L’Italia invia bombe in Arabia Saudita, con l’avallo del Governo da: vita.it

19 novembre 2015

È atterrato poco prima delle 10 in Arabia Saudita un cargo carico di bombe MK-80 fabbricati in Sardegna. È la seconda spedizione nel giro di tre settimane, da un aeroporto civile e in palese violazione della legge 185 sull’export di armi. Il destino delle bombe? Facile immaginarlo: Yemen. E questa volta il Governo sapeva e non ha fatto nulla

Yemen MOHAMMED HUWAIS:AFP:Getty Images

Un nuovo carico di bombe MK-80 prodotte in Sardegna è stato consegnato in Arabia Saudita. Il cargo 747 partito questa notte dall’aeroporto di Cagliari – un aeroporto civile – è atterrato poco prima delle 10 in Arabia Saudita. Dalla rotta (non si riesce a tracciare completamente la fase finale del percorso) sembra proprio che la destinazione sia Ta’if, città sede di una base militare saudita, esattamente come già successo lo scorso 29 ottobre. Si tratta di ordigni prodotti a Domusnovas dalla RWM Italia, inviati a un Paese che – dice Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo «è evidentemente in guerra e viola i diritti civili, quindi secondo la legge 185 le armi all’Arabia Saudita non le potremmo vendere, è una violazione della legge».

Non è nemmeno la prima volta che accade. «È la terza volta, dopo la spedizione via mare di maggio e quella aerea, sempre dall’aeroporto civile di Cagliari, della notte del 29 ottobre scorso. Questa volta però è la peggiore», continua Vignarca. Peggiore su due fronti, uno di politica interna e uno di dato di realtà.

Foto Cargo Bombe

Il carico del 747, foto dal profilo Facebook dell’onorevole Pili

Dove saranno usate le bombe, infatti, è facile immaginarlo: Yemen. Le Nazioni Unite da mesi riferiscono che in Yemen è in corso una “catastrofe umanitaria” senza precedenti, con oltre 6mila morti di cui più della metà tra la popolazione civile, 21 milioni di persone, pari all’80% della popolazione, che necessitano di aiuti umanitari e 6 milioni di persone bisognose di assistenza di primo soccorso immediata. Nelle zone abitate da civili in Yemen sono stati ritrovati ordigni inesplosi esportati proporio dalla RWM Italia e sganciati dalla Royal Saudi Air Force», riferisce Giorgio Beretta dell’Osservatorio OPAL di Brescia: «È un conflitto senza alcun mandato delle Nazioni Unite e proprio l’altro ieri il Consiglio europeo si è dichiarato estremamente preoccupato per l’impatto delle ostilità in corso in Yemen, inclusi i bombardamenti e gli attacchi indiscriminati contro le infrastrutture civili, in particolare le strutture sanitarie e le scuole. Questo nuovo carico di bombe, dopo quello partito a fine ottobre, dimostra l’urgenza dell’Arabia Saudita di ricevere forniture da impiegare prontamente in Yemen». Già, perché se a maggio gli ordigni potevano viaggiare per mare (costa meno ma ci vuole più tempo), queste ultime due spedizioni estremamente ravvicinate sono state fatte via aereo, con costi maggiori ma una velocità di consegna estrema: «Non possiamo che immaginare un’urgenza di utilizzarle», sottolinea con preoccupazione Vignarca.

E veniamo al dato di politica interna. Questa terza spedizione è peggio delle altre perché questa volta tutti sapevano prima, incluso che non ha il Governo, fatto nulla per fermarla. Ieri mattina infatti l’onorevole Mauro Pili, che era stato informato dell’imminente spedizione, ha informato sia le reti che si occupano di questi temi sia il Parlamento, che stava esaminando il decreto di proroga delle missioni internazionali, presentando un ordine del giorno: «L’ordine del giorno è stato respinto. Hanno votato a favore tutte le opposizioni, mentre il Governo ha dato parere contrario e quindi è stato bocciato», spiega Pili. «Chiedevo di non autorizzare il trasbordo in base al fatto che l’Italia non è stata coinvolta da nessun organismo internazionale in Yemen e che anzi questo conflitto è avversato dall’Onu. Il Governo ha avallato con la sua posizione – è un dato politico rilevantissimo, perché mai si era espresso prima su questo – sta avallando l’attacco allo Yemen con i 4mila civili morti e il milione e mezzo di sfollati. L’Italia da oggi sta appoggiano un conflitto non autorizzato e anzi condannato dalle organizzazioni internazionali. A questo punto l’aeroporto civile di Cagliari l’Italia diventa un bersaglio possibile del terrorismo, un aeroporto civile utilizzato per due volte per un trasbordo militare, è una cosa che non si è mai sentita, di una gravità inaudita». (qui lo stenografico della seduta di ieri, con il Sottosegretario di Stato per la difesa Domenico Rossi che a proposito dell’odg di Pili si limita a dire «Infine, il Governo non accetta l’ordine del giorno Pili n. 9/3393- A/51» e la votazione con 103 sì e 221 no).

Pili racconta anche i retroscena della spedizione: «La spedizione era prevista già per alcuni giorni fa, l’hanno rinviata per non farla coincidere con il viaggio del premier in Arabia Saudita. Ovviamente anche ora hanno tentato di nasconderla: dall’Azerbaijan sono arrivati due cargo, uno su Malpensa e uno su Cagliari e questo secondo non era leggibile». Un dato interessante: anche durante il volo di ritorno, ci spiega Vignarca, il cargo 747 ha spento i transponder, sopra i cieli dell’Egitto.

«Ci rivolgiamo ancora una volta al Governo, che finora non ha risposto all’appello che la nostra Rete ha diffuso nei giorni scorsi insieme ad Amnesty International e Opal Brescia, affinché si fermino questi spedizioni di armi e morte. Numerose interrogazioni parlamentari sono già state presentate nel corso degli ultimi mesi, ma senza alcun tipo di risposta. Consideriamo grave il silenzio del Governo e ancora più grave è il fatto che si vadano a fomentare conflitti in un’area altamente rischiosa come quella mediorientale», conclude Vignarca.

foto MOHAMMED HUWAIS/AFP/Getty Images

Cara Pinotti, davvero è legale vendere armi all’Arabia Saudita? da: famiglia cristiana

Cara Pinotti, davvero è legale vendere armi all’Arabia Saudita?

22/11/2015  I sauditi bombardano da mesi in Yemen, al di fuori di ogni mandato internazionale, e sono i primi finanziatori dell’Isis. Eppure l’Italia, con le autorizzazioni del Governo, continua a vendere loro ingenti partite di materiale bellico. Le leggi del nostro Paese vietano esportazioni d’armi verso Paesi in conflitto armato. Ma per la ministra della Difesa «è tutto regolare».

L'imbarco dei tir delle armi della Rwm in Sardegna sulle navi dirette in Arabia. In copertina: la ministra della Difesa Roberta Pinotti.

L’imbarco dei tir delle armi della Rwm in Sardegna sulle navi dirette in Arabia. In copertina: la ministra della Difesa Roberta Pinotti.

Giovedì, nella messa mattutina a Casa Santa Marta, Papa Francesco ha nuovamente invitato a pregare per le vittime di Parigi. Ha anche chiesto di guardare con lucidità alla «Terza guerra mondiale a pezzi» in corso nel mondo e al commercio di armi: «Gesù ha detto: “Non si può servire due padroni: o Dio, o le ricchezze”. La guerra è proprio la scelta per le ricchezze: facciamo armi, così l’economia si bilancia un po’, e andiamo avanti con il nostro interesse. C’è una parola brutta del Signore: “Maledetti”».

L’autorevole centro di ricerca Sipri di Stoccolma, in uno studio basato sulle sole esportazioni legali dimostra che il mercato globale dei “sistemi di difesa” sta conoscendo un’età dell’oro, + 16%.
E l’Italia cosa fa? Firma commesse, esporta armi, intasca petrodollari. L’ultima consegna è partita mercoledì scorso dall’aeroporto di Cagliari con destinazione Arabia Saudita. Contiene componenti di bombe prodotte negli stabilimenti Rwm Italia di Domusnovas, in provincia di Carbonia-Iglesias, controllata dal colosso tedesco Rheinmetall. Per l’invio, come prevede la legge, è stata necessaria l’autorizzazione del Governo di Roma.

Gli effetti dei bombardamenti sauditi in Yemen.

Gli effetti dei bombardamenti sauditi in Yemen.

Terza spedizione di armi italiane da maggio verso l’Arabia

È la terza spedizione di questa partita: il 2 maggio è partito un primo cargo via mare dal porto di Genova fino alla città saudita di Jeddah, mentre con quello del 29 ottobre, sempre decollato dallo scalo sardo, si è passati al trasporto aereo, più rapido. Agli sceicchi ora le bombe italiane servono in fretta: devono bombardare lo Yemen, nella guerra in corso da otto mesi che ha già provocato 5.700 morti, di cui almeno 830 tra donne e bambini, 20 mila feriti, oltre un milione di sfollati e 21 milioni di persone che necessitano di urgenti aiuti.

Dopo la nuova partenza di ordigni made in Italy, l’Osservatorio Opal di Brescia, Rete Disarmo e Amnesty International hanno rinnovato la richiesta al Governo di sospendere l’invio di armi. «Si tratta», spiega Giorgio Beretta dell’Opal, «di un carico atterrato nella base militare della Royal Saudi Armed Forces di Taif». E ricorda: «Bombe del tipo di quelle inviate dall’Italia, come le MK84 e Blu109, sono state ritrovate in diverse città dello Yemen bombardate dalla coalizione saudita».

In Parlamento è stata depositata una nuova interrogazione, che si somma alle quattro precedenti a cui il Ministero degli Esteri continua a non rispondere. Il 28 marzo, l’Arabia Saudita ha formalmente annunciato alle Nazioni Unite il suo intervento militare contro il movimento sciita Houthi, ma non ha mai ottenuto alcuna autorizzazione, né legittimazione. Anzi, il segretario dell’Onu Ban Ki-moon ha condannato i bombardamenti e il Consiglio europeo, proprio il giorno precedente all’ultima spedizione italiana, ha sottolineato l’impatto degli attacchi sauditi contro le infrastrutture civili, in particolare ospedali e scuole.

Un dettaglio delle bombe caricate sulle navi cargo in partenza per l'Arabia Saudita.

Un dettaglio delle bombe caricate sulle navi cargo in partenza per l’Arabia Saudita.

l’Isis ha ricevuto oltre 40 milioni di dollari negli ultimi due anni da benefattori dell’Arabia Saudita, del Qatar e del Kuwait

Se la Farnesina ha scelto il silenzio, il ministro della Difesa Roberta Pinotti è intervenuta giovedì a margine di un convegno, spiegando: «È tutto regolare per quanto riguarda le autorizzazioni, il Governo italiano opera nel rispetto della legge».

Non è vero, ribatte Francesco Vignarca della Rete Disarmo: «La Legge 185 del 1990 vieta espressamente le esportazioni di tutti i materiali militari e loro componenti verso i Paesi in stato di conflitto armato».

Nella stessa occasione, il ministro Pinotti ha confermato “il segreto di Pulcinella” sul legame tra l’Isis e gli Stati del Golfo: «All’interno dei Paesi arabi», ha detto, «ci sono state raccolte di fondi di fondazioni private che dicevano di avere fini caritatevoli e che in realtà finanziavano i terroristi». Per l’autorevole Washington Institute for Near Policy, l’Isis ha ricevuto oltre 40 milioni di dollari negli ultimi due anni da benefattori dell’Arabia Saudita, del Qatar e del Kuwait.

Del resto, l’ultima spedizione delle bombe made in Italy fa parte di una politica italiana di lungo periodo: armare il Medio Oriente in fiamme. Dalle Relazioni inviate dal Governo alle Camere si ricava che nel quinquennio 2010-2014 la meta principale delle nostre armi è stato il Medio Oriente. Cinque miliardi di euro, rispetto ai poco meno di quattro del 2005-09. Un miliardo e 200 milioni di armi sono state vendute all’Arabia Saudita, che negli ultimi dieci anni ha aumentato del 156% le spese militari.

Yemen, il soccorso ai feriti dopo un bombardamento.

Yemen, il soccorso ai feriti dopo un bombardamento.

Secondo il Dipartimento di Stato Usa (rapporto 3013) il Kuwait è «l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria»

Fa notare Beretta dell’Opal: «Per l’Unodc, l’agenzia dell’Onu che si occupa di criminalità e droga, il 90% dei traffici illegali di armi proviene dal commercio legale». Frutto della triangolazione o dell’aver armato gruppi che poi cambiano alleanze. La legge italiana lo vieterebbe, ma nei fatti, una volta che sono vendute ad acquirenti ufficiali del Golfo, possono facilmente finire nelle mani sbagliate. Soprattutto le armi leggere, nella cui produzione il made in Italy primeggia e che sono facilmente trasportabili e occultabili. Il Pentagono, ad esempio, ha da poco ammesso di aver perso le tracce di 500 milioni di dollari di armi inviate proprio in Yemen.

Secondo la ricerca Small Arms Survey, l’Isis ha avuto disponibilità di armi provenienti dall’Arabia Saudita e la stessa accusa grava sul Qatar. A quest’ultimo Emirato, dal 2012 al 2014 l’Italia ha esportato armi per 146 milioni. Il committente era quindi il Paese che per David Cohen, sottosegretario americano per il terrorismo e l’intelligence finanziaria, ha «un habitat permissivo che consente ai terroristi di alimentarsi».

L’accusa è riportata nello stesso rapporto del 2013 del Dipartimento di Stato Usa in cui il vicino Kuwait è indicato come «l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria». Lo scorso 11 settembre, con il primo ministro kuwaitiano, Matteo Renzi ha siglato un memorandum d’intesa per un accordo a cui la Difesa sta lavorando dal 2012. Spiana la strada all’acquisto di 28 caccia Eurofighter di un consorzio europeo in cui Finmeccanica pesa quasi la metà. Per otto miliardi di euro sarà la più grande commessa mai ottenuta dall’azienda italiana, di cui il Ministero dell’Economia è il principale azionista.

Con le parole del Papa, è «la scelta per le ricchezze». E infatti, tra gli “effetti Parigi”, c’è anche il +3% registrato da Finmeccanica alla riapertura della Borsa dopo gli attentati.

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“La guerra alla mafia militare non basta”, la lettera di Nino Di Matteo da: sudpress.it

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Riportiamo integralmente il testo della lettera che il pm palermitanto Nino Di Matteo ha letto durante la manifestazione a Roma per #rompereilsilenzio

Oggi tanti Italiani, provenienti da ogni parte del Paese, hanno scritto una bella pagina di libertà, partecipazione democratica, impegno civile, passione per la Giustizia e la Verità. Sento fortissimo il bisogno ed il piacere liberatorio di esprimere a ciascuno di voi la mia profonda e sincera gratitudine. Ai promotori di questa iniziativa (le Agende Rosse e Scorta Civica) come a tutte le donne e a tutti agli uomini che, anche con notevole sacrificio personale, sono oggi accorsi a Roma. Vi ringrazio da uomo e da cittadino, prima ancora che da magistrato e servitore dello Stato.

In un paese dove l’apatia e l’indifferenza si diffondono sempre più pericolosamente nel tessuto sociale, voi oggi rappresentate la reazione di chi non vuole rassegnarsi, di chi pretende ancora di conoscere, di capire, di vivere e poter scegliere da cittadino informato e consapevole e non da suddito sciocco e facile strumento di volontà altrui.

Quella vostra di oggi non è semplicemente una testimonianza di solidarietà nei confronti di un magistrato in un momento di sua oggettiva difficoltà.
E’ qualcosa di enormemente più grande ed importante.

E’ una testimonianza della precisa consapevolezza che la lotta alla mafia, alla penetrazione e diffusione di metodi mafiosi nell’esercizio del potere, è la prima vera questione fondamentale, irrinunciabile, pregiudiziale ad ogni altra, per la tenuta della nostra democrazia.

E’ una testimonianza della sacrosanta pretesa di una Giustizia che sia veramente uguale per tutti. In un contesto politico generale che spinge pericolosamente verso il ridimensionamento del potere di controllo della legalità della magistratura , voi incarnate ciò che ogni cittadino, che abbia a cuore l’attuazione concreta dei principi della Costituzione, deve pretendere da ogni magistrato della Repubblica: autonomia, indipendenza reale da ogni altro potere, sacrificio, coraggio, consapevolezza dell’assunzione di un ruolo di effettivo servizio per la collettività, certamente incompatibile con ogni forma di collateralismo al potere e con ogni tentazione di valutare la opportunità politica delle proprie iniziative piuttosto che semplicemente la loro doverosità giuridica.

La manifestazione di oggi è indicativa di una consapevolezza che si va diffondendo nonostante la grave ,imperdonabile, indifferenza di gran parte della politica: la lotta alla mafia non può limitarsi alla, pur necessaria, repressione dell’ala militare delle organizzazioni mafiose; deve operare un salto di qualità che porti a definitivamente recidere i rapporti della mafia con la politica, il potere imprenditoriale e finanziario, i pezzi deviati e devianti delle Istituzioni. Oggi è necessario ed urgente un cambio di marcia in questa direzione. E’ fondamentale capire che lotta alla mafia e lotta alla corruzione devono marciare di pari passo, perché mafia e corruzione costituiscono sempre più due facce della stessa medaglia, di un sistema criminale integrato che mortifica quotidianamente i diritti, le aspettative, i sogni degli onesti.

C’è un aspetto ulteriore, ed ancora più importante, che rende ancora più bella ed entusiasmante la vostra testimonianza.

Oggi ai tanti (ai troppi) che vorrebbero definitivamente chiudere (come fantasmi di un passato ormai lontano) la pagina, oscura e tremenda, delle stragi, e dei tanti delitti eccellenti che hanno insanguinato e condizionato la storia recente della nostra Repubblica, voi state gridando in faccia una pretesa sacrosanta: le indagini e gli approfondimenti giudiziari su quelle stragi, sul contesto politico-mafioso-istituzionale nell’ambito del quale sono maturate, devono continuare, riprendere lena e vigore con uno sforzo finalmente serio di tutte le Istituzioni.
Perché è questo il percorso indicato dalle inchieste e dai processi già celebrati, perché è questo l’unico, l’autentico modo per onorare la memoria dei nostri morti. Perché è questa la strada maestra per capire appieno il presente e creare le condizioni perché in futuro non possa più accadere ciò che è avvenuto nel nostro Paese.

Questo sforzo di approfondimento non può essere delegato, come avviene in questo momento, a pochi, pochissimi, magistrati ed investigatori, continuamente e pervicacemente isolati, delegittimati, ostacolati con ogni mezzo, in un cammino disseminato di insidie e trappole di ogni tipo.

Voi state testimoniando una sacrosanta ansia di Giustizia che dovrebbe finalmente spingere tutte le Istituzioni, a partire da quelle politiche, ad un impegno corale ed effettivo per la ricostruzione di verità che non possono rimanere parziali ed incerte.
Senza Verità e Giustizia sui fatti che hanno sconvolto la storia della nostra Repubblica non ci può essere vera democrazia.
Un Paese senza memoria è destinato a non avere futuro.

Vi ringrazio ancora con tutta la forza del sentimento che mi avete suscitato.
La vostra attenzione, la vostra tensione morale e civile, mi conforta, costituisce per me uno stimolo forte, decisivo, ad andare avanti nel lavoro, nonostante tutto e nonostante le difficoltà e gli ostacoli sempre più alti.

Dobbiamo tutti, ciascuno nel suo ruolo e con le proprie capacità, trovare sempre la forza di combattere per la verità. Anche quando ciò ci esporrà a pagare un prezzo molto alto.
Le singole battaglie potranno anche perdersi, dobbiamo imparare a mettere in conto le sconfitte e le battute d’arresto; ciò che conta è proseguire nel percorso di ricerca della Verità, l’unica strada, diretta, semplice e perciò rivoluzionaria, che può finalmente portarci a vincere la guerra. Una guerra di resistenza e liberazione contro un sistema ed un metodo mafioso che dobbiamo necessariamente debellare se vogliamo assicurare ai nostri figli un futuro di dignità, libertà e democrazia.

Vi abbraccio con sincera riconoscenza
Nino Di Matteo

Coop, per quanto tempo ancora la Cgil riuscirà a tenere nascosto lo scontro che c’è nei territori? Le critiche del segretario della Camera del lavoro di Reggio Emilia Autore: fabio sebastiani da. controlacrisi.org

Da mesi è in atto tra la Cgil e il mondo cooperativo una guerra sotterranea, combattuta soprattutto a livello territoriale. Niente di preoccupante, per carità. Mentre Susanna Camusso non si lascia scappare l’occasione per mostrarsi conciliante e attenta con il ministro Poletti, che viene da quel mondo, la realtà quotidiana è fatta di schermaglie “aziendali” da una catena di distribuzione all’altra, passando per i trasporti e l’assistenza sociale.

Quasi sempre si tratta di “falle” macroscopiche nella difesa dei diritti dei lavoratori, finiti “chissà come” all’ultimo posto nella vita effettiva delle coop. Ultimamente a ruggire è stato il segretario della Camera del Lavoro di Reggio Emilia che ha parlato di “una lunga parabola discendente che, fino ad oggi, ha mandato in fumo centinaia di milioni e gettato sul lastrico migliaia di famiglie”. A che cosa si riferisce Guido Mora?

In Emilia Romagna è soprattutto la crisi del settore edile ad aver creato le premesse per una diaspora senza precedenti. “Diaspora” è la parola giusta perché siamo in presenza di una frattura netta. E dire che prima tra “governati e governanti”, tra “pesci ed acqua” non c’era più alcuna differenza. La crisi ha costretto a guardare in faccia la realtà. E secondo Mora non è più possibile parlare di casi isolati ma di un “modello cooperativo” che, all’indomani del crollo dei grandi gruppi edili come Coopsette, sembra essere arrivato al capolinea, per mancanza di idee e di risorse.

Da Mora arriva, inevitabile, da una parte una “autocritica” al sindacato per essere stato poco incisivo nello stoppare sul nascere le tendenze deleterie che hanno condotto al “dramma unico” di oggi. E, dall’altra, non risparmia certo nel portare l’affondo alle “alte sfere”. Tra le cause dell’impasse da cui sembra impossibile uscire, il segretario della Cgil indica elementi evidenti gia’ negli anni ’80: “Una tendenza all’aziendalizzazione e la divisione tra la capacita’ decisionale dei gruppi dirigenti e la passivita’ dei soci”. Cioe’, spiega, “ci siamo trovati di fronte a manager rimasti in carica ai vertici della cooperazione anche per 25, 30 anni, rispetto ai quali i soci avevano un atteggiamento di umilta’ tale da lasciarli fare”. Tutti aspetti che la crisi ha accentuato.
Lavando “i panni sporchi in pubblico”, Mora riconosce pero’: “Il ruolo del sindacato in quel contesto e’ stato residuale. Quando ci si e’ accorti di quello che stava succedendo si e’ rinunciato a discutere fino in fondo e a sperimentare nuove forme di
partecipazione”.
Ancora più pesante, se vogliamo, la critica verso le cooperative di servizi. Il leader della Cgil non ha dubbi: “Qui la forma cooperativa e’ stata utilizzata per abbassare i diritti e le condizioni di lavoro al di sotto della soglia minima, che e’ quella fissata dal contratto nazionale di lavoro”. Infatti, “al di la’ di qualche grande cooperativa siamo in presenza di un far west con aziende non iscritte alle centrali. Un puzzle di situazioni fuori controllo che vengono scaricate sui lavoratori come dimostra il caso della coop di facchinaggio Gfe di Reggio”. Sono almeno tre anni che proprio tra Reggio Emilia e Bologna va avanti una lotta durissima dei facchini dei grandi centri logistici. E a guidare i lavoratori, nella gran parte migranti, ci sono soprattutto i sindacati di base (Adl, Cobas, etc) che hanno strappato risultati importantissimi in totale solitudine.

E una situazione simile si trova nelle cooperative sociali, dove “insieme alla politica si afferma che bisogna ridurre il costo dei servizi per poterli allargare, peggiorando le condizioni dei lavoratori”. E’ necessario dunque, conclude Mora, “interrogarsi su quali siano le cause della degenerazione del modello cooperativo, e come declinarlo nel mondo di oggi. O vedere se c’e’ una terza via”.