I dittatori non amano la poesia da: ndnoidonne

La poetessa siriana Maram Al-Masri parla del popolo oppresso, della condizione delle donne, di chi fugge e di chi muore nel suo paese d’origine. È accaduto a settembre ad Agrigento, nella Valle de Templi, per iniziativa della Fidapa

Ester Rizzo

Le ho viste. / Loro, / i loro volti dai lividi celati. / Loro, / Gli ematomi nascosti tra le cosce / Loro, / i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite / Loro, / i loro sorrisi affaticati. / Le ho viste / tutte / passare in strada / anime scalze, / che si guardano dietro, / temendo di essere seguite / dai piedi della tempesta, / ladre di luna / attraversano, / camuffate da donne normali. / Nessuno le può riconoscere / tranne quelle / che somigliano a loro.
Sono i versi della poetessa siriana Maram Al-Masri, dedicati a tutte le profughe, alle “donne sommerse”, alle vittime di violenza.
Maram nasce a Lattakia, una città bagnata dalle onde del Mediterraneo, molto vicina all’isola di Cipro, l’isola di Afrodite, dea della bellezza e dell’amore, e lì trascorre i suoi primi vent’anni. Ma Maram è una “ribelle”, si oppone al regime dittatoriale di Assad ed è quindi costretta a fuggire, a rifugiarsi in Francia, a Parigi. Questa fuga la imprime per sempre con l’inchiostro su una pagina bianca: “Lì ho sepolto mio padre il giorno in cui ho deciso di partire con una sola valigia e la sua fotografia”.
A Lattakia, città martoriata oggi presa di mira dall’ISIS, vivono ancora tutti i suoi cari. E la sua terra le manca. Ci confessa che spesso fa un sogno: il suo bel paese finalmente libero e lei diventata un uccello dalle grandi ali che sorvola felice la sua nazione.
Tra le sue raccolte “Arriva nuda la libertà” dove, leggendo i versi delle sue poesie, si percepisce come lei sia diventata un tutt’uno con il dolore del suo popolo e quello che scrive è un regalo, un omaggio a tutti i siriani che hanno perso la vita sotto le bombe e le torture del regime.

La Siria per me / è una ferita sanguinante / è mia madre sul letto di morte / è la mia infanzia sgozzata / è incubo e speranza / è inquietudine e presa di coscienza. / La Siria per me / è un’orfana abbandonata. / È una donna violentata tutte le notti da un vecchio mostro / violata / imprigionata / costretta a sposarsi. / La Siria per me / è l’umanità afflitta / è una bella donna che canta l’inno della Libertà / ma le tagliano la gola. / È l’arcobaleno del popolo / che si staglierà dopo i fulmini / e le tempeste.
Le parole di Maram trafiggono le nostre coscienze: “avvolti nei loro sudari / i bambini siriani / sembrano caramelle da scartare / non fatte di zucchero / ma di carne / di sogno / di amore…”.

Definisce i suoi connazionali “figli della libertà”. E quello che succede oggi al mio popolo, dice Maram, è terribile ed ingiusto. “La Siria storicamente è stata terra di accoglienza per altri popoli nei momenti bui della loro storia: curdi, armeni, libanesi vi hanno trovato rifugio. Oggi invece il mondo arabo ha voltato le spalle, non concede visti, innalza muri e spesso, quando i profughi sono stati accolti, come in Serbia, non ci sono strutture ed organizzazioni adeguate. Si poteva e si doveva intervenire prima e questo ritardo ha creato delle piaghe che non curate sono andate in cancrena”.
Le chiediamo del ruolo delle donne e lei ci ricorda che le poetesse arabe hanno svolto un ruolo fondamentale nella storia dei loro Paesi. Dal 1949 al 1975 sono state ben 95 quelle che, tramite la loro poesia, hanno spezzato gli antichi canoni stilistici, hanno infranto le regole, hanno frantumato la tradizione ed esaltato la libertà, compiendo così una grande rivoluzione. “Oggi le donne sono la colonna portante della Siria e partecipano attimo per attimo alla rivoluzione. Tante giovani poetesse usano la poesia come forma per esprimere il loro diritto alla libertà”.

In ogni epoca la poesia non è mai stata tollerata dai dittatori, perché la poesia, anche se sembra fragile, come il profumo dei gelsomini, ha invece una forza potente che dimostra come la guerra è la più orribile delle realtà, e i versi possono diventare un inno alla giustizia ed alla libertà. “Con la poesia – ci dice – riesco a sublimare tutto lo squallore che ho intorno ed ogni giorno cerco la bellezza sperando sempre in un futuro migliore”.
I siriani oggi sono undici milioni, ieri erano venti milioni: sono stati decimati, attualmente non stanno combattendo una guerra civile ma una rivoluzione democratica. Il problema non è solo l’esodo del suo popolo, ma quello che succede a chi resta: fame, torture, prigione. “I siriani non stanno emigrando, stanno tentando di fuggire alla morte, attanagliati da una parte dallo spietato regime dittatoriale di Assad e dall’altra dall’ISIS”.
“Anime scalze” è il titolo di una raccolta di poesie di Maram e quelle anime quasi ci fanno percepire il lieve rumore dei passi scalzi di tante genti umiliate dall’indifferenza del mondo e soggiogate dalla violenza e dalla crudeltà. Sono anime in cammino sulle strade di questo nostro pianeta, alla ricerca di un angolo di pace.
“I rifugiati fuggono dalla morte ma ne sentono i passi risuonare alle spalle”.

Lettera aperta a Mattarella: emergenza Hiv tra i giovani, serve una strategia a partire dalle scuole da: lila.it

MattarellaIn occasione della giornata del volontariato abbiamo scritto al Presidente della Repubblica per chiedere il suo intervento per bloccare l’epidemia di Hiv che in Italia colpisce ogni anno circa 4000 persone con incidenza maggiore tra i giovani. Chiediamo in particolare che siano avviati nelle scuole percorsi di educazione all’affettività e alla sessualità.

Signor Presidente,
come associazione di volontariato oggi ci rivolgiamo a Lei chiedendo un suo intervento per riportare sotto la giusta luce la questione HIV che in Italia è da tempo uscita dall’agenda delle priorità con conseguenze molto gravi per la cittadinanza tutta, ma in particolare tra i giovani. A fronte di un assordante silenzio su questo tema, la percentuale di infezione di HIV tra la popolazione sessualmente attiva, oggi non è molto inferiore a quella registrata negli anni ’90, quando la lotta al virus era considerata un’emergenza.

I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicati questi giorni, hanno evidenziato una significativa ripresa dell’infezione nella regione europea. I dati italiani mostrano una costante progressione di circa 4000 nuovi casi all’anno da cinque anni e secondo lo stesso Centro Operativo Aids dell’Istituto Superiore di Sanità, potrebbero essere sottostimati. La fascia di età maggiormente colpita negli ultimi due anni risulta essere quella tra i 25 e i 29 anni. Da tempo l’infezione si sta diffondendo nella popolazione sessualmente attiva, interessando sia la comunità gay sia la popolazione eterosessuale.

Lo scarso ricorso al test della popolazione italiana, probabilmente dovuto alle difficoltà di accesso a questo strumento in forma anonima e gratuita – come previsto dalla Legge 135/90 – oltre che al forte stigma ancora presente nei confronti delle persone con HIV, rappresenta un forte ostacolo al controllo del virus. L’ultimo rapporto dell’ISS indica come la percentuale delle diagnosi tardive in Italia sia del 60%, con gravi danni per la salute delle persone a cui viene comunicato tardi lo stato di positività all’HIV, ma anche importanti ricadute sulla salute pubblica, in quanto la diffusione del virus sembra avvenire principalmente attraverso portatori inconsapevoli.

Il test non viene eseguito neanche nei servizi del Servizio Sanitario Nazionale che si occupano di problemi di dipendenza, come emerge dalle ultime cinque relazioni al parlamento sullo stato delle tossicodipendenze pubblicate annualmente dal Dipartimento Politiche Antidroga dove si evidenzia come solo il 30% delle persone in carico viene sottoposta al test, nonostante tutte le linee guida internazionali sottolineino l’importanza di un costante monitoraggio periodico in questa fascia di popolazione.

Qual è il vero quadro della situazione italiana della diffusione dell’HIV? Come ma i dati su cui i policy maker dovrebbero prendere decisioni politiche e strategiche ma anche economiche, sono così carenti nel nostro paese? Rileviamo che nell’ultimo rapporto Osmed dell’Agenzia Italiana del Farmaco si afferma che i costi globali e i consumi degli antiretrovirali sono diminuiti nel corso del 2014, mentre dati dell’ISS, confermati da autorevoli ricercatori italiani, segnalano un aumento costante delle persone in cura anche in ragione dell’elevata quota di diagnosi tardive che richiedono il trattamento immediato. Per mettere in campo strategie preventive un paese deve conoscere bene la propria epidemia da HIV e forse anche per questo in Italia da anni non ci sono campagne di comunicazione efficaci e mirate, costruite

sulle evidenze scientifiche e da molto tempo sono quasi del tutto scomparsi gli interventi di prevenzione nei percorsi scolastici. Quest’anno il budget del Ministero della Salute sulla comunicazione in ambito HIV è stato di soli 80.000,00 euro, nonostante si stimi che in Italia vivano 150.000 persone con HIV di cui circa 30.000 inconsapevoli.

Pochi giorni dopo il primo dicembre non possiamo non segnalare come lo stigma e la discriminazione colpiscano fortemente le persone con HIV. Avrà seguito il caso della bambina con HIV – fortunatamente conclusosi positivamente grazie all’intervento della Ministra dell’Istruzione e di un’associazione attenta – rifiutata inizialmente da una scuola e da molte comunità di accoglienza. Questo episodio ci restituisce come la discriminazione sia ancora presente anche dentro alle stesse istituzioni che dovrebbero educare e vigilare sul rispetto dei diritti delle persone.

Come associazione di lotta all’AIDS, per quanto nelle nostre possibilità, stiamo cercando di cooperare con le istituzioni a tutti i livelli, sia nazionale che regionale e locale dove siamo presenti con le nostre sedi. Cerchiamo di collaborare con il Ministero della Salute e il Comitato Tecnico Sanitario istituito per la lotta all’AIDS, così come con tutte le istituzioni nazionali – dal’ISS al cui Presidente abbiamo appena mandato insieme ad altre associazioni un accorato appello sulla questione dati – al Dipartimento delle Politiche Antidroga e AIFA, con cui cerchiamo di interloquire da tempo per garantire alle persone con HIV l’accesso ai nuovi trattamenti per l’Epatite C. Ci sembra però che manchi nel nostro paese una cabina di regia del contrasto all’HIV. Il Comitato Tecnico Sanitario – nelle sezioni L e M di cui fanno parte ricercatori e associazioni – ha come unico interlocutore il Ministero della Salute e non contempla la presenza di altri Dicasteri fondamentali per una strategia efficace di contrasto all’HIV, come ad esempio il Ministero dell’Istruzione.

Il fatto che nei percorsi scolastici sia assente un programma di educazione all’affettività e alla sessualità quale strumento di prevenzione di comportamenti a rischio è stata recentemente ribadita anche dal Parlamento Europeo di Strasburgo (30 settembre 2015) laddove incoraggia gli stati membri a “considerare la possibilità di rendere obbligatoria l’educazione sessuale per tutti gli alunni nelle scuole primarie e secondarie”: questo è un primo intervento che Le chiediamo di sostenere.

La creazione di una cabina di regia che veda coinvolti oltre al Ministero della Salute, anche il Ministero dell’Istruzione, il Ministero delle Pari opportunità – per cooperare nelle azioni di contrasto allo stigma – la Conferenza Stato Regioni – per vigilare sull’utilizzo dei pochi fondi dedicati all’HIV – oltre a ISS, Dipartimento Politiche Antidroga e AIFA, consentirebbe un approccio più organico ed efficace anche in una situazione di risorse limitate come quella che sta vivendo il nostro paese.

L’infezione da HIV oggi rappresenta ancora un problema sia da un punto di vista epidemiologico, sia da un punto di vista economico. Per questo chiediamo una strategia di contrasto all’HIV che interrompa la catena di continue infezioni, che non può arrestarsi se non vengono messe in campo delle azioni concrete. Oggi l’Italia, è il secondo paese dell’Europa occidentale – seconda solo al Portogallo – per incidenza di AIDS . Crediamo che non ci sia più tempo da perdere.

Con i più cordiali saluti,

Massimo Oldrini
Presidente
Lega italiana per la Lotta all’AIDS

Massoni, toghe e divise infedeli: la Calabria è in ostaggio da. corrieredellacalabria.it

di Paolo Pollichieni

Mercoledì, 09 Dicembre 2015 15:05 Pubblicato in Politica

C’è un segmento, piccolo ma non per questo trascurabile, della magistratura calabrese che in passato ne ha fatte di cotte e di crude e, ciclicamente, ci riprova. Gli armamentari sono quelli vecchi: un paio di cronisti prezzolati, qualche messaggio trasversale per intimidire la politica, la riesumazione di vecchie ispezioni ministeriali, l’utilizzo di marescialletti adusi al piccolo cabotaggio. Li stiamo rivedendo all’opera in queste settimane.

C’è il tonto che ci casca sempre e si mette paura; c’è il politico pluriricattabile che si nasconde sotto il letto; c’è chi si ritene furbo e pensa di trarre vantaggi personali restandosene a guardare.

In mezzo a questo verminaio ognuno ha il suo obiettivo: presto ci saranno nomine pesanti ai vertici della magistratura calabrese a cominciare dal nuovo procuratore della Dda di Catanzaro per finire al procuratore capo di Cosenza, occorre tagliare le gambe ai migliori. Poi c’è da consolidare la “reggenza” di alcuni direttori generali che da sempre sono la cinghia di trasmissione con la cabina di comando, dove massoni e uomini della ‘ndrangheta gestiscono affari, appalti e territorio. Infine c’è da tenere sotto schiaffo quei magistrati che non si rassegnano e c’è da mettere la mordacchia a “quelli” del Corriere della Calabria.

Rispondiamo per il nostro segmento: si rassegnino! Non ci hanno messo fuori gioco i servizi segreti deviati. Non lo hanno fatto le solerti inchieste di chi voleva impedire la pubblicazione di atti importanti (la relazione del prefetto Basilone sulla sanità reggina, giusto per fare un esempio). Non ha prodotto effetti neanche la “fatwa” dell'(allora) potentissimo governatore Peppe Scopelliti. Figuriamoci se è robetta da sito-spazzatura, messo in piedi da chi mena vanto di essere inattaccabile perché nullatenente e quindi, avendo rinunciato da tempo alla dignità, personale, familiare e professionale, si ritiene “irresponsabile” davanti alle leggi, alle regole e alla deontologia professionale.

Non sprecheremmo tempo, non lo abbiamo fatto in passato figuriamoci adesso, per sbugiardare questo juke-box del fango pagato a gettone. È quello che sta alle spalle che ci interessa. E quello che sta alle spalle sa di toghe ammanicate, loro sì, con divise sporche, massoni spuri e imprenditori da saccheggio. La manovalanza la si lascia a personaggi che danno in mano al cronista veline da non pubblicare ma solo da mostrare al politico per vedere di renderlo malleabile.

E siccome non è nel nostro stile ammiccare, in altro servizio troverete fatti, personaggi, stranezze e circostanze che testimoniano questo trafficare attorno alla Giustizia.

Qui ci interessa ribadire alcuni concetti. Uno fra tutti: i loschi figuri che si illudono di condizionare il nostro quotidiano lavoro non riusciranno a farlo.

Anche i loro tentativi, piuttosto goffi, di trascinarci all’interno delle “cose cosentine” sono destinati all’insuccesso. Delle gare d’appalto si possono occupare i dante causa del Carchidi di turno, noi ci siamo occupati solo di quegli imprenditori che hanno portato le carte in Procura. Magari attendono ancora di sapere che fine hanno fatto, quelle carte, ma le hanno consegnate ai magistrati inquirenti. Come nel caso del “depuratore” (sic!) di Rende-Cosenza, quello che sotto gli occhi di Carchidi, e di qualche magistrato amico suo, ha inquinato, intossicato e distratto decine e decine di milioni di euro. Quando i carabinieri sequestrarono l’impianto il custode giudiziario pretese, e ottenne, che le consegne dai carabinieri arrivassero dopo verbale fotografico e filmati dei luoghi. Venne denunciato tutto quello che avrebbe trovato fuori regola: materiali vecchi venduti per nuovi, attrezzature inventariate ma inesistenti, fanghi altamente pericolosi gettati nei torrenti (dove ancora si trovano), impianti di sollevamento pagati ma mai realizzati, centraline di controllo che invece di essere posizionate all’uscita del depuratore erano messe all’ingresso, in modo che i test dell’Arpacal fossero tanto rassicuranti quanto falsi.

Siamo legati a doppio filo con Marco Minniti? Politicamente e professionalmente, assolutamente no. Lo conosciamo da sempre, ci stimiamo reciprocamente. Restiamo convinti che è un raro esempio di competenza, lealtà e onestà applicato alla politica. Ciò non ci ha mai impedito di andare avanti di testa nostra e non gli ha mai impedito di fare cose che, dal nostro osservatorio, troviamo semplicemente inutili, come quella, ad esempio, di pensare che il Pd calabrese sia, nella sua attuale classe dirigente, redimibile!

I servizi segreti li abbiamo visti da vicino spessissimo, erano sempre in rotta di collisione con la nostra strada professionale. Lo erano con le false bombe che ancora oggi garantiscono una scorta a Peppe Scopelliti. Lo erano con gli intrallazzi per far cadere la “primavera” di Italo Falcomatà, la cui morte seguitiamo a considerare un omicidio di Stato. Lo erano con le bombe messe da un poliziotto infedele, pagato dai servizi, negli ospedali di Locri e Siderno contro i parenti di Franco Fortugno.

Su queste cose abbiamo scritto decine di articoli con nomi e fatti. Per nessuno di questi siamo mai stati querelati. Certo, abbiamo avuto altri “fastidi”, ascrivibili tra questi anche le calunnie di questi giorni, rispetto alle quali siamo in buona compagnia, posto che colpiscono molti magistrati per bene e molti politici indigesti a “quel” grumo giudiziario-massonico-politico che ancora oggi resta in sella e pensa di intimidire chi gli sbarra la strada ricorrendo ai calunniatori di professione.

Questi orditori di faide e i loro messaggeri non ci impediranno di esistere e di resistere. In quanto a faide, è vero, ne abbiamo seguite tante: quella di Motticella, di San Luca, di Locri, di Taurianova, di Portigliola, di Cittanova. Abbiamo seguito anche la mattanza di Reggio (settecento omicidi in cinque anni). Ma quelle erano cosa seria, combattute da criminali feroci, abominevoli e spietati e tuttavia presentavano una loro compostezza e una loro dignità. A Cosenza, invece, c’è gente capace di spaccare vetri alle macchine per trafugare videocassette, oppure di tentare di estorcere 500 euro in cambio di alcune trascrizioni telefoniche. Ci sarà un tempo anche per loro e quando scadrà non sprecheremo spazio: dieci righe in cronaca, quanto meritano i ladri di dignità.

direttore@corrierecal.it

Il razzismo di Donald Trump ha successo perché non ha niente di comico da. internazionale.it

Donald Trump durante un comizio a Macon, in Georgia, il 30 novembre 2015. (Christopher Aluka Berry, Reuters/Contrasto)
  • 09 Dic 2015 16.27

Chi si chiedeva se fosse necessario prendere sul serio la candidatura di Donald Trump ha finalmente ottenuto una risposta.

Il suo vantaggio degli ultimi quattro mesi in quasi tutti i sondaggi per la candidatura repubblicana è sempre stato controbilanciato dall’ovvio: Trump è un buffone, con un riporto sfrontato, ridicolo e stravagante quanto la sua retorica. Ha offeso le donne, i messicani, le persone disabili, gli ebrei, i cinesi e gli immigrati.

Quanti lo consideravano un semplice intrattenitore hanno continuato ad aspettare che il suo pubblico di repubblicani capisse lo scherzo e passasse a candidati più presentabili. Ma il 7 dicembre, dopo aver invocato il divieto d’ingresso negli Stati Uniti per i musulmani, la sua presenza è diventata così ingombrante che anche i critici più sprezzanti hanno dovuto smettere di far finta che non esistesse.

Provocando la felicità dei suoi ammiratori, infatti, Trump ha letto una dichiarazione in cui si riferisce a se stesso in terza persona: “Donald J. Trump invoca una totale e completa chiusura delle frontiere degli Stati Uniti ai musulmani finché i nostri rappresentanti non saranno in grado di capire che diavolo sta succedendo”.

Gli americani sono abituati a sentire parole così velenose dai conduttori radiofonici e, occasionalmente, dai presentatori delle tv Fox. Ma ascoltarle dal favorito di uno dei principali partiti alla corsa per la candidatura alla Casa Bianca è stato più di quanto molti si sarebbero aspettati. Quelle che un tempo erano incitazioni all’odio marginali rispetto alla vita politica, oggi fanno stabilmente e fieramente parte del discorso politico. “Forse non è politicamente corretto, ma non m’importa”, ha aggiunto poi Trump.

In questo risiede buona parte della sua attrattiva. Esprime la frustrazione e il disorientamento di quella fetta di bianchi statunitensi non istruiti, non qualificati e sottopagati, i cui stipendi e la cui ascesa sociale si sono bloccati e che hanno nostalgia dei loro privilegi locali e del loro status globale. Negli ultimi tempi hanno perso guerre, posti di lavoro, case e fiducia.

Quando definisce i messicani “stupratori”, i cinesi “imbroglioni” e tutti i musulmani una potenziale minaccia, dà libero sfogo alle insicurezze che queste persone provano nei confronti di un mondo sempre più cosmopolita e imprevedibile, dal quale sentono di essere state escluse.In questo senso, la sua base elettorale non è molto diversa da quella del Front national, che ha appena trionfato nelle elezioni regionali francesi, dell’Ukip o dei diversi partiti di estrema destra che attualmente stanno crescendo in Europa.

“Le minoranze rappresentano un punto critico per una serie d’incertezze che stanno a metà tra la vita di tutti i giorni e il suo scenario globale in rapida evoluzione”, scrive Arjun Appadurai in Fear of small numbers. “Questa incertezza, inasprita dall’incapacità degli stati di assicurare la sovranità economica nell’era della globalizzazione, può trasformarsi in una mancanza di tolleranza nei confronti di qualsiasi tipo di comunità straniera”.

Non è Trump ad aver inventato il sentimento antislamico negli Stati Uniti

Quella di Trump era in parte una risposta alla sparatoria di San Bernardino, dove una coppia di musulmani, dichiarando il sostegno ai jihadisti dello Stato islamico, ha ucciso 14 persone. L’uccisione di massa, la numero 353 dell’anno, è stata definita dall’Fbi e da Barack Obama un “incidente terroristico”.

Per coloro che considerano come la principale minaccia i musulmani – invece che il facile accesso alle armi da fuoco – la sparatoria non ha rappresentato uno dei tanti episodi della violenza armata negli Stati Uniti, ma una particolare patologia che alimenta una paura latente.

Non è Trump ad aver inventato il sentimento antislamico negli Stati Uniti. Un sondaggio del Pew research institute del 2014 ha chiesto agli intervistati di valutare le diverse religioni su una scala da uno a cento, nella quale i punteggi più alti indicavano sentimenti positivi. L’islam si era piazzato in ultima posizione con 40, appena dopo gli atei, con 41. Un punteggio che scendeva a 33 tra gli elettori repubblicani.

Sfruttare l’intolleranza a fini elettorali

E in realtà, anche se i colleghi repubblicani lo hanno criticato il 7 dicembre, in pochi si erano indignati quando, appena due settimane prima, Trump aveva proposto un database per controllare i musulmani che vivono negli Stati Uniti. E non è stato l’unico a invocare misure discriminatorie.

Ben Carson, uno dei suoi principali avversari per la candidatura, ha suggerito che i rifugiati siriani dovrebbero essere controllati come se fossero “cani rabbiosi”. Nel frattempo, altri due candidati repubblicani, il senatore del Texas Ted Cruz e l’ex governatore della Florida Jeb Bush, hanno suggerito di dare la priorità ai cristiani tra i rifugiati che vengono dalla Siria.

Ma per quanto la corsa a chi discrimina di più sia partita da tempo, Trump ha sempre goduto di una posizione privilegiata per vincerla e sfruttare l’intolleranza nei confronti dei musulmani a fini elettorali. Un sondaggio di quest’anno ha mostrato come i suoi sostenitori siano quelli che provano i sentimenti più negativi verso i musulmani: il 77 per cento di loro è convinto che “i valori dell’islam siano incompatibili con i valori e lo stile di vita degli Stati Uniti”.

Più l’establishment lo critica, più i suoi sostenitori si convincono dell’idea che stia rompendo un tabù

Il sostegno nei suoi confronti, che stava declinando fino agli attentati di Parigi, si è da allora impennato, e lo stesso è accaduto al numero degli attacchi antislamici negli Stati Uniti. Per quanto i suoi commenti abbiano ricevuto serie critiche da tutto lo spettro politico, resta da dimostrare che questo l’abbia danneggiato. Più l’establishment lo critica, più i suoi sostenitori si convincono della sua dimensione di sfavorito e dell’idea che stia rompendo un tabù.

Il fatto che il suo sfoggio di xenofobia non l’abbia danneggiato tra i sostenitori repubblicani la dice lunga sul partito. Ma chiedersi che effetto avranno queste uscite sul piano elettorale è secondario rispetto al danno che sta chiaramente facendo alla vita politica americana.

Quando una discriminazione di queste dimensioni fa il suo ingresso nel mercato politico, svaluta una democrazia, indebolisce tutto e lascia tutti più divisi. Trump non sarebbe il primo politico che da ridicolo si trasforma in pericoloso prima che i mezzi d’informazione e le élite politiche si rendano conto che, in realtà, sono loro a subire la burla.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

Lo scempio della Sanità: non chiudere gli occhi e rialzare la testa da: Usb | usb.it

Convegno: Tra diritto e profitto uno sguardo critico sulla nuova sanità


Il convegno Fra profitto e diritto. Uno sguardo critico sulla nuova Sanità segna uno spartiacque nell’elaborazione e forse anche nella pratica di Usb Piemonte in tema di diritto alla salute.

Pensato come momento conclusivo di un lavoro di sensibilizzazione e di presenza territoriale e tra i presidi ospedalieri di Torino e della provincia, all’interno della campagna nazionale USB per la difesa del welfare, ma già da prima immaginato come tappa di un percorso di rilancio dell’intevento del sindacato nella sanità piemontese, il convegno di sabato 28 novembre a Torino Esposizione è stato davvero ricco di analisi, proposte, potenziali relazioni tra soggetti, spunti per la ripresa di una mobilitazione adeguata a quello che è emerso come un dato allarmante e incontrovertibile in tutti gli interventi: la scomparsa o per lo meno lo snaturamento più che avanzato del Sistema Sanitario Nazionale.

Nell’idea degli organizzatori del convegno, i delegati Usb del settore Domenico Martelli e Sarah Oggero insieme al coordinamento e alla segreteria territoriale del sindacato, l’iniziativa doveva fornire un apporto di conoscenza critica sul settore più delicato, dispendioso, controverso dell’apparato statale, con un occhio di riguardo, naturalmente, alla situazione del Piemonte. Una prospettiva, quella regionale, che assume una particolare importanza dal lato dell’intervento politico, essendo le Regioni interlocutori e controparti riconoscibili per lo meno ad un certo livello di rivendicazione.

2,352 miliardi di euro, il taglio del fondo sanitario; 285 milioni di euro, i tagli dei finanziamenti per l’edilizia ospedaliera, 71.000 infermieri in meno rispetto alle necessità; decine di migliaia di medici e infermieri precari, blocco dal 2010 del contratto di lavoro, 208 prestazioni sanitarie a rischio di appropriatezza. Questi solo alcuni degli agghiaccianti numeri ricordati da USB nei volantini di presentazione dell’iniziativa.

Nella sua introduzione Gilberto Pezzoni, coordinatore di USB Piemonte, ha sottolineato come nella nostra regione la limitazione del diritto alle cure stia assumendo ormai proporzioni generalizzate, attraverso per esempio la chiusura già attuata o ancora solo minacciata di presidi ospedalieri come il Valdese, il Maria Adelaide e l’Oftalmico; ed ha voluto inoltre evidenziare come senza una conoscenza precisa e dettagliata della situazione attuale sia davvero difficile provare ad immaginare una reazione dei lavoratori e dei cittadini che usufruiscono del SSN.

Il primo intervento, del dott. Paolo Mello, tecnico della prevenzione, ha voluto inserire il ragionamento sul rischio lavoro correlato in un quadro più generale di crisi sociale diffusa. Il dato di perdita di posti di lavoro nella città di Torino, nella ristrutturazione e trasformazione da polo metalmeccanico alla non meglio precisata identità attuale del capoluogo subalpino, continua ad essere un macigno non ancora assorbito da decine di migliaia di famiglie e da una fascia consistente di popolazione che vive ai limiti della soglia di povertà ed esclusione sociale.

Quest’ultimo dato che avvicina l’Italia ad altri paesi come Spagna, Croazia e Portogallo, è davvero interessante e ci torneremo al termine del nostro ragionamento.

All’interno della penisola esistono chiaramente delle condizioni differenziate, e la possibilità di individuare alcune macroregioni che accorpano “benesseri e malesseri”. Si tratta di nient’altro che della ben nota “Questione meridionale” che questa volta assume caratteri ancora più preoccupanti perchè potenziata dal quadro di crisi generale e di periferizzazione del nostro paese nel contesto europeo. Il mondo del lavoro paga un prezzo altissimo anche in termini di incidenti mortali sul lavoro e di diffusione di malattie da esposizione a sostanze tossiche. Il picco dei tumori da esposizione all’amianto si raggiungerà nel 2020, tanto per parlare di una questione dirompente per il Piemonte.

Il previsto intervento del prof. Pallante è stato sostituito degnamente da quello della dott.ssa Manuela Consito, di Libertà e Giustizia, che ha fatto un lucidissimo excursus sulla storia e le interpretazioni dell’art. 32 della Costituzione. La tutela della salute è un diritto della persona e un interesse della collettività. Siamo in presenza, spiegava la Consito, di un diritto, quello della salute, che non può essere definito un bene, ma qualcosa di più, un vero e proprio moltiplicatore di diritti per il suo riguardare l’intera popolazione e il mondo del lavoro.

Una contraddizione, dal nostro punto di vista centrale, è quella che oppone il diritto alla salute alle esigenze di bilancio, in particolar modo a partire dall’inserimento del vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione e più in generale dei vincoli imposti dall’Unione Europea. Anche il quadro costituzionale risente, lo aggiungiamo noi ma l’intervento della Consito lo rendeva evidente, della modifica dei rapporti di forza tra le classi e ancora una volta del superamento dell’ambito decisionale nazionale da parte dell’Unione Europea.

Maria Grazia Breda della onlus Fondazione promozione sociale ha, già in avvio del suo intervento, individuato un punto centrale dell’iniziativa: bisogna ragionare di possibili alleanze in difesa dei diritti sociali che tengano insieme soggetti diversi, forze sindacali, associazionismo, cittadinanza attiva. Al centro del ragionamento della Breda i malati cronici e terminali, paradossale esempio di soggetti iperbisognosi eppure molto spesso abbandonati alle sole attenzioni delle sempre più cariche e dissanguate famiglie. I piani di rientro delle regioni fanno a pugni con la garanzia di condizioni di vita e di morte dignitose. Altrettanto allarmante il dato che viene dall’intervento dello psicanalista Metello Corulli, relativo all’inevitabile decadimento delle comunità terapeutiche sottoposte a folli riduzioni di risorse e di personale e destinate a diventare un parcheggio, alla faccia di tutte le conquiste culturali e sociali della medicina e della psichiatria democratica.

Sarah Oggero, rsu dell’USB presso l’ospedale Gradenigo, ha ripercorso un paio di passaggi decisivi nel processo ininterrotto di privatizzazione della sanità: l’istituzione delle ASL negli anni ’90, la commistione pubblico/privato che riguarda quei soggetti erogatori d’opera per conto del pubblico, ed il grande e per fortuna non ancora dominante sistema delle assicurazioni private.

In questo quadro complesso a rimetterci sono certamente i pazienti, sottoposti a lunghissime liste d’attesa superabili (pagando, si intende!) con un secondo canale che però è garantito da quegli stessi operatori che vengono sottoposti ad una intensificazione molto spesso imposta.

Abbattimento dei costi sul personale, diminuzione della dipendenza dallo Stato, spinta verso le assicurazioni integrative sono i tre fronti contro i quali dovrà muoversi il soggetto capace di opporsi alla distruzione sistematica del diritto alla salute.

Nelle sue conclusioni Licia Pera, della direzione nazionale USB Sanità, è partita da due dati che parlano da soli: 10 milioni di cittadini italiani oggi rinunciano alle cure; dal 1990 ad oggi sono stati tagliati 130.000 posti letto. Si tratta di un pauroso esempio di selezione sociale e di abbandono della funzione universale dello Stato. Il SSN non esiste più, l’idea di trattare la resa, di rallentare i tempi della dismissione si è rivelata fallimentare. Corruzione, mancati finanziamenti, aumento delle tasse, ritmi di lavoro sempre più massacranti, aumento di responsabilità, tagli indiscriminati sono nient’altro che la manifestazione di quello che dovrà diventare questa parte dello stato sociale: un enorme trasferimento di ricchezza ai grandi gruppi privati, per chi potrà permettersi le cure, un messaggio chiaro e politicamente ormai neanche troppo celato per tutti gli altri: DOVETE MORIRE!

Che fare di questo convegno? Come proseguire il lavoro? Sulla base di quanto si è detto nelle tre intense ore di discussione a Torino Esposizione le indicazioni più chiare sembrano queste:

– C’è una difficoltà a coinvolgere i lavoratori del comparto, ma c’è al contempo un peggioramento delle condizioni lavorative, della possibilità di svolgere bene il proprio lavoro (che non è una missione, come ricordava la Oggero nel suo intervento) su cui bisogna intervenire coerentemente e coraggiosamente, nel vuoto complessivo di intervento sindacale nel settore;

– Ciò non basta a creare momenti di mobilitazione forte. La componente del lavoro deve incontrarsi con il bisogno sociale diffuso, con i quartieri, i territori, affondare nella crisi economica, sociale, culturale di fasce sempre più grandi della popolazione che, come ricordato più volte, rinuncia oggi in massa alle cure:

– I due punti precedenti devono trovare una dimensione politica unificante: i vincoli europei; la somiglianza sempre più marcata del nostro paese con altri della periferia europea e l’allontanamento – salvo sempre più rare eccezioni – dagli standard sanitari dei paesi ricchi dell’eurozona; il superamento di fatto di alcune garanzie costituzionali in nome del pareggio in bilancio, tutto questo costringe a rivendicare anche a livello sindacale la necessità della rottura del quadro istituzionale, perchè il clima di guerra economica e militare non potrà che peggiorare la situazione e l’industria della salute è uno dei grandi business del presente e del futuro. Bisogna cominciare a guardare quei paesi che non pongono il profitto al centro delle logiche di sviluppo e che non casualmente hanno i sistemi sanitari e di istruzione più avanzati al mondo. Dall’altro lato del diritto alla salute ci sta la barbarie, lo sterminio programmato, la soluzione finale di nazista memoria. Muoviamoci finchè siamo in tempo

 

La “Guerra al terrorismo” e lo “Stato d’Emergenza” da: senzatregua.it


Agostino Alagna e Salvatore Vicario | senzatregua.it

03/12/2015

La dittatura capitalista affina le armi per il controllo delle masse e la spartizione del mondo

A poco più di due settimane dagli attentati che la sera del 13 novembre hanno colpito la città di Parigi cresce la psicosi totale largamente fomentata dai mezzi di comunicazione borghesi e auspicata dalle classi dominanti dei paesi europei, che in nome della sicurezza e della “lotta al terrorismo islamico” si preparano ad intensificare l’intervento imperialista nel Medio Oriente, in particolar modo in Siria, forti di un rinnovato sostegno dell’opinione pubblica, per la spartizione di risorse ed aree di mercato tra le potenze, globali e regionali, in disputa. Ma il nuovo clima di terrore sapientemente gestito e alimentato dai media servirà anche per dare il colpo di grazia alle ultime libertà concesse all’interno dell’Unione Europea, inaugurando così una nuova era nella repressione del dissenso sociale da parte del Capitale.

Lo “Stato d’Emergenza” in Francia: l’esempio da seguire per le borghesie europee

Dopo le ipocrite parole nel suo discorso alla nazione, il Presidente della Repubblica Francese, François Hollande, chiamando all'”unità nazionale”, si è affrettato ad indossare l’elmetto, con il consenso leggittimatore degli altri governi imperialisti e delle forze politiche reazionarie ed opportuniste, dichiarando che la Francia, così come l’Europa è in “guerra” contro il terrorismo dell’ISIS, a cui è seguito il rafforzamento dell’azione militare francese in Siria e Mali (e in Africa in generale) e l’attivazione dell’articolo 42, comma 7 del Trattato di Maastricht da parte del consiglio dei ministri della Difesa dell’UE, che prevede la fornitura di assistenza militare nel quadro della NATO, proclamando negli stessi momenti anche lo “Stato d’Emergenza” prolungato almeno fino a febbraio con il consenso di tutte le forze politiche del parlamento francese, che prevede una serie di misure che sospendono i più basilari diritti democratici del popolo francese, le convenzioni sui diritti umani, così come modifiche agli articoli 16 e 36 della Costituzione, rispettivamente sui pieni poteri al Presidente e sul trasferimento dei poteri all’Esercito, per rendere possibile la loro attuazione in forma permanente. Verranno da subito creati 5.000 nuovi posti di polizia e doganieri, nuovi poteri “speciali” vengono concessi ai prefetti e alle forze di polizie che possono dichiarare il coprifuoco, proibire “associazioni o gruppi che incitano ad azioni di turbamento dell’ordine pubblico”, vietare ogni forma di manifestazione pubblica, come già avvenuto vietando tutte le manifestazioni in programma (tra cui quella contro la Conferenza Mondiale sul clima – COP21 – del 29 novembre con l’esecuzione di 298 fermi da parte della polizia francese) e consente la possibilità di arresto e detenzione anche sulla base di sospetti o futili motivi, perquisizioni a domicilio in ogni momento e il controllo indiscriminato da parte dell’intelligence di ogni canale di comunicazione, come già avvenuto durante la rivolta anti-coloniale in Algeria nel 1955 e la rivolta delle banlieue del 2005.

Le forze politiche delle potenze imperialiste europee si sono affrettate a rispolverare e adeguare i loro repertori utilizzando espressioni come “siamo in guerra”, “attacco alla nostra civiltà” o al cosiddetto “mondo libero”, così come “l’Europa è sotto attacco”, per promuovere un nuovo clima ideale agli obiettivi interventisti, in un’atmosfera di “panico, sgomento e paura”, facendo leva sui sentimenti suscitati nella popolazione dalle immagini di Parigi, sapientemente alimentati ed incanalati dal circo mediatico. L’artificiale visione di una “guerra di civiltà o religione” permette alle classi dominanti di avvelenare la coscienza delle masse popolari per aggregarle intorno alle autorità imperialiste attraverso un rinnovato spirito “patriottico”, “filo-europeo”, dando in questo modo nuova linfa vitale alla legittimazione delle loro politiche antipopolari sul fronte interno e di guerra sul fronte esterno, sponsorizzate da salotti televisivi di “analisti con la baionetta alla mano” pronti a mistificare le reali cause di quanto sta oggi accadendo in Europa e in Medio Oriente che richiedono a gran voce l’intervento risolutivo in Siria e l’unità della “risposta europea” con la delega di incarichi di sicurezza e “prevenzione del terrorismo” a corpi internazionali come auspicato dal “costituzionalista” Sabino Cassese, che sul Corriere della Sera ha dichiarato :

[…] risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi “i.

Una forma di “polizia globale” esiste già in Europa, si tratta del corpo Eurogendfor (EGF, Forza di Gendarmeria Europea), una sorta di polizia militare formata dalle gendarmerie unite di Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Polonia, Romania e Paesi Bassi, con sede operativa stabilita a Vicenza ed ospitata a spese dello Stato Italiano dopo la firma del Trattato di Velsen del 2007. La Eurogendfor, già impegnata in “missioni di sostegno” al servizio dell’alleanza imperialista NATO ii, è stata creata con il non meglio precisato scopo di “provvedere ad una più efficiente gestione delle crisi internazionali fuori dai confini dell’UE” e tutto fa pensare ad un suo maggiore impiego all’interno dei confini dell’UE, essendo fornito di ampi poteri (fuori da ogni controllo) nella conduzione di operazioni di sicurezza e ordine pubblico, supervisione, guida, monitoraggio, supporto o sostituzione delle forze di polizia nazionali, compiti di sorveglianza pubblica e controllo delle frontiere così come attività di intelligence investigativa. Questa risponde direttamente agli ordini di un comitato interministeriale (CIMIN) composto dai firmatari del Trattato che “esercita il controllo politico” e nomina il suo “comandante impartendogli direttive”. Ideale per la militarizzazione dell’ordine pubblico funzionale a rendere permanente lo Stato d’Emergenza a livello europeo.

Inoltre, sulla base della “necessità della difesa comune” ciò che da diverse parti ritorna ad esser richiamata con forza è la costituzione di un Esercito Unico Europeo, un processo che l’UE aveva già riaperto dopo l’attentato di gennaio scorso sempre a Parigi e di cui si parla già dal 1950. La costituzione dell’Esercito Europeo è un progetto della Commissione Europea affidato all’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza, Federica Mogherini, che entro giugno 2016 definirà la “nuova strategia europea per la politica estera e la sicurezza” superando l’attuale in vigore dal 2003. L’Esercito Europeo porterebbe all’integrazione delle forze armate dei diversi paesi che agirebbero all’unisono (sia all’interno che all’esterno dei confini UE) costituendo il secondo esercito più potente al mondo dopo quello degli USA iii. Si potrebbe così aprire la strada all’intervento di “forze armate comunitarie” e a nuove forme di “euro-repressione” che sono funzionali al processo di accumulazione ed espansione capitalista, che ha portato alla formazione del conglomerato inter-statale imperialistico dell’UE come lo conosciamo oggi e che necessita del superamento di alcune “prerogative nazionali” per quanto riguarda sia l’aspetto economico e politico che militare, inclusa la repressione del dissenso sociale. Un processo che al suo interno ha però enormi contraddizioni con interessi non sempre convergenti tra tutte le “borghesie nazionali”.

L’Unione Europea cerca di attuare oggi ciò che gli Stati Uniti fecero dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Le “democrazie occidentali” tentano di anestetizzare con il terrore mediatico il dissenso ai loro governi antipopolari e trovare una giustificazione alla politica estera imperialista ed aggressiva, ingannando i popoli e sfruttando a vantaggio dei profitti dei monopoli questi tanto tragici quanto torbidi avvenimenti come già accaduto dopo l’11 Settembre 2001. E’ del tutto evidente, oggi più che mai, come la cosiddetta “lotta al terrorismo” sia “funzionale al processo di accumulazione di capitali nell’attuale fase di sviluppo imperialista del capitalismo internazionale” iv.

Sfruttando il clima post-attentato in Francia si modifica la costituzione sul modello del “Patriot Act” di Bush, entrato in vigore immediatamente dopo i fatti dell’11 Settembre e che ha rappresentato una delle pagine più nere nelle violazioni dei diritti civili, con migliaia di cittadini imprigionati arbitrariamente e la soppressione delle libertà basilari in nome della sicurezza. L’applicazione dello “Stato d’Emergenza” prolungato in Francia, così come il vero e proprio coprifuoco applicato per diversi giorni nel cuore dell’Europa, a Bruxelles, aprono definitivamente una strada senza ritorno nella gestione e militarizzazione dell'”ordine” del capitale, e quindi la criminalizzazione e repressione delle masse popolari in lotta, che colpirà particolarmente l’attività delle organizzazioni politiche e sindacali di classe, ossia di tutti coloro che non si subalternano allo Stato (borghese), la riproduzione del sistema e la difesa degli interessi e profitti della classe dominante. Ciò è già evidente anche in Italia, con l’attacco al diritto di sciopero, alle manifestazioni, e le nuove norme sulla sicurezza e sarà ancor di più stringente nel periodo del Giubileo. La soppressione liberticida di alcune prerogative delle “democrazie borghesi”, la fomentazione artificiale del razzismo, xenofobia e islamofobia che alimenta i movimenti di natura fascista, come spesso accaduto già nella storia, non può destare alcuna sorpresa essendo che essa è solo una delle “forme della dittatura della borghesia”.

Guerra al terrorismo” o conflitto inter-imperialista per la spartizione del Medio Oriente?

Queste misure girano tutte intorno alla doppia logica: sempre più guerra, sempre meno diritti democratici. La crisi del capitalismo a livello globale, da un lato ha condotto ad un offensiva interna ai vari Stati delle borghesie contro i diritti sociali della classe lavoratrice e i settori popolari, dall’altro sta rimescolando i rapporti di forza a livello internazionale tra le potenze capitaliste da cui consegue un processo di nuova spartizione del mondo. La Siria è oggi un crocevia fondamentale per tutte le principali potenze capitaliste nella spartizione della tormentata regione del Medio Oriente, dove si trovano quasi la metà delle risorse petrolifere mondiali, il 41% delle riserve di gas. Tutte le grandi potenze imperialiste (USA, UE, Russia ecc.) vogliono controllare o avere posizioni di forza nella regione in modo che i rispettivi monopoli possano impossessarsi delle ricchezze energetiche, e in questo entrano in gioco anche forze e rispettivi alleati regionali (Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, ecc.) che agiscono anch’essi su propri interessi particolari, nel contesto di una polveriera dove si innesca la fratricida lotta religiosa tra sunniti e sciiti. La guerra d’aggressione in Siria viene dopo il Libano, l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia, la Somalia, il Sudan, il Mali, il Centrafrica ecc., decine di interventi imperialisti militari (così come le cosiddette “Primavere Arabe”) che le potenze occidentali (non sempre in modo uniforme) hanno portato avanti in tutti questi anni per ridisegnare in base alle proprie esigenze il Medio Oriente e la regione più ampia del nord e centro dell’Africa.

E’ in questo quadro che si forma il cosiddetto “Stato Islamico” (Daesh o ISIS), braccio armato dell’Arabia Saudita (ferreo alleato degli USA nella regione e protagonista anche nella guerra in Yemen), e supportato dagli USA, dall’UE, dalle altre petromonarchie reazionarie del Golfo come Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, e non ultima dalla Turchia, il cui regime guidato dal partito AKP del fascista islamico Recep Tayyp Erdogan ha una lunga e documentata tradizione nel supporto del terrorismo di matrice islamica nella regione, che utilizza per espandere l’influenza turca nella regione. L’élite turca ricava profitti astronomici dall’acquisto del petrolio a buon mercato estratto nei territori occupati dallo Stato Islamico e ha recentemente effettuato, con il supporto della NATO, una grave provocazione al confine turco-siriano abbattendo un caccia della Federazione Russa impegnato in azioni sul territorio siriano, adducendo come scusa un suo sconfinamentov, esacerbando le tensioni tra le potenze imperialiste e aumentando il sempre più serio rischio di un confronto armato diretto tra di esse, che in realtà stanno preparando e testando in modo reciproco.

L’ipocrisia dei mezzi di informazione, o di propaganda, tralascia sistematicamente il fatto che il cosiddetto “Islam Politico” di cui il Daesh non è altro che l’espressione armata è stato sfruttato (se non creato) e sostenuto economicamente dall’imperialismo euro-atlantico e dalle forze reazionarie del mondo arabo sin dagli anni ’80, quando armarono i Talebani per sovvertire il governo Afghano, e in numerosi altri paesi contro i movimenti popolari realmente anti-imperialisti, laici, progressisti e comunisti della regione araba. L’ISIS non è dunque altro che un gruppo di mercenari e “giovani fanatici” (raccattati spesso dall’emarginazione delle periferie capitaliste), prodotto e conseguenza di anni di interventi militari e destabilizzazioni in Medio Oriente, animato dalle forze più retrive ed oscurantiste della regione nell’obiettivo di assicurare ai monopoli europei e statunitensi lo sfruttamento delle immense risorse e delle vie di trasporto nell’area. Il tutto rientra nel piano del Nuovo Medio Oriente (o Grande Medio Oriente), che consiste nel rovesciare governi e frammentare Stati che presentano ostacoli allo sviluppo dei piani dell’imperialismo euro-atlantico, e che si colloca nel quadro della feroce competizione imperialista per il predominio nella regione entrando in conflitto con gli interessi della Russia, la Cina e i suoi alleati regionali.

Quelli che chiamano oggi all'”unità nazionale”, alla difesa dei “valori occidentali”, della “democrazia e libertà” sono gli stessi responsabili dei mali che affliggono la gioventù d’estrazione popolare, i lavoratori e i settori popolari negli stati imperialisti così come dei tormenti dei popoli arabi, dei paesi del Medio e Estremo Oriente, Nord Africa ecc. sottoposti alla devastazione, fame, saccheggio, guerra e all’emigrazione forzata. E’ fondamentale per il movimento di classe rigettare e rompere lo schema che ci vogliono imporre le classi dominanti attraverso l’inganno della propaganda delle forze politiche capitaliste e opportuniste, e dei mass media, per giustificare in nome di una presunta “sicurezza” o “interesse nazionale” tutta una serie di misure e interventi di natura militare funzionali a portare avanti i loro piani che nulla hanno in comune con gli interessi reali dei lavoratori e della gioventù e che mirano in realtà a conquistare condizioni migliori per i profitti dei “nostri” sfruttatori, dentro e fuori i propri confini, approfittando di un proletariato diviso e schiacciato, arricchendosi con la guerra, inculcando i pregiudizi nazionali o religiosi, rafforzando la reazione in tutti i paesi.

Oggi come ieri: l’opportunismo si trasforma in social-sciovinismo

A poco più di un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, si ripropone il pericoloso ruolo politico dell’opportunismo, nell’ingannare le masse e la classe lavoratrice al servizio della borghesia. L’esempio più recente proviene proprio dalla Francia, dove il Front de Gauche (membro francese del Partito della Sinistra Europea, di cui fa parte per l’Italia, Rifondazione Comunista) si è accodato alla propria borghesia imperialista votando a favore dello “Stato d’Emergenza” insieme al Front National (FN) e gli altri partiti parlamentari. Nel suo intervento in Parlamento, la senatrice del PCF, Éliane Assassi, ha affermato che “le misure d’urgenza sono pienamente giustificate, gli obiettivi dello stato d’emergenza sono ben definite” mentre il segretario del Parti de Gauche, Mélenchon ha rafforzato il voto chiamando “all’unità della Francia e dei francesi, al di sopra delle classi e delle parti politiche” creando in questo modo il clima ideale per la tolleranza o identificazione dei settori popolari nei confronti dei piani imperialisti portando a termine un percorso opportunista avviato già da diversi decenni. Come ci ricorda Lenin “il contenuto ideologico e politico dell’opportunismo e del socialsciovinismo è identico: la collaborazione delle classi invece della lotta di classe, la rinuncia ai mezzi rivoluzionari di lotta, l’aiuto al “proprio” governo nelle situazioni difficili, invece di utilizzare le sue difficoltà nell’interesse della rivoluzionevi. Allo stesso tempo, l’opportunismo al governo in Grecia, SYRIZA, si allinea alle manovre del blocco imperialistico dell’UE e della NATOvii e incrementa la repressione interna contro il movimento operaio e popolare, quando per decenni si è fatta portavoce nel paese di un generico e astratto “pacifismo” mentre oggi al governo lavora al servizio del miglioramento delle condizioni della “propria” borghesia nel sistema imperialista.

Nella fase imperialistica del capitalismo internazionale, la guerra, così come la reazione, sono elementi “connaturali” del sistema (e lo saranno fino alla sua eliminazione), per questo è determinante smascherare e rifiutare le visioni e costruzioni di tipo “morale” nei confronti sia degli attentati terroristici che degli attuali conflitti militari su scala locale o regionale che coinvolgono sempre di più le principali potenze imperialiste viii, identificandone la sua natura imperialistica e come essi si producano interamente nel campo del capitalismo e delle sue contraddizioni per la ridefinizione delle zone d’influenza, accaparramento delle risorse energetiche e delle rotte di trasporto, dei mercati, posizioni geopolitiche ecc., in cui in base alla propria forza politica, economica e militare, tutte le borghesie coinvolte cercano di ottenere o difendere le loro quote. In questo anche il governo e la borghesia imperialista italiana giocano ovviamente le proprie carte (rivolgendo particolare attenzione alla Libia) in funzione dei propri monopoli, in particolare ENI e Finmeccanica che ha incrementato la sua quotazione in borsa dell’8.2% dopo gli attentati di Parigi, così come i principali produttori di armi a livello globale ix; dimostrazione palese che a guadagnare dalla guerra e dal terrorismo sono le multinazionali e le borghesie ad ogni latitudine, mentre regolano i loro conti, sulla pelle dei popoli. Le varie potenze per nascondere e legittimare i propri obiettivi utilizzano infatti formule e pretesti quali “missioni di pace”, la “lotta per la democrazia”, la “lotta contro il terrorismo”, le “questioni umanitarie” ecc., così come affinano le “mutevoli” alleanze sul campo per condurre i propri piani, guadagnare o difendere posizioni, indebolire l’avversario, sia a livello politico-diplomatico che militare, in cui non c’è spazio alcuno per le aspirazioni dei popoli. Esempio lampante di ciò è la chiamata che giunge da più parti per una “coalizione anti-ISIS” allargata, e le proposte della Francia di collaborazione con la Russia e persino con il governo Assad di cui non ha mai nascosto l’intento di rovesciarlo, così come si rafforza il legame tra la Russia e Israele x. Non bisogna riporre alcuna illusione. Tutte queste manovre si muovono in base alle contraddizioni interne al sistema imperialista, che possono produrre solo o una immediata “guerra imperialista” generalizzata o una “pace imperialista” attraverso un compromesso temporaneo xi che prepara la “guerra imperialista” generalizzata.

Di fronte allo scenario della questione della lotta contro l’ISIS e l’attuale conflitto in Siria, bisogna dunque aver chiaro quali sono gli interessi che muovono tutti gli attori in campo, smascherare le responsabilità e i piani del “nostro” imperialismo e rifiutare di conseguenza la “chiamata” sotto qualunque forma alla difesa dei suoi interessi. Allo stesso tempo, è un ulteriore espressione d'”opportunismo” rivendicare una “lotta per la pace” regolata da forze borghesi e svincolata dalla lotta rivoluzionaria xii nei paesi imperialisti contro ogni borghesia, i suoi governi e il capitalismo, legata alla lotta dei popoli oppressi per la loro emancipazione dall’aggressione imperialista e il fondamentalismo religioso xiii. Solo questa impostazione può portare ad una lotta conseguente contro l’imperialismo e le sue guerre. E ciò è possibile solo rompendo ogni legame con i settori politici opportunisti che nei contesti di guerra si convertono in social-sciovinisti.

Il socialsciovinismo consiste nel sostenere l’idea della «difesa della patria» nella guerra attuale. Da questa idea deriva, inoltre, la rinuncia alla lotta di classe in tempo di guerra, l’approvazione dei crediti di guerra, ecc. In realtà, i socialsciovinisti conducono una politica borghese antiproletaria, perché in realtà essi sostengono non la «difesa della patria» nel senso di una lotta contro l’oppressione straniera, ma il “diritto” di determinate “grandi” potenze a depredare colonie e opprimere popoli stranieri. I socialsciovinisti rinnovano ai danni del popolo l’inganno borghese, come se la guerra si facesse per la difesa della libertà e per l’esistenza delle nazioni, e passano così dalla parte della borghesia contro il proletariato. Sono da annoverare tra i socialsciovinisti sia coloro che giustificano e mettono in buona luce i governi e la borghesia di uno dei gruppi di potenze belligeranti, sia coloro che, come Kautsky, riconoscono ai socialisti di tutte le potenze belligeranti lo stesso diritto di «difendere la patria»“.xiv

Note:

i http://www.corriere.it/editoriali/15_novembre_25/gli-stati-l-ordine-mondiale-b249be6c-933b-11e5-a439-66ba94eb775e.shtml

ii Operante già in Afghanistan, Haiti, Bosnia Erzegovina, Mali e Repubblica Centro-Africana.

iii Già adesso infatti la spesa militare complessiva dei 28 paesi dell’UE è seconda solo agli USA, formata però da eserciti nazionali legati da accordi bilaterali e dall’alleanza atlantica della NATO (di cui fanno parte 21 nazioni su 28).

iv http://www.resistenze.org/sito/te/pe/im/peimfm20-017143.htm

v Da notare come l’aviazione turca si sia resa protagonista di migliaia di sconfinamenti documentati nello spazio aereo siriano e greco.

vi Lenin, Opere Complete, vol. 21, ed. Riuniti, Roma 1966, “Il socialismo e la guerra”, pag.284.

vii Rafforza i suoi legami con lo stato sionista d’Israele, incrementa la spesa militare, concede nuove basi militari agli USA e mette a disposizioni il proprio territorio e le proprie truppe per la “guerra contro il terrorismo”.

viii E’ notizia di questi giorni che anche la Germania invierà tornado di ricognizione e una nave della marina in Siria e incrementando la presenza militare in Mali passando da 200 a 650 soldati, così come il parlamento inglese ha votato a favore dell’estensione dell’intervento dell’aeronautica britannica dall’Iraq alla Siria.

ix http://www.repubblica.it/economia/2015/11/21/news/armi_isis_guerra_borsa_emirati_arabi-127849393/

x In questo quadro di alleanze mutevoli va segnalato infatti come la Russia stringa sempre di più il suo legame con l’alleato storico degli USA nella regione, Israele. Nel “comune interesse della stabilità del Medio Oriente” Israele e Russia hanno concordato un piano per stabilizzare la regione, dove in cambio del proprio sostegno all’azione russa, Israele ha ricevuto garanzie dalla Russia sull’asse Assad – Iran – Hezbollah libanese nemici di Israele e in questa fase alleati della Russia che ha promesso ad Israele di tenere sotto controllo; anche la “questione curda” entra in gioco e sia la Russia che gli USA cercano di usare a proprio vantaggio; gli USA stanno cercando di integrare le forze locali curde dell’YPG in Siria (braccio del PKK – ancora tenuto dagli USA nella lista delle organizzazioni terroriste – e nemico di Erdogan alleato degli USA e NATO) nell’alleanza con la “coalizione internazionale” a guida USA (a cui partecipa anche l’Italia) che sta addestrando e armando anche i Peschmerga curdi in Iraq. A Kobane in questo senso è giunto un contigente di Marines USA per l’addestramento delle milizie dell’YPG. La Russia invece offre all’YPG migliori condizioni militari in chiave anti-turca e potrebbe offrire anche la mediazione con Assad per il riconoscimento dell’autonomia curda.

xi Le potenze coinvolte nel conflitto in Siria potrebbero giungere ad un compromesso politico e diplomatico sulla base dei nuovi rapporti di forza definiti dagli interventi militari in corso, dopo che l’intervento russo ha in questo senso cambiato profondamente i rapporti di forza in campo. Un compromesso che può portare a diversi scenari, quali lo smembramento territoriale della Siria, una diversa spartizione dell’influenza sul paese, un accordo sulla sostituzione di Assad.

xii “Il pacifismo e la propaganda astratta della pace sono una delle forme di mistificazione della classe operaia. In regime capitalistico, e specialmente nella fase imperialista, le guerre sono inevitabili. […] Oggi la propaganda della pace, se non è accompagnata dall’appello all’azione rivoluzionaria delle masse, può soltanto seminare illusioni, corrompere il proletariato inculcandogli la fiducia nell’umanitarismo della borghesia e facendo di esso un trastullo nelle mani della diplomazia segreta delle nazioni belligeranti”. Lenin, Opere Complete, Vol.21, ed. Riuniti, Roma 1966, Conferenza delle sezioni estere del POSDR, “Il pacifismo e la parola d’ordine della pace” p.145.

xiii http://www.resistenze.org/sito/te/pe/mc/pemcfm21-017102.htm

xiv Lenin, Opere Complete, vol. 21, ed. Riuniti, Roma 1966, “Il socialismo e la guerra”, pag.280.

 

Ti importa degli assassini di massa? da: www.resistenze.org – osservatorio – della guerra – 08-12-15 – n. 568


David Swanson | counterpunch.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

04/12/2015

Ora lo sappiamo. Un giovane uomo che con successo aveva ucciso su larga scala altri uomini, si è recato pieno di dubbi dalla sua guida spirituale. L’omicidio di massa è  parte del piano di Dio, gli è stato risposto. Il giovane uomo ha continuato a uccidere fino a quando la furia omicida è arrivata alla funesta contabilità di 1.626 uomini, donne e bambini.

Ripeto: non 16 o 9 o 22 morti che riempiono i notiziari, ma 1.626 cadaveri e mutilati. Queste cose ti danno fastidio?

Cosa succede se scopri che il nome di questo giovane uomo è Brandon Bryant e che ha ucciso in quanto pilota di un drone della US Air Force, che ha ottenuto un riconoscimento per le sue 1.626 uccisioni complessive e i complimenti per il brillante lavoro svolto dagli Stati Uniti d’America? Che cosa succede se scopri che la sua guida spirituale era un cappellano cristiano?

Queste cose ti urtano?

Cosa succede se scopri che la maggior parte delle persone uccise dai droni americani sono civili? Che i piloti hanno il mandato del “doppio-colpo”: sganciano un primo missile su una festa di matrimonio o su una casa e poi sparano il secondo colpo se qualcuno cerca di soccorrere i feriti, cosicché questi urlano per ore fino alla morte, senza che nessuno venga ad aiutarli? Che un pilota drone lancia un missile su un gruppo di bambini e i pochi sopravvissuti riconoscono i fratellini morti, ma non riconoscono, ormai orfani, mamma e papà nei brandelli di carne sparsi intorno?

E’ sconvolgente?

Cosa pensi se il presidente Obama rivendica che alcune morti di civili sono state provate false da fonti ben documentate? E del fatto che della maggior parte delle vittime non si sa nemmeno il nome?

Cosa succede se un candidato per la presidenza la scorsa settimana avesse dichiarato che il modo per vincere una guerra è quello di cominciare a uccidere intere famiglie e organizzare sessioni di preghiera cristiana pubbliche per conquistare una certa fascia demografica di elettori?

Turbato?

Cosa provi se appare evidente che gli agenti di polizia negli Stati Uniti uccidono con un tasso superiore a quello dei piloti di droni? Vorresti vedere i video degli omicidi della polizia? Vorresti vedere i video degli omicidi dei droni? Per il momento abbiamo un accesso limitato ai primi e nessuno a questi ultimi.

E se fosse scoperto che gli omicidi a San Bernardino sono quasi routine. Sarebbe ugualmente tragico? Non dico che bisogna cessare di preoccuparsi delle tragedie di cui parla la televisione. Vorrei che a ognuno di noi importasse mille volte di più, tanto da desiderare di eliminare le armi e l’odio e la cultura della violenza, l’ingiustizia economica e l’alienazione.

Il mio punto di vista è che ci sono altre tragedie che sono taciute, tra cui le più grandi. E strumentalizzare una tragedia per alimentare l’odio verso un ampio segmento della popolazione umana della terra, è pura follia.

David Swanson è un pacifista, Il suo nuovo libro è War No More: The Case for Abolitio

 

Decreto salva-banche, il Codacons raccoglie più di duemila adesioni al ricorso risarcitorio Autore: redazione da. controlacrisi.org

Sono giorni di protesta per i piccoli azionisti e gli investitori danneggiati dal decreto Salva Banche, che ha salvato Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Carife ma non i risparmi e gli investimenti di chi aveva investito in azioni e obbligazioni subordinate delle quattro banche. Si tratta di decine di migliaia di piccoli azionisti che non hanno più nulla. Dal Governo, forse, arriverà un intervento di sostegno sotto forma di fondo di solidarietà, comunque limitato e non diretto a tutti. Il Codacons protesta e parla di “indennizzo-elemosina”. L’associazione ha lanciato un’azione risarcitoria per la vicenda del salvataggio di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Carife e parla di circa duemila adesioni. Dal Codacons arrivano anche parole molto critiche nei confronti del provvedimento allo studio del Governo, che attraverso le parole del viceministro dell’Economia Enrico Morando si è detto favorevole “alla costituzione di un fondo di solidarietà dove convergano una parte di risorse pubbliche, minoritarie, e una quota maggioritaria di risorse dagli istituti”; il viceministro ha peralto precisato che l’intervento “deve avere a riferimento i più deboli con confini e limiti”. La Consob, intanto, ha avviato verifiche per capire se i titoli delle banche fallite, il cui valore è stato azzerato, sono stati venduti a clienti in grado di comprenderne i rischi. “Stiamo facendo accertamenti anche se non abbiamo avuto segnalazioni particolari”, ha detto il presidente Giuseppe Vegas. “C’è un profilo di Mifid”, di adeguatezza, dell’ investimento rispetto al profilo di rischio.

“Mare di nessuno”. Dona Liberta, la nave che cambia bandiera a seconda dei traffici del momento Autore: francesca marras da: controlacrisi.org

“Few places on Earth are as free from legal oversight as the high seas”, scrive Ian Urbina, giornalista del New York Times, su uno dei quattro reportage (The Outlaw Ocean series) che raccontano un mondo che in pochi conoscono: quello dell’abbandono dei migranti nei mari e dello sfruttamento del lavoro a bordo dei pescherecci. “Mare di nessuno” prova a spiegare questa realtà al pubblico italiano.
Ogni anno migliaia di lavoratori, tra cui anche bambini e migranti attirati sulle barche con il raggiro, vengono costretti al lavoro forzato sui pescherecci. Si contano tra i 2000 e i 6000 morti ogni anno per cause non ben identificate o per la mancanza delle norme di sicurezza. Si tratta degli stessi pescherecci che contribuiscono allo scarico nei mari di sostanze inquinanti e che si dedicano alla pratica della pesca, per lo più illegale, con fini commerciali, causando la scomparsa di una gran parte dei pesci predatori dalla fauna marina.

La compravendita delle bandiere
Benché i Paesi abbiano firmato diversi patti internazionali marittimi, che riguardano norme di navigazione, la sicurezza sulle navi, l’equipaggio e le attività marittime, scrive Ian Urbina, queste leggi sono deboli e facilmente aggirabili; questo è uno dei motivi per cui risulta così difficile perseguire legalmente questi pescherecci. Basti pensare alla normativa relativa alla bandiera, che permette alle navi di acquistare il diritto a utilizzare la bandiera di uno Stato, con l’obbligo di rispettarne le leggi nazionali; la falla di questo sistema consiste nel fatto che un’imbarcazione che vìola tali leggi può essere bloccata in mare solo dalle navi militari che portano la stessa bandiera e difficilmente i Paesi mandano pattuglie a perlustrare i mari al di fuori delle proprie acque nazionali; inoltre risulta poco costoso acquistare la bandiera proprio in alcuni di quei Paesi che non hanno sbocchi sul mare, come Bolivia e Mongolia, e che quindi non hanno possibilità di controllare che le imbarcazioni che portano il loro nome si comportino secondo norma.

“Dona Liberta, la nave mai uguale a se stessa”
“Dona Liberta” è uno dei nomi di spicco nella lista nera degli attori negativi che popolano i mari. Oggi non esiste più, almeno di nome, perché continua a circolare come “Sea Pearl”, la “Perla del mare” che attualmente fa parte di una compagnia cinese.
La Dona Liberta è stata costruita in Giappone nel 1991, utilizzata da compagnie inglesi e giapponesi e acquistata, infine, dalla compagnia Commercial S.A. nel 2004. È ritenuta responsabile del trasporto di merci illegali e del maltrattamento del proprio equipaggio. Una nave “trasformista” la Dona Liberta, che nel corso degli anni ha portato nomi diversi, Emerald Reefer, Sanwa Hope e Sun An e altrettante diverse bandiere: di Panama, delle Bahamas e di Kiribati, un’isola dell’Oceano Pacifico.

L’International Seafarers’ Union (sindacato internazionale marittimi) ha ricevuto spesso segnalazioni sugli abusi subiti, sulle precarie condizioni di lavoro dei marinai, sprovvisti anche di semplici abiti invernali per affrontare l’inverno nei mari della Norvegia, e sui falsi salari riportati sul giornale di bordo, ma mai pagati realmente all’equipaggio. Come si spiega che, nonostante i diversi capi d’accusa imputati alla sua condotta scorretta, compresi anche ingenti debiti e un sospetto di pesca illegale, la nave abbia sempre agito indisturbata?

La giostra delle responsabilità
Sembra essere molto complicato raccogliere testimonianze dei marinai vittime di violazione dei diritti umani nei mari e questo è uno dei motivi che rendono complicato avviare indagini contro le compagnie, infatti l’equipaggio cambia spesso i suoi componenti e le informazioni si disperdono all’orizzonte insieme alle imbarcazioni. Le indagini, inoltre, entrano in un vortice definito “merry-go-round” marittimo – la “giostra marittima” – tale per cui la responsabilità di indagare sulle attività illegali della Dona Liberta rimbalza da un’autorità all’altra: la Guardia Costiera degli Stati Uniti passa la palla all’Interpol, che a sua volta ribatte che “its role was mostly to pass information between countries” – il suo maggior ruolo è quello di far circolare le informazioni tra i Paesi.
Allo stesso modo i funzionari dell’International Maritime Organization (I.M.O.), un’agenzia delle Nazioni Unite, ritengono che sia compito dei Paesi proprietari di una bandiera controllare le navi che la utilizzano, mentre, di rimando, un funzionario preposto al Programma di registrazione della bandiera delle Bahamas ripone le responsabilità nelle mani dell’I.M.O.
Le diverse bandiere che hanno sventolato sulla Dona Liberta sono forse un modo per far perdere le sue tracce e sfuggire così ai controlli già di per se deboli e poco efficaci. Una nave “fantasma”, divenuta irrintracciabile lo scorso anno e riapparsa a novembre 2014 nel Golfo della Thailandia con il suo nuovo nome.

Dunque la debolezza delle norme internazionali e gli scarsi controlli rendono più facile per le compagnie pescare illegalmente, sfruttare i marinai a bordo e inquinare le acque senza essere notati. Spesso le imbarcazioni trascorrono tempi molto lunghi – talvolta anche anni – in mare aperto fuori dal controllo delle autorità, una situazione che consente di violare liberamente e indisturbatamente le norme sui diritti dei lavoratori marittimi.

Il lavoro forzato
Il problema del lavoro forzato sui pescherecci riguarda in particolar modo il mare del Sud della Cina e ancor più da vicino le imbarcazioni thailandesi non registrate dal governo della Thailandia, dove i migranti vengono sfruttati per sopperire alla carenza di marinai disposti a lavorare nel loro equipaggio. Migranti che, spesso, sono privi di documenti e letteralmente scompaiono una volta a bordo.

“L’intervento del governo è raro”, scrive Ian Urbina, nonostante il lavoro forzato sia proibito dalle Nazioni Unite. Il governo della Thailandia è stato accusato di non fare abbastanza per contrastare lo sfruttamento del lavoro nei mari; un esempio è dato dalle norme sul periodo che i pescherecci possono passare in mare, che sono meno restrittive rispetto a quelle di altri Paesi della stessa area geografica. Inoltre nel 2014 la Thailandia è stato l’unico Paese ad aver votato contro un trattato delle Nazioni Unite che prevede sanzioni contro i trafficanti, decisione rivista in seguito a una forte pressione internazionale.
Non solo le autorità thailandesi non effettuano i dovuti controlli sulle navi del proprio Paese, ma, secondo le Nazioni Unite e alcune organizzazioni per i diritti umani, gli stessi ufficiali prenderebbero tangenti dai trafficanti per chiudere un occhio sul trasporto di migranti da un confine all’altro, accusa avvalorata dalle testimonianze dei migranti stessi.
Si tratta degli stessi uomini che vengono sfruttati a bordo e costretti a precarie condizioni di lavoro e di sopravvivenza. Sono le vittime di crimini difficilmente perseguibili proprio perché spesso i pescherecci sono esenti da quelle norme internazionali che impongono un sistema di monitoraggio a bordo per verificare che le leggi e i diritti umani vengano rispettati.
Inoltre i controlli sono ostacolati non soltanto dalla mancanza di perizia ma anche dalla carenza di risorse, come denunciano le autorità di Thailandia, Malesia e Indonesia; per queste infatti risulta quasi impossibile, a causa della mancanza di mezzi, raggiungere i pescherecci che trafficano i mari lontano dalle coste e che, essendo irraggiungibili, diventano praticamente incontrollabili.