Idomeni, il primo matrimonio nel campo profughi da. ndnoidonne

Saher e Roquia hanno deciso di sposarsi in mezzo alle tende del campo informale al confine con tra Grecia e Macedonia: “Volevamo aspettare di arrivare in Germania, ma non sappiamo quando si riapriranno i confini”

inserito da Redazione

Siriani sposi a Idomeni: il primo matrimonio nel campo profughi
Saher e Roquia hanno deciso di sposarsi in mezzo alle tende del campo informale al confine con tra Grecia e Macedonia: “Volevamo aspettare di arrivare in Germania, ma non sappiamo quando si riapriranno i confini”. Vestito nuziale regalato da una fabbrica di abiti da sposa

ROMA – Nonostante le condizioni siano sempre più critiche, per il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche, a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, i profughi tentano di restituire al quotidiano una parvenza di normalità. E così nei giorni scorsi, all’interno del campo si è svolto anche il primo matrimonio. Protagonisti di questa storia di speranza raccontata dalla Bbc sono due ragazzi siriani, Saher e Roquia.
Nelle intenzioni iniziali, avrebbero voluto aspettare di raggiungere la Germania per diventare marito e moglie. Ma, fermi da settimane al confine con la Macedonia, si sono resi conto che l’impresa potrebbe anche richiedere molti mesi, e così hanno deciso di spostarsi proprio lì dove il tempo è sospeso.
“I confini potrebbero riaprirsi in qualunque momento, ma non c’è certezza – racconta Saher – e così ci siamo detti: perché non sposarci adesso? Sono felice per il matrimonio, ma anche triste per questa situazione”.
La notizia dei preparativi del matrimonio si è diffusa velocemente, e così una fabbrica di abiti da sposa, che sorge vicino alla località di Idomeni, ha deciso di regalare il vestito nuziale a Roquia. Una volta trovato anche l’abito bianco, lo sposalizio si è svolto tra le danze e la musica, trasmessa a tutto volume dai cellulari e dai piccoli altoparlanti degli ospiti del campo. I volontari hanno portato piccole lampade e petali di rosa per creare l’atmosfera. “I miei genitori sono ancora in Siria e non possono essere qui con me – ha aggiunto lo sposo – questo mi rende molto triste. Ma la gente di Idomeni ora è la mia famiglia”.

09/05/2016 © Copyright Redattore Sociale

Ma perché dici sì a una riforma costituzionale sulla quale sputi? Lettera aperta a Massimo Cacciari da: libertàegiustizia.it

Ma perché dici sì a una riforma costituzionale sulla quale sputi? Lettera aperta a Massimo Cacciari

Caro Massimo, non è la prima questa lettera e non sarà l’ultima, nel corso della nostra ormai lunga, benché molto intermittente, conversazione “filosofica”. E lo scrivo fra virgolette, perché lo è, filosofica, e non lo è, la questione che pongo. Lo è per noi che concepiamo la filosofia come “pensiero concreto”, per usare un’espressione tua. E non come una fabbrica di abracadabra e calembour più o meno brillanti.  Comunque la questione che ti pongo la chiamo “filosofica” anche per darmi coraggio e superare la distanza, tutta a tuo favore, di autorevolezza e presenza sulla scena pubblica, oltre che quella abissale, ancora a tuo favore, di effettiva conoscenza ed esperienza della politica.

Vengo alla questione che vorrei porti questa sera, 9 maggio, dopo averti ascoltato, ospite di “Otto e mezzo”, sviscerare – anzi, eviscerare, a rapidi colpi di spada, con espressività e vigore assolutamente eloquenti – l’“assurdità” e la sgangherata incongruenza della riforma costituzionale che sarà sottoposta a referendum. Quel ridicolo senato fatto di consiglieri regionali e sindaci non solo non risolverebbe il problema del bicameralismo perfetto, che tu ed altri, dicevi, avevate rivoltato in tutti i suoi aspetti (con ben altra attenzione e competenza, si evinceva dal contesto) prima che gli autori della riforma attuale “fossero al mondo”, ma complicherebbe a dismisura – lo hai ben chiarito – il più profondo errore di sistema della democrazia italiana, al quale tornerò fra poco.

Ecco la domanda: perché allora voterai “sì” al referendum, come hai detto? E’ una domanda sincera e smarrita. E se la faccio, è perché credo che molti se la facciano con il mio stesso smarrimento. Molti di quei non molti che della nostra vita civile si preoccupano, che credono o tentano di credere, con la loro fatica quotidiana, che la Repubblica siamo noi, e che se accettiamo una riforma “assurda”, incongrua, incoerente e inefficiente dei suoi fondamenti, della democrazia sfigurata e monca che ne risulterà noi saremo non passivi, ma attivi complici, dunque colpevoli. E quanti di quelli che ti hanno ascoltato continueranno a credere, come Socrate insegnava ai suoi concittadini, che sia doveroso chiedere ragione di ogni decisione che ci riguarda? Che abbia senso applicare la volontà di evidenza, la logica, il buon senso, alle cose che pure sommamente ci riguardano, della politica?

Se anche il più noto filosofo italiano scorna la logica e l’evidenza in politica, e getta il peso di tutto il suo prestigio nel dire sì a una riforma costituzionale sopra la quale sputa? Quanti che ancora non avevano del tutto perduto la voglia di partecipare, cioè di discutere e deliberare nello spazio delle ragioni, dove le parole hanno un senso e le decisioni una coerenza, perderanno la loro residua fiducia nella democrazia? Perché la democrazia non è solo una forma di governo. E’ una civiltà fondata in ragione, il che vuol dire, sulla fragile forza dei nostri interrogativi, sulla fatica dei buoni argomenti. Una Repubblica democratica è fondata su lavoro – sul nostro lavoro di cittadini, così faticoso, così disprezzato. Anche e soprattutto da chi, “nel paese di Machiavelli”, come hai detto, trova come te che si parli troppo di “questione morale”. Cioè di interesse pubblico!

Vengo al paese di Machiavelli, perché qui hai detto una cosa illuminante, che il politico di turno ha subito ripreso a suo vantaggio. Non è di questione morale che si dovrebbe parlare ma di sistema. Non di gente che ruba, ma dell’assenza di un sistema funzionante, di un meccanismo, di un automatismo – hai insistito – che renda irrilevante la gente che ruba (non il rubare, spero). Evviva, qui riconosco a ciascuno il suo e a te maggior sapienza: io non chiamerei automatismo un’amministrazione impermeabile alla corruzione, ma riconosco che qui sì, ha più da dire un filosofo che conosce o riconosce l’elemento sistemico della politica e della società – più di uno che, come chi scrive, non ha in politica altro orizzonte che quella dell’etica pubblica e non vede altri attori che gli individui responsabili.

Bene: ma proprio qui tu hai detto la cosa giusta. Il più profondo errore di sistema della democrazia italiana è non disporre di un dispositivo che disinneschi la corruzione, lasciando operare come devono le pressioni degli interessi particolari, ma senza farsene travolgere. E proprio questosenaticchio incongruo, fatto dei pezzi finora più corrotti di meccanismo mal funzionante, ci hai fatto capire, aggraverebbe ancora di più l’errore di sistema. Questo sarebbe l’esito della riforma.

E allora perché, perché dirle di sì?

“Deforma” Renzi-Boschi, il Comune di Polistena si schiera a favore del No da: controlacrisi.org

Il comune di Polistena, piccola cittadina della Piana di Gioia Tauro (provincia di Reggio Calabria) non solo si schiera contro la “deforma” costituzionale, ma aderisce direttamente al Comitato del No «per difendere la democrazia politica, l’autonomia dei territori, il significato e l’esistenza dei comuni e di tutti gli altri enti locali, i principi di eguaglianza e i diritti». La decisione è stata presa con una delibera approvata a maggioranza dal consiglio comunale. «La cancellazione della elezione diretta dei senatori e la composizione del Senato fondata su persone non elette dal popolo ma nominate – si legge tra l’altro nella delibera – colpiscono irrimediabilmente il principio della rappresentanza politica e democratica e ledono gli equilibri del sistema istituzionale». Inoltre, è scritto ancora nella delibera, «la Carta costituzionale ha sempre avuto la sua forza nell’articolazione dei poteri in senso plurale e partecipato … mentre il vero obiettivo della riforma è lo sbilanciamento delle decisioni istituzionalmente importanti a favore dell’esecutivo». Infatti, «il disegno di legge costituzionale del governo stravolge radicalmente gli equilibri, i pesi e i contrappesi dell’impianto della Costituzione ed è esclusivamente proteso a trasformare i diritti sociali e le libertà personali in valutazioni economiche che blindano il nostro paese nella Cortina dell’Europa dell’austerità, delle banche e dei trattati». «Tutto ciò – insiste la delibera – è ancor più inaccettabile in rapporto alla nuova legge elettorale definita “Italicum”, già approvata e molto simile al “Porcellum” su cui la Corte Costituzionale ha già pronunciato l’illegittimità».
La delibera, infine, impegna la giunta comunale «a rendersi operativamente coinvolta in ogni altra iniziativa utile e necessaria nei prossimi mesi a scongiurare la manomissione della Costituzione».

“Disoccupazione e diseguaglianza”. Intervento di Giorgio Lunghini Fonte: il manifesto

Il Belpaese. L’incapacità di assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi sono i mali più evidenti della nostra società
Che cosa pensare di questo nostro povero paese, in cui soltanto pochi stanno bene? Eccone i tratti somatici: tre milioni di disoccupati; più di dieci di inattivi, di cui quasi due milioni perché “scoraggiati”; due milioni e mezzo di precari; quasi due milioni di lavoratori in nero; una evasione fiscale complessiva tra il 20 e il 30% del Pil; una distribuzione del reddito tale che l’1% della popolazione possiede oltre il 10% della ricchezza complessiva – mentre in sette milioni vivono in povertà.
L’Italia non rispetta dunque due dei “Principȋ fondamentali” della sua Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» e «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; né della Costituzione si rispetta l’articolo 53: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Oltre i 75.000 euro di reddito, che è oggi il quinto e ultimo scaglione di reddito, l’aliquota IRPEF è invece ferma al 43%.
Che l’incapacità a assicurare la piena occupazione, e una distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi, siano i mali più evidenti della società economica nella quale viviamo, e mali destinati a aggravarsi se permane l’attuale processo di deflazione, l’aveva già capito J. M. Keynes; che ne aveva suggerito una terapia nelle Note conclusive sulla Filosofia sociale alla quale la Teoria generale potrebbe condurre (1936). Il disegno di Keynes è articolato in tre tesi.
La prima, a sua volta, è articolata in due punti:
È falsa la tesi ancora oggi corrente, secondo la quale l’accumulazione del capitale dipenderebbe dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque in larga misura l’accumulazione di capitale dipende dal risparmio dei ricchi, la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l’accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a consumare, ma ne è invece ostacolata.
La propensione marginale al consumo dei ricchi è minore di quella dei poveri.
Dunque una redistribuzione del reddito per via fiscale, dai ricchi ai poveri, farebbe aumentare la propensione media al consumo, dunque la domanda per consumi dunque gli investimenti dunque la domanda effettiva dunque il reddito nazionale dunque l’occupazione.
La seconda tesi di Keynes riguarda il saggio di interesse. La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell’infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione. È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta reddività sociale. Di qui la cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: “l’eutanasia del rentier” e di conseguenza l’eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale. L’interesse non rappresenta il compenso di nessun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra, e oggi i tassi di interesse sono già bassi per effetto della politica monetaria perseguita dalla Banca Centrale Europea. Tuttavia ciò ha colpito i piccoli redditieri ma non i grandi speculatori; e d’altra parte le banche non trasmettono alle imprese gli effetti di quella politica monetaria, poiché preferiscono il più tranquillo e redditizio acquisto di titoli di stato. Qui sarebbero possibili interventi del Governo, mentre per le grandi istituzioni finanziarie sarebbe necessaria una regolamentazione sovranazionale – va infatti ricordato che sia a livello nazionale sia a livello internazionale queste istituzioni costituiscono una sorta di “senato virtuale”; senato virtuale che è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ‘irrazionali’ tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). L’Italia ne sa qualcosa.
Terza tesi di Keynes, circa il ruolo dello Stato: «Lo Stato dovrà esercitare un’influenza direttiva circa la propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse. Sembra però improbabile che l’influenza della politica monetaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento: ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento si dimostrerà l’unico mezzo per consentire di avvicinarci all’occupazione piena». Nel caso dell’Italia questa tesi dovrebbe esser letta in questo modo: Non privatizzare le industrie pubbliche né sollecitare investimenti esteri, poiché questi non costituiscono ”investimenti” ma semplici trasferimenti di proprietà e dei profitti associati; e sottintendono la vergognosa convinzione che i privati, con qualsiasi passaporto, siano imprenditori migliori di quelli pubblici nazionali: questo è però un problema del nostro ceto dirigente.
Proporre queste tre ricette (redistribuzione della ricchezza e del reddito, eutanasia del rentier, e una socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento) come strumenti per combattere la disoccupazione e l’ineguaglianza può sembrare una predica. Sono invece riforme possibili, ben fondate teoricamente e socialmente desiderabili: a differenza delle “riforme passive” di cui è fatta l’agenda di questo Governo (che tali si potrebbero definire per analogia con le “rivoluzioni passive” di Cuoco e Gramsci). Sotto a tutte le decisioni di politica economica c’è una qualche teoria economica e dunque una qualche filosofia sociale. Quale sia la teoria economica e la filosofia sociale che ispirano il nostro Governo non è chiaro, tuttavia esso sembra credere ancora alla vecchia teoria neoclassica, fondata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, teoria che per un aumento dell’occupazione indica come necessaria e sufficiente una riduzione del costo del lavoro; e la cui filosofia sociale è quella del “Laissez faire”: motto che risale a un incontro tra il ministro Colbert e un mercante di nome Legendre intorno al 1680: alla domanda di Colbert «Que faut-il faire pour vous aider?», la risposta di Legendre fu «Nous laisser faire!»: “Lasciate fare a noi mercanti!”

Socialisti, tra austerità e spinta al cambiamento Fonte: il manifestoAutore: Massimo Serafini, Marina Turi

Ma il partito socialista non sembra disposto a opporsi a Bruxelles

Tre milioni di persone abbandonano la classe media, per finire in una classe più bassa. È la Spagna di oggi, quella ancora in crisi, secondo i dati pubblicati dalla fondazione Bbva e dall’Istituto Valenziano di economia. Il titolo della ricerca Distribuzione del reddito, crisi economica e politiche redistributive indica già che qualcosa non deve aver funzionato nelle scelte di politica pubblica del governo delle destre. La ridistribuzione del reddito tra le famiglie non c’è stata, non come sarebbe servito. La perdita di occupazione, l’aumento del lavoro precario, di quello a tempo parziale perché non se ne trova uno per l’intera giornata, hanno impoverito gli spagnoli. Attribuire alla crisi questo vero e proprio disastro sociale non aiuta a individuare le responsabilità del peggioramento della qualità della vita di milioni di persone.

Non la crisi, ma le scelte politiche di chi governa l’Europa sono responsabili della macelleria sociale a cui è stata sottoposta la Spagna e, complessivamente, tutta l’Europa mediterranea. In questi anni governi di larghe intese fra destra e sinistra hanno obbedito ai neoliberisti di Bruxelles e alle loro richieste di obbligatorietà del pareggio di bilancio, da realizzare con il taglio delle prestazioni fondamentali dello stato sociale, con l’azzeramento dei diritti del lavoro e la sua precarizzazione e con una sistematica distruzione dell’ambiente.

Quei tre milioni di nuovi poveri racconta che chi ha governato la Spagna in questi anni non solo ha speso troppo, ma ha anche speso male, favorendo solo banchieri, finanza perversa e clientelismi di turno. Significativo è che lo stesso giorno in cui venivano diffusi questi dati la commissione europea chiedesse a destra e sinistra spagnole impegni precisi di nuovi pesanti tagli alla spesa sociale per riportare il bilancio nei parametri concordati con Bruxelles, per il 2016, sforati dal governo Rajoy per 10mila milioni di euro. La vera posta in gioco il prossimo 26 giugno, quando si ripeteranno le elezioni, è quale maggioranza di governo prevarrà: quella disposta a obbedire ancora alle richieste di Bruxelles o, al contrario, quella disposta a metterle in discussione.

Il Partito Popolare di Rajoy e la formazione Ciudadanos sono le forze politiche che vogliono continuare a obbedire ai diktat di Bruxelles e per questo hanno già deciso di rivedere i propri programmi. Altrettanto chiare sono le forze disposte a scardinarli: Podemos, con il sistema di alleanze con cui affrontò le elezioni del 20 dicembre scorso, che questa volta positivamente si estende a Izquierda Unida. Meno limpida la posizione del Psoe.

L’accordo con Ciudadanos e il conseguente rifiuto di costruire alleanze con Podemos e altre forze della sinistra, evidenziatosi nel tentativo del segretario socialista di dare un governo alla Spagna, sembra collocare anche il Psoe fra i partiti non disposti a opporsi ai tagli richiesti da Bruxelles. Ciò non significa che questa scelta sarà condivisa dall’elettorato socialista, riconfermando il Psoe come il principale partito della sinistra spagnola. Le possibilità che un no alle richieste di Bruxelles prevalgano e conquistino il governo in Spagna dipendono in larga parte dalla forza che l’elettorato darà all’alleanza appena trovata tra Podemos e Izquierda Unida. Strappare questo risultato farebbe esplodere la contraddizione tra le scelte politiche moderate dell’attuale gruppo dirigente socialista e la voglia di cambiarle di una parte del suo elettorato, aprendo di fatto una crisi del Psoe che potrebbe indurlo a scelte meno moderate. D’altronde le ragioni per cambiare sono ogni giorno più evidenti. Continuare a fare da spalla alle forze conservatrici e di destra, come ovunque i socialisti hanno fatto in questi anni, non produce un ammorbidimento delle drammatiche conseguenze sociali delle scelte liberiste, ma al contrario distrugge i socialisti e soprattutto lascia alle destre autoritarie e razziste l’egemonia di una lotta alle evidenti ingiustizie di questa Europa degli affari e dei profitti di pochi.

Dopo la Grecia, la Spagna è l’unico paese in cui la protesta contro questa Europa si dirige verso forze di sinistra nuova, come Podemos, e non verso facili populismi. Naturalmente a poco vale conquistare la guida della sinistra se l’elettorato il 26 giugno prossimo non esprimerà una chiara maggioranza delle sinistre e una sconfitta delle destre. Forse non sarà facile, soprattutto per la delusione che ripetere le elezioni suscita proprio negli 11 milioni di persone che lo scorso dicembre avevano votato e quasi reso possibile una svolta. Rendere chiare le conseguenze sociali che una rinnovata obbedienza a Bruxelles produrrebbe può riaccendere la voglia di cambiamento.

Loi travail, il suicidio della sinistra al governo Fonte: il manifestoAutore: Anna Maria Merlo

La sinistra critica non ha i numeri per presentare una “censura” contro il governo. Il Front de Gauche voterà quella della destra, che critica la Loi Travail perché troppo poco liberista. La legge passerà oggi senza votazione grazie all’articolo 49.3. A un anno dalle presidenziali, la sinistra è a pezzi. Le manifestazioni continuano (oggi, il 17 e il 19 maggio)

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La sinistra dissidente non è riuscita a mettere assieme le 58 firme di deputati necessarie per presentare la propria «mozione di censura» contro il governo Valls (è arrivata a quota 56).

Oggi pomeriggio, all’Assemblea nazionale sarà così sottoposta al voto solo la «censura» presentata dalla destra , contro il ricorso all’articolo 49.3, modalità scelta dal governo per far passare senza votazione la legge di riforma del lavoro. Che continuerà ad essere contestata in piazza: oggi ci saranno manifestazioni in Francia e i sindacati ne stanno organizzando altre per il 17 e 19 maggio.

La «censura» – una sorta di sfiducia – non dovrebbe ottenere la maggioranza richiesta per far cadere il governo, che è di 288 voti su 574 deputati (3 seggi sono vacanti). Però potrebbe raccogliere i consensi non solo dei deputati di destra e di centro-destra, ma anche quelli del Front de Gauche, arrivando a 236 voti, a cui potrebbe aggiungersi qualche socialista o ex socialista della «fronda» e qualche verde.

L’eurodeputato Jean-Luc Mélenchon ha invitato la sinistra critica ad unirsi alla destra nel voto della «censura», un calcolo elettoralista in vista delle presidenziali del 2017, dove intende battere il candidato socialista al primo turno e incarnare la forza politica più potente in quello che resterà della sinistra.

Il capogruppo Ps, Bruno Le Roux, ha minacciato: i deputati socialisti che voteranno la censura «saranno esclusi» (prospettiva che dovrebbe raffreddare molte velleità, visto che si stanno già preparando le liste per le legislative del 2017).

La riforma del lavoro, mal gestita, senza una vera concertazione, sancisce così il suicidio della sinistra al governo . La legge sarà adottata senza voto, con alcune modifiche rispetto al testo originale: un testo ibrido, che flessibilizza il lavoro e facilita i licenziamenti ma al tempo stesso propone alcuni diritti per lenire la svolta liberista.

Il voto del Front de Gauche con la destra, la quale rimprovera alla legge El Khomri di non essere abbastanza liberista, lascerà forti tracce.

In questi giorni si stanno moltiplicando le prese di posizione dei candidati alle primarie della destra, nel prossimo novembre. È una gara a chi promette più lacrime e sangue.

Alain Juppé, per esempio, vuole abolire le 35 ore, far lavorare 39 ore pagate 35, portare la pensione a 65 anni e tagliare pesantemente tra i dipendenti pubblici. Gli altri candidati, già dichiarati (come François Fillon o Bruno Le Maire) o in pectore (Nicolas Sarkozy) si spostano sempre più a destra.

In questo contesto, ha senso, per la sinistra critica, votare la «censura» della destra, che ha l’intenzione dichiarata di passare la ruspa sul diritto del lavoro? Molti della «fronda» del Ps si rifiutano di fare questo passo. «Posso essere molto scontento di questo progetto di legge – ha commentato il deputato François Lamy (vicino a Martine Aubry) – ma so ancora conservare la coerenza e non votare con la destra». Anche la deputata Ps Karine Berger, economista, è su questa linea: «Il 49.3 è un errore politico, ma non voterò la censura».

La ministra del Lavoro, Myriam El Khomri, si è scagliata contro l’eventualità di voti di sinistra con la destra: «È inconcepibile, dov’è la coerenza democratica da parte di deputati che ci fanno la lezione sulla democrazia? Votare con la destra è essere di destra». El Khomri difende la legge che porta il suo nome, «giusta e democratica», che «dà più mezzi ai sindacati», introduce «una maggiore democrazia sociale» e «nuovi diritti». Il ricorso al 49.3 è giustificato accusando la «fronda», una «minoranza» che avrebbe bloccato la discussione.

Per Laurent Berger, segretario della Cfdt, sindacato che non contesta la legge e che ha contribuito a modificarne il testo, il ricorso al 49.3 «non è un buon metodo» ma nel «contenuto» la Cfdt ha «contribuito a togliere le misure liberiste» della prima versione.