Globalizzazione e decadenza industriale. Intervista a Domenico Moro da: www.resistenze.org

Pasquale Vecchiarelli e Andrea Fioretti | lacittafutura.it

01/04/2016

Globalizzazione e decadenza industriale è il titolo dell’ultimo libro dell’economista Domenico Moro. In questo libro Domenico analizza alcuni temi fondamentali legati allo sviluppo del capitalismo degli ultimi 50 anni. Il baricentro della sua analisi sta proprio nelle modificazioni strutturali che hanno prodotto questa nuova fase chiamata fase transnazionale della produzione industriale e come tali modificazioni diventano la leva per il formarsi di nuove sovrastrutture politiche e accordi internazionali finalizzati al controllo dei profitti e al dominio sul mercato in questa “nuova” era sociale . Ne parliamo con l’autore. Prima parte.

D. Domenico, il punto di partenza della tua analisi non poteva che essere lo sviluppo delle forze produttive e le caratteristiche della crisi che hanno prodotto la fase attuale detta del capitalismo transnazionale, ci potesti dire, magari usando delle parole chiave, quali sono le caratteristiche principali di questa fase?

R. Alla metà degli anni ’70 il centro del capitalismo (Usa, Europa occidentale e Giappone) si è trovato in un grave crisi economica e politica per il riemergere della sovrapproduzione di capitale e della conseguente caduta del saggio di profitto, e per il successo delle lotte delle classi subalterne nel centro e nella periferia del sistema capitalistico mondiale. Allo scopo di rispondere a questa crisi, a partire dalla fine degli anni ’80 il modo di produzione capitalistico ha cominciato il passaggio da una fase di “capitalismo monopolistico di stato” a una fase di “capitalismo globalizzato”, che ora si è completata. La caratteristica principale di quest’ultima è l’aumento dell’interconnessione, dell’integrazione e della internazionalizzazione dei capitali. Si afferma un nuovo tipo di grande impresa transnazionale, caratterizzata dall’essere dislocata in più paesi, oltre che sul piano della produzione, anche sul piano della direzione e di altre importanti funzioni e dall’essere partecipata da capitali multinazionali. Per il capitale internazionalizzato la crescita del Pil domestico dei singoli Paesi di origine ricopre ora un interesse molto più limitato che nel passato. Il livello dei suoi profitti dipende dalla capacità di investire capitali liberamente in tutto il mondo, realizzando economie di scala a livello internazionale, anche attraverso fusioni e acquisizioni all’estero. Di conseguenza, agli occhi del capitale globalizzato le tradizionali politiche keynesiane, basate sul debito pubblico, e le forme di mediazione sociale, basate sulla democrazia parlamentare, che gli erano collegate, risultano non solo inutili ma anche dannose. Questa è, in estrema sintesi, la base strutturale delle modificazioni sociali, politiche e istituzionali cui assistiamo da circa un ventennio in Italia e nell’area euro.

D. Giorgio Cremaschi su queste pagine dichiarava: “O c’è la rottura con ue ed euro o ci saranno solo sconfitte” .  Domanda secca: Contro l’Euro o contro l’Europa? In altri termini ti chiediamo di spiegarci meglio che differenza sussiste tra queste due entità.

R. Ritengo che il vero problema su cui concentrarci in questo momento sia l’integrazione valutaria, più che la Ue in sé stessa, per quanto questo organismo sia tutt’altro che neutrale dal punto di vista di classe. L’integrazione valutaria europea non è una semplice appendice della Ue. La moneta unica è la leva strategica per ristrutturare i processi d’accumulazione del capitale europeo in modo coerente con la fase di globalizzazione, scaricando la crisi di sovrapproduzione sul lavoro salariato e sui settori non internazionalizzati del capitale. Nello stesso tempo l’integrazione valutaria rappresenta l’anello debole dell’integrazione europea sul quale insistere, a causa delle molte contraddizioni che produce in modo sempre più evidente a larghi settori sociali. Tre sono gli aspetti più deleteri dell’euro: a) l’alienazione del controllo del bilancio pubblico dai parlamenti nazionali ad organismi sovrannazionali; b) l’autonomia della Banca centrale europea, con la conseguente impossibilità a controllare i tassi d’interesse sul debito pubblico e la sua utilizzazione come arma di pressione per imporre le controriforme di struttura; c) l’introduzione di cambi fissi che porta alla deflazione salariale. L’euro è una gabbia che ha ostacolato e ostacola l’organizzazione di una efficace controffensiva del movimento dei lavoratori europeo contro il neoliberismo. Inoltre, l’euro, creando divergenze nelle economie tra i Paesi europei, aumenta le divisioni all’interno della classe lavoratrice europea. Per queste ragioni credo che l’obiettivo del superamento e della disgregazione dell’area euro debba essere posto al centro non solo delle lotte dei lavoratori dei singoli paesi europei ma anche come fondamento della ricostruzione di un nuovo internazionalismo europeo. Questo non vuol dire che l’uscita dall’euro risolverebbe ogni problema o che non comporterebbe delle difficoltà. Vuol dire che la lotta contro questa Europa e contro l’euro è un elemento per noi imprescindibile e che l’uscita dall’euro è una condizione necessaria anche se non sufficiente per la ripresa di una più ampia critica al capitalismo e alle politiche neoliberiste che ne esprimono gli interessi. Per questo è necessario collegare alla critica all’euro e alla proposta di fuoriuscita dall’euro una serie di proposte programmatiche: dalla ripresa degli investimenti pubblici nella produzione diretta di beni e servizi (anche al di fuori del mercato), alla realizzazione di un polo pubblico bancario, alle ripubblicizzazioni e reinternalizzazioni di imprese privatizzate e di servizi pubblici esternalizzati, alla abolizione della indipendenza della banca centrale.

D. Sempre Cremaschi, in riferimento alle posizioni espresse da Stefano Fassina su questo giornale, dichiarava: “Trovo incredibile che le forze della sinistra che ancora oggi sostengono Tsipras non intendano trarre alcun insegnamento dalla sua esperienza. Non esiste una dialettica tra piano A e piano B come invece si propone Fassina. Il piano A, la riforma in senso anti liberista delle istituzioni europee è quello sul quale si è infranta la speranza del popolo greco. Le istituzioni europee o sono liberiste o non sono.” Beh effettivamente è difficile dargli torto, tu cosa ne pensi?

R. Bisogna tenere conto che la Grecia è un Paese piccolo con una economia debole, basata essenzialmente sul turismo e sui noli. Priva di una vera industria manifatturiera, ha un debito commerciale notevole che si aggiunge a quello pubblico rendendone difficile la gestione e riducendo la capacità del Paese di opporsi ai ricatti dell’Europa. L’Italia è in una condizione diversa, avendo la seconda struttura manifatturiera d’Europa e un surplus commerciale che è andato crescendo negli ultimi anni, senza contare che il nostro debito è detenuto in gran parte all’interno. Non ci possiamo, però, nascondere che ai limiti oggettivi della Grecia si è aggiunto un grave errore soggettivo commesso da Syriza e dal premier Tsipras, consistente nel fatto di ritenere che fosse possibile risolvere la situazione semplicemente portando la trattativa dal livello tecnico delle istituzioni europee (cosiddetta tecnocrazia di Bruxelles e Francoforte) al livello politico dei governi. Così non è stato e il governo greco è stato costretto ad accettare i diktat europei. Il punto è che non è possibile bypassare i meccanismi oggettivi costituiti dall’euro e che l’Europa – intesa come istituzioni sovrannazionali – e gli esecutivi dei Paesi europei esprimono la stessa unità di intenti. Anche per questo credo sia parziale, come fanno alcuni, concentrare la critica sulla Germania e sul suo governo. In sintesi, l’esperienza di Syriza e di Tsipras ci dice che non è possibile uscire dalla crisi da sinistra senza superare l’euro. Ciò oggettivamente fa sì che il Piano B sia diventato oggi il piano A.

D. Le istituzioni del capitalismo internazionale (UE, BCE, FMI) dettano le ricette, i governi cucinano le stesse minestre con ingredienti differenti. E’ proprio così? E qual è il ruolo degli stati nazionali in questa fase allora?

R. Il fatto che ci troviamo in una fase di capitalismo globale non significa che gli stati nazionali perdano la loro funzione e il loro ruolo. Anzi, è proprio la globalizzazione ad acuire i contrasti e la concorrenza fra capitali che si avvalgono dell’appoggio degli apparati statali. Gli stati e i capitali sono uniti quando si tratta di attaccare i lavoratori europei, e divisi quando si tratta di spartirsi le risorse e i mercati. Quindi, mentre gli stati deboli e economicamente dipendenti si disgregano, gli stati più forti e imperialisti si rafforzano e sono più attivi di prima a livello internazionale e militare per la conquista di mercati di sbocco ai capitali e alle merci eccedenti e per la spartizione delle materie prime della periferia. Ciò vale anche per l’Europa, in cui si assiste alla crescita delle divergenze e dei contrasti fra gli stati-nazione che la compongono su molti temi, dall’economia, alla sicurezza, all’immigrazione, ecc. Gli stati europei hanno delegato, e in quanto stati sovrani in modo non definitivo, soltanto alcune funzioni di carattere economico, allo scopo di bypassare i parlamenti nazionali e realizzare quelle controriforme generali che altrimenti, senza l’integrazione europea, non sarebbe stato possibile realizzare. Inoltre, bisogna dire che a prendere le decisioni più importanti sono organismi che riuniscono i premier e i ministri economici europei, i quali, ritornati in patria, si nascondono dietro il classico “ce lo chiede l’Europa”. Il fatto più importante è che l’integrazione europea ha permesso l’attuazione del principio della governabilità, cioè la prevalenza sui legislativi degli esecutivi, che, attraverso le leggi elettorali maggioritarie, sono espressione diretta delle istanze del vertice del capitale, quello più internazionalizzato. Il principio di governabilità è stato negli ultimi quarant’anni il leitmotiv dell’azione del capitale. Significativa a questo proposito l’introduzione di Gianni Agnelli a La crisi della democrazia del 1975, che vedeva nella diffusione della democrazia di massa un serio limite al proprio potere e ai propri profitti.

Globalizzazione e decadenza industriale. Intervista a Domenico Moro

Pasquale Vecchiarelli e Andrea Fioretti | lacittafutura.it

08/04/2016

Seconda parte

D. La Costituzione come perno centrale sul quale incardinare un’alleanza con la piccola borghesia in funzione progressista per l’uscita dall’UE e dall’Euro è una novità o un film visto? In altri termini , esiste una questione relativa alla sovranità popolare contrapposta alla sovranità nazionale ?

R. Per non pochi di quanti si collocano a sinistra attaccare l’euro e l’Europa vuol dire ritornare al passato e soprattutto cedere al nazionalismo, confondendosi magari con partiti di destra estrema e xenofoba come la Lega. In verità, è stato l’euro a introdurre elementi di divisione tra lavoratori europei e a ridare fiato ai nazionalismi, portando i paesi europei non alla convergenza economica, come era stato promesso, ma alla divergenza. Basta pensare all’odio che oggi corre, di nuovo dopo la Seconda guerra mondiale, tra greci e tedeschi. Inoltre, la convergenza bipartisan a livello europeo tra centro-destra e centro-sinistra, cioè tra Partito popolare e Partito socialista europei, riguardo all’accettazione dell’integrazione europea e dell’austerity ha lasciato un enorme campo libero alle formazioni della destra, che ne hanno approfittato, crescendo elettoralmente. C’è una analogia tra la situazione attuale e quella del 1914. Allo scoppio della Prima guerra mondiale la socialdemocrazia europea determinò la débacle del movimento operaio con il voto ai crediti di guerra, oggi la débacle del movimento operaio europeo è determinata dall’appoggio della socialdemocrazia europea al processo di integrazione europea. Dunque, oggi la ricostruzione di un nuovo internazionalismo tra i lavoratori europei passa per la lotta contro l’Europa dei capitali e attraverso la disgregazione dell’area euro, così come allora la ripresa dell’internazionalismo passò per la lotta contro la guerra e per la disgregazione dei governi che l’avevano promossa. I partiti di destra e populisti e la loro critica all’euro sono espressione di settori di piccola borghesia e del capitale usciti perdenti dalla riorganizzazione globale. Invece, la nostra critica esprime gli interessi del lavoro salariato, ed è per questo che il nostro obiettivo non può limitarsi a un generico ritorno alla sovranità nazionale. Il nostro obiettivo deve essere il recupero e l’allargamento della sovranità popolare e democratica, cioè la capacità di influire sulle decisioni da parte delle classi subalterne, combattendo il principio di governabilità e il primato degli esecutivi nazionali e degli organismi sovrannazionali imposti dal capitale. Questo obiettivo è non solo condizione necessaria al superamento della crisi da sinistra, ma anche condizione necessaria alla ripresa del percorso di trasformazione della società europea in senso socialista in questa epoca storica.

D. A Madrid si è svolto a febbraio un meeting internazionale su un Piano B in Europa. Alcune posizioni di esponenti di spicco e promotori come Varoufakis , e Stefano Fassina in Italia, esprimono una posizione che non sembra fare i conti fino in fondo con l’ultima esperienza greca, che pure pongono a critica, e pensano a una “riforma” della UE. Eppure all’interno dello stesso meeting questa non è stata la posizione predominante perchè altri autorevoli esponenti come Oskar Lafontaine, Costa Lapavitsas o Zoe Konstantopoulou (la ex-presidente del Parlamento greco) hanno posto al centro una posizione a favore della rottura dell’Unione Monetaria. Quale è la tua posizione in questo dibattito?

R. In primo luogo bisogna chiarire che alcuni mesi fa era stato redatto un documento intitolato “per un Piano B in Europa” e firmato da Varoufakis, Melanchon, Lafontaine e Fassina. A Parigi a gennaio si tenne un primo convegno, dove erano presenti Melanchon, Lafontaine e Fassina mentre mancava Varoufakis. All’incontro di Parigi, al quale partecipai anch’io, la questione della necessità/possibilità del superamento dell’euro mi è parso emergesse chiaramente, anche se con delle differenze tra i presenti. Invece, nel febbraio successivo, a Madrid, dove dei firmatari originari era presente solo Varoufakis, la questione dell’uscita dall’euro mi pare che sia stata messa in ombra. Per Varoufakis la risoluzione dei problemi sta nella democratizzazione dell’Europa. La debolezza di questa impostazione risiede nella sua astrattezza, cioè nel fatto che non affronta quei meccanismi istituzionali, vale a dire l’architettura europea e dell’euro, che sono strutturalmente congegnati allo scopo di consentire il governo delle élite capitalistiche europee sui processi economici e politici. Anche le altre proposte che sono uscite da Madrid si concentrano sul debito e sono in definitiva molto deboli. La proposta di audit sui debiti locali, regionali e infine nazionali può essere utile per criticare gli sprechi e per redistribuire le risorse. Tuttavia, non risolve il problema della riduzione della ricchezza sociale e della compressione delle risorse pubbliche e soprattutto la questione della alienazione del controllo su bilancio e debito pubblico a favore di organismi sovrannazionali, che rappresenta il vero ostacolo ad una gestione corretta del debito. Infine, la disobbedienza ai trattati porterebbe di fatto al di fuori dell’euro, esponendo chi la praticasse agli stessi ricatti cui è stata sottoposta la Grecia di Tsipras e senza la chiarezza necessaria ad affrontarli. In sostanza a me pare che si voglia evitare di affrontare il vero problema, l’appartenenza all’area euro. In questo modo, si finisce per considerare l’Europa, che poi è questa Europa dei capitali e non una qualche Europa immaginaria, come l’unico orizzonte possibile entro il quale circoscrivere la propria azione, condannandosi così alla marginalità politica.

D. Noi pensiamo che la questione dell’Europa sia cruciale perché, come già teorizzato in passato, bisogna combattere contro tutti gli imperialismi ma in primis contro quello di casa propria. Detto questo, la problematica dell’uscita dalla UE oggi non può che assumere solo una dimensione strategica perchè rimane da risolvere una problematica più stringente per i comunisti: l’organizzazione per la presa del potere e il rilancio di una prospettiva di superamento del capitalismo. Con l’attuale organizzazione credo sia difficile immaginare di poter guidare qualsiasi processo di rottura con il polo imperialista europeo. Sei d’accordo? E quindi su che terreno porre questa questione?

R.L’organizzazione per la presa del potere non si realizza per una spinta volontaristica, come se bastasse volerla o convincersi della sua giustezza per farla. La sua realizzazione richiede un processo di costruzione lungo e laborioso. Infatti, bisogna tenere conto che il campo di chi aspira al rovesciamento dei rapporti di produzione per instaurare il socialismo non è mai stato così diviso e frammentato e così poco radicato nella realtà sociale. E non si tratta di una situazione solo italiana, tanto per essere chiari. Durante il fascismo il radicamento era ancora minore di quello attuale ma esistevano dei nuclei dirigenti organizzati e soprattutto punti di riferimento forti. Questi erano dati non soltanto dalla presenza dell’esempio e dalla forza statuale dell’Urss ma anche dalla condivisione di un sistema di conoscenze, di metodi e di idee che permettevano di spiegare e affrontare quella fase del capitalismo. Esisteva cioè un paradigma di riferimento che guidava l’azione. Quel paradigma si è progressivamente disgregato, lasciando dietro di sé alcuni residui rinsecchiti, come fa la marea quando rifluisce. In parte quel paradigma si è trasformato in una serie di ideologie parziali che si sono sostituite al marxismo e non offrono una visione generale e quindi non permettono nè di pensare nè di organizzare una trasformazione generale dei rapporti di produzione.

Negli ultimi venti anni gran parte dei gruppi dirigenti della sinistra sono rimasti legati a quel paradigma o a quel che ne rimaneva nelle sue più differenti varianti o alle sue trasformazioni eclettiche, mentre il mondo attorno cambiava. In sostanza si è preteso di andare avanti procedendo con la testa rivolta all’indietro. Ad esempio, malgrado il blocco sociale keynesiano fondato sulle politiche espansive e sul debito pubblico si fosse ormai disgregato, si è continuato a pensare che la formula del centro sinistra e la partecipazione ai suoi governi fossero ancora praticabili. Ugualmente si è continuato ad avere come prospettiva l’europeismo, malgrado questo concretamente favorisse tutt’altra cosa rispetto a quanto idealizzato. C’è, quindi, bisogno di ridefinire un nuovo paradigma attraverso una applicazione insieme creativa, originale e rigorosa delle categorie marxiste. Il primo passo è svolgere e soprattutto condividere una analisi del passaggio dalla vecchia forma di capitalismo a quella nuova, come ho cercato di fare nel mio libro, che in definitiva ruota attorno alla categoria di capitale globalizzato. È su questa base che vanno definiti e, sottolineo, condivisi un profilo politico-ideologico forte e un posizionamento politico chiaro e alternativo rispetto al centro-sinistra e all’integrazione valutaria europea. È solo sulla base di queste premesse che possiamo e dobbiamo fare “politica”.

Troppo spesso abbiamo dato la preminenza all’invenzione di formule politiche e elettorali come se queste in sé stesse potessero avere un effetto salvifico. Le alleanze, politiche e elettorali, certo sono importanti. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che è la politica il terreno su cui si combatte la battaglia e che la tentazione più facile cui si corre il rischio di soggiacere, in una fase di minoritarismo, è proprio quella di rinchiuderci in noi stessi, nel tentativo di difendere una identità minacciata. Ma, d’altro canto, ciò che definisce una alleanza e la sua forma sono i suoi contenuti. Ed è evidente che senza un profilo e un posizionamento definiti l’intrapresa di ogni alleanza è destinata o ad abortire o a tradursi in subalternità al capitale.