Ankara dovrà “difendersi” da sola, il Pentagono ci ripensa: “Ritiriamo i nostri caccia dalla Turchia” da. difesaonline.it

(di Franco Iacch)
17/12/15

Gli Stati Uniti ritireranno i dodici caccia dalla base di Incirlik, inviati il mese scorso per proteggere lo spazio aereo turco dalle incursioni russe, nelle prossime ore. E’ quanto hanno comunicato poche ore fa dal Pentagono. Quest’ultimo minimizza la decisione, affermando che i caccia facevano parte di un semplice “dispiegamento temporaneo in Europa”.

Ha aggiunto il portavoce del Pentagono capitano Jeff Davis. “Non vorrei che leggeste qualcosa che non c’è. La nostra capacità di colpire lo Stato islamico resta immutata”. Sarebbe opportuno rilevare che gli USA ritireranno nelle prossime ore soltanto i caccia puri come gli F-15C e gli F-15E, equipaggiati anche per il combattimento aria-aria.

Al di là delle frasi di rito, sappiamo che quei caccia non erano stati schierati in Turchia per attaccare lo Stato islamico, che non possiede alcuna forza aerea, ma per proteggere la sovranità aerea di Ankara da Mosca.

Aggiungono dal Comando Europeo “La base di Incirlik ospita ancora dodici A-10 ed altre piattaforme UAV. Il numero dei velivoli della Coalizione è destinato ad aumentare nei prossimi mesi”. Anche in questo comunicato, nessun commento sulla reale missione degli F-15. I russi non sono mai menzionati.

Politicamente corretto? Una mossa che lascia comunque stupiti perché per la seconda volta nel giro di pochi mesi, gli USA rivedono le proprie strategie aria-aria. L’annuncio del ritiro dei caccia è giunto a margine della visita del segretario alla Difesa degli Stati Uniti Ash Carter che ha visitato Incirlik e ha parlato con le truppe americane. Tutti gli F-15 ritorneranno nelle prossime ore in Gran Bretagna. E’ innegabile però che questa nuova mossa degli USA, lascia spazio a diverse interpretazioni.

Scrivevano dal Pentagono il cinque novembre scorso: ”Vogliamo essere in grado di proteggere lo spazio aereo turco. E’ quello che facevamo con i missili Patriot ed è ciò che continueremo a fare con gli F-15. Ci auguriamo che la Russia rispetti la sovranità dello spazio aereo turco. Fino a quando non lo violeranno non ci saranno problemi. Siamo certi che non ci saranno problemi”.

Sono venute meno le esigenze operative a distanza di un mese, per quella mossa che rappresentava un unicum nel panorama delle missioni straniere degli USA? Gli F-15C, infatti, non sono mai stati schierati in Afghanistan, né in Iraq. La guerra in Siria sembrava diversa, considerando gli intercettori russi schierati nella Regione ed armati con missili aria-aria. O, forse, c’è dell’altro. Perché se è vero che da un lato i pattugliamenti aerei si sono svolti per un mese, gli F-15 americani non avrebbero potuto attaccare il nemico. O meglio. Non avrebbero potuto difendere lo spazio aereo turco perché non sono mai state stabilite le regole d’ingaggio. Allora, se così fosse, la mossa di ritirare gli F-15 ha senso.

Perché lasciarsi trascinare in una guerra, quando lo stesso paese richiedente non delinea i protocolli operativi? Quindi, il ritiro dei caccia puri dalla Regione, potrebbe davvero aver senso. Eppure ancora una volta ritornano alla memoria le dichiarazioni del Pentagono: “Il compito degli F-15, sarà quello di irrigidire le difese aeree turche contro le interferenze russe”. In un mese, le interferenze russe sembrano essere svanite. Da rilevare, infine, che gli F-15C sono stati inviati in un preciso momento, quando si credeva che la Russia stesse per aumentare le violazioni delle frontiere turche. Quel dispiegamento è avvenuto prima dell’abbattimento del Su-24 russo ad opera dei turchi e la conseguente entrata in servizio della linea S-400/S-300.

Le implementazioni russe in Siria hanno complicato tutto. Gli F-15C americani non hanno mai avuto un obiettivo. Avrebbero potuto difendersi soltanto se attaccati (ma in quel caso sarebbe stato un vero e proprio atto di guerra). Stati Uniti e Turchia non hanno mai stabilito le regole di ingaggio per i caccia americani.

Agli occhi di una parte del mondo, comunque, gli USA si sono “ritirati” per la seconda volta dal Medio Oriente (la prima volta quando ritirarono la Roosevelt in servizio nel Golfo Persico per manutenzione).

(foto: US Air Force)

È scomparsa la proposta che criminalizza la tortura: non ce n’è traccia alla Commissione giustizia da. libertàegiustizia.it

È scomparsa la proposta che criminalizza la tortura: non ce n’è traccia alla Commissione giustizia

Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente.
Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’ANM, il risultato — prevedibile — è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori.
Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla.
Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. Antigone attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo.
Si arriva al 2012.
Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura».
Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili.
La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio?

Il Manifesto, 12 dicembre 2015

(*) Presidente di Antigone

Catania 100mila euro spettacolo di Capodanno. Stesso concerto costato 23mila euro a Trento, 13mila a Lamezia. da. catania bene comune

 

Eugenio Bennato fa ballare e divertire a Capodanno, da grande artista. Lo ha fatto la notte di Capodanno 2013-2014 a Lamezia Terme, in provincia di Catanzaro. Quel concerto, tutto compreso, service audio-luci, palco, fonico, è costato al Comune di Lamezia Terme 12mila880 euro. La gente della città calabra si è divertita, ha ballato, ha stappato lo spumante e brindato con uno straordinario artista.

Capodanno 2014-2015, anche in quell’occasione Eugenio Bennato ha deciso di passare la notte del primo dell’anno in piazza, col suo pubblico. Questa volta nella città di Trento. Enorme palco coperto, mega luci, grande divertimento, piazza strapiena. Il Comune di Trento e il Centro Servizi Culturali S. Chiara per la realizzazione dell’intero evento, tutto compreso, anche con l’intrattenimento precedente e successivo all’esibizione di Eugenio Bennato, hanno speso 23mila246,70 euro. Qui il provvedimento di spesa del Comune di Trento.

A Catania il concerto che porterà Eugenio Bennato in piazza per Capodanno, attorniato da bravissimi artisti locali, costerà alla collettività 100mila euro.

Certo, oltre a Eugenio Bennato ci sono altri cinque artisti e band: i Crabs, Antonio Monforte, i Babil On Suite, le Malmaritate e IPercussonici. Ma anche ammesso che tali artisti abbiano un cachet di 5mila euro a performance, ricordando che la durata massima dell’intero concerto, comprese attese, presentazioni, cambi palco, brindisi è di 4 ore (mica il concertone del 1 maggio a San Giovanni), arriveremmo alla spesa di meno di 50mila euro.

D’altronde il Comune di Catania, nell’ambito del Progetto I ART lo scorso maggio 2015 ha impegnato la cifra di 51mila euro per la realizzazione di un concerto in Piazza Università e tre concerti itineranti. In piazza Università hanno allora suonato Alfio Antico, Q- Beta, Dounia, Agricantus, Malmaritate, Lello Analfino, Mario Incudine ed Agata Lo Certo, sono stati montati palco, luci, bagni chimici, transenne, generatori etc. ed è stata spesa solo una parte di quei 51mila euro stanziati. Qui il provvedimento.

Come già richiesto, l’Assessore Orazio Licandro deve rendere pubbliche le offerte presentate e rendere noti i costi del Concerto di Capodanno. Deve fornire, a 10 giorni dall’evento, tutti gli atti amministrativi e gli impegni di spesa, in modo che la città possa rendersi conto di come vengano spese le proprie risorse. Dovrebbero spiegare l’Assessore Licandro e il Sindaco Bianco come mai esiste questa differenza di costi tra Lamezia Terme, Trento e Catania e con che criterio è stata scelta proprio tale proposta artistica.

Catania ha bisogno di una programmazione culturale e turistica seria e non può permettersi di sperperare risorse pubbliche in un momento di così difficile situazione economica. La cultura e il turismo sono ambiti strategici per la crescita del benessere e della vivibilità della città ed è un bene che vi sia un intervento economico pubblico in tal senso. Sta tuttavia nella programmazione e nella partecipazione dei soggetti sociali e produttivi nelle decisioni, la distinzione tra giusto investimento e inutili prebende.

Una serie di eventi culturali, di richiamo nazionale e internazionale, finanziati o cofinanziati dal Comune, svolti in un lasso di tempo più ampio di un’unica serata, concertati con le società di trasporto aereo, navale e ferroviario al fine di ridurre il più possibile i costi per raggiungere Catania, magari in un periodo dell’anno che vede gli operatori culturali e del turismo maggiormente in difficoltà, pubblicizzati adeguatamente nei mesi precedenti, rappresentano un’occasione straordinaria per la città, come dimostrano centinaia di esperienze in tutta Italia.

Utilizzare cento mila euro della tassa di soggiorno per un concerto reso noto 13 giorni prima della sua realizzazione e la cui pubblicità non è ancora partita a quasi una settimana dall’evento è un atto demenziale ai fini dello sviluppo turistico della città e rende assolutamente immotivato l’utilizzo dei fondi della tassa di soggiorno, pagati dai turisti che, come prevede il regolamento, andrebbero investiti per migliorare le condizioni del turista, i servizi e la vivibilità della città.

Inoltre appare amministrativamente torbido un impegno di spesa per Capodanno subordinato all’approvazione del bilancio. Forse l’Amministrazione intende ricattare i consiglieri comunicando che senza l’approvazione immediata del bilancio di previsione salta il concerto?

Catania Bene Comune

– See more at: http://www.cataniabenecomune.it/notizia/notizie/100mila-euro-spettacolo-di-capodanno-stesso-concerto-costato-23mila-euro-trento#sthash.JbyDFa69.dpuf

“Quelle urla strazianti tra le onde ma era troppo tardi per salvarli” (DANIELE MASTROGIACOMO) di triskel182

naufragio

Le testimonianze.

Il racconto dei pescatori che hanno chiamato la Guardia costiera turca: “Tratto di mare difficile anche per i più esperti, e la loro barca era in pessime condizioni”.

«LE URLA e i pianti arrivavano fino a noi», racconta un marinaio turco imbarcato su un peschereccio che venerdì notte era impegnato al largo di Bodrum. «Il mare era cresciuto, sferzato dalle raffiche di vento che arrivavano da nord. Il cielo sembrava un mantello nero. Poi, all’improvviso, quelle grida. Ci siamo avvicinati. La barca era già piegata su un lato; imbarcava acqua e chi stava a bordo cercava di aggrapparsi per non finire in mare. Faceva un freddo gelido. In mare si muore assiderati nel giro di mezz’ora. Non c’è stato niente da fare. Abbiamo chiamato la Guardia costiera. Ci siamo allontanati quando abbiamo visto arrivare i militari».
Sono rare e confuse le testimonianze sull’ultima strage dell’Egeo. Un mare implacabile, soprattutto nel tratto che lega, virtualmente, la costa sud-est della Turchia al gruppo di isole greche di Kos, Pserimos, Kalymnos, Leros e Lesbo. Sette miglia di navigazione, poco meno di 12 chilometri. La costa entra nel mare con un largo promontorio e apre a ovest l’ampio golfo di Bodrum. Quello scorcio di rara bellezza, si è trasformato nella base di partenza per centinaia di migliaia di disperati che fuggono dalla guerra siriana e dalle minacce del Califfato nero.
Accade ogni sera. È successo anche venerdì notte. «Tra le banchine del vecchio porto e le spiagge della baia di Bodrum», spiega Aruk, un commerciante della zona al sito Todays Zaman, «ci sono migliaia di barche e gommoni. Li gestiscono i clan della tratta di essere umani che ormai si limitano a venderli. Chi vuole raggiungere le isole greche deve farlo a suo rischio e pericolo». I Caronte del nuovo business internazionale restano ben protetti a terra. Lavorano i mediatori. Mille, mille e cinquecento dollari per un posto a bordo. «E se il mare è in tempesta», aggiunge Aruk con malcelato cinismo, «c’è anche lo sconto». Solcare quel mare è impossibile. Bisogna essere veri marinai. Avere una barca efficiente e saper seguire una rotta a occhi chiusi. Le onde si incrociano per il vento che colpisce la costa, si insinua tra i canali delle isole con raffiche fino a forza sette e agita correnti che traversano la barca. Venerdì notte, a bordo della solita carretta di 12 metri, con il motore che sbuffava e la prua che faticava a reggere il mare, c’erano 32 disperati. Gente che vedeva per la prima volta l’Egeo, che forse non sapeva neanche nuotare, in grado solo di azionare la leva della velocità e di reggere a fatica un timone. Famiglie, soprattutto. Donne e moltissimi bambini. Dovevano raggiungere mariti, fratelli, già in Germania, Svezia, Austria, Finlandia, Danimarca. La nuova Terra promessa. Tutti siriani, iracheni, afgani. Appartengono alla borghesia che ha forgiato quei paesi. Hanno atteso quattro anni, sotto le bombe e in mezzo alle sparatorie, ai cecchini, ai cambi di fronte di quell’inferno di fuoco. Da settembre hanno finito per ingrossare l’immenso flusso di migranti rassegnato a una tragedia provocata da altri e della quale sono solo vittime e spettatori impotenti.
«Volevano raggiungere Kalymnos », spiega Alessandra Morelli, operatrice italiana dell’Unhcr, di stanza in Grecia. Probabilmente il mare ingrossato li ha fatti scarrocciare verso sud. «Erano in mezzo al golfo di Bodrum», ricorda ancora il marinaio del peschereccio che ha avvertito la Guardia costiera turca. «Avranno fatto al massimo un paio di miglia, mezz’ora di navigazione.
Articolo intero su La Repubblica del 20/12/2015.