I carotaggi per verificare la consistenza del cemento li stanno eseguendo la direzione lavori dell’Autorità portuale e la Tecnis, impresa che si è aggiudicata l’appalto della nuova darsena commerciale. L’Autorità Portuale ha convocato una conferenza stampa alla Capitaneria di Porto.
CATANIA- Una grande voragine nella darsena portuale inaugurata dal ministro Graziano Delrio, un’inaugurazione senza collaudo definitivo con il risultato che oggi, attorno al grande buco (LEGGI), sfilano mezzi pesanti e containers.
IL SOPRALLUOGO- I carotaggi per verificare la consistenza del cemento li stanno eseguendo la direzione lavori dell’Autorità portuale e la Tecnis, impresa che si è aggiudicata l’appalto della nuova darsena commerciale. Darsena che, dopo l’inaugurazione, è monca, perché un’intero costone non consente l’attracco delle navi. Il problema che si è presentato qualche mese dopo l’inaugurazione, non è quello della consistenza del cemento, in corso di analisi, ma “solidissimo”, secondo la Tecnis, ma la ricerca di ciò che dovrebbe esserci sotto il cemento, per sostenerlo: la sabbia. In alcune aree che lambiscono il pontile di attracco, la sabbia, posizionata durante la realizzazione dell’appalto, è sparita. Il risultato è un grande buco, che ha lasciato spazio all’acqua.
L’acqua e il mistero del torrente. Da dove proviene l’acqua che ha invaso i vasconi? Secondo i tecnici della Tecnis dal mare: le eliche delle navi avrebbero creato un vortice che ha fatto sparire la sabbia che reggeva le piattaforme di cemento. Altro interrogativo, invece, lo pone il Comitato Porto del Sole, per bocca del vulcanico Marcello De Luise: “E il torrente Acquicella dov’è finito? E’ stato spostato? Oppure il fiume, anche se tombato, ha fatto sparire la sabbia svuotando la darsena?”.
LE ANALISI. Al momento le vasche non possono essere svuotate, il liquido deve essere analizzato ed è stato prelevato. Bisogna comprendere cosa contiene questo liquido, anche perché, come ha svelato Livesicilia, alcune parti della darsena sono state riempite con la sabbia contaminata da idrocarburi prelevata dai fondali portuali. Quindi bisogna compredere se si tratti di acqua dolce, che potrebbe provenire dal torrente, di acqua contaminata o di semplice acqua marina.
DUE SOLUZIONI. Se l’acqua proviene dal mare, è sufficiente otturare la falla e riempire le vasche di cemento di nuovo materiale. Diversamente si aprirebbero numerose ipotesi.
INTERVIENE L’ALTRA EUROPA CON TSIPRAS. “Quali materiali sono stati utilizzati per costruire la nuova darsena del porto di Catania, costata oltre 100 milioni di euro? Chi ha verificato il corretto espletamento dei lavori? Per quale motivo l’autorità portuale ha affidato alla stessa ditta che ha espletato i lavori, la Tecnis, anche gli interventi di verifica?”. Sono queste alcune delle domande che i senatori de L’Altra Europa con Tsipras, Francesco Campanella e Fabrizio Bocchino, hanno messo nero su bianco in un’interrogazione rivolta al Ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio. L’atto ispettivo depositato appena un’ora fa a Palazzo Madama, si chiede se il Ministro Delrio sia a conoscenza dei fatti e cosa intenda fare il governo per verificare la regolarità dei lavori. “Se, come temiamo – aggiungono i due senatori – si determinerà in breve termine un quadro di quanto accaduto, ci auguriamo che chi ha incaricato la società Tecnis, non certo nuova alle cronache degli ultimi mesi, prenda atto delle possibili conseguenze e si assuma le sue responsabilità”.
I vertici dell’Autorità Portuale hanno convocato una conferenza per fare il punto.
NUNZIO MARTELLO, DIRETTORE MARITTIMO DELLA SICILIA ORIENTALE. “Dico subito una cosa: abbiamo agito immediatamente nell’interesse della infrastruttura. Di una cosa vi prego: non facciamo dietrologie e lo dico da siciliano. Non c’è stato alcun crollo di banchina e la sabbia che era in quel punto si trova nella zona antistante la banchina stessa. E noi dobbiamo far sì che il Porto prosegua nel suo programma di sviluppo”.
PIETRO VIVIANO, DIRETTORE DEI LAVORI. “Il punto della situazione è il seguente: dal mese di luglio, ovvero da quando è stato inaugurato, lavoriamo alla darsena per comprendere lo stato dell’arte prima del collaudo tecnico-amministrativo. Ci siamo accorti che in una zona della “banchina di riva” vi era una lesione. D’intesa con l’impresa abbiamo rimosso una parte della pavimentazione che poggiava sulla sabbia: in questo tratto, ci siamo accorti però che parte del terreno non vi era più. Cos’è accaduto? Stiamo indagando assieme alla Capitaneria di Porto. E’ probabile che possa essersi formato in uno dei giunti una sorta di sifonamento, una sorta di buco, nel terrapieno e per il quale occorrerà individuarne i motivi. Se da lì passano torrenti o fiumi? Assolutamente no”.
COSIMO INDACO (Commissario dell’Autorità portuale). “Se la ditta non avesse rotto la banchina, non se ne sarebbe accorto nessuno. Si tratta di una cosa assolutamente normale con la differenza che noi facendo i controlli siamo intervenuti immediatamente. Con i geo-radar abbiamo monitorato tutto il Porto”.
Memoria dell’eccidio di Avola (SR), del 2 dicembre 1968 e dei due braccianti Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona uccisi dalla polizia.
La canzone è intepretata da Enzo Del Re su testo di Dario Fo da Nuova Scena, “Emigrazione e imperialismo”
L’entrata in vigore, dal 25 novembre, della direttiva europea sull’obbligo del riposo minimo di 11 ore continuative nell’arco delle 24 ore rischia di mandare in tilt la Sanita’ italiana, che avrebbe bisogno di ben altro organico per rispettare le nuove regole. Non sara’ infatti piu’ possibile derogare sulle 11 ore minime di riposo giornaliero, sulle pause, sul lavoro notturno e sulla durata massima dell’orario di lavoro settimanale. Stop alle deroghe dalla vigente legislazione e stop anche per le deroghe previste oggi dalla contrattazione collettiva.
Nei giorni scorsi c’è stato un confronto con i sindacati dei medici, che saranno in sciopero generale il 16 dicembre, che si è concluso con un nulla di fatto. L’Aran ha comunque avuto un mandato a chiedere la condivisione di deroghe che avrebbero, però, come unico risultato quello di danneggiare i cittadini oltre che gli stessi medici. “L’osservanza della normativa europea è una questione di politica sanitaria – sottolinea l’Anaao, che ha visto sino ad oggi assenti Governo e Regioni. Si tratta di organizzare i servizi in modo appropriato e di garantire le risorse umane necessarie per l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza”. In ballo c’è ovviamente, il rinnovo del contratto di lavoro, soprattutto per quanto riguarda la parte normativa. Atto che il Governo si rifiuta di fare.Per la Cgil il giusto orario europeo e’ a tutela della qualita’ delle prestazioni sanitarie per i cittadini e della salute dei medici e degli operatori sanitari. Intanto, “e’ forte il rischio caos nell’applicazione delle norme sull’orario di lavoro nelle aziende sanitarie, essendo, per alcuni aspetti, diversamente interpretabili”. “Avevamo lanciato l’allarme ma in un anno nulla e’
stato fatto scrivono in una nota Cecilia Taranto e Massimo Crozza – adesso non ricadano sui lavoratori e sui cittadini le colpe di un Governo che arriva a tempo scaduto”.
Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica. Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists . Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.
A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.
All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.
I primi quindici anni del Ventunesimo secolo hanno visto nuovi pericoli di instabilità per la popolazione umana, anche se lentamente la Russia e gli Stati Uniti hanno deciso di smantellare una parte delle “vecchie” bombe nucleari. Si tratta di delicate operazioni tecniche che liberano grandi quantità degli esplosivi plutonio e uranio arricchito, in parte utilizzati come combustibili per le centrali nucleari commerciali, in parte esposti a incidenti, e a furti da parte di criminali e terroristi. Dalle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo all’apice delle crisi internazionali, nel 1987, oggi esistono nel mondo “soltanto” circa 10.000 bombe nucleari, alcune delle quali in stato permanente di allerta.
Le bombe nucleari si deteriorano col tempo e le due principali potenze nucleari continuano ad aggiornare i loro arsenali; adesso i collaudi delle bombe non richiedono più esplosioni sperimentali ma possono essere fatti con altri metodi. Di recente è stato annunciato che le bombe nucleari a fusione americane B61, alcune delle quali sono depositate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e ad Aviano (Pordenone), saranno perfezionate nel modello B61-12 con una spesa di dieci miliardi di dollari; così si allontana ancora di più la speranza che gli stati nucleari rispettino l’impegno, da loro sottoscritto col Trattato di non proliferazione nucleare, che impone, all’articolo VI, l’avvio di trattative per il disarmo nucleare totale.Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.
Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci. Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.
I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente.
Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31–33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra.
In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.
Ultimo appello alle minoranze
D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini).
Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale..
Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti validi di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza.
E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario.
Il monitoraggio del mercato del lavoro svolto dall’istituto di ricerca della Cgil nel primo semestre 2015: “Luci e ombre. Dall’inizio della crisi gli occupati sono sempre più anziani, +15% gli over 55. Disoccupazione tra gli under 24 a livelli altissimi”
Oltre 9 milioni e trecentomila persone in difficoltà, +66,3% rispetto al 2007, e occupati sempre più anziani, +15% gli over 55 e -12% gli under 34 dall’inizio della crisi. Sono questi i dati emersi nell’attività di monitoraggio del mercato del lavoro svolta dalla Fondazione Di Vittorio. La Fondazione della Cgil offre infatti una lettura periodica delle statistiche ufficiali su disoccupazione e inattività, e in questa occasione ha analizzato il primo semestre 2015 (gennaio-giugno), periodo durante il quale hanno avuto piena applicazione i provvedimenti di legge che prevedono per tre anni l’esonero dei contributi a carico del datore di lavoro che assume a tempo indeterminato. E a quanto pare, non sono tutte rose e fiori.
I dati sulle forze lavoro relativi ai primi sei mesi dell’anno presentano in effetti luci e ombre. Il tasso di occupazione guadagna mezzo punto su base tendenziale ma l’aumento è tutto imputabile agli over 34, soprattutto ai più anziani nella classe 55-64 anni. L’area del disagio, del precariato e della sottoccupazione, invece, conta più di 4 milioni e 300 mila persone, il 12.8% della platea degli occupati in età 15-64 anni. E tra i giovani occupati fino a 34 anni aumenta di mezzo punto il tasso di disagio, la quota di occupati a termine e part-time involontario, dal 35.8 al 36.3%.
Il tasso di disoccupazione perde, sì, quattro decimi di punto ma per i giovani fino a 24 anni resta altissimo (sopra il 40%) mentre aumenta per i giovani adulti in età compresa tra 25 e 34 anni (dal 18.9 del primo semestre 2014 al 19.3% dello stesso semestre 2015). L’area della sofferenza di chi non ha un lavoro individuata dalla Fdv, si contrae su base annuale del 3% circa (meno rispetto alla flessione del 2011) e, con quella, il tasso di sofferenza (-3 decimi di punto) ma solo in ragione del minor numero di disoccupati e di occupati in cassa integrazione, mentre gli scoraggiati – che rinunciano a cercare un lavoro nella convinzione di non trovarlo – non diminuiscono in valore assoluto. La consistenza dell’area resta comunque eccezionale, stimata in circa 5 milioni di senza lavoro (compresi gli occupati in cassa integrazione).
Le luci, quindi, vengono dalla forza lavoro più matura , in un contesto di progressivo invecchiamento della popolazione: ma se il contributo all’economia del Paese dei lavoratori over 54 cresce rapidamente per ragioni demografiche e per ragioni normative (legge Fornero), aumenta anche la sofferenza delle persone anziane che non lavorano (il tasso di sofferenza della classe 55-64 anni, vale a dire la quota di persone in età che cadono nell’area della sofferenza, ha raggiunto il 7.1% nel primo semestre 2015, pari a 541 mila persone, dal 6.1% di un anno prima e dal 2.4% del primo semestre 2007).
Nel primo semestre 2015 , di conseguenza, l’area della sofferenza e quella del disagio interessavano ancora più di 9 milioni e 300 mila persone complessivamente: rispetto al primo semestre 2014, il punto di massimo nell’arco degli ultimi otto anni, hanno registrato insieme una flessione dell’1.2% (equivalente a -117 mila persone).
Si tratta di un risultato che, secondo la Fondazione Di Vittorio, scaturisce dalla combinazione di fattori diversi legati alla congiuntura internazionale, alle aspettative degli imprenditori, all’andamento dei prezzi, in particolare dell’energia, alla politica espansiva promossa dalla Banca Centrale Europea (quantitative easing), ai provvedimenti di politica economica e agli incentivi posti in essere dal governo. “E’ ancora prematuro valutare la misura dei singoli effetti, in particolare quanto sia robusta la ripresa e quanto sia influente su di essa la riforma appena approvata – scrivono i ricercato della Cgil -. Soprattutto è impossibile valutare la tenuta nel lungo periodo della nuova occupazione, quella che 14 nasce col beneficio del sollievo contributivo, in un contesto nel quale il carattere indeterminato dei nuovi rapporti di lavoro è tutto da verificare. Comunque i giovani ancora mancano all’appello e restano ai margini del mondo del lavoro, sospesi tra scoraggiamento, disoccupazione e precarietà”.
I DATI
Nel primo semestre 2015 il numero dei disoccupati è stimato in circa 3 milioni e 200 mila, 73 mila in meno (-2.2%) rispetto al numero record delle stesso semestre 2014, e il tasso di disoccupazione è al 12.5%, in flessione di 4 decimi di punto su base annuale ma ancora più del doppio rispetto al tasso pre-crisi del primo semestre 2007 (6.0%). Nel Mezzogiorno il tasso è al 20.3%, (21.8% per le donne e 19.5% per gli uomini), in discesa di sei decimi di punto ma solo per effetto della riduzione osservata nella componente femminile. Un cenno a parte meritano proprio le donne nel mezzogiorno che detenevano ancora nel primo semestre 2015 il record europeo dell’inattività (60.2% nel primo semestre 2015) e il più basso tasso di occupazione dell’Unione (31.1%). Guardando al futuro prossimo del nostro Paese, alle generazioni di giovani e giovani adulti fino a 34 anni di età che cercano di entrare nel mercato del lavoro e, una volta entrati, cercano di consolidare la loro posizione, osserviamo che il relativo tasso di disoccupazione è stabile rispetto al primo semestre 2014, fermo al 24.7%, il doppio di quello totale (nel 2007 era al 10.9% e la distanza tra i due tassi era contenuta in meno di 5 punti percentuali).
Gli occupati nel primo semestre 2015 sono stimati in 22 milioni 328 mila e guadagnano 156 mila unità su base annuale (+0.7%); il tasso di occupazione è al 55.9%, mezzo punto sopra il valore registrato nel primo semestre 2014. L’analisi per classi di età indica però che nel primo semestre 2015 i giovani e i giovani adulti fino a 34 anni perdono insieme 151 mila occupati rispetto allo stesso semestre 2014 e il tasso di occupazione specifico scende al 38.3%, in flessione di mezzo punto su base annuale e di 12.3 punti rispetto al primo semestre 2007. Nell’ultimo anno si è registrato un lieve incremento stimato in 110 mila unità (pari a +0.7%), circa un decimo rispetto al volume di occupazione stabile e a tempo pieno perduto negli anni della crisi.
Negli ultimi otto anni la variazione complessiva del numero di occupati standard è stata negativa nelle classi fino a 44 anni e positiva nelle classi over 44 e, in particolare, nella classe 55-64 anni che rappresentava, prima della riforma Fornero, il periodo della transizione verso l’inattività. In 5 questi ultimi anni si è ridotto infatti progressivamente il numero di quanti, in quella fascia di età, lasciano il lavoro (anche a motivo dell’inasprimento dei requisiti di accesso alla pensione), con il conseguente, inevitabile invecchiamento della platea degli occupati, fenomeno più rilevante quando l’economia stenta a generare nuova occupazione. Tra il 2007 e il 2015, a fronte di un incremento demografico della classe 55-64 anni nell’ordine di 600 mila unità, il numero di occupati nella stessa classe è cresciuto più del doppio (+ 1 milione e 326 mila) e il tasso di occupazione specifico ha segnato un aumento straordinario, dal 33.4% al 48.1%.
Se analizziamo il tasso di sofferenza per classi di età, l’aumento nel periodo non ha risparmiato nemmeno i più anziani (55-64 anni) per i quali si registra un ulteriore incremento su base annuale (dal 6.1 al 7.1%) ancora nel primo semestre 2015. I giovani e giovani adulti fino a 34 anni e i lavoratori in età centrali (35-54 anni) hanno visto crescere la sofferenza in misura eccezionale tra il 2012 e il 2014; nei primi 6 mesi dell’anno corrente, come nel 2011, si registra un una diminuzione che tuttavia lascia l’indicatore su valori ancora sopra quelli registrati nel primo semestre 2013.
La scansione del disagio per classi d’età dimostra che precariato e sottoccupazione hanno caratterizzato l’occupazione negli anni della crisi, interessando anche il lavoro degli occupati più anziani ma connotando in particolare quello di giovani e giovani adulti: nel primo semestre 2015 il 36.3% degli occupati under 35 cadevano nell’area del disagio, con un incremento di mezzo punto percentuale rispetto allo stesso semestre del 2014.
In Europa, dopo gli attentati a Parigi, spira un fortissimo vento di “stato di eccezione”, di regime giustizialista.L’Europa sta varando il suo “patriot act“. L’Italia, con la recentissima proposta del ministro Orlando, fa la sua parte incostituzionale.Viene varato un regime di drastici limiti a libertà e diritti.
Detenzioni e limitazioni di libertà vengono decise dai poteri militari senza controllo giurisdizionale.
La Francia inserisce addirittura tale pratica in Costituzione. La scissione tra capitale e democrazia diventa completa.
I popoli europei diventano popoli di sospettati. Sappiamo dalla storia come va a finire: i “regimi d’eccezione”, che dovrebbero durare pochi mesi, diventano ordinario dirittto emergenziale.
Ma anche prima degli attentati di Parigi una prassi inquietante si faceva strada in Europa: la strada della sanzione amministrativa parallela allo strumento penale.
Una strada tesa, con ipocrisia, a spazzare via il diritto di resistenza dei movimenti conflittuali.
In Spagna è stata varata la “ley mordaza” (la legge “mordacchia”); la potestà sanzionatoria è affidata al Ministero dell’ Interno e commina sanzioni di molte migliaia di euro, anche solo per picchetti antisciopero,antisfratto,ecc..
Alfano va nella stessa direzione: sistematizza il reato mussoliniano di “devastazione e saccheggio”.
E, oltre all’arresto differito per reati commessi durante manifestazioni,propone l’introduzione del DASPO per i soggetti ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico.
In Italia viene già applicato alle avanguardie dei movimenti il “confino politico”, una misura particolarmente odiosa del codice fascista Rocco.
La nozione di “sicurezza” agita dai governi confindustriali sta soppiantando la nozione stessa di democrazia.
Lo “stato di eccezione” trasforma lo stato sociale in “stato penale globale”. Cresce un apparente paradosso: più liberismo padronale in economia, più controllo securitario sulla società (quello che chiamiamo,non a caso, ordoliberismo).
Pensiamo alla Val Susa, proclamata, di fatto, zona in stato di guerra, in cui viene applicata la legge marziale. Vi è una deriva, cioè, del potere moderno verso la biopolitica (uno Stato che si occupa della vita dei sudditi solo al fine di produrre corpi docili ed ordinati, adatti al mercato del lavoro precarizzato e schiavistico. Stiamo arrivando allo “stato del controllo”.
Pensiamo ai CIE,alle galere etniche,alla segregazione statale contro la società meticcia.Una grande battaglia unitaria con i migranti,per noi.
Perchè nessuno si salverà da solo. Se permetteremo, senza lottare, che esistano galere etniche che chiudono i migranti, contribuiremo a costruire anche l’ingabbiamento del nostro antagonismo.
Vi è un nesso tra austerità ed autoritarismo: il pugno di ferro dello Stato che riformula la propria operatività per stroncare il conflitto generato dalla diffusione dell’incertezza sociale.
Oggi più che mai, con la terza guerra mondiale in gestazione, vi è una simbiosi tra scenari di guerra e immaginario della sicurezza.
Il conflitto sociale viene ridotto a mera questione di ordine pubblico. Lo stesso diritto penale subisce una torsione: da sistema giuridico basato sulla responsabilità personale a sistema fondato prevalentemente sulla “ragion di stato”.
Per questo, in tutta Europa, le organizzazioni anticapitaliste, contro le misure eccezionali ed i provvedimenti restrittivi, hanno storicamente fatto ricorso a campagne per l’ AMNISTIA sociale, per l’indulto.
E’, certo, solo un appoggio istituzionale alle lotte, al diritto di resistenza, (di cui rivendichiamo il valore costituzionale ) ma serve e servirà.
Anche in Italia dovremmo riaprire il dibattito. Perchè lotte sociali e lotta democratiche saranno sempre più indissolubilmente legate.