima della strage di piazza Fontana, serve ad accelerare il voto della Camera sulla legge Fortuna-Baslini sul divorzio, sarà approvata diciotto giorni dopo. Il secondo, nel 1972, è per l’approvazione della legge sull’obiezione di coscienza. Il più drammatico (e tra i più lunghi: durerà 78 giorni) è quello che comincia il 3 maggio 1974, nove giorni prima del referendum sul divorzio. La sala Cavour dell’hotel Minerva è «la sala del digiuno», la chiama Camilla Cederna, nella stanza 167, costo seimila lire al giorno, Pannella è steso su un lettino, i medici diffondono comunicati: all’inizio il digiunante pesa novantanove chili e trecento grammi, alla fine scenderà a settantadue chili, le pulsazioni del cuore passano da ottantaquattro a quaranta, l’alimentazione è garantita da quattro tazze di latte macchiato, due cucchiaini di zucchero, sette litri di acqua. Interviene Pier Paolo Pasolini sul “Corriere”: «Marco Pannella è giunto allo stremo.
La volgarità del realismo politico sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo. Il mondo del potere ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita, un assassinio». Pannella digiuna per un quarto d’ora di televisione della Lid, la lega italiana divorzista, e un quarto d’ora per l’abate Franzoni, capofila dei cattolici del dissenso. Il 19 luglio il leader dei radicali appare sul piccolo schermo, la Rai democristiana vacilla, poi ecumenicamente apre le porte.
E per la prima volta le due dimensioni del pannellismo si toccano: digiuno e televisione, scandalo e politica-spettacolo, coraggio e narcisismo, il brivido del funambolo che cammina sul filo. «Può darsi che si esibisca, ma senza rete di protezione», scrive Enzo Biagi. Pannella vestito da Babbo Natale. Pannella che distribuisce a ferragosto le banconote del finanziamento pubblico.
Pannella che fuma gli spinelli e brinda con la sua pipì e la beve davanti alle telecamere. Pannella sotto il lenzuolo che fa il fantasma. Pannella con il numero degli iscritti al partito radicale dipinti sulla fronte. Torrenziale, logorroico, irrefrenabile nei suoi fili diretti con gli ascoltatori nella notti di “Teleroma 56” e di Radioradicale, affiancato da Massimo Bordin. Ma l’intervento più riuscito resta quello di giovedì 18 maggio 1978, alla tribuna autogestita sul referendum, in prima serata su Raiuno. Via la sigletta, appaiono seduti uno accanto all’altro Pannella e Mauro Mellini. Imbavagliati, con lo sguardo fisso e un cartello al collo, identici alle foto polaroid di Aldo Moro nel covo delle Br che hanno appena sconvolto gli italiani. Silenzio assoluto, cambiano i cartelli («Cittadini, difendete subito i vostri diritti!»), cambiano i compagni di Pannella (entrano Gianfranco Spadaccia e Emma Bonino), per ventiquattro interminabili minuti.
Il più fragoroso silenzio della storia della tv italiana. Pannella odiato, negli anni Settanta, dalla destra, dai moderati, dai democristiani, dalla sinistra comunista. La sera della vittoria più bella, il referendum sul divorzio del 12 maggio 1974, i radicali festeggiano in piazza Navona. Si affacciano Maurizio Ferrara (il papà di Giuliano) e Paolo Bufalini, comunisti togliattiani e romani veraci. E Ferrara riassume pesantemente lo spettacolo in un sonetto: «’na manica de gente assai lasciva/finocchi e vacche ignude alla Godiva./Ar vedelli smanià come bonzi/sor Paolo ciancicò: “Bell’allegria,/ce tocca vince pure pe’ sti stronzi”». Quando due anni dopo Pannella si avvicina al portone di Botteghe Oscure il compagno di vigilanza lo abbatte con un pugno.
E Ferrara racconta la scena: «’Sto marpione fa l’offeso, me punta, fa ‘no strillo/ e m’è toccato a daje ‘no sgrugnone». A ripensarci i radicali nudi sul palcoscenico, l’onorevole Cicciolina e le parolacce lanciate al telefono nel microfono aperto di Radio radicale già a metà degli anni Ottanta, antenato della volgarità on line e degli insulti contro gli avversari sulla Rete, la campagna per le astensioni e le schede bianche e nulle nel 1983 e le grida contro «il Parlamento-squillo» che accompagnano l’ingresso in aula del deputato Toni Negri (che poi scapperà), si capisce adesso quel che allora sfuggiva a tutti, tranne che a Pannella. Che la politica italiana era entrata in crisi, già negli anni Settanta, che le forme tradizionali della politica non rappresentavano più la società, in crescita vertiginosa, civile e economica, ma anche disorientata e confusa. Di questa trasformazione epocale Pannella è stato l’interprete più geniale.
Ha anticipato tutto: la politica-spettacolo, la trasversalità, la personalizzazione (nel 1992 fu il primo a candidare in Italia una lista con il suo nome: lista Pannella). La disaffezione: nel 1983 fece una doppia campagna elettorale, per il suo partito e per le schede bianche-nulle e astensioni. E la partecipazione, con i referendum, in fondo la sua invenzione che resterà. La bio-politica: l’onda lunga che è arrivata fino ad oggi, alle unioni civili, alla paternità di Nichi Vendola.
Politico di professione, come forse nessuno, totus politicus, avvezzo a tutte le manovre e le furbizie, fin dagli anni dell’Unuri, del partito liberale, del “Mondo”, del partito radicale nato nel 1955, della tribù di Torre Argentina, unita nel segno di Marco e divisa nella diaspora a destra e a sinistra, da Francesco Rutelli a Daniele Capezzone, da Benedetto Della Vedova a Peppino Calderisi, Marco Taradash, Roberto Giachetti e, più di tutti, Emma Bonino.
Difensore delle istituzioni repubblicane, dunque, ma anche profeta dell’antipolitica, modernamente intesa, anticipatore di processi di distruzione, spericolatamente a cavallo tra la ridicolizzazione dell’esistente, il libertinismo politico, il buffone che dichiara la nudità del Re e del potere. «Sì, sono un guitto», diceva di sé ben prima che Beppe Grillo immaginasse di fare un giorno politica. E Federico Fellini, in “Ginger e Fred” (1986), piazza il politico digiunante e lamentoso nel caravanserraglio dell’anticamera di un talk show, insieme a Moana Pozzi, immagine profetica della politica attuale. La battaglia più importante resta quella sui diritti civili, la più generosa quella sulla fame nel mondo che gli valse l’apprezzamento di papa Wojtyla, la più bella quella su Enzo Tortora e la giustizia giusta. Quando insieme salirono sul palco di piazza Navona, una sera, indimenticabile il viso scavato del giornalista ingiustamente processato, la sua dignità, Pannella che si regge i pantaloni mentre la sua passione oratoria travolge e commuove la folla.
Gli ultimi anni ci consegnano l’immagine di un Marco in lotta contro la pena di morte, con il Dalai Lama, per i Montagnards vietnamiti, forse contro se stesso. Tollerato nel Palazzo, considerato un monumento nazionale, un padre della patria, ciclicamente candidato allo scranno di senatore a vita, di casa al Quirinale, da Sandro Pertini a Giorgio Napolitano, fino a Sergio Mattarella che un anno fa lo ha ricevuto per primo dopo l’elezione al Colle (e ne venne fuori un video strepitoso), dopo aver contribuito a sloggiare un altro inquilino, Giovanni Leone. Tutti gli altri leader si sono prima o poi impannellati, come ha scritto Filippo Ceccarelli.
E nelle ultime settimane tutti si sono fatti vedere nella sua mansarda vicino alla Fontana di Trevi, fotografati accanto al leader, ripresi al citofono del portone, fino al giorno del suo ottantaseiesismo compleanno, il 2 maggio. Una lunga cerimonia degli addii, con Matteo Renzi e Silvio Berlusconi che nel 2013, appena condannato dalla Cassazione, si mise seduto al banchetto dei radicali in piazza di Torre Argentina per firmare i nuovi referendum, gli ennesimi quesiti. Quella mattina di fine estate Marco si allontanò sotto il sole ancora estivo con la busta di plastica della spesa, il sigaro tra le dita, i piedi scalzi alle scarpe, la buffa cravatta sul maglione blu, il codino da capo indiano.
Così lo abbiamo incontrato ancora fino a pochi mesi fa, sotto la sede del Partito radicale in via di Torre Argentina, la sua vera casa. Era ormai trasfigurato, fino ad assomigliare al Pannella più puro, il laico e il cristiano, l’uomo delle verità impazzite, come può essere pazza e dolce e tagliente la verità. Il Pannella che nel 1973 di sé aveva scritto ad Andrea Valcarenghi nel testo che Pasolini considerò «il manifesto del radicalismo moderno»: «Io amo gli obiettori, i fuorilegge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i non violenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche: ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici. Non credo al potere e ripudio perfino la fantasia se minaccia di occuparlo. Sogno una società senza violenza e aggressività. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie…».
Pannella non c’è più. Resteranno il fumo, le parole, i silenzi. E chissà poi se è morto per davvero.
Il tentato omicidio del presidente del Parco regionale dei Nebrodi non è un fatto isolato, anche se finora in nessun parco naturale si era giunti a tanto. Quest’inverno una testa di capretto mozzata è stata appoggiata sul cofano dell’auto del presidente del Parco d’Aspromonte, che aveva già subito negli anni scorsi diverse minacce (con relativi proiettili in buste consegnate dal postino). Ed in passato anche i presidenti del Parco del Pollino, del Salento e del Vesuvio, che faceva abbattere le case abusive, avevano subito minacce. Ma, l’assalto più pesante, anche se poco conosciuto, è quello che le aree protette subiscono in tutto il mondo a causa di questo modello di sviluppo.
Secondo la Iucn, l’International Union for the Conservation Nature, la superficie delle aree protette nel mondo è pari oggi a circa il 13 per cento delle terre emerse. Ne fanno parte tanto le riserve naturali a conservazione integrale, quanto i parchi naturali, che si distinguono in nazionali e regionali ed hanno un livello di protezione ambientale articolato in base al grado di antropizzazione dell’area. In Italia l’estensione delle aree protette è cresciuta esponenzialmente pochi anni dopo che è stata varata la legge 394/91, fortemente voluta dai Verdi e dal primo ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo.
Si è passati così da 5 parchi naturali nazionali esistenti al 1991 ai 23 di oggi, più un centinaio di parchi naturali regionali e riserve di natura integrali. Purtroppo, a questa crescita quantitativa si è accompagnata, in tutto il pianeta, una perdita di qualità e valore d’uso dei parchi naturali, soggetti agli attacchi di interessi economici grandi e piccoli, a quella «guerra al vivente» ben descritta e documentata da Jean Paul Berlan (Bollati-Boringhieri, 2001).
Dall’Alaska alla Colombia, dall’Equador alla Nigeria, dall’Australia ai grandi laghi della Federazione Russa, la guerra economica ai parchi naturali viene condotta in nome del progresso e dello sviluppo. Le leggi nazionali vengono fatte a pezzi, gli Stati concedono deroghe e contraddicono se stessi, premettendo alle imprese multinazionali di sfruttare risorse naturali, far passare oleodotti, scavare nuove miniere, sfruttare le rocce bituminose ( shale gas), come nei parchi delle Rocky Mountains. Un caso emblematico, che è stato raccontato su questo giornale da Giuseppe Di Marzo e dalla indimenticabile Giuseppina Ciuffreda, è quello degli indios U’wa nel Nord della Colombia.
La multinazionale nordamericana Oxy aveva ottenuto dal governo colombiano la possibilità di sfruttare il petrolio presente nelle montagne dove vivono da sempre gli U’wa. Era sempre andata bene alla Oxy (Occidental) come alle altre multinazionali presenti nel paese dei narcotraficantes. Bastava pagare qualche tangente, al governo e/o alla guerriglia o, più spesso, a tutti e due, e le cose si mettevano a posto. Non avevano considerato che in quelle montagne viveva un popolo che aveva ancora una cultura, un’identità e un credo. Non sapevano che per gli U’wa «il petrolio è il sangue della terra , le sue vene, che gli danno la vita» . Se togli il petrolio a quelle montagne è come se togliessi il sangue ad un uomo. Non pensavano che un piccolo popolo potesse arrivare a far causa ad una potente impresa multinazionale, che arrivasse a vincere la causa di fronte ad un tribunale degli Stati Uniti. E’ una storia che ha un grande significato: quando un luogo ha una forte valenza simbolica per un popolo non è in vendita, non c’è denaro, né tangenti che possano renderlo merce. Come ci ha mostrato Karl Polanyi in «La sussistenza dell’uomo», la conquista economica di un territorio è preceduta dalla sua disintegrazione culturale.
Da una parte, il mito del Progresso e dello Sviluppo, che sottende i grandi interessi economici, dall’altra popolazione locali ed associazioni ambientaliste con pochi mezzi, che lottano per la sopravvivenza di siti naturali, di parchi e riserve di biosfera. E’ una lotta che nell’era del neoliberismo trionfante diventa sempre più dura, anche nel nostro paese.
E’ da quando Altiero Matteoli è diventato ministro dell’Ambiente nel 2001 che è iniziato in Italia un lento ed inesorabile piano di emarginazione, sterilizzazione delle velleità di autonomia e tutela ambientale dei Parchi nazionali e regionali.
Dopo la fortunata parentesi di Edo Ronchi, il ministero dell’Ambiente è stato gestito, non solo dal centro destra, sempre più come stampella per i disegni di grandi investimenti e grandi opere nel nostro paese: dalla Tav al Ponte sullo Stretto, la V.i.a. (Valutazione di impatto ambientale) del Ministero dell’Ambiente è stata sempre positiva. Da Portofino, dove il parco regionale è stato fortemente ridimensionato, al Parco regionale di Bracciano oggetto di un grande progetto speculativo, al terzo traforo del Gran Sasso, nel cuore del Parco nazionale, che mette a repentaglio le risorse idriche di 800mila abitanti, all’aeroporto di Malpensa che impatto fortemente sul prezioso Parco del Ticino, polmone verde della metropoli, fino all’abuso di parchi eolici ed elettrodotti che attraversano parchi ed aree protette.
E questi sono alcuni casi fra i tanti, parte di un attacco quotidiano all’ambiente ed agli ecosistemi in cui ‘ndrangheta, camorra e mafia possono all’occasione costituire il braccio armato di interessi locali e/o internazionali, ma i mandanti sono altrove.
Concluso il 16° Congresso Nazionale dell’ANPI a Rimini, vogliamo pubblicare uno degli interventi di apertura più forti e provocatori, ma – riteniamo – necessari. Una grave colpa della società tutta è quella di aver trascurato e trascurare ancora l’attenzione a quei meccanismi che portano molti, troppi ragazzi a buttarsi in un’ideologia aberrante addirittura con fervore. I più confondono l’odiosa violenza con il diritto di opinione, la totale mancanza di memoria e cultura con un aleatorio “spirito dei tempi”, le istituzioni sembrano non capire e trascurare (talvolta volutamente) ciò che ormai in tutte le nostre città è all’ordine del giorno. Vi invitiamo quindi a leggere ma soprattutto a far leggere questa sorta lettera aperta di Raffaele Mantegazza, professore di pedagogia interculturale all’Università di Milano-Bicocca, da anni impegnato nello studio dei processi educativi con particolare attenzione alle tematiche della memoria, della Shoah e della Resistenza.
Caro ragazzo o cara ragazza neofascista o neonazista,
forse ti stupirà ricevere una lettera proprio da noi e proprio da questo Congresso ANPI. Forse stai guardando a noi, dall’esterno di questo Palacongressi, non tanto come nemici (i tuoi nemici sono i musulmani, gli omosessuali, le donne, i poveri, i deboli sui quali puoi mostrare la tua miserabile forza) ma come reduci, innocui vecchietti che ricordano la storia. E anche se non è così, è vero che parte della stampa e qualche intellettuale ha avuto spesso la spudoratezza di presentarci così; l’ANPI è una associazione giovane, ma fa paura dirlo.
Caro ragazzo o cara ragazza neofascista o neonazista,
mi piace immaginarti molto giovane. Solo immaginandoti ragazzo posso pensare di avere un dialogo con te; non posso e non voglio avere un dialogo con il neofascista o neonazista adulto perché per me quella persona non è un interlocutore ma è il Nemico, perché il nazismo e il fascismo non sono opinioni ma violenta negazione di tutte le opinioni, negazione della stessa specie umana.
Ma tu sei ancora un ragazzo, sei vergine di quella splendida verginità fisica e intellettuale che hanno i ragazzi. E proprio per questo sei terra di conquista, La domanda è: come mai ti stanno conquistando gli altri? Come ti conquistano?
Caro ragazzo o cara ragazza neofascista o neonazista,
i neonazisti e neofascisti “grandi” sono scaltri, ti conquistano partendo da te, dai tuoi gusti e dalla tue sensibilità, dalle tue speranze e dalle tue paure, dai tuoi desideri e dalle tue gioie; ti conquistano con una operazione pedagogica ed educativa, di grande efficacia.
Non ti vengono a dire “vieni con noi ad adorare Hitler”; ma ti conquistano con i linguaggi del fumetto e della musica, quei linguaggi che tu ami e conosci; lentamente insinuano dentro i tuoi gusto qualche elemento fascista e nazista, quasi nascosto tra le note di una canzone rock: ti conquistano lavorando sul tuo corpo, con le divise e il loro fascino, con le armi e la loro forza di attrazione, con lo sport e le risse in curva tra Ultras, con il ballo violento e sfrenato (come il “Wall of death” nel quale il senso del “ballo” è scagliarsi gli uni contro gli altri in una specie di violentissima orda agli ordini di un cantante rasato e coperto di svastiche).
Ti conquistano usando il tuo bisogno di amicizia, il tuo bisogno di stare in un gruppo; gruppo che poi ti abbandonerà quando (e se) sarai arrestato per qualche atto violento ma che adesso ti illude di essere sempre al tuo fianco e alle tue spalle; un gruppo che ha il compito di farti sentire che sei il migliore e che sei incompreso, che sei puro e ariano, che tutti gli altri ti sottovalutano e ti odiano; di dirti che le tue disgrazie non sono tua responsabilità ma colpa di altri e dunque di darti nemici su cui sfogare la tua rabbia. Hai i brufoli? Le ragazze non ti guardano? I professori ti danno voti bassi e i genitori ti puniscono? Vai a massacrare di botte il ragazzo senegalese!
È chiaro (a me) che non esiste il minimo nesso tra queste due cose; ma non lo è a te perché i neofascisti e neonazisti ti conquistano proprio impedendoti di ra-gionare; sostituendo gli slogan all’argo-mentazione, i segnali ai simboli (questi ultimi sono impregnati di storia, mentre la svastica è un segnale, un semaforo verde all’odio e all’assassinio), l’urlo gutturale del bruto alla voce bassa di chi sa di avere qualche ragione. Ti con-quistano attraverso la dolce violenza dell’ignavia e dell’indifferenza: fingendo di mettersi (solo loro!) dalla tua parte contro i tuoi professori che chiedono di approfondire, contro i tuoi nonni che chiedono di ricordare, contro di noi che chiediamo di resistere.
Ti conquistano attraverso una messa alla prova, un rito di passaggio all’età adulta, che risponde al tuo bisogno di iniziazione, un bisogno che è proprio di tutti gli adolescenti e le adolescenti: io non riesco a capire quanto deve essere bello e forte ed emozionante incendiare un campo rom, ma tu sì; e sai quando ti fa sentire grande tornare nel branco di adulti tatuati di croci celtiche e sentirti dire “Ora sei dei nostri, sei come noi”.
E infine ti conquistano sul Web o meglio attraverso il web con gli oltre 40000 siti neofascisti e neonazisti censiti (e contando i blog occorre almeno triplicare la cifra), con la decontestualizzazione (per cui trovi una svastica o un fascio littorio nel sito del tuo gruppo di Ultrà o dei fan di un gruppo musicale e li assorbi quasi inconsciamente), con la deresponsabilizzazione e la semplificazione (per cui si possono postare messaggi anonimi e il massimo dell’impegno richiesto è cliccare su “I like”) e con la morte della memoria che è insita nella struttura stessa della Rete.
Caro ragazzo o cara ragazza neofascista o neonazista,
ammesso che tu mi stia ancora ascoltando (perché l’ascolto è tra le prime vittime dei nazisti e dei fascisti), tu ci chiederai adesso: “va bene, ma voi cosa fate con e per me?”. E qui devo darti in parte ragione. Perché se i neofascisti e neonazisti hanno conquistato la tua anima è anche perché non siamo stati in grado di farlo noi; non siamo stati abbastanza chiari a dire che chi ritiene l’antifascismo qualcosa di superato non può stare nelle istituzioni; non abbiamo detto chiaramente che chi è Antifascista è prima di tutto “anti” ma è “pro”: a favore di una primavera rossa o di tanti altri colori che adesso sembra non ci interessi più (e se non interessa a noi, figuriamoci se può interessare a te). Non abbiamo più alimentato la speranza, la fede nell’umano, l’Utopia.
Il problema allora è che la democrazia e l’antifascismo per te non sono diventati costume, narrazione, liturgia, rito vero e vissuto, religione laica. Non siamo stati capaci di farti illuminare gli occhi leggendo la Costituzione, di farti affondare le mani negli oggetti che nei tanti nostri archivi dormono in attesa che i tuoi occhi le risveglino alla vita; abbiamo commesso il più grave degli errori: abbiamo dato per scontata la democrazia come se fosse un cromosoma con il quale i bambini nascono e non una pianta da annaffiare continuamente, altrimenti muore. Questo è l’immenso lavoro che dobbiamo fare per sottrarre la tua anima, ancora vergine e limpida, alle grinfie dei vecchi e nuovi assassini dell’umano.
Caro ragazzo o cara ragazza neofascista o neonazista,
ora ti saluto perché noi abbiamo molto da fare; ma lascia che ti ricordi un’ultima cosa: con tutti i nostri limiti, con tutti i nostri errori, comunque 70 anni fa noi abbiamo vinto e voi avete perso. E non perché vi siete ritirati ma perché siete stati sconfitti, da una lotta organizzata forte e coraggiosa; e perderete anche oggi, non illuderti; ma solamente se noi sapremo sconfiggervi, con altre armi che siano quelle della politica, della cultura ma soprattutto dell’educazione.
È questo, caro ragazzo o cara ragazza, il senso di questa lettera ed è questo il senso del nostro essere oggi qui
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
Raffaele Mantegazza
(Professore associato di Pedagogia interculturale, Università di Milano-Bicocca)
Sanità, il marito di Anna Finocchiaro nominato consigliere del registro dei tumori. Ma è imputato per truffa
Melchiorre Fidelbo è entrato nel consiglio direttivo dell’Airtum, l’Associazione italiana registri tumori, soggetto chiave nella redazione di rapporti come lo studio epidemiologico “Sentieri” sui siti inquinati di interesse nazionale. Ma è a processo per un appalto da 1,7 milioni affidato a una sua società, secondo l’accusa, senza bando
di Andrea Tornago | 18 maggio 2016
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È imputato di truffa e abuso d’ufficio per un appalto da 1,7 milioni nella sanità in Sicilia. Ma l’Airtum, l’Associazione italiana registri tumori, lo scorso 14 aprile l’ha nominato nel suo consiglio direttivo. Il dottor Melchiorre Fidelbo, ginecologo e marito della senatrice del Pd Anna Finocchiaro, siede ora nell’organismo direttivo dell’associazione che riunisce i “ricercatori e il personale tecnico operanti presso i registri tumori di popolazione”, soggetto chiave nella redazione di rapporti come lo studio epidemiologico “Sentieri” sui siti inquinati di interesse nazionale, finanziato dal ministero della Salute e coordinato dall’Istituto superiore di sanità.
Fidelbo, dal 2000 segretario coordinatore del Registro tumori integrato di Catania, Messina, Siracusa ed Enna, è finito a processo a Catania insieme a tre ex manager dell’azienda sanitaria provinciale per l’appalto vinto dalla società Salsamb srl (di cui era socio al 50 per cento oltre che amministratore) per l’informatizzazione dell’ospedale di Giarre. Un lavoro che, come ricostruito dagli inquirenti, è stato affidato direttamente alla società del marito della Finocchiaro senza “una procedura ad evidenza pubblica e comunque in violazione del divieto di affidare incarichi di consulenza esterna”.
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La questione della nomina di Fidelbo nell’organismo dirigente dell’Airtum è stata ripresa da un’interrogazione al ministro della Salute presentata in Commissione sanità lo scorso 5 maggio dai deputati del M5s Massimo Enrico Baroni e Alberto Zolezzi. Essendo un’associazione priva di codice etico, nulla vieta formalmente ai soci dell’Airtum di nominare nel proprio consiglio direttivo un imputato. Ma per i parlamentari firmatari dell’interrogazione l’elezione del dottor Fidelbo è comunque “inquietante”, perché l’inchiesta siciliana “disegna un quadro di commistione d’interessi privatistici, politici e pubblici – scrivono i deputati – ove lo stesso Fidelbo, oltre a ricoprire il ruolo di amministratore della società Solsamb srl, veniva nominato anche in una sottocommissione regionale incaricata di studiare proprio il nuovo piano relativo all’organizzazione dell’assistenza ospedaliera siciliana”.
E ora la preoccupazione arriva a interessare anche i progetti di legge sull’istituzione del registro nazionale tumori, in discussione alla Commissione affari sociali della Camera. Diverse proposte, alcune delle quali presentate dal partito di Anna Finocchiaro, prevedono un importante ruolo istituzionale dell’Airtum in relazione alla “alimentazione, gestione, aggiornamento, ampliamento e controllo di qualità dei dati” epidemiologici nazionali, oltre alla “valutazione della qualità dei dati prodotti dal Registro nazionale e dai registri regionali e provinciali” e alla funzione di accreditamento dei registri tumori locali. Tutte prerogative che verrebbero affidate a un’associazione privata, al momento priva di un codice che regoli i conflitti di interesse, e con un dirigente imputato per truffa.
Eccoci nuovamente con la News. Avevo messo a disposizione il mio incarico di Presidente, nel momento in cui scadeva il mio mandato. Il Congresso, però, si è espresso in modo molto diverso, con una richiesta corale di continuare. Non ho potuto oppormi e il Congresso si è pronunciato, rieleggendomi Presidente con voto unanime.
Eccoci dunque a ricominciare, anzi a continuare, riprendendo il dialogo, solo temporaneamente interrotto. Parliamo anzitutto del Congresso nazionale, per dire che è andato benissimo. A tutte le sedute ha partecipato, costantemente, più del 90% dei delegati (una media di 345 presenze giornaliere, di cui il 30% donne); sono stati presenti, complessivamente, un centinaio di invitati.
La discussione si è svolta con ampiezza (94 interventi, di cui 31 di donne); tuttavia non abbiamo potuto ascoltare tutti quelli che avrebbero voluto parlare, nonostante avessimo preso ogni misura possibile per riuscirci, ma davvero, vi è stata una richiesta molto ampia di intervenire, tanto che – se avessimo potuto (superando le difficoltà economiche) – avremmo dovuto prolungare il Congresso di almeno un giorno. A prescindere dalle dolorose esclusioni, delle quali chiediamo scusa a tutti coloro che le hanno dovute subire, il dibattito c’è stato ed è stato ricchissimo. A partire dalla tavola rotonda sui “giovani”, bella e seguita con molta attenzione da parte del già vasto “pubblico” del primo giorno.
Non ho visto contrasti animati, né tantomeno discussioni animose, anche se sono state espresse opinioni diverse, non solo sui temi principali, ma anche su quelli che erano emersi dai Congressi sezionali e provinciali (la Commissione politica ha lavorato, l’ultima sera, fino alla una e trenta circa, non per dirimere contrasti, ma per migliorare i testi).
Si è cercato di cogliere tutti gli spunti utili per ampliare ed approfondire il dibattito. Del resto, la stessa relazione generale introduttiva del congresso aveva preso atto di diversi punti della riflessione, emersi dai congressi preparatori, arrivando così, di per sé, ad un primo approfondimento del documento congressuale politico. Quest’ultimo, già approvato dalla stragrande maggioranza dei congressi provinciali, è stato poi sottoposto al voto assieme – appunto – alla relazione introduttiva ed il risultato è stato quello di una approvazione pressoché unanime (solo tre astensioni, rispetto a 347 voti favorevoli), sulla quale – peraltro – è calato il silenzio da parte di quasi tutti gli organi di informazione.
Un raro esempio di democrazia, di questi tempi, che l’ANPI ha potuto fornire grazie all’impegno dei delegati, al senso di appartenenza, ad una volontà fortissima di salvaguardare quel bene fondamentale che è l’unità dell’Associazione, pur nel pluralismo delle idee.
Quanto al tema che – a rigore – non era compreso nel documento originario (la posizione dell’ANPI sulla riforma costituzionale, la legge elettorale e il referendum), ma è stato dibattuto in quasi tutti i congressi ed anche nel congresso nazionale, l’orientamento che era emerso dei congressi, in misura larghissima, in piena concordanza con la decisione adottata dal Comitato nazionale del 21 gennaio 2016, è stata ulteriormente rafforzato, se è vero che sottoposti a votazione, insieme, il documento politico nazionale e la relazione introduttiva del congresso, su di essi si è realizzato quel consenso pressoché unanime, di cui ho già detto.
Il tutto corroborato dal larghissimo consenso creatosi attorno alla relazione del presidente uscente, la cui posizione era arcinota; consenso manifestato dapprima con la convinta e calorosissima adesione espressa al termine dello svolgimento della relazione, poi col voto di cui ho detto ed infine con la rielezione, con voto unanime, del Presidente Smuraglia, “nonostante” le posizioni da lui espresse in modo nettissimo, sulla materia, da oltre due anni.
Questo non significa, naturalmente, che non ci siano stati e non ci siano anche dissenzienti, su questo specifico tema; essi hanno parlato, nel Congresso, ed hanno esposto le loro motivazioni; ascoltati da una maggioranza ben convinta delle proprie ragioni, ma non rissosa e tutt’altro che prevaricatrice (qualche intemperanza da parte di alcuni, è stata rapidamente composta).
Da ciò, la conclusione sostanzialmente unitaria, pur nel proclamato rispetto di tutte le opinioni, essendo stato, peraltro, chiarito dal Presidente, nella sua Relazione, così come in alcune precedenti circolari, che il dissenso è assolutamente lecito, ma non può manifestarsi in forme di contrapposizione rispetto alle decisioni adottate ed in modi tali da recare danno all’immagine complessiva dell’Associazione.
Infine, il congresso si è concluso con un’ampia discussione e con alcune votazioni sui documenti congressuali, oltre a quelli fondamentali, già citati. Molti emendamenti ed ordini del giorno erano stati acquisiti dalla commissione politica, anche perché in gran parte già assunti nella stessa relazione introduttiva del congresso. Su quelli sui quali c’era stata particolare discussione si è votato, liberamente e senza contrasti.
Infine, sono stati eletti gli organismi dirigenti, prima di tutto il Presidente, e poi il nuovo Comitato nazionale, composto non da “pochi intimi”, come alcuni ritengono, ma da 37 membri, assicurando sia il pluralismo sia la diffusa rappresentanza territoriale. È così che il Congresso si è concluso positivamente, e con entusiasmo (i consueti abbracci di saluto fra delegazioni, le foto ricordo, e così via, tutte manifestazioni non rituali di fraternità e amicizia).
È in questo contesto che si è verificato, l’ultimo giorno, un episodio sgradevole. Un quotidiano nazionale, che fino ad allora non si era accorto che ci fosse un Congresso, che si fosse discusso in una “Tavola rotonda” del futuro dei giovani, che infine fosse in corso un ampio e pacato dibattito, a differenza di quanto avviene in molte sedi politiche, si è improvvisamente accorto che l’ANPI era divisa, addirittura “spaccata” (“Da Bolzano a Grosseto, partigiani divisi dal referendum”); ed ha pubblicato un articolo con nomi, cognomi e provenienza, a suggerire al lettore chissà quali conflitti disastrosi per l’Associazione.
Il solito comportamento di una certa stampa, che delle grandi manifestazioni del 25 aprile coglie solo il piccolo incidente (sempre deprecato, ovviamente) in fondo ad un grande corteo ampiamente e pacificamente partecipato, e non perde occasione per sottolineare i lati presuntivamente negativi, senza evidenziare gli aspetti veramente importanti di una manifestazione oltremodo significativa. Peccato che nell’operazione si siano lasciati coinvolgere alcuni delegati, facendo dichiarazioni di cui il giornalista sarà stato particolarmente felice; tant’è che la “questione” è stata subito ripresa, addirittura sulla prima pagina dello stesso quotidiano nazionale, che peraltro, non può fare a meno di ripetere il contenuto delle circolari dell’ANPI, che dichiaravano e dichiarano legittimo il dissenso, non pretendono affatto ubbidienza assoluta, ma chiedono una cosa che a me continua a risultare ovvia, che cioè chi dissente non “remi contro” e non faccia il gioco dei “critici” dell’Associazione, quelli che solo ora hanno scoperto che c’è stato un Congresso, molto partecipato e con larghissimo confronto, salutato – con nobilissime parole – dai messaggi del Presidente della Repubblica e dei Presidenti delle due Camere.
Mi spiace molto che l’ANPI susciti “malinconia” sulla stampa, proprio in uno dei suoi momenti più alti. Io – semmai – ho un’altra malinconia, quella di chi vorrebbe una informazione veramente completa ed esauriente e invece deve periodicamente constatare che interessano più i “sussurri e le grida”, che non le questioni di fondo e gli eventi dotati di un reale significato.
Un ulteriore conferma viene da “Il Foglio” di questa mattina, che non si è occupato, per tre giorni del Congresso nazionale dell’ANPI; ma adesso, si è svegliato perché c’è sentore di scontri e di divisioni. E si infilano una serie di “perle”, una più significativa dell’altra. La decisione di gennaio: una “riunione verticistica, fra pochi intimi”; per la verità, il 21 gennaio si è riunito il Comitato nazionale, il massimo organismo dirigente dell’Associazione, si è discusso, come si era già fatto anche in una precedente riunione e si è deciso a stragrande maggioranza. Sarebbe questa la riunione “verticistica”?
Nel riportare la circolare che precisa: “il diritto al dissenso ed i suoi limiti”, la si liquida con una stentorea parola: “ridicolo”.
Si ammette, a denti stretti, che la decisione “fra pochi intimi” è stata confermata dal Congresso, ma ci si guarda bene dal dire con quale maggioranza.
Si ricorre perfino ad una anziana partigiana per farle dire, testualmente: “inquietante il fatto che una decisione così importante come il referendum non sia stata messa in discussione in Congresso, ma addirittura in una riunione di vertice” (ma dove era, questa compagna, dal 12 al 15 maggio e su quali fonti si è informata?).
Il termine corretto, per parlare di questo tipo di articoli, non è certamente quello che hanno usato loro, cioè “ridicolo”. In realtà è pietoso questo modo di fare disinformazione. Le opinioni, ovviamente, sono sempre lecite, ma dovrebbero basarsi su fatti e partire da un’informazione completa ed esauriente. Naturalmente, nessuno di questi “appassionati” dell’ANPI ha messo piede a Rimini, nessuno ha letto il messaggio delle più alte cariche dello Stato, nessuno è stato informato che nel Congresso ci sono stati ben 94 interventi, che le riunioni delle Commissioni si sono protratte fino a tarda notte e che il voto finale è stato espresso a grandissima maggioranza. Che “tristezza”, direbbe Gian Antonio Stella. E questa volta sarei d’accordo con lui.
Noi andiamo avanti, perché c’è bisogno di lavoro, d’impegno e di riflessione. Ho già convocato il nuovo Comitato nazionale per martedì prossimo e in quella occasione discuteremo anche di tutto ciò che è emerso dal Congresso e delle reazioni di cui ho parlato.
Ora, comunque, torniamo al lavoro, dopo la “pausa” congressuale, col grande impegno che la situazione richiede, ma anche con la soddisfazione e la gioia di aver partecipato ad un grande momento di democrazia.
Acireale – Ennesimo caso di malasanità ad Acireale.Antonino Gulisano, fratello del noto giornalista Sebastiano Gulisano, è morto oggi all’ospedale di Acireale, dopo che ha atteso per oltre due ore l’elettrocardiogramma che avrebbe potuto salvarlo.
L’uomo è stato portato via da casa in ambulanza con dolori al petto e formicolio al braccio. I paramedici avevano già intuito un possibile infarto. Qualcosa però va storto in ospedale. Il fratello del giornalista è rimasto due ore e mezza senza l’elettrocardiogramma nonostante il codice d’urgenza. Purtroppo il triste epilogo.
La famiglia Gulisano è in procinto di presentare denuncia e i carabinieri hanno già identificato il personale del Pronto Soccorso presente in quel momento.
Un ragazzo al primo anno di Giurisprudenza – il nipote dell’autore di questo articolo – fa notare che il Governo con il referendum costituzionale dovrebbe restare al di sopra delle parti. Se invece partecipa attivamente come sta facendo la Ministra Boschi compie un atto gravemente lesivo della democrazia e inquina pesantemente la campagna referendaria, incidendo sulla libertà del voto. E poi: chi paga le spese dei viaggi della Ministra?
La campagna governativa per il Sì al referendum è partita. La Bella Maria Elena, ministra del culto renziano, con al fianco Lancillotto Violante e Parsifallo Orfei batterà l’intera Penisola per convincere il corpo elettorale che la riforma costituzione votata da Verdini è la cosa più bella che c’è.
Un mio nipotino che è al primo anno di studi in giurisprudenza e sta preparando l’esame in Diritto costituzionale, mi ha fatto una domanda alla quale onestamente non ho saputo dare risposta. Chiedo il vostro aiuto, cari amici e ve la giro.
Scusa, nonno mi ha detto, ma io sto studiando che il referendum sulle modifiche della Costituzione può essere richiesto da 1 quinto della Camera, in rappresentanza delle minoranze politiche, da 500.000 elettori, quali espressione delle minoranze del corpo elettorale e da 5 consigli regionali in rappresentanza delle minoranze territoriali. Niente dice la legge sul governo.
Bravo, e allora?
Chiamato alle urne è dunque il corpo elettorale, i cittadini, ai quali dunque spetta decidere, ma a chi spetta informare, a chi spetta convincere della giustezza delle ragioni del Sì o del No?
Già. A chi?
Non certo ai componenti del governo, specialmente se è lo stesso governo che ha voluto quella riforma.
Te lo concedo. E allora?
E allora credo che se il governo partecipa attivamente alla campagna referendaria, mandando in giro in prima persona il ministro che questa riforma ha sostenuto e difeso in Parlamento, il governo compia un atto gravemente lesivo della democrazia e inquini pesantemente la campagna referendaria, incidendo sulla libertà del voto.
Prendendo posizione in una materia che, proprio per la sua natura, è fuori dalla sua competenza. Ma c’è di più, credo: se il governo nel compiere questi atti antidemocratici utilizza risorse, strumenti e mezzi governativi, quindi i soldi dei contribuenti che vanno impiegati a fini pubblici, potrebbe profilarsi un danno erariale.
Che vuoi dire?
Che so, se la Boschi il suo seguito si fanno rimborsare aerei e alberghi, cene e quant’altro per andare a trovare Faraone e stare con lui e i suoi fan…
Sveglio il ragazzino, non trovate? E voi che ne dite?