Il Re della Giordania 18 novembre 2015 Sono “centomila i musulmani uccisi dall’Isis negli ultimi due anni” da: rainews

Re giordano Abdallah: l’Isis ha ucciso 100.000 musulmani .
Lo ha affermato il re giordano Abdallah in una conferenza stampa durante una visita a Pristina, in Kosovo, compiuta ieri. Secondo il sovrano hashemita, citato oggi da alcuni media, quella in corso è “una guerra all’interno dell’Islam”. Re Abdallah ha ribadito la sua opinione che l’Occidente e l’Oriente sono minacciati da “una Terza Guerra Mondiale contro l’umanità”. “Questo è ciò che ci unisce”, ha aggiunto Abdallah, tornando a fare appello per una lotta comune contro il terrorismo. La Giordania è uno dei principali alleati dell’Occidente nella regione mediorientale e membro della Coalizione internazionale a guida Usa che dal settembre del 2014 compie bombardamenti contro lo ‘Stato islamico’ in Siria. Il fenomeno dei migranti “richiede una risposta poliedrica” ed “è tempo che le nostre regioni superino le politiche di emergenza per passare a un approccio collettivo, sostenibile”, ha poi affermato il re, in visita in Austria, in dichiarazioni pubblicate dal giornale Der Standard e rilanciate dall’agenzia di stampa ufficiale del regno hashemita Petra. “Oggi gli europei affrontano il problema dei rifugiati che noi in Giordania affrontiamo da anni. I conflitti nella regione, la violenza e la disperazione hanno spinto milioni di persone in fuga verso il nostro Paese e ora verso i vostri Paesi. Nonostante non sia possibile superare rapidamente la sfida, ci sono azioni immediate e necessarie per affrontare la crisi e prevenirne il peggioramento”, afferma re Abdullah, sottolineando come la Giordania ospiti “1,4 milioni di siriani, uno ogni cinque giordani”, oltre a “centinaia di migliaia di rifugiati, musulmani e cristiani, provenienti da Iraq, Yemen, Libia e altri Paesi”. Per il regno e i suoi cittadini, prosegue, “assistere i bisognosi è un dovere morale, ma oggi il peso dei rifugiati ci spinge a limitare le nostre risorse” perché le “immagini dei grandi campi rifugiati sono in realtà solo una piccola parte” della questione e “oltre il 90% dei rifugiati vive nelle città e nelle comunità, sottoponendo a dura prova le nostre scuole e i nostri ospedali” ed entrando in “competizione con i giovani giordani per i limitati posti di lavoro”. – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Terrorismo-Isis-Giordania-bf12b2eb-ae61-4e22-be74-0c25cca32055.html

ANPInews n.181

Su questo numero di ANPInews (in allegato):

 

 

ARGOMENTI

 

Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia:

 

I tragici fatti di Parigi e i pericoli di una “guerra globale”. Contrapporre agli assassini l’unità dei popoli e dei governi del mondo e respingere ogni tentativo di approfittare di una situazione drammatica in nome del razzismo di sempre

 

Due notizie ugualmente positive sul fronte dell’antifascismoANPINEWS N.181

Ecco chi finanzia le armi nucleari: è la tua banca da: popofffquotidiano.it

238 hanno sede nel Nordamerica, 76 in Europa, 59 del Sud-est asiatico, 9 in Medio-Oriente. 11 sono italiane. Ecco le banche finanziatrici dei produttori di armi nucleari

Dario Lo Scalzo/Pressenza
Le banche finanziatrici dei produttori di armi nucleari
(Foto di paxforpeace.nl)

E’stato reso pubblico lo studio Don’t Bank on the Bomb condotto da PAX. Il report permette di avere un quadro istantaneo e accurato di chi produce armamenti nucleari su scala mondiale e di chi sostiene e finanzia tali produttori.

Gli studi, le ricerche e le interviste degli autori e di vari collaboratori di Don’t Bank on the Bomb 2015 hanno portato a identificare 26 aziende le cui attività riguardano la produzione, il mantenimento e la modernizzazione di arsenali nucleari. Queste aziende si trovano in Francia, India, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti:

Walchandnagar Indutries, Thales, Textron, Serco, Safran, Raytheon, Orbital ATK, Northrop Grumman, Moog, Lockheed Martin, Larsen&Toubro, Jacobs Engineering, HunOngton Ingalls Industries, Honeywell International, General Dynamics, Fluor, Finmeccanica, Engility, CH2M Hill, Boeing, Bechtel, BAE Systems, Babcock &Wilcox, Airbus Group, Aerojet Rocketdyne, Aecom.

Se c’è una produzione di armi nucleari c’è ovviamente chi ne finanzia i produttori. Escludendo quegli Stati come Russia, Cina, Pakistan e Nord Corea che gestiscono direttamente e con finanza pubblica tale produzione, per il resto, secondo quanto emerge dal report, si tratta d’istituzioni finanziarie quali banche, fondi pensioni e d’investimento e compagnie assicurative.

Lo studio evidenzia così 382 istituzioni finanziarie che dal gennaio 2012 all’agosto 2015 hanno sostenuto il business degli armamenti nucleari attraverso emissioni azionarie e/o obbligazionarie o attraverso prestiti per importi superiori a $493 miliardi.

Tra queste 238 hanno sede nel Nordamerica, 76 in Europa, 59 del Sud-est asiatico, 9 in Medio-Oriente. Entrando più nel dettaglio il report mostra come nella Top 10 degli investitori ci sono 3 istituzioni statunitensiCapital Group, State Street e Blackrock (con più di $209 miliardi investiti in aziende produttrici di armi nucleari) mentre in Europa i maggiori investimenti sono in capo a BNP Paribas (Francia), Royal Bank of Scotland (UK) eCrédit Agricole (Francia). Nel Sud-est asiatico infine sono Mitsubishi UFJ Financial (Giappone), Life Insurance Corporation (India) e Sumitomo Mitsui Financial (Giappone) i più grossi finanziatori dell’industria delle armi atomiche.

Facendo invece un focus sull’Italia balzano agli occhi 11 banche o gruppi bancari che dirottano, per oltre 4,5 miliardi di dollari, i risparmi dei loro clienti in investimenti con i quali finanziare i produttori di armi nucleari:Anima, Banca Intesa San Paolo, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banco di Monte dei Paschi di Siena, Banco Popolare, Banco di Sardegna, Banco Popolare di Sondrio, Gruppo Carige, Gruppo BPM, UBI Banca, Unicredit.

A fare da primi della classe in questa classifica Intesa San Paolo e Unicredit con poco più 3 miliardi di dollari finanziati ad aziende del business delle armi nucleari contro 1,6 miliardi di tutte le altre 9 banche insieme. Le principali società sostenute finanziariamente da Intesa e Unicredit sono la Honeywell International, la Northrup Grumman, il gruppo Airbus e quello Boeing e ancora Lockheed Martin oltre che Finmeccanica. Tutte e undici le banche nostrane sostengono finanziariamente Finmeccanica, a dimostrazione del forte e pericoloso legame istituito tra l’azienda a partecipazione statale (32%), il sistema bancario e l’industria bellica. D’altro canto, sempre secondo Don’t Bank on the Bomb, Finmeccanica investe oltre 12 milioni di dollari solo ed esclusivamente per le armi nucleari.

E’ bene però attirare l’attenzione anche su quello che si potrebbe definire un primo cambio di tendenza e quindi una nota positiva che emerge dal confronto con il report del 2014. Lo studio appena pubblicato mostra infatti un cambiamento di rotta per almeno 53 istituzioni finanziarie che, rispetto allo scorso anno, vietano o limitano investimenti a produttori coinvolti nel business degli armamenti nucleari mentre, sempre rispetto all’anno precedente, sono 29 le istituzioni che disinvestono.

Sebbene si tratti di dati non esaustivi per via della segretezza e della difficoltà a reperire informazioni, il report, per merito della dedizione dei suoi autori, consente di usufruire di una maggiore visibilità e di un aggiornamento su quanto di più assurdo e insensato viva l’epoca moderna. Dati parziali, ma drammaticamente eloquenti.

Basti pensare a quante piaghe sociali potrebbero combattersi e vincersi con uno sforzo finanziario di egual misura ma diretto piuttosto verso l’umanità, verso la lotta alla fame, alla malnutrizione, alle malattire curabili, verso la protezione dei diritti umani, verso la dignità umana e verso la salvaguardia dell’ambiente e del territorio.

Eppure ciò che sembrerebbe puro buon senso cede il posto alla ferocia e all’illogicità del genere umano. E così che, da un lato, a livello mondiale, non esiste ancora alcun veto né alcuna legge internazionale che esplicitamente proibiscano la costruzione delle armi nucleari, come categoria rientrante nelle armi di distruzione di massa. Per altri versi, è disarmante pensare che quanto illustrato sinora riguardi esclusivamente e solamente una parte della produzione mondiale in armi e armamenti, quella del nucleare. Un’industria, quella delle armi, tanto prolifica quanto crudele che in maniera ormai sempre più chiara ed evidente, con la compiacenza della classe dirigente internazionale, tiene in mano le sorti dell’intera umanità.

E’ bello pensare altresì che appaiono spiragli di speranza notificati nel report dai cambi di rotta e da un maggiore impegno etico all’interno dei circuiti finanziari. Di certo le istituzioni finanziarie potrebbero giocare un ruolo diverso e rilevante nel contesto sociale e contribuire fortemente a chiudere i rubinetti dei flussi finanziari alle aziende produttrici di armi tout court. Il cammino sembra davvero ancora molto lungo e lento.

Ma non basta, perché è importante seminare una consapevolezza diversa e lasciare intendere che noi cittadini, la società civile, sì, che ognuno di noi, oggi, in merito alla vicenda degli armamenti, non è una mera comparsa né tanto meno una figura marginale; al contrario, ciascuno con le proprie scelte quotidiane, può giocare un ruolo decisivo nella lotta per la vita della nostra umanità e del nostro pianeta.

La sola garanzia che gli armamenti nucleari non possano nuocere è la loro eliminazione.

Roma, 27 novembre: “Riprendiamoci la sovranità!” dibattito con Di Battista, Rodotà e Flores d’Arcais Fonte: micromega

RIPRENDIAMOCI LA SOVRANITÀ!
La rivolta del cittadino contro il partito unico del privilegio e del conformismo

Alessandro Di Battista, Stefano Rodotà, Paolo Flores d’Arcais

Roma, 27 novembre, ore 17,15
Teatro Sala Umberto (via della Mercede 50)

In occasione dell’uscita del numero di MicroMega “L’Europa in debito di sinistra”

È compatibile la democrazia con quest’Europa? E se fosse in crisi perché da decenni manca un partito dell’eguaglianza? Un confronto su quest’Europa senza bussola, ma anche sull’opposizione al renzismo e la necessità di ripartire dal giustizialismo e la difesa del welfare per una redistribuzione delle ricchezze e una rivoluzione all’insegna della legalità.

Come scrive nell’editoriale del nuovo numero di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, “la vera antipolitica sono gli espropriatori di democrazia della gilda dei politici di professione ormai inestricabilmente impastati con i privilegiati della finanza, del management, della corruzione, cornucopia di impunità anche per la criminalità organizzata. È necessario ripartire dal realismo dei valori contro il realismo degli apparati, della coerenza anti-Casta e anti-privilegio contro la sudditanza all’establishment, dell’intransigenza morale e programmatica contro le sirene della mediazione: senza contrapposizione frontale un nuovo partito dell’eguaglianza non capitalizza credibilità”.

Noam Chomsky: “L’Isis è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Saudita” Fonte: L’AntidiplomaticoAutore: Red.

medio oriente esercito In un’intervista rilasciata recentemente a Giuseppe Acconcia su il Manifesto , il grande intellettuale americano Noam Chomsky commenta così la questione del nucleare iraniano: “L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Sau­dita non vuole mai e poi mai un antagonista, un deterrente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la preoccupazione per gli Stati uniti? Si tratterebbe solamente di un deterrente. Nessuno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, perché il paese sarebbe vaporizzato all’istante e gli ayatollah di certo non vogliono suicidarsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deterrente contro l’aggressività di Israele nella regione. È questo che gli Stati uniti non vogliono”.

E sulla politica americana in Medio Oriente, Chomsky definisce i repubblicani “un partito fascista, ma “lo stesso Barack Obama è terribile, ma meno dei repubblicani. Il principale errore di Obama è la sua campagna con i droni”. Se a farla, prosegue Chomsky, fosse stato l’Iran contro gli ufficiali citati negli articoli della stampa Usa, come reagirebbero gli Stati uniti? “La guerra dei droni è la più grande operazione terroristica mai esistita” e non fa altro che far aumentare il numero dei Jihadisti. “Quando hanno iniziato, al-Qaeda era solo nelle zone tribali di Afghanistan e Pakistan ora è in tutto il mondo. Ma di questo non si può parlare nei media occidentali”.
Infine sull’Isis, Chomsky lo definisce “una mostruosità”, ma non “è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Saudita che propaga una versione estremista, wahabita, dell’Islam. Da Riad arrivano tonnellate soldi e l’ideologia per diffondere fondamentalismo nel mondo arabo”. Il meassaggio conclusivo: qeuesta situazione “è la conseguenza diretta dei devastanti attacchi degli Stati Uniti in Iraq del 2003 e degli attacchi della Nato in Libia del 2011 che hanno esasperato il conflitto sunniti-sciiti diffondendolo in tutta la regione.I bombardamenti della Nato hanno fatto aumentare il numero delle vittime di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Arabia Saudita ed Emirati stanno uccidendo una grande quantità di persone nei campi pprofughi. Ma anche questa guerra è destinata a fallire e non può comportare altro che diffusione di jihadismo”.

Rossa e realistica. Così è Sinistra italiana Fonte: Il ManifestoAutore: Carlo Galli

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Merita una risposta articolata la serie di questioni poste lo scorso 13 novembre da Paolo Favilli su questo giornale. Iniziamo dalla più facile: la “cosa rossa”. Termine che mi infastidisce molto non per l’aggettivo ma per il sostantivo: non credo infatti opportuno che un soggetto (politico) sia reificato (reso cosa, oggetto); che ciò che deve essere determinato sia indeterminato; che ciò che deve avere una forma sia relegato nell’informità. C’è nel termine “cosa rossa” il sapore di un’indecisione, di un’imprecisione, di un velleitarismo inconcludente, che lo rendono caro a chi ci è avversario, a chi non vuole fare neppure la fatica di raccogliere e decifrare la sfida di pensiero e di proposta che il soggetto “sinistra” vuole lanciare nella politica italiana. È un termine che nel dibattito pubblico risulta irridente e liquidatorio, che allude a un conato e non a un successo, a passate sconfitte e non a possibili affermazioni, a una minoritaria litigiosità e non a una azione concorde e plurale. Utilizzarlo è accettare di essere definiti da altri, da chi ci è ostile. Il nuovo soggetto politico — per ora un gruppo parlamentare — ha un nome e un cognome, “Sinistra italiana”, che sono un programma, non una Cosa.

Un’ulteriore questione è la asserita scarsa congruenza fra l’analisi della fase, contenuta in un mio breve testo, e, se capisco bene, un documento del Comitato Politico Nazionale e di un altro documento, istitutivo del soggetto “Sinistra italiana”, fatto circolare nei territori. Potrei rispondere — e sarebbe la verità — che il mio testo impegna solo me stesso; mentre gli altri due non sono di mia mano, e impegnano ripettivamente i firmatari e l’intero gruppo di Sinistra italiana. Ma sarebbe una risposta formalistica: infatti, al di là di usi terminologici un po’ diversi e delle diverse autorialità, destinazioni e fruizioni, mi pare si possa dire che si tratta di tre documenti coerenti, intellettualmente e politicamente.

Infine, la vera questione di sostanza, posta da Favilli: in quale misura è ‘rossa’ la sinistra che inizia a nascere? Favilli, citando Tronti, sostiene che una forza che non ha il coraggio di dichiararsi erede del movimento operaio (il ‘rosso’) non merita di esistere come ‘sinistra’. Qui valgono due osservazioni. La prima è che si può condividere il senso di ciò che Mario Tronti afferma, anche senza riconoscersi necessariamente nella sua peculiare declinazione operaistica del marxismo; una sinistra esterna ed estranea al movimento operaio sarebbe (è) al più una posizione liberal: altra cosa, quindi, da ciò che cerchiamo di fare.
Ora, non vi è dubbio che anche se il movimento operaio nel senso di Tronti non c’è più, poiché è risultato soccombente in questa fase storica — dagli anni Settanta in poi -, ci sono però ancora gli operai — e con loro i non-occupati, i disoccupati, i precari, gli sfruttati ‘atipici’, i discriminati, gli inclusi subalterni, i poveri, gli esclusi -; e che la sinistra di oggi non per essere odiosamente ‘moderna’ (cioè ‘alla moda’) ma proprio per fare ciò che deve fare, ovvero analisi ben fondate delle contraddizioni del presente, e sforzi politici per il loro superamento, deve usare creativamente quella eredità: conservarne la tensione al conflitto progressivamente liberatorio in un contesto che vede l’oppressione più diffusa e perfezionata (e insieme più brutale) perché si è impadronita di corpi, menti e cuori, e si è presentata come priva di alternative.

Allora, ed è la seconda osservazione, molte eredità sono necessarie a costituire oggi l’accumulazione originaria di pensiero e di energia politica che si richiede per affrontare (anche solo per nominare ed esprimere in modo non alienato e qualunquista) la sfida politica della resistenza e della contrapposizione alle forme attuali del dominio: quella del movimento operaio, certamente, ma anche quella del cattolicesimo sociale (che cosa significa l’enorme attenzione che la sinistra tributa all’ultima enciclica di questo pontefice se non una ricerca di senso alternativo al senso della macchina capitalistica mondiale?); quella del pensiero della differenza e dell’ecologia, e anche, perché no, quella della sia pur minoritaria sinistra radicale borghese (repubblicana in senso proprio).
Molte eredità non coincidenti tra di loro, e tutte da mettere all’opera e da rinnovare, con la consapevolezza che l’avversario da contrastare e da riequilibrare è dapprima questa forma specifica e determinata di capitalismo: il neoliberismo in generale, e in particolare l’ordoliberismo tedesco, dentro il quale ci muoviamo. E che la finalità è quella moderna della liberazione del lavoro e della restituzione dei soggetti a se stessi, della loro emancipazione dalle catene che il dominio oggi impone di non nominare neppure.

Analisi rossa e pratica arancione, quindi? Non direi. In primo luogo, perché non c’è (né in me, né nella Sinistra italiana) il rifiuto del rosso, né una fatale predilezione per l’arcobaleno. E poi, perché al radicalismo teorico appartiene il realismo: cioè il calcolo delle forze in campo, delle energie soggettive e oggettive in gioco, della capacità di egemonia culturale, delle alleanze necessarie (di alleanze e non di velleità maggioritarie, è fatta la politica di sinistra); e perché la sinistra nuova non vuole essere di testimonianza (né di attesa del ‘crollo’) ma di governo, non avventuristica (già troppi avventurieri popolano la politica) ma capace di aprire e di fondare solidamente una nuova fase della politica italiana, di imprimere una svolta a sinistra a un ordine politico-economico che ha avvilito il lavoro, ferito la società e determinato una crisi (di diritti, di vita, di moralità) che ha devastato la stessa democrazia. Capace insomma di essere ‘rossa’ perché seriamente rivolta — consapevole dell’immensità del compito, e della sua scala non solo nazionale — ad affermare un ordine le cui priorità non siano le compatibilità di questa forma economica e politica ma quelle indicate dalla politica diffusa, vissuta, partecipata, democratica: la ripoliticizzazione della società è obiettivo strategico della sinistra, che vuole da oggi avere la voce e la forza per entrare in conflitto con le ingiustizie strutturali del presente modello di sviluppo e per affermare le ragioni e i diritti del lavoro, della comune umanità e della comune cittadinanza.

Se per la sinistra governare è rischioso, poiché implica dover fare i conti con l’esistente, col rischio appunto di soccombervi, l’alternativa non può essere che la sinistra per paura di governare rinunci alla politica. Rossa e realistica, radicale e accorta, plurale e unitaria. Questa è la sinistra di cui c’è bisogno.

Landini: “Sabato in piazza contro il terrorismo” Fonte: Il ManifestoAutore: Antonio Sciotto

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La Fiom ha confermato la propria manifestazione per il contratto il prossimo sabato, ma visti i fatti tragici avvenuti in Francia ha allargato il tema alla lotta contro il terrorismo. Lo ha spiegato ieri il segretario generale dei metalmeccanici Cgil, Maurizio Landini, davanti a una assemblea di delegati riunita a Milano: «Condanniamo in modo totale quello che è avvenuto a Parigi», ha detto. «Lo dobbiamo fare con tutti — aggiunge Landini -, compresi i musulmani, per affermare che bisogna mettere in campo una mobilitazione generale per la lotta contro il terrorismo, contro la guerra e per la pace».

La manifestazione di sabato Unions! Per giuste cause, indetta dall’assemblea nazionale dei metalmeccanici Fiom, fin dalla sua proclamazione ha indicato un percorso più vasto rispetto a quello strettamente sindacale: insieme alle tute blu sfilerà infatti la Coalizione sociale, con studenti, lavoratori autonomi, associazioni, per dire no alla Legge di stabilità targata Renzi e chiedere equità fiscale, un abbassamento dell’età di pensione, investimenti pubblici a sostegno della crescita.

La piazza sarà ancora più folta, e ricca, c’è da scommetterci, perché è la prima occasione offerta agli italiani (se si eccettuano le manifestazioni immediatamente successive agli attentati di Parigi) per offrire solidarietà ai nostri cugini d’Oltralpe e chiedere con forza un impegno per politiche di pace.

Parlando ai suoi, dal palco dell’assemblea di Milano, Landini è tornato a criticare il governo: «Sta cancellando leggi senza discutere con nessuno e senza avere il consenso dei cittadini — ha detto — Dobbiamo porci il problema di cancellare le leggi sbagliate e al contrario del governo, mettere i cittadini nella condizioni di potersi esprimere e partecipare».

Chiaro il riferimento al referendum che la Cgil intende richiedere per abrogare le parti peggiori del Jobs Act, proposta che verrà sottoposta al voto dei lavoratori tra gennaio e febbraio prossimo, dopo che in dicembre verrà presentato il nuovo Statuto dei lavoratori: «Non è mai successo nella storia del Paese che un sindacato valutasse la possibilità di essere promotore di un referendum abrogativo — ha notato Landini — Deve diventare una battaglia non solo del sindacato, ma di tutti, in modo che ci sia uno statuto per tutte le forme di lavoro, quello dipendente, quello subalterno e quello autonomo».

Quanto al contratto, il segretario Fiom ha spiegato che «il tavolo unitario» che si aprirà il prossimo 4 dicembre con le imprese «è una novità», anche se «le prime dichiarazioni di Federmeccanica non rendono facile» questa soluzione. «C’è la volontà di cercare un accordo», ma «la situazione è molto difficile», ha aggiunto. «Abbiamo alle spalle un accordo separato e non c’è un accordo interconfederale di riferimento».

Tra le richieste della Fiom «il diritto alla formazione, la riforma dell’inquadramento, l’applicazione dell’accordo sulla rappresentanza del 10 gennaio». Su quest’ultimo punto, Landini spiega che «applicarlo significa impedire accordi separati». «Sia il contratto nazionale sia la contrattazione aziendale devono vivere e non possono essere uno sostitutivo dell’altra».

Un’ultima battuta Landini la fa sul papa: «Certo che gli darei la tessera Fiom — ha detto — ma lui non l’accetterebbe. A ragione, perché è il papa di tutti». E se Bergoglio non si iscrive ai metalmeccanici, Landini prenderà la tessera di Sinistra italiana: «Il sindacato è indipendente e autonomo, non ha forze politiche di riferimento. Abbiamo le nostre proposte e ci interessa discuterle con tutti».

Cecilia Strada: “Il terrorismo è l’essenza della guerra” Fonte: Il ManifestoAutore: Luca Fazio

Valeria Soresin, la ragazza italiana di 28 anni uccisa al Bataclan, è stata una volontaria di Emergency. Cecilia Strada, che dell’associazione umanitaria è presidente, ne parla con pudore. Lo fa per rispettare il dolore della famiglia e per sottrarla al discorso strumentale di chi, anche in suo nome, torna ad invocare guerra e stato di emergenza come mali necessari.

Colpisce la storia di Valeria.

Era una ragazza splendida, studiava sociologia ed era appassionata ai temi della democrazia, ho appena letto un suo articolo dove metteva a confronto la situazione lavorativa delle donne in Francia e in Italia. Prima di andare a studiare alla Sorbona è stata una nostra volontaria, a Trento la ricordano ancora con affetto. Un giornalista ieri mi ha chiesto cosa c’entrava questa ragazza con l’assurdità della guerra, ci ho pensato e ho risposto che anche la tragica morte di Valeria c’entra eccome con la guerra, perché il terrorismo è l’essenza della guerra. Ci vanno sempre di mezzo gli innocenti. Questa realtà adesso ce l’abbiamo sotto gli occhi.

Quello che sta accadendo dimostra che chi si è sempre opposto alla guerra ha avuto ed ha ragione. Eppure questo discorso non è riuscito a diventare senso comune nell’opinione pubblica e oggi, dopo gli attacchi di Parigi, rischia di risultare poco convincente anche tra le persone che sostengono la pace. Prevalgono angoscia e smarrimento.

Senza dubbio tutto sarà più complicato. Questo è stato il mio primo pensiero, non ci ho dormito la notte. La coazione a ripetere gli stessi errori oggi rischia di non conoscere ostacoli. Per questo sono convinta che dobbiamo cercare di elaborare nuovi linguaggi e nuovi strumenti, forse la nostra dialettica pacifista non è più sufficiente. Oltre alla motivazione etica per cui bisogna schierarsi contro la guerra dobbiamo spiegare perché la guerra non serve, perché è inutile. Per la prima volta, nelle nostre città, abbiamo conosciuto una tragedia simile a quella che si consuma in un ospedale bombardato, lo dico non per giustificare o cercare di capire, lo dico perché sia evidente l’oscenità della violenza che genera solo violenza.

La domanda più urgente è: che si fa? Come si fa ad imporre la pace?

Intanto risulta evidente che la risposta più efficace non è fare un’altra guerra. Sappiamo quasi tutto su ciò che sta succedendo in Siria. Da dove arrivano le armi, da dove arrivano i finanziamenti allo stato islamico, le relazioni che gli stati europei hanno con l’Arabia Saudita. Dobbiamo svelare la grande ipocrisia dell’occidente. Utilizzare meglio l’intelligence, seguire il flusso di denaro e capire quali stati finanziano il terrorismo. E’ un lavoro lungo, forse nell’immediato non servirà a scongiurare un’altra strage, ma con le bombe è dimostrato che non funziona. Poi, certo, anche io sono convinta che sia necessario fare qualcosa: voglio che i miei figli vadano a un concerto senza essere uccisi e voglio che i figli degli altri siano curati negli ospedali senza essere bombardati.

Claudio Magris, in un articolo sul Corriere della Sera, azzardando un parallelo con il nazismo, sostiene che in alcuni casi a violenza bisogna rispondere con la violenza, per combattere “la melma pudibonda”.

Quand’anche si dovesse arrivare a questa conclusione, dove andiamo a colpire? Dall’altra parte non ci sono le trincee e gli eserciti schierati. Ricordiamoci che i servizi segreti e gli eserciti più potenti del mondo quando hanno cercato di colpire i terroristi hanno sempre scaricato bombe sui civili. Spesso ci raccontano di omicidi mirati e capisco bene che colpire i “cattivi” potrebbe anche essere accettabile, ma purtroppo la realtà sul campo è un’altra. Se colpisci un terrorista e poi lasci un intero villaggio senza acqua ed elettricità rischi di creare altri due terroristi. Ogni opzione di tipo militare dovrebbe preoccuparsi di tutelare i civili ed essere accompagnata da una azione politica e diplomatica efficace.

Questa crisi di senso e di strategia non solo militare dell’Europa capita mentre migliaia di profughi chiedono accoglienza e vengono respinti. Temi di più gli effetti di una nuova guerra o il dilagare del razzismo e delle politiche xenofobe in tutto il continente?

Mi spaventa tutto. Ho paura della caccia all’immigrato e trovo inquietante la chiusura delle frontiere. I profughi scappano e cercano di entrare in Europa proprio a causa del fallimento delle nostre politiche aggressive, non accoglierli oltre che profondamente ingiusto alimenterebbe la propaganda dell’Isis. Bisognerebbe poi interrogarsi anche su questi assassini di poco più di vent’anni nati nelle periferie di Bruxelles o Parigi, e domandarsi come mai non si sentono parte di questa Europa. Ho letto su Liberation un articolo sulla scuola e ho trovato una risposta interessante che non c’entra niente con la guerra e con le bombe: diceva che per sconfiggere il terrorismo forse bisogna pagare di più gli insegnanti.