Frontiere chiuse? Sarebbero un regalo all’Isis da: l’espresso

21a

 

di Marco Damilano

«È tornata la parola guerra, ma anche la parola politica». La presidente della Camera Laura Boldrini ragiona sul dopo-13 novembredell’Europa e dell’Italia: la battaglia contro il terrorismo e gli strumenti da usare, il no a uno scontro di civiltà, «errore nefasto», e alla tentazione di chiudere le frontiere, «il miglior regalo che potremmo fare all’Is», l’unità contro il terrorismo «che non deve annullare la normale dialettica democratica».

Come si combatte questa guerra?

«Con la politica. Dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente, ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia. In pochi in questi anni abbiamo denunciato questa situazione, era evidente che farla decantare avrebbe provocato altre sciagure. Ora si è capito che serve un dialogo con tutte le parti: gli Stati Uniti, la Russia, l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Unione africana, la Lega araba, l’Unione europea che spero parli con una sola voce.  Sia chiaro: con l’Is no, non si tratta. È un sedicente Stato che Stato non è, non bisognerebbe neppure chiamarlo così. E sfrutta la religione islamica per il potere, il novantanove per cento dei musulmani non hanno nulla a che fare con un’entità che usurpa il nome di Dio».

Però anche Hollande, uomo di sinistra, invoca la soluzione militare.

«Le azioni militari senza strategia politica sono disastrose. Ho lavorato in Afghanistan, oggi i talebani sono più forti di prima. In Iraq nel 2003 sembrò che il conflitto fosse finito in un mese con la caduta di Saddam e invece oggi si levano voci come quella di Hillary Clinton e perfino di Tony Blair che ammettono gli errori. Lo abbiamo visto in Libia. Il mito della guerra-lampo, dell’esportazione della democrazia con le armi ha portato alle tragedie di questi anni. La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento. Abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica».

Colpa degli occidentali? Troppo buonista presidente, si dirà. Qui ci sparano addosso nei bar, in una sala concerti…

«La mia è una posizione realista, non buonista. Non sono mai stata contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio, fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa. Bloccare il traffico delle armi: ci sono triangolazioni con paesi europei che favoriscono i terroristi, ben equipaggiati. Una battaglia culturale sul web: l’azione di proselitismo è senza confini, si muove sulla Rete, serve un’azione di monitoraggio. Infine, agire sulle cause sociali che spingono i giovani musulmani ad arruolarsi nell’Is. Lo fanno perché ci credono o perché è l’unica ragione di sopravvivenza? Molti di loro non hanno nulla da perdere. Questi sono i terreni su cui combattere la guerra al terrore in modo efficace».

Soluzioni complesse. Per alcuni partiti, anche italiani, la ricetta è semplice: chiudere le frontiere. Il contrario di #porteouverte, un hashtag della tragica notte del 13 novembre a Parigi.  

«I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica struttura di protezione. E chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori, invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi».

Cosa pensa dell’atteggiamento del governo Renzi? Sulla lotta al terrorismo è possibile un’unità politica tra i partiti, Lega compresa?

«Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole, che condivido. Sulla lotta al terrorismo serve senso di responsabilità da parte di tutti. Non si può usare il terrore per accumulare consenso spicciolo. E l’esigenza di restare uniti non può tradursi in un appiattimento della dialettica politica, espressa in modo responsabile. I terroristi vorrebbero farci vivere in una società cupa, con le donne chiuse in casa. Ricordo la Kabul dei talebani senza macchine, rumori, musica. Una città spettrale in cui regnava la morte. La lotta al terrore parte da qui: non intaccare i nostri principi, non rinunciare alla gioia di vivere».

I musulmani scendono in piazza in Italia contro il terrorismo da: internazionale.it

Ragazze musulmane partecipano a una veglia per le vittime degli attentati di Parigi, a Torino, il 14 novembre 2015. (Marco Bertorello, Afp)

Sabato 21 novembre a Roma si terrà una manifestazione dei musulmani per “condannare con forza” gli attentati del 13 novembre a Parigi e la violenza terroristica del gruppo Stato islamico. Lo slogan del corteo, che partirà da piazza Santi Apostoli alle 15, è “Not in my name”, non in mio nome.

Gli organizzatori hanno diffuso un testo, ispirato a quello promosso in queste ore dal Consiglio nazionale del culto musulmano francese, in cui si invitano “tutte le musulmane e i musulmani a una mobilitazione che, isolando ogni pur minima forma di radicalismo, protegga in particolare le giovani generazioni dalle conseguenze di una predicazione di odio e violenza in nome della religione”.

“Questo cancro offende e tradisce il messaggio autentico dell’islam, una fede che viviamo e interpretiamo quale via di dialogo e convivenza pacifica, insieme a tutti i nostri concittadini senza alcuna distinzione di credo. Questa pericolosa deriva violenta rappresenta oggi il pericolo più feroce per il comune futuro nella nostra società”, si legge nell’appello. Hanno promosso l’iniziativa l’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii), la Coreis (Comunità religiosa islamica) e la Confederazione islamica italiana (Cii).

Alla manifestazione di Roma parteciperanno anche il deputato del Pd Khalid Choauki e il presidente della commissione diritti umani del senato Luigi Manconi oltre a una serie di intellettuali e artisti come Ermanno Olmi, Ascanio Celestini, Paolo Virzì, Paolo Rossi e Gad Lerner.

In Francia il testo del Consiglio nazionale del culto musulmano sarà letto il 20 novembre per il venerdì di preghiera in tutte le circa 2.500 moschee del paese, per proclamare l‘“attaccamento assoluto al patto repubblicano che ci unisce tutti e ai valori fondanti della Francia”. Un raduno inizialmente previsto alla Grande moschea di Parigi è stato annullato per motivi di sicurezza.

Le iniziative in altre città italiane

Milano. Il Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano, Monza e Brianza (Caim), Partecipazione e spiritualità musulmana, e Giovani musulmani d’Italia hanno organizzato una manifestazione che si terrà il 21 novembre in concomitanza con quella nazionale, a Roma. Il corteo, contro il terrorismo, le guerre e la diffidenza nei confronti dei musulmani, partirà da piazza San Babila, alle ore 15.

Parma. Il Coordinamento delle associazioni islamiche di Parma e provincia ha invitato i cittadini al centro culturale islamico di via Campanini, venerdì 20 novembre. La preghiera settimanale del venerdì sarà in arabo e in italiano.

Massa. I Giovani democratici e i ragazzi musulmani della città si incontreranno nel pomeriggio di venerdì 20 novembre. È previsto un intervento dell’imam Youssef Sbai sull’iniziativa “Not in my name”.

Palermo. La Federazione islamica che rappresenta le dieci moschee della città ha organizzato una manifestazione che si terrà in piazza Politeama il 20 novembre, dalle 17.30 alle 19. Scopo dell’iniziativa è dissociarsi dalla violenza del gruppo Stato islamico. L’imam della moschea sunnita di piazza Gran Cancelliere Mustafà Boulaalam ha detto che anche cristiani e associazioni laiche sono invitati a partecipare.

Lo specchio dell’Occidente Fonte: micromegaAutore: Nicola Melloni

Due sono le tesi che dominano il dibattitto pubblico di questi giorni a seguito degli attentati di Parigi. Da una parte, c’è la contrapposizione col mondo islamico. Si tratta in parte di speculazione politica, intrisa di razzismo e xenofobia, dai Salvini che se la prendono coi rifugiati, ai Belpietro che attaccano i musulmani. Esiste però anche una versione soft, molto in voga, che punta sulla generalizzazione, basti pensare a Henry-Levy , secondo cui i musulmani delle nostre città – ed in tutto il mondo – dovrebbero pubblicamente sconfessare i terroristi e dire apertamente da che parte stanno. La seconda gamba di questo discorso pubblico si impernia invece sulla rappresentazione politica e culturale dell’Occidente. Si dice che sono i nostri valori ad essere il vero obiettivo dei terroristi: secondo il direttore di Repubblica a Parigi c’è stato un attacco alla democrazia, e “la nostra libertà fa paura ”, un tema ripreso anche da Panebianco sul Corriere . Entrambe queste visioni si reggono un assunto comune: la guerra di civiltà. E costruiscono un immagine collettiva di un’Europa sotto assedio, di una contrapposizione tra Noi e Loro.

La situazione è ben più complessa. Tanto per cominciare, non solo l’Islam è una religione praticata da miliardi di persone in maniere disparate, ma è soprattutto divisa in due fazioni in guerra tra loro. Tralasciamo per un momento le centinaia di milioni di musulmani che vivono in pace e promuovono sviluppo economico, democrazia e ruolo delle donne come in Malesia ed Indonesia e che vengono accomunati ai terroristi solo per condividerne la religione – il che già di per sé tradisce una qual certa attitudine culturale. Quello che però ci si “scorda” sempre di spiegare è come il fulcro del conflitto attuale sia la guerra aperta tra l’Islam sunnita di ISIS e i suoi alleati, e quello sciita dell’Iran. Semplicemente non esiste un unico mondo musulmano. Non certo come categoria sociologica, ma neppure a livello politico e religioso.

Bisogna poi fare un’operazione di chiarezza per quanto riguarda l’Occidente – che viene altrettanto generalizzato nei commenti di questi giorni. L’idea noi contro di loro è una mistificazione presto svelata dalle ambiguità e connivenze dei nostri Stati. Ad esempio, i legami tra Arabia Saudita e AlQaeda prima, e ISIS, dopo, sono noti. Eppure non solo non imponiamo a Ryad alcuna sanzione – figuriamoci, poi, un cambio di regime – ma addirittura ne supportiamo il regime medievale e fondamentalista. Solo pochi giorni fa, Renzi è andato a rendere omaggio a Ryad. Mentre Cameron ha stretto un patto di ferro con quello stesso regime integralista, permettendogli di entrare nel Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU. Anche militarmente le cose sono poco chiare. Come noto, in passato, gli interventi occidentali hanno fatto il gioco dei terroristi, in Iraq e in Libia, dove sul carro del trionfatore Sarkozy era subito salito proprio Henry-Levy. Pure in Siria, però le cose sono poco chiare. Come ci racconta Patrick Cockburn sulla London Review of Books , l’impegno americano contro ISIS è condizionato dal veto Saudita su una alleanza con le forze sciite, le uniche, insieme a quelle curde, presenti sul territorio. Insomma, combattiamo il califfato, ma solo a patto che non siano Assad e l’Iran a vincere. Priorità non proprio ben delineate. Incidentalmente, altri due “nostri” alleati nella regione supportano indirettamente i terroristi: a Nord, la Turchia combatte i curdi che si oppongono a ISIS, mentre a Sud, Israele bombarda gli Hezbollah , impegnati nella medesima guerra.

Ci voleva poi Crozza per ricordare agli italiani che gli attentati di Isis non sono certo indirizzati solo contro l’Occidente: dalle bombe di Beirut a quelle (più dubbie) di Ankara contro il corteo pacifista, fino all’aero russo, i terroristi colpiscono indiscriminatamente tutti i paesi coinvolti nel conflitto Medio-Orientale. Eppure, nonostante questa lampante evidenza si continua con un atteggiamento culturale viziato proprio dalla mitizzazione ed idealizzazione della nostra civiltà. I morti di Parigi sono anche i nostri, ma non così quelli libanesi, per non parlare di quelli siriani; i terroristi invece sono sempre gli altri, come se la nostra civilizzazione non abbia prodotto – e continui a produrre – eccidi e carneficine, spesso derubricate come azioni isolate di soggetti psicolabili; la guerra contro di noi è un attacco alla nostra democrazia, mentre le nostre guerre non sono tali – al massimo esportiamo libertà e democrazia. Tanto da arrivare al paradosso che, per bocca del suo Presidente, la Francia scopre di essere in guerra – a seguito degli attentati – tre mesi dopo aver cominciato a bombardare la Siria.

In realtà non c’è alcuno scontro di civiltà – gli schieramenti contrapposti sono tutt’altro che omogenei. E non c’è nessun attacco alla democrazia, quanto piuttosto l’intenzione di colpire, in maniera vigliacca e assassina, i propri nemici. Le categorie culturali hanno poco da spiegare in un conflitto che è invece soprattutto geopolitico – dove sono gli interessi e non l’etica a determinare alleanze e comportamenti.

Non si può capire l’ISIS senza conoscere la storia del Wahhabismo in Arabia Saudita Fonte: huffingtonpost.itAutore: Alastair Crooke

La drammatica entrata in scena del Da’ish (ISIS) in Iraq ha scioccato tanti, in Occidente. In molti sono rimasti perplessi – e inorriditi – dalla sua violenza e dall’evidente capacità attrattiva esercitata nei confronti della gioventù sunnita. E di fronte a questo fenomeno, l’ambiguità mostrata dall’Arabia Saudita pare inquietante quanto inesplicabile, così ci si chiede: “Ma come fanno i sauditi a non capire che l’ISIS è una minaccia anche per loro?”.

L’impressione è che — anche oggi — in Arabia Saudita la classe dirigente sia spaccata in due. C’è chi applaude l’ISIS: perché combatte il “fuoco” sciita iraniano col “fuoco” sunnita; perché un nuovo stato sunnita sta prendendo forma nel cuore di ciò che ritengono essere una terra storicamente appartenente ai sunniti; e perché vengono attratti dalla rigida ideologia salafita del Da’ish.

Altri sauditi paiono più timorosi, memori di quanto accaduto durante la rivolta dei wahhabiti Ikhwan contro Abd-al Aziz che quasi distrusse il wahhabismo e gli al-Saud nei primi anni ’20 (AVVERTENZA: questi Ikhwan
– lett. “fratelli”, ndt – non hanno niente a che vedere con gli omonimi Ikhwan, cioè i Fratelli Musulmani — si tenga quindi presente che da qui in avanti tutti i futuri riferimenti nel corpo del testo saranno da ricondurre agli Ikhwan wahhabiti, e non agli Ikhwan-Fratelli Musulmani).

Molti sauditi si sentono profondamente inquietati dalle dottrine radicali del Dai’sh (ISIS) – e cominciano sotto alcuni aspetti a mettere in dubbio la direzione politica dell’Arabia Saudita.

IL DUALISMO SAUDITA

Le divisioni interne e le tensioni sull’ISIS che si avvertono in Arabia Saudita potranno essere comprese solo se si ha ben chiaro in mente quell’intrinseco (e persistente) dualismo che sta alla base della dottrina e della storia del Regno.

Un tratto dominante dell’identità Saudita risale direttamente a Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (il fondatore del Wahhabismo), e al modo in cui il suo puritanesimo radicale ed esclusionista fu adoperato da Ibn Saud (quest’ultimo nient’altro che un capetto – fra tanti – di tribù beduine in lotta fra loro, perennemente dedite a razzie in giro per i cocenti, quanto disperatamente solitari deserti del Nejd).

Il secondo tratto di questo sconcertante dualismo risale precisamente alla svolta impressa da Re Abd-al Aziz in direzione della forma stato negli anni ’20: il freno che impose alla violenza Ikhwani (in modo tale da guadagnare punti come stato-nazione nei rapporti diplomatici con la Gran Bretagna e l’America); la sua istituzionalizzazione di quell’originario impulso wahhabita – e dall’altra parte l’opportunità che colse al volo di metter mano al rubinetto dei petrodollari negli anni ’70, spingendo gli instabili Ikhwani fuori dal paese – avvenne attraverso una rivoluzione culturale, invece che una rivoluzione violenta nel mondo musulmano.

Ma questa “rivoluzione culturale” non era un mansueto riformismo. Era piuttosto una rivoluzione basata sull’odio quasi-giacobino di Abd al-Wahhab per la corruzione e le deviazioni dottrinarie che percepiva intorno a sé – da qui il suo appello ad epurare l’Islam da tutte le sue eresie ed idolatrie.

IMPOSTORI MUSULMANI

Il giornalista e saggista americano Steven Coll ha raccontato come il suddetto Abd al-Wahhab, questo discepolo di uno studioso del 14esimo secolo (tale Ibn Taymiyyah), dal carattere austero e propenso alla censura, disprezzasse “la nobiltà egiziana ed ottomana che attraversava l’Arabia per andare a pregare alla Mecca, con tutta la loro eleganza, la loro arte, il loro tabacco, il loro hashish e i loro tamburi”.

Dal punto di vista di Abd al-Wahhab, questa gente non era musulmana; erano impostori mascherati da musulmani. Non è che giudicasse molto meglio il comportamento dei beduini arabi del luogo, che pure lo disturbavano con la loro devozione ai santi, con le lapidi che erigevano e la loro “superstizione” (ad esempio la venerazione di quei luoghi, anche di sepoltura, che si riteneva essere stati toccati dal divino). Tutti comportamenti che Abd al-Wahhab denunciò come “bida” – proibiti da Dio.

Come già Taymiyyah prima di lui, Abd al-Wahhab era convinto che il periodo trascorso dal Profeta Maometto a Medina incarnasse l’ideale della società musulmana (il “migliore dei tempi”), cosa che tutti i musulmani avrebbero dovuto aspirare ad emulare (ed ecco, in sostanza, il Salafismo).

Taymiyyah aveva dichiarato guerra allo Sciismo, al Sufismo e alla filosofia greca. Criticava anche la gente che si recava sulla tomba del Profeta, e la celebrazione del suo compleanno, dichiarando tutti questi comportamenti mere imitazioni della venerazione cristiana di Gesù come Dio (e cioè idolatria). Abd al-Wahhab fece suoi questi insegnamenti, sostenendo che “qualsiasi dubbio o esitazione” da parte del credente rispetto a questa sua particolare interpretazione dell’Islam avrebbero dovuto “privare un uomo dell’immunità, delle sue proprietà e della sua vita”.

Uno dei principi fondamentali della dottrina di Abd al-Wahhab è diventato cardine del takfir. Secondo la dottrina takfiri, Abd al-Wahhab e i suoi seguaci avrebbero potuto dichiarare infedeli i propri correligionari musulmani in qualsiasi occasione questi si fossero dedicati ad attività che minacciavano di entrare in contrasto con il principio di sovranità dell’Autorità assoluta (cioè del Re).

Abd al-Wahhab denunciava tutti i musulmani che onoravano i propri morti, santi o angeli. Riteneva che tali sentimenti distraessero dall’asservimento più completo che ciascuno doveva provare nei confronti di Dio, e Dio soltanto. L’Islam wahhabita proibisce perciò qualsiasi tipo di preghiera rivolta ai santi o ai propri cari estinti, i pellegrinaggi alle tombe e a certe moschee, feste religiose in nome dei santi, la celebrazione del compleanno di Maometto, Profeta dell’Islam, e si spinge perfino a proibire l’uso di lapidi nella sepoltura dei morti.

“Coloro che non dovessero conformarsi a tale punto di vista dovrebbero essere uccisi, stuprate le loro mogli e le loro figlie, e confiscate le loro proprietà”, scrisse.

Abd al-Wahhab pretendeva conformismo – un conformismo al quale bisognava manifestare la propria adesione in modi fisici e tangibili. Sosteneva che tutti i musulmani dovessero individualmente giurare la propria fedeltà a un singolo leader musulmano (un califfo, quando c’era). E coloro che non si conformavano a questa posizione dovevano essere uccisi , le loro mogli e figlie dovevano essere stuprate, e i loro beni confiscati, scrisse. La lista degli apostati meritevoli di morte includeva sciiti, sufi e altre scuole musulmane, che Abd al-Wahhab non riteneva affatto musulmane.

Non esiste niente che distingua il Wahhabismo dall’ISIS. La frattura arriva dopo: dalla successiva istituzionalizzazione della dottrina di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab, che recitava “Un Sovrano, Un’Autorità, Una Moschea” – tre capisaldi che l’interpretazione faceva riferire al Re saudita, all’autorità assoluta del Wahhabismo ufficiale, e al suo controllo della “parola” (cioè la moschea).

La negazione da parte dell’ISIS di queste tre capisaldi, sui quali l’intera autorità sunnita poggia tutt’ora, è la frattura che rende l’ISIS – entità che da qualsiasi altro punto di vista rispetta e si conforma al Wahhabismo – una grave minaccia per l’Arabia Saudita.

CENNI STORICI 1741-1818

L’aver adottato questa visione ultraradicale fece sì che Abd al-Wahhab venne espulso dalla sua città, e nel 1741, dopo diverse peregrinazioni, trovò rifugio sotto l’ala protettrice di Ibn Saud e della sua tribù. Ciò che Ibn Saud vedeva negli insoliti insegnamenti di Abd al-Wahhab non era altro che un mezzo per ribaltare le tradizioni e le convenzioni della cultura araba. Era, insomma, la sua strada per il potere.

“La loro strategia – così come quella dell’ISIS oggi – consisteva nel sottomettere le popolazioni conquistate. Volevano instillare loro la paura”.

Abbracciata la dottrina di Abd al-Wahhab, il clan di Ibn Saud poteva continuare a fare ciò che aveva sempre fatto – cioè razziare i villaggi della zona, depredandoli i loro beni. Solo che adesso non l’avrebbero più fatto nel solco della tradizione araba, ma sotto il vessillo della jihad. Ibn Saud e Abd al-Wahhab reintrodussero poi l’idea del martirio in nome della jihad, perché assicurava ai propri martiri l’immediato ingresso in paradiso.

All’inizio conquistarono poche comunità del luogo, imponendovi il proprio dominio (agli abitanti dei territori conquistati fu lasciata poca scelta: conversione al Wahhabismo o morte). Ma entro il 1790 l’Alleanza controllava ormai gran parte della penisola araba, e razziò ripetutamente Medina, la Siria e l’Iraq.

La loro strategia – così come quella dell’ISIS oggi – consisteva nel costringere alla sottomissione le popolazioni conquistate. Volevano instillare loro la paura. Nel 1801 gli Alleati attaccarono la Città Santa di Karbala in Iraq, massacrando migliaia di sciiti, incluse donne e bambini. Molti luoghi sacri sciiti vennero distrutti, incluso il tempio dell’Imam Hussein, nipote assassinato del Profeta Maometto.

Un ufficiale britannico, il Tenente Francis Warden, testimone dei fatti all’epoca, scrisse: “Hanno depredato l’intera città [di Karbala], e saccheggiato la Tomba di Hussein… massacrando nel corso della giornata, con una sequela di atti di particolare crudeltà, più di cinquemila dei suoi abitanti…”.

Osman Ibn Bishr Najdi, storico del primo stato saudita, scrisse che a Karbala nel 1801 Ibn Saud fece un massacro. E documentò con orgoglio quel massacro dicendo: “Abbiamo preso Karbala, e fatto un massacro, e ridotto la sua popolazione (in schiavitù), per cui sia resa lode ad Allah, Dio dei Mondi, e non chiederemo scusa per questo, e diremo: “Agli infedeli: lo stesso trattamento”.

Nel 1803 Abdul Aziz fece il suo ingresso nella Città Santa della Mecca, che si arrese in preda al terrore e al panico (lo stesso destino a cui andò incontro Medina). I seguaci di Abd al-Wahhab demolirono tutti i monumenti storici, le tombe e i templi che si trovavano davanti lungo il cammino. Alla fine avevano distrutto secoli di architettura islamica intorno alla Grande Moschea.

Ma nel novembre del 1803 un assassino sciita uccise re Abdul Aziz (una vendetta per il massacro di Karbala). Gli successe suo figlio, Saud bin Abd al Aziz, che portò avanti la sua conquista dell’Arabia. I sovrani ottomani, tuttavia, non potevano più restare a guardare mentre il loro impero veniva divorato un pezzo alla volta. Nel 1812 l’esercito ottomano, composto da egiziani, spinse l’Alleanza fuori da Medina, Jeddah e la Mecca. Nel 1814 Saud bin Abd al Aziz morì di febbre. Il suo sfortunato erede Abdullah bin Saud, invece, fu catturato e portato dagli ottomani a Istanbul, dove venne condannato a una morte cruenta (un viaggiatore che si trovava ad Istanbul raccontò di averlo visto umiliato per tre giorni lungo le strade della città, per essere poi impiccato e decapitato, la sua testa sparata da un cannone, il suo cuore strappato e impalato sul suo cadavere).

Nel 1815 le forze wahhabite erano state schiacciate dagli egiziani (agli ordini degli ottomani) in una battaglia decisiva. Nel 1818 gli ottomani catturarono e distrussero la capitale wahhabita di Dariyah. A questo punto del primo stato saudita non c’era ormai più traccia. I pochi wahhabiti sopravvissuti si ritirano nel deserto per riorganizzarsi, e lì rimasero, a riposo per gran parte del 19esimo secolo.

I RICORSI STORICI DELL’ISIS

Non è difficile da capire come la fondazione dello Stato Islamico da parte dell’ISIS nell’Iraq contemporaneo possa fare eco a coloro che conoscono questa storia. E in effetti, lo spirito del Wahhabismo del 18esimo secolo non morì a Nejd, ma tornò in auge quando l’Impero Ottomano crollò nel caos della Prima Guerra Mondiale.

Gli Al Saud – in questa loro rinascita nel 20esimo secolo – erano guidati dal laconico quanto politicamente avveduto Abd al Aziz, che unificando le molteplici e irritabili tribù beduine, lanciò l’Ikhwan saudita nel solco dell’originario proselitismo battagliero di Abd-al Wahhab e Ibn Saud.

Gli Ikhwan erano una reincarnazione di quel feroce movimento d’avanguardia semi-indipendente di “moralisti” armati wahhabiti che quasi erano riusciti a conquistare l’Arabia agli inizi dell’800. Allo stesso modo fra il 1914 e il 1926 gli Ikhwan riuscirono ancora una volta a occupare la Mecca, Medina e Jeddah. Ma dal canto suo Abd-al Aziz iniziò a convincersi che i propri interessi avrebbero potuto ritrovarsi, a lungo termine, minacciati da questo “giacobinismo” rivoluzionario degli Ikhwan. Così gli Ikhwan si rivoltarono – e scoppiò una guerra civile che sarebbe durata fino agli anni ’30, quando infine il Re li schiacciò: con le mitragliatrici.

Per questo Re (Abd-al Aziz) le semplici verità dei decenni precedenti si andavano erodendo. Nella penisola era stato scoperto il petrolio. La Gran Bretagna e l’America lo corteggiavano, ma erano ancora piuttosto inclini a sostenere lo Sceriffo Husayn quale unico legittimo sovrano d’Arabia. I sauditi avevano bisogno di sviluppare un gioco diplomatico più sofisticato.

Fu così che il Wahhabismo fu costretto a mutare, da movimento improntato a una jihad rivoluzionaria, nonché alla purificazione teologica takfiri, a movimento di conservazione, sociale, politica, teologica e religiosa da’wa, per giustificare l’istituzione che sosteneva la lealtà alla famiglia reale saudita, e il potere assoluto del re.

COME IL WAHHABISMO SI SPARSE A MACCHIA D’OLIO

Con l’avvento della manna petrolifera – come scrive lo studioso francese Giles Kepel – gli obiettivi dei sauditi erano diventati quelli di “espandersi, diffondendo il wahhabismo in tutto il mondo musulmano”… di ‘wahhabizzare’ l’Islam, riducendo così “la pluralità delle voci all’interno di questa religione” in un “unico credo” — un movimento che avrebbe trasceso le divisioni nazionali. Miliardi di dollari furono – e continuano tutt’ora – ad essere investiti in questa manifestazione di soft power.

Fu quest’esaltante combinazione di miliardi di dollari d’investimento nell’esercizio di soft power – e la disponibilità manifestata dai sauditi a orientare l’Islam sunnita secondo gli interessi americani, pur innestandovi il Wahhabismo attraverso le istituzioni scolastiche, la società e la cultura in tutti i paesi musulmani – che generò la politica occidentale di dipendenza dall’Arabia Saudita, una dipendenza che dura già dall’incontro di Abd-al Aziz con Roosevelt a bordo di una nave da guerra statunitense (di ritorno dalla Conferenza di Yalta) fino ad oggi.

Gli occidentali guardavano al Regno, ma la loro attenzione era catturata dalla ricchezza, dall’apparente modernità, dalla dichiarata leadership del mondo islamico. Scelsero di dare per assodato che il Regno si stesse semplicemente piegando agli imperativi della modernità.

“Da un lato l’ISIS è profondamente wahhabita. Dall’altro, è ultraradicale in modo completamente diverso. Potrebbe essere interpretato come un movimento correttivo del wahhabismo contemporaneo”.

L’approccio saudita Ikhwan, tuttavia, non morì negli anni ’30. Si ritrasse, ma conservò comunque la propria influenza su alcune parti del sistema – nasce da qui quel dualismo che oggi possiamo osservare nell’atteggiamento saudita nei confronti dell’ISIS.

Da un lato l’ISIS è profondamente wahhabita. Dall’altro è ultraradicale in modo completamente diverso. Potrebbe essere interpretato come un movimento correttivo del Wahhabismo contemporaneo.

L’ISIS è un movimento “post-Medina”: guarda al comportamento dei primi due califfi, più che a quello dello stesso Profeta Maometto, e cerca in qualche modo di emularlo, negando con forza l’autorità saudita.

Mentre la monarchia saudita fioriva nell’era del petrolio, diventando un’istituzione sempre più vasta, l’attrazione esercitata dal messaggio Ikhwan conquistava sempre più terreno (nonostante la campagna di modernizzazione di Re Faisal). L’approccio Ikhwan godeva – e ancora gode – del sostegno di tanti uomini, donne e sceicchi importanti. Da un certo punto di vista, Osama bin Laden era esattamente il rappresentante della tarda fioritura di questo approccio Ikhwan.

Oggi l’indebolimento della legittimità del Re da parte dell’ISIS non viene visto come un fenomeno problematico, quanto piuttosto come un ritorno alle vere origini del progetto saudita-wahhabita.

Nella collaborazione alla gestione della regione da parte dei Sauditi e dell’Occidente, all’inseguimento dei tanti progetti occidentali (la lotta al socialismo, al Ba’athismo, al Nasserismo, al Sovietismo e all’influenza iraniana), i politici occidentali hanno privilegiato la loro interpretazione preferita dell’Arabia Saudita (il benessere, la modernizzazione e l’influenza), scegliendo tuttavia d’ignorarne l’impulso wahhabita.

Dopotutto, i movimenti islamisti più radicali venivano visti dai servizi segreti occidentali come strumenti utili per abbattere l’URSS in Afghanistan – e combattere leader e stati mediorientali che non godevano più del loro favore.

Perché sentirsi così sorpresi, allora, se dal mandato saudita-occidentale del Principe Bandar di gestire l’insorgenza siriana contro il Presidente Assad sia poi emerso un tipo movimento d’avanguardia neo-Ikhwan, violento e spaventoso: l’ISIS? E perché mai dovremmo sentirci tanto sorpresi – sapendone un po’ sul Wahhabismo – del fatto che gli insorgenti siriani “moderati” siano finiti col diventare più rari del mitico unicorno? Perché mai avremmo dovuto immaginare che il wahhabismo avrebbe generato dei moderati? Oppure, perché mai avremmo dovuto immaginare che la dottrina di “Un Leader, Un’Autorità, Una Moschea: sottomettetevi o morirete” potesse mai in ultima istanza condurre alla moderazione o alla tolleranza?

Oppure, forse, non ci siamo mai sforzati d’immaginare.

Soffiano venti di guerra, nasce il cantiere di pace Fonte: Il ManifestoAutore: Rachele Gonnelli

pace pacifisti

Il «cantiere per la pace» che è nato in una saletta affollatissima e piena di giovani del centro congressi di via Frentani a Roma coinvolgerà in ogni sua iniziativa locale o nazionale anche rappresentanti delle comunità musulmane in Italia, i cosiddetti musulmani moderati, ovvero un milione e mezzo di persone che vivono e lavorano nel Belpaese. Per vincere oltre i guerrafondai e le politiche securitarie contro i migranti, l’islamofobia e en passant le sirene dei media che tornano ad evocare lo scontro di civiltà.

«Questo terrorismo sta colpendo soprattutto noi musulmani, anche a Parigi 30 dei 129 morti lo erano. Siamo in prima linea», ricorda, raccogliendo l’invito dell’assemblea, Izzedin Elzir, palestinese nato a Hebron ora imam di Firenze e presidente dell’Ucoii, l’Unione comunità islamiche d’Italia. «Colpire noi vale di più che colpire un miscredente– continua a spiegare — in quanto considerati traditori perché abbiamo il vostro stesso sistema di vita e condividiamo gli stessi valori, quelli democratici della bellissima Costituzione della Repubblica, laica e rispettosa delle diversità».

Ora che il terrorismo jihadista è qui, dietro casa, anche le comunità islamiche hanno scoperto una paura più diretta, tangibile. Questa paura è una novità rispetto alle altre crisi, sottolinea Luciana Castellina nel suo intervento. È con questa paura che ora il mondo del pacifismo e dell’antirazzismo è chiamato a misurarsi, oltre che con un possibile restringimento dell’agibilità democratica, dato da un diffondersi di stati d’eccezione e censure.

Castellina propone al cantiere delle associazioni, Ucoii compresa, presidi mobili ovunque — «si possono chiamare gazebo, visto che la parola è di moda» — per avvicinare le persone, informare e proporre soluzioni diverse dalla guerra.

Anche Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, e deputato di Sinistra italiana, arrivato in una pausa del dibattito parlamentare sul rifinanziamento delle missioni all’estero, invita a considerare la variabile dell’empatia nell’approccio da usare. «Non si può perdere il contatto con il sentire comune e serve un approfondimento culturale anche tra di noi — avverte — perché il reclutamento dei terroristi non può più essere spiegato solo con il disagio delle periferie, c’è anche, nella fascinazione per Daesh, l’idea di uno stato-guida da contrapporre alla secolarizzazione monetaria delle nostre società senza un livello di trascendenza laico che serva da antidoto».

Il dibattito nell’assemblea romana tocca temi complessi, dalla analisi del colonialismo con la creazione di stati con il compasso sulla linea immaginata da François Picot e Mark Sykes ai tempi della prima guerra mondiale — «è quella che stiamo ancora vivendo e non la terza come dicono», sostiene Castellina — alla critica del modello di sviluppo. Tutte le associazioni e le ong mettono a disposizione le loro elaborazioni: i papers di Archivio Disarmo sull’export italiano di armi, il rapporto sui Diritti globali messo in rete da Legambiente, le elaborazioni di Sbilanciamoci e Lunaria.

Obiettivo: organizzare a tamburo battente momenti di confronto sui temi delle migrazioni, delle guerre e dei disastri ambientali, nelle città e soprattutto nelle scuole e nelle università. «Bisogna costruire anticorpi, monitorare gli stati di eccezione e le violazioni dei diritti civili, disvelare le verità nascoste», dice Francesco Martone di Un Ponte Per.

Nel frattempo il cantiere per la pace — nato ieri su impulso dell’Arci con l’adesione di un lungo cartello di sigle, tra cui anche Libera, Uds e Rete G2 — chiede che le manifestazioni già in programma ospitino uno spazio di rilievo per le tematiche pacifiste e antirazziste. Gli organizzatori della marcia italiana per il summit mondiale sul clima, il Cop21 di Parigi, in programma sabato 29 novembre a Roma, hanno già accettato. «Un ambientalismo che non tenga conto delle questioni sociali, incluso quella dei migranti economici, non avrebbe senso», sintetizza Maurizio Gubbiotti di Legambiente.

Francesca Redavid della Fiom romana si farà portavoce verso la Fiom nazionale per una decisione analoga relativa alla marcia Unions di sabato prossimo a Roma.

Se la Coalizione sociale di Landini deve battere un colpo, è il momento per farlo