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(© Getty Images) Combattenti libici.
Almeno 1.700 tra gruppi armati e milizie, secondo un recente rapporto delle Nazioni unite.
La seconda città libica, ed ex capitale economica, Bengasi, distrutta dalla guerra, senza acqua ed elettricità e in mano ai jihadisti di Ansar al Sharia, in parte Isis.
Caduto Muammar Gheddafi, la gente brindava, ridendo alle bombe Nato sganciate a fiotti per il giorno del suo compleanno.
Nel 2011 i commerci di Tripoli e gran parte della quotidianità erano rimasti intatti.
Quattro anni dopo tanti vorrebbero tornare indietro.
IN FUGA A MALTA. «Prima avevamo un nemico, oggi ce ne sono tanti, centinaia, e non sappiamo chi sono», dicono.
«Ti rapinano e sei scomodo ti uccidono, ti buttano in un fosso e nessuno ti trova», racconta una famiglia di Tripoli a Lettera43.it, «non sappiamo a chi rivolgerci».
Decine di migliaia tra gli oltre 6 milioni di libici sono riparati a Malta o in Italia, dove diversi professionisti avevano e hanno attività legate alla finanza e al petrolio.
L’INFERNO DI BENGASI. Se nella capitale all’apparenza – numerose famiglie sono vittime di sequestri, le loro case vengono depredate per finanziare le milizie – si può ancora condurre una vita normale, a Bengasi si mangiano da più di un anno derrate, senza servizi, nell’inferno dei bombardamenti e del coprifuoco.
Radio e tivù sono chiuse, si trasmette solo dall’estero.
La soleggiata Derna un tempo era una bella città costiera, poi è diventata covo di reduci dall’Afghanistan, infine emirato dei tagliagola dell’Isis.
Le guardie di al Qaeda, in lotta con l’Isis, l’hanno ‘liberata’, ma è tutto molto precario.
Un terzo dei libici sfollati: guerra civile dal 2014

(© Getty Images) Il parlamento assaltato di Tripoli.
È un miracolo che la Banca centrale libica non abbia mai smesso di funzionare e che, grazie ai giacimenti offshore, l’Eni (il 70% del Pil libico dipende dal petrolio) continui a pompare quantità di gas e petrolio pressoché invariate.
Ma la guerra e il terrorismo dilagante cominciano a pesare seriamente, in un Paese di indole non estremista come la Libia, con pochi abitanti e con la grande risorsa dell’olio nero, ma senza strutture né difese statali per arginare le infiltrazioni e il proliferare delle milizie nei vuoti di potere.
A Sirte, per unirsi all’Isis sarebbero arrivati anche combattenti di Boko Haram.
QUASI 5 MILA MORTI DAL 2014. Dal database di Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project) solo dal 2014 – l’anno della fuga delle ambasciate per l’esplosione della guerra civile tra i due gruppi, poi anche parlamenti e governi rivali, di Tripoli e Tobruk – si contano oltre 4.600 morti nei combattimenti.
Le Nazioni unite stimano almeno 435 mila sfollati, un terzo di libici dormono in «alloggi precari» nel Paese.
ATTIVITÀ COMMERCIALI CHIUSE. Negozi e attività commerciali chiudono, uno dopo l’altro, a Tripoli: molti stipendi sono bloccati, e la disoccupazione è in aumento.
Una povertà che con Gheddafi i libici non conoscevano.
I negoziati in Marocco tra gli islamisti di Alba libica che occupano il Congresso nazionale di Tripoli e i rappresentanti esiliati nell’Est, a Tobruk, dell’Operazione dignità vanno sorprendentemente avanti.
ACCORDO DI GOVERNO VICINO. Alla vigilia della festa dell’Eid al Adha, l’inviato dell’Onu Bernardino Leon ha annunciato una bozza da firmare per l’accordo di un governo di unità nazionale, raggiunto all’80%.
E a Misurata la brigata e l’amministrazione di riferimento di Alba libica hanno iniziato a liberare detenuti gheddafiani vicini al governo di Tobruk.
Ma i libici non hanno grande fiducia nella tenuta dell’intesa che, con un interlocutore unico, darebbe il via libera al dibattito all’Onu, per un secondo intervento militare dal 2011.
MACCHIE CRIMINALI DAL PASSATO. Sia i politici del parlamento esiliato a Tobruk, sia i rivali del Congresso a Tripoli dipendono infatti dalle loro milizie di riferimento, guidate da personaggi che in passato si sono macchiati di grandi violenze e talvolta anche di azioni criminali.
Partiti e governi in mano alle milizie

(© Getty Images) Il generale libico Khalifa Haftar.
Il generale Khakifa Haftar che da mesi tenta di liberare Bengasi da Hansar al Sharia – gheddafiano, poi oppositore del regime infine golpista fallito – è per esempio in conflitto con il premier di Tobruk Abdullah al Thani: vuole decidere sui negoziati al posto suo e per sfuggire dal suo ricatto, a settembre, al Thani ha tentato la fuga a Malta.
Gli islamisti foraggiati dalla Turchia al governo a Tripoli sono invece ostaggio del capo del Congresso Nouri Abu Sahmain, il berbero islamista che con le milizie Libya Revolutionaries Operations Room (Lror) ha assaltato tutti i palazzi del potere e intimidito la magistratura, fino a far riconoscere, dopo il golpe, il nuovo governo nella capitale dalla Corte suprema.
MISSIONE A GUIDA ITALIANA. L’anti-Haftar che ha studiato relazioni internazionali in Gran Bretagna è di Zuara, il porto dei traffici dei migranti: gli islamisti del suo blocco politico combattono l’Isis a Sirte, ma sono accusati di finanziare Ansar al sharia a Derna e Bengasi e Sahmain è accusato anche di amicizie con i boss dei barconi.
In altre parole, entrambi i governi libici che negoziano con l’Onu sono in mano a banditi.
In questo quadro l’Italia, che dal luglio 2015 coordina, dal quartier generale a Roma, la missione Ue Eunavfor nel Mediterraneo contro gli scafisti, si è candidata ad «assumere un ruolo di guida in Libia, per l’assistenza e la collaborazione alla stabilizzazione».
«Se il nuovo governo libico ce lo chiederà, siamo pronti», ha dichiarato il premier Matteo Renzi all’Assemblea generale dell’Onu.
Frenati da Renzi ma consigliati dai servizi segreti, i ministri della Difesa e degli Esteri, Roberta Pinotti e Paolo Gentiloni, hanno a più riprese auspicato anche truppe a terra italiane in Libia.
FORZE SPECIALI IN LIBIA? Da mesi Roma preme per agire e non è chiaro neanche se in Libia operino già forze speciali o squadre d’intelligence italiane, anche solo per liberare i quattro operai italiani dell’impianto di Mellitah cogestito dall’Eni, rapiti in estate.
Il giallo sul trafficante libico ucciso a Tripoli da «professionisti che parlavano italiano», e con pallottole non usate in Libia, è stato derubricato a una bufala dei media: Roma ha smentito, il tam tam di accuse, anche dei politici libici, si è sgonfiato.
Ma troppe voci circolano in Libia, da qualche mese, sui trafficanti nel mirino degli italiani. Sulla missione militare comunque, decideranno Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, con una risoluzione pendente all’Onu: l’Italia non è nel Consiglio di sicurezza.
Twitter @BarbaraCiolli
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