Il movimento della scuola contro «un governo ricattatorio, falso e allucinato» da: il manifesto

No Ddl. L’ultimo ricatto di Renzi: o passa la riforma, o assumo solo 20 mila docenti. Contro l’arroganza del premier l’indignazione dei sindacati e dei docenti mobilitati: “Siamo alle allucinazione, promette un assunto su sette”. Da oggi manifestazioni attorno al Senato. Giovedì in corteo

C’è modo e modo di gover­nare. Renzi lo fa con i ricatti. Quello sui pre­cari della scuola, usati come «una clava per imporre scelte ingiu­ste o dan­nose» (Wal­ter Tocci, sena­tore Pd) con la riforma della scuola, ieri ha cono­sciuto un nuovo eccesso. Se le oppo­si­zioni non riti­re­ranno gli oltre 2 mila emen­da­menti al Ddl «Buona scuola» in com­mis­sione Istru­zione al Senato – che si riu­nirà oggi – Renzi ha minac­ciato di «assu­mere» solo circa «20–22 mila» docenti e non i 100.701 previsti.

La cifra cor­ri­sponde ai docenti che, ad avviso del pre­si­dente del Con­si­glio, dovreb­bero essere desti­nati al turn-over nella scuola da set­tem­bre. Una dichia­ra­zione che con­trad­dice la respon­sa­bile scuola del Pd Fran­ce­sca Puglisi che aveva assi­cu­rato 50 mila assun­zioni in caso di ritardo nell’approvazione del Ddl. Le 50 mila assun­zioni ancora da fare (in totale 100.701) avreb­bero dovuto essere «di diritto»,per diven­tare ese­cu­tive nel 2016. L’ipotesi sem­bre­rebbe sfu­mare per l’ultima dispe­rata ster­zata di Renzi. I suoi numeri non com­pren­dono 8.895 docenti per il soste­gno già pre­vi­sti, quelli sui posti vacanti e dispo­ni­bili (16.835). E nem­meno i cosid­detti «spez­zoni di cat­te­dra»: altri 7.623. Il totale cor­ri­sponde alla stima di Puglisi: 51.809.

Volendo pren­dere sul serio l’uscita di ieri di Renzi, si deduce che il suo governo sarebbe per­sino pronto a non assu­mere i docenti per il soste­gno né tutti gli altri. Più che «disin­for­ma­zione», con­tro la quale si sono sca­gliati i sin­da­cati che chie­dono lo stral­cio delle assun­zioni dal Ddl,questa sarebbe la mani­fe­sta­zione di un arbi­trio. La fidu­cia al Senato sarà il cul­mine di quello che molti con­si­de­rano la mani­fe­sta­zione di arroganza.

«La minac­cia di Renzi è un ricatto inac­cet­ta­bile con­tro lavo­ra­tori e fami­glie – sostiene Dome­nico Pan­ta­leo (Flc-Cgil) – Le immis­sioni in ruolo sui posti vacanti e il poten­zia­mento dell’organico sono neces­sità vitali per il fun­zio­na­mento delle scuole». Poten­zial­mente, ci sarebbe spa­zio per 134 mila nuovi posti, a pre­scin­dere dall’«organico poten­ziato» che il governo pre­tende di isti­tuire con la riforma. «È un falso cla­mo­roso – riba­di­sce Fran­ce­sco Scrima (Cisl Scuola) – Ogni anno ven­gono assunti ben più di 100 mila inse­gnanti pre­cari, quest’anno sono stati più di 130 mila. Quelle di Renzi sono parole senza senso, un mes­sag­gio fuor­viante, di deli­be­rata e inte­res­sata disin­for­ma­zione». «Siamo alle allu­ci­na­zioni: pro­mette di assu­mere un docente su sette» sostiene Mar­cello Paci­fico dell’Anief che richiama l’attenzione su un aspetto cen­trale nell’ormai com­pli­ca­tis­sima vicenda della «Buona scuola». A set­tem­bre Renzi «aveva annun­ciato l’assunzione di 148.100 pre­cari», anche per rispon­dere all’obbligo della sta­bi­liz­za­zione impo­sto dalla Corte di giu­sti­zia euro­pea. La cifra con­te­neva il turn-over dei docenti. Poi si è pas­sati a 100 mila, infine ai 50 mila (o 20 mila?).

Que­sta giran­dola di numeri senza fon­da­mento atte­stano per i sin­da­cati il grande bluff in corso, ma alla fine sbu­giar­dato: «Siamo all’assurdo — con­clude Paci­fico — per­ché non occorre il Ddl, sarebbe bastato alle scuole di indi­care il fab­bi­so­gno dei docenti agli uffici sco­la­stici». Rino Di Meglio della Gilda allarga il ragio­na­mento e sostiene che le assun­zioni spac­ciate dal governo devono essere intese come «sta­bi­liz­za­zioni». I docenti pre­cari saranno assunti in virtù di un diritto matu­rato lavo­rando. Il pro­blema, piut­to­sto, è quello di chi9 è stato escluso dal governo, e in par­ti­co­lare degli abi­li­tati Tfa, Pas e ido­nei del «con­cor­sone» 2012. Per loro sem­bra che in com­mis­sione Istru­zione al Senato pas­serà una quota (forse al 50%) nel con­corso a cat­te­dre pre­vi­sto nel 2016. «Un minuto dopo l’approvazione della riforma – è l’avvertimento di Di Meglio al governo – apri­remo un con­ten­zioso davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale e rac­co­glie­remo le firme per un refe­ren­dum abro­ga­tivo». È solo l’antipasto del fuoco di fila che i sin­da­cati con­trap­por­ranno al governo a par­tire dal primo giorno di scuola.

Oggi e domani a Roma il movi­mento della scuola mani­fe­sterà sotto il Senato. Gio­vedì 25 cor­teo da Bocca della verità a Campo de’ fiori. «Mal­grado la totale oppo­si­zione della scuola — sostiene Piero Ber­noc­chi (Cobas) — Renzi si gioca le sorti del governo sul Ddl e mette in conto l’ostilità totale e dura­tura di que­sto popolo».

Ncd, Pd e FI bocciano mozioni di sfiducia a Castiglione da: ilsetteemezzo

Giuseppe-Castiglione

Le ordinanze sul sistema Mafia Capitale e il sistema specifico creato ad arte dal factotum istituzionale Luca Odevaine che si avvantaggiava dell’emergenza immigrazione per facili guadagni hanno coinvolto già dalle sue prime battute nel dicembre dello scorso anno sino a riconfermarne l’implicazione, una cerchia di soggetti che negli anni dal 2011 ad oggi ha gestito e amministrato il Cara di Mineo, il centro richiedenti asilo più grande d’Europa. Tra questi il sottosegretario Giuseppe Castiglione nei confronti del quale dal versante parlamentare sono state prima esposte nella giornata di lunedì tre diverse mozioni in riferimento alla sua permanenza in carica nel Governo e poi esaminate oggi. E mentre dalle opposizioni critiche impietose, corredate da stralci che raccontano la vita del Cara di Mineo e del ruolo di Castiglione, si sono levate parole di accusa di responsabilità anche nei confronti del Ministro Alfano, il Partito democratico per salvare la tenuta del Governo si rimette nelle mani dei processi che saranno loro a stabilire la verità. E così il contenuto dell’intervento di ieri del deputato Pd Miccoli diventa l’alibi al voto contrario sulle mozioni, “il nostro compito sarà di correggere quelle storture che hanno permesso tutto questo. È un sistema inaugurato, lo voglio ancora una volta ribadire, nel 2011 – non c’era il Governo Renzi – e per questo noi non vogliamo anticipare, al momento, il giudizio della magistratura.” La politica può e dovrebbe dare risposte indipendentemente dalla magistratura per il ruolo che le compete è invece quello che viene ribadito dai banchi della Camera prima del voto, dai sostenitori delle mozioni e sulla necessità che questa si interroghi su fatti come quelli di mafia capitale in cui la politica emerge protagonista del sistema corruttivo del nostro Paese.

Una volta espresso il Governo il voto contrario, sono stati annunciati il voto favorevole del gruppo misto-Alternativa libera e della Lega Nord, Sel attraverso il deputato siciliano Erasmo Palazzotto ha spiegato l’ulteriore significato della propria mozione e della questione morale su cui andare ad accendere i riflettori chiedendo anche al ministro Alfano di assumersi la responsabilità su questa vicenda perché o ha fatto finta di non sapere o sapeva e non è voluto intervenire, considerando sia il titolare del Viminale ed il capo del partito i cui rappresentanti sono i principali esponenti di tutto il sistema Mineo. Si sono espressi in seguito contrari alle mozioni di ritiro delle deleghe a Giuseppe Castiglione Scelta Civica e  Paolo Tancredi per Ncd- Udc il quale ha parlato di intercettazioni blande, che non rilevano ruoli centrali del sottosegretario, eppure è chiaro i vari omissis nei documenti consultabili sono stati posti dalla magistratura per continuare a condurre le indagini con riserbo. Anche contrario il voto di Forza Italia che ha fatto leva, attraverso l’intervento di Rocco Palese sul proprio storico principio di garantismo pur chiedendo per i medesimi fatti lo scioglimento del Comune di Roma, un atteggiamento contraddittorio probabilmente legato alla conduzione politica del comune capitolino, accusando il Pd di non avere più titoli di moralità per esprimersi. Vega Colonnese per il M5S ribadendo l’attività di denuncia operata sul Cara di Mineo ha chiesto al Governo il ritiro delle deleghe a Giuseppe Castiglione colpevole come la sua parte politica, secondo il M5S, di quanto avvenuto e di quanto avviene in maniera opaca nel centro richiedenti asilo. Ad Andrea Romano è toccato per il Pd invece esprimere il voto contrario del gruppo perché non vi è intenzione, da parte dell’alleato di governo, di limitare l’efficacia dell’attività di Castiglione, nel suo ruolo sottosegretario all’agricoltura, che non possono essere influenzati e giudicati da ciò che sta avvenendo in sede giudiziaria. Le votazioni si sono concluse con una prevedibile bocciatura delle mozioni. Domani Giuseppe Castiglione sarà audito dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sui Cara e sui Cie la quale circa un mese fa in visita in missione in Sicilia aveva parlato della necessità di approfondite indagini, di storture e di un sospettoso “monopolio” nella attribuzione degli appalti.

Mozione Lorefice favorevoli 108 contrari 304

Mozione Scotto favorevoli  92  contrari 303

Mozione Attaguile favorevoli 86  contrari 306

La prospettiva femminista che (anche) gli uomini possono condividere da: ndnoidonne

Il libro di Serena Ballista, ‘Funambolika. Monologo di un’aspirante femminista’, mette in discussione la cultura sessista

Tiziana Bartolini

“La libertà che voglio per me e per le altre donne ha come presupposto fondamentale è la decostruzione del simbolico che sta all’origine di problemi non più rinviabili, come la violenza sulle donne o come la non parità di accesso al mondo del lavoro, ma che non possono essere risolti singolarmente tamponando qua e là le falle del nostro sistema patriarcale. La messa in discussione del simbolico, cioè della cultura sessista a 360 gradi, partendo dal nostro quotidiano, è l’unica occasione che abbiamo per avviare un cambiamento strutturale del nostro ordinario e che, proprio perché ordinario, non siamo abituate a guardare in modo critico, con spirito di conoscenza”. Serena Ballista ci introduce così al suo ‘Funambolika. Monologo di un’aspirante femminista’. Il libro, auto-pubblicato e in vendita nella vetrina de ilmiolibro.it e anche nelle librerie Feltrinelli, propone “insospettabili ragioni per prendere posizione contro la cultura sessista che legittima la violenza maschile sulle donne” a partire dalle “espressioni simboliche” che possono esser osservate – anche dagli uomini – da una prospettiva femminista. E, attingendo direttamente dal libro, ecco l’avvio della spiegazione: “vivere da femminista significa aprire in prima persona un conflitto con le altre donne e con gli uomini, auspicando la pace, su un terreno che rimane su un piano strettamente culturale con tutte le sue conseguenti ricadute nella quotidianità”. Ma come, e perché anche gli uomini possono fare propria la prospettiva femminista? “Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’immagine mentale che si ha dell’uomo come essere monolitico, senza tempo e sempre uguale a sé stesso, che rispecchia la norma rispetto alla quale le donne sarebbero portatrici – invece – di genere e quindi di differenza, facendo coincidere l’essere maschile con l’essere umano coerentemente con la tradizione maschilista, la parzialità di genere non soltanto femminile, ma anche maschile con il risultato che, paradossalmente, l’onnipresenza del maschile nella narrazione storica lo rende invisibile. In altre parole, è come se aver assunto ad universale il maschile, l’avesse reso inenarrato ed inenarrabile, dappertutto ma in nessun luogo: da qui, la teorizzazione del concetto di onnipresenza invisibile e della conseguente necessità di avviare, a partire dagli anni Settanta, anche dei men’s studies negli Usa e nel Regno Unito, paralleli ai women’s studies.

Quindi gli uomini che pretendono di mettere in discussione l’ideologia patriarcale, il maschilismo, l’androcentrismo, il fallologocentrismo o come lo vogliamo chiamare – abbiamo davvero l’imbarazzo della scelta – fanno un’operazione non soltanto “utile” alle donne e alla società, ma a loro stessi, prima di tutto. Ma come accade per le donne, anche per gli uomini avventurarsi in questa pratica di decostruzione culturale, significa anzitutto fare i conti con se stessi, con le proprie abitudini mentali, potendo ripensarsi criticamente come essere umano. E, a questo punto, c’è un partire da sé anche maschile che soltanto il maschile potrà mettere sul tavolo della discussione e far dialogare con quello femminile, evitando così che né le donne né gli uomini siano oggetti di studio ma parte attiva di questo nuovo umanesimo. In questo senso, dico che la prospettiva femminista può fare da guida anche agli uomini”.

Serena Ballista (1985) è ricercatrice e formatrice esperta in studi di genere anche nell’ambito di progetti europei e collabora con il Centro documentazione donna di Modena. È presidente dell’Udi di Modena dal 2014. Insieme a Judith Pinnock è autrice di Bellezza femminile e verità. Modelli e ruoli nella comunicazione sessista (Lupetti, 2012) e A tavola con Platone. Esercitazioni e giochi d’aula sulle differenze culturali, sessuali e di genere (Ferrari Sinibaldi, 2012). Funambolika. Monologo di un’aspirante femminista è la sua ultima pubblicazione.

Invasioni barbariche? Migrazioni di popoli? Migrazioni di massa? da: rifondazione comunista

di Lidia Menapace –
Chiamiamo invasioni barbariche quelle che interessarono lo Stivale per alcuni secoli dopo la caduta del’Impero romano d’Occidente. Addirittura chiamando “regni romano-barbarici” quelli che ne derivarono in vari luoghi dell’Italia settentrionale.
Vediamo di intenderci sull’uso dei termini, a partire dalla toponomastica: ad esempio Bologna, che era una città etrusca col nome di Felsina, fu chiamata Bononia dopo l’invasione dei galli Boi; allo stesso modo Sena fu chiamata gallica,  in Italiano Senigallia.. La Gallia cisalpina (cioé posta di qua: cis) divenne Lombardia dopo essere stata conquistata dai Longobardi. I Celti (altra tribù gallica) lasciarono  nomi in -ate, come Linate Trecate Brembate Tradate  ecc.ecc.. Gotica, dopo le invasioni dei Goti fu detta la linea dell’antico confine d’Italia, sotto la quale linea era vietato dalle leggi romane portare armi ed eserciti. Appunto il varco del Rubicone da parte delle truppe comandate da  Giulio Cesare ai suoi tempi fu il segno del suo colpo di stato e probabilmente Hitler pensò di ristabilire quel confine obbligando le sue truppe alla più feroce resistenza appunto alla “linea gotica”. ll cascinale dei Cervi, era su quella linea, verso l’Adriatico, come S.Anna di Stazzema lo era verso il Tirreno.
Mentre in Italia quegli arrivi di popolazioni straniere erano  sentiti come invasione barbara da parte di popoli dei quali non si capiva la lingua e non si condividevano i costumi  nè l’urbanizzazione, nelle popolazioni di origine germanica che ne furono per lo più protagoniste erano chiamate in modo neutro  Voelkerwanderungen, cioé migrazioni di popoli, anche quelle provenienti dall’Asia (Attila di lì arrivava e per sfuggirlo fu costruita nella palude Venezia, che in effetti è una delle meno antiche città italiane).

  Il termine greco barbaròs, barbaro significava balbuziente , incomprensibile  e conteneva un cenno di superiorità da parte dei Greci, che infatti riconoscevano come pari e non barbari solo gli Egizi, mettendo le basi del fenomeno che chiamiamo razzismo.

Non so in altri continenti, dei quali non conosco abbastanza la storia, ma certo in Europa un fenomeno di questo tipo, comunque lo si voglia chiamare, avviene dopo la caduta o la crisi grave di un assetto politico economico sociale e culturale di lunga data e segna un passaggio epocale.   Non sembra che vi si possa porre ostacolo, per quanta ferocia e violenza si metta nel reprimerlo controbatterlo sconfiggerlo. Le popolazioni del nord arrivarono fino in Sicilia coi Normanni, a Trani è sepolto un re longobardo, Alarico è sepolto a Cosenza  ecc.ecc. Queste estreme scosse geopolitiche spesso si intrecciano con periodi di straordinario  favore successo gloria  splendore . E riportano la storia indietro di secoli: ad esempio le prime distrussero spesso le vestigia dell’ordine giuridico romano; la seconda di tali evenienze, cioè la scoperta dell’America, che fu contemporanea del Rinascimento , vide il ripristino della  schiavitù, e oggi assistiamo quale guasto sulla fragile sottile  e superficiale crosta civile sta avvenendo in Europa  con non pochi segni di ritorno del Feudalesimo (le corporazioni, il lavoro non pagato dei e delle migranti).
Sembra dunque di poter sommariamente riassumere questo capitolo storico col dire che talora, nel bel mezzo di una storia che avanza secondo le sue intrinseche propensioni gusti cultura scoperte ecc.ecc., si infilza qualcosa di estraneo, allotrio, incomprensibile, che genera panico e ripudio e fa tornare indietro quel complesso di convinzioni giudizi comportamenti leggi  ecc.ecc. che chiamiamo civiltà ; si avvia una profonda ondata di insicurezza ansia panico odio respingimenti ecc.ecc.

  Torno a ripetere che non pare vi si possa porre rimedio, meno che mai accentuando le previsioni di “invasione” “cancellazione” “perdita di identità” e simili: tutte queste “risposte” producono danni maggiori, e d’altronde non sono meccanicamente sostituibili con i soliti discorsi  di buonsenso e buoncuore sull’accoglienza accettazione inclusione ecc.ecc. Le prediche lasciamole al papa, ché gli spettano.

Ma allora: che fare?
Forse molte cose anche non coordinate e connesse tra loro, apparentemente casuali o anomale, guardando solo di evitare accuratamente il confronto sulle religioni, il passato, la storia e la gara tra le civiltà. I missionari, se hanno scelto di convertire l’Islam facciano, ma non diano il minimo sentore di politica alla loro predicazione, nè di carità o elemosina ai loro lavori.
Racconto ciò che ho provato a fare io. Premetto che da anni mi aspetto una ondata di Voelkerwanderungen, e mi chiedo in che rapporti esse siano con la crisi mondiale  globale capitalistica, che agisce naturalmente mostrando attraverso le televisioni i giornali, insomma i mezzi di comunicazione di massa immagini affuenti ricche vantaggiose, dall’Europa e dagli USA, suscitando per contrasto desideri e proiezioni verso di noi. Sicché quando nelle parti povere del pianeta si cade nella miseria carestia e magari anche guerre e dittature, parte una migrazione di  popoli che si scarica attraverso inenarrabili fatiche rischi privazioni morti sulle coste mediterranee e ci arriva addosso, a me nella forma di quelli, raramente quelle, che vendono per strada piccole merci o chiedono direttametne l’elemosina, oppure lavano i vetri delle automobili ai semafori, insomma ciò che sappiamo e vediamo ogni giorno.

 Mi fa vergogna  sia di dare qualcosa che di non dare nulla a chi chiede, ma poiché penso che loro preferiscono che io mi vergogni dando qualcosa, quando esco di casa per fare la spesa mi metto in tasca quei pochi euro che ogni giorno posso dare via. E perchè non pensino di essere una  cassetta delle elemosine,  sono  solita salutare e chiedere da che paese vengono, da quanto sono in Italia, insomma che tempo fa. Rispondono volentieri, soprattutto gli Africani, che la seconda volta ti chiamano già mama.
Dopo un po’ di tempo, siccome un arabo (scoprirò poi marocchino, di Fez) vende asciugamani e calzini di buon cotone, se mi servono, mi servo da lui e lui a sua volta cerca di sapere chi sono chiedendo ad altri di Bolzano che abitano nelle vicinanze, Bolzano è una piccola città e la sua curiosità viene soddisfatta. Incomincia a chiamarmi dottoressa e si offre di portare fin sottocasa la spesa, va bene, intanto parliamo e lui a un certo punto dice che dove abita lui l’acqua c’é, però manca il pozzo.
Ma perché allora, se io riesco a mettere da parte del denaro mio o che mi viene dato, non lo  raccogliamo allo scopo di scavare il pozzo? loro ci mettono il lavoro, io aiuto a comprare le macchine ecc. La cosa si fa e infine ricevo quello che sono solita citare come il più bel complimento che abbia ricevuto in vita;”dottoressa al mio paese anche gli asini ti vogliono bene”, poichè se c’è il pozzo bevono e si tolgono la sete anche gli asinelli, giusto.  Ma poi -mi dice-  c’è un grande cambiamento, anche le donne si riuniscono lavorano discutono propongono, una cosa mai vista. “Caro, si chiama rivoluzione” gli dico tra il serio e il faceto.
Fatto il pozzo, le donne pensano che anche i loro cibi sono buoni e che se si fa un centro per i possibili turisti , si ha modo di vendere qualcosa.  Detto fatto, a settembre ci andrò, per inaugurare ll centro, che mi chiedono di poter chiamare menapace : benone è un buon augurio.

  Bisogna fare copie di questo? certo che no, è andato così per caso, però bisogna mantenere accesa la curiosità verso quel che succede e se ha dentro di sè anche timori e rischi, cercare se o cosa ha anche di utile o positivo e lavorarci  sopra col massimo di eguaglianza possibile, senza montare in cattedra, ricordando sempre che noi europei ed europee abbiamo inventato fatto e praticato verso di loro il colonialismo più sfruttatore e che quindi se non ci sparano a vista, ma accettano di lavorare con qualcuno/a  tra noi, sono generosi e intelligenti, speriamo vada tutto bene , io speriamo che me la cavo, appunto lidia

Quando la politica non ascolta gli economisti Fonte: sbilanciamociAutore: Dario Guarascio

Uno dei pochissimi lasciti positivi – forse l’unico – dell’attuale crisi riguarda la riscoperta da parte degli economisti – o, perlomeno, di una buona parte di questi – della politica industriale quale motore essenziale dello sviluppo economico. Quel che non sembra emergere in questo contesto, tuttavia, è la consonanza tra le analisi, sempre più autorevoli, ed i richiami, sempre più accorati, da parte della professione economica e le risposte dei politici, in particolar modo di quelli europei. Sembrerebbe delinearsi, al contrario, una situazione paradossale in cui ricette economiche fallaci e drammaticamente sconfessate dalla storia recente – identificabili nell’agenda neoliberale fatta di Stato minimo, assoluta libertà di movimento dei capitali e austerità fiscale – sono strenuamente difese dal decisore politico nello stesso momento in cui vengono abbandonate dalla gran parte di coloro che, per mestiere, studiano il funzionamento dei sistemi economici.

Una recente pubblicazione internazionale ( Intereconomics – Review of European Economic Policy Vol. 50 n° 3 disponibile sul sito: http://www.intereconomics.eu/) ha raccolto i contributi di alcuni tra i maggiori esperti in materia di innovazione, sviluppo economico e politica industriale (Al forum sulla politica industriale hanno partecipato M. Cimoli, G. Dosi, M. Landesmann, M. Mazzucato, T. Page, M. Pianta, J. Stiglitz e R. Walz ). L’obiettivo dichiarato è quello di identificare le ragioni, delineandone al contempo presupposti, contenuti e modalità, di un piano di politica industriale capace di tirar fuori l’Europa dalla crisi. E di invertire il pericoloso processo di divergenza e polarizzazione in corso tra il ‘core’ tedesco ed il resto dell’Unione. Una polarizzazione che, come spieghiamo assieme a Valeria Cirillo nello stesso numero di Intereconomics , va assumendo, sempre più, i contorni di una minaccia capitale alla sopravvivenza del progetto di integrazione europea.

Mariana Mazzucato si assume il compito di sfatare alcuni miti chiave della teoria mainstream in materia di innovazione tecnologica e dialettica Stato-mercato. Miti, sulla base dei quali, viene oggi giustificato l’accantonamento della politica industriale tra i vecchi arnesi di un intervento pubblico il cui tempo si vorrebbe definitivamente tramontato. Il contributo della Mazzucato mette nero su bianco come non vi sarebbe stata nessuna delle innovazioni radicali che hanno modificato, nel recente passato, il nostro modo di produrre, consumare, comunicare, etc. senza un ruolo attivo e determinante dell’operatore pubblico. Incardinando il suo ragionamento su delle solide fondamenta teoriche – le quali hanno il merito di riconoscere alcuni cruciali dati di realtà circa la dinamica dell’innovazione tecnologica, colpevolmente trascurati dall’intero corpo teorico mainstream – la Mazzucato spiega come la natura intrinsecamente incerta, cumulativa, irreversibile ed eterogenea dell’innovazione tecnologica ponga quest’ultima fuori portata per la limitata razionalit à dell’agente economico privato. In particolare, ciò accade quando l’agente opera subordinatamente a vincoli finanziari che lo costringono ad una visione di ‘breve periodo’ e ad una valutazione ‘probabilistica’ dei risultati delle sue azioni, in questo caso specifico dei suoi investimenti innovativi.

Dunque, la condizione standard dell’agente economico privato, sia esso un imprenditore in procinto di decidere per un investimento innovativo o un banchiere che deve scegliere se finanziare o meno un progetto che gli viene sottoposto, non sembrerebbe favorire l’introduzione di cambiamenti tecnologici radicali. Al contrario, l’attività di agenzie governative dedicate – la cui presenza negli USA, in Cina, in Brasile e altrove e ampiamente documentata nell’articolo – si è rivelata fondamentale (da qui il titolo del volume della stessa autrice, ‘Lo Stato Innovatore’, tradotto in italiano da Laterza nel 2013), per produrre, sobbarcandosene il carico di incertezza nei risultati attesi, tali innovazioni. Uno Stato austero, in cui l’unico compito dell’operatore pubblico è quello di sorvegliare sul rispetto di parametri fiscali e monetari, non parrebbe quindi essere in sintonia con la diffusione e la crescita dell’innovazione tecnologica. Chissà se a Bruxelles c’è qualcuno che ha contezza di tutto ciò.

Il ruolo determinate dello Stato quale protagonista e ‘timoniere’ dello sviluppo economico e tecnologico è messo bene in evidenza anche da Cimoli, Dosi e Stiglitz . Guardando all’esperienza di paesi industrializzatisi nella seconda metà del Novecento, gli autori sottolineano come la protezione pubblica delle industrie e la cautela nell’adesione ad accordi di libero scambio con economie già sviluppate abbiano rappresentato, per alcuni di questi paesi, due aspetti chiave nella determinazione di un sano processo di avanzamento tecnologico e produttivo. In questo senso, l’eterogeneità osservabile nelle attuali condizioni economiche e produttive di molti paesi in via di sviluppo sembra essere, in gran parte, figlia della diversa capacità dei rispettivi paesi di selezionare, proteggere e curare le proprie industrie nazionali. In particolar modo nelle fasi iniziali del processo di industrializzazione. Intervento pubblico, stimolo diretto e protezione di settori ed industrie strategiche – la politica industriale – e sviluppo economico. Concetti che, con buona pace dell’agenda economica mainstream, non possono camminare disgiunti.

Michael Landesmann e Mario Pianta ci consegnano, invece, una cassetta degli attrezzi. Cassetta che, se fossimo in presenza di entità politiche adeguate, potrebbe rivelarsi vitale per la riparazione di una ‘macchina europea’ la cui prossima destinazione rischia di essere lo sfasciacarrozze. Il primo dei due contributi è una preziosa disamina delle fondamenta teoriche e delle diverse articolazioni possibili per la politica industriale. Il secondo, entra nel merito dell’attuale situazione europea disegnando i contorni di un piano di politica industriale che, in termini realistici, potrebbe invertire l’attuale rotta dell’Europa. Una rotta che, se invertita, potrebbe condurre l’Europa su di un sentiero di crescita nuovo i cui riferimenti imprescindibili siano innovazione, eguaglianza e sostenibilità ambientale. Ma che, se non invertita, sembra ineluttabilmente portarci verso quei ‘territori inesplorati’ a cui Draghi ha fatto, con evidente preoccupazione, qualche giorno fa riferimento.

Danimarca, un voto vinto di misura dalla destra. E’ un leit motiv delle contraddizioni dell’Europa Autore: michele de rosa da: controlacrisi.org

L’ immagine della Danimarca nel mondo é passata in pochi giorni da “il paese delle biciclette e turbine eoliche” a “il paese dei razzisti”. Ma cosa succede realmente in Danimarca? Stando ai risultati del voto alle elezioni politiche nazionli di giovedí scorso, succede che il “blocco blu” di centrodestra ha vinto le elezioni conquistando 90 dei 179 seggi in parlamento, contro gli 85 conquistati dal centrosinistra. In realtá, la Groenlandia e le Isole Far Øer eleggono 2 deputati ciascuna al parlamento Danese e tutti e 4 sono stati assegnati al “blocco rosso”. Il centrosinistra ha quindi perso 89 a 90, per un soffio come ha dichiarato il premier uscente e leader del partito socialdemocratico, la internazionalmente stimata Helle Thorning-Schmidt. Il partito socialdemocratico resta il primo partito con il 26,3% (47 seggi), guadagnando persino 1,5% rispetto alle scorse politiche del 2011 mentre Venstre del virtuale neo-premier Lars Løkke Rasmussen perde ben il 7,2% totalizzando il 19,5% (34 seggi).

La notizia che ha fatto tanto rumore sui giornali internazionali é infatti proprio che il primo partito del blocco blu (e secondo nazionale) risulta invece essere il Partito del Popolo Danese (Danske Folkeparti, DF) con il 21,1% (37 seggi), +8,8% rispetto alle politiche del 2011. DF é un partito populista di destra anti-immigrazione fondato nel 1995, che si caratterizza per la difesa di valori tradizionali come la famiglia, la monarchia, la chiesa evangelica luterana, e sopratutto contro una societá multietnica. I cavalli di battaglia del DF sono: limitare fortemente l’immigrazione da paesi non occidentali ed islamici e l’asilo di rifugiati, leggi piú severe per chi delinque, rafforzamento dello stato sociale ed assistenza ad anziani e disabili.

Data la ridotta popolazione Danese, in termini assoluti DF conquista circa 741.000 voti, non paragonabile a i 6 milioni e mezzo di voti del Front National Francese alle presidenziali del 2012 (17,9%). La portata del successo del DF non era comunque stata prevista, superiore di circa il 2% persino agli ultimi sondaggi e puó essere rintracciata in diversi fattori: l’aspetto piú moderato della leadership di Thulesen Dahl rispetto alla precedente piú stridente Pia Kjærsgaard che faceva storcere il naso persino ad una parte del suo elettorato; la candidatura premier del poco credibile Lars Løkke Rasmussen coinvolto in uno scandalo circa l’uso di soldi publici per l’acquisto di beni personali, durante il suo governo 2007-2011; una difesa populista e demagogica dello stato sociale, che ha scavalcato a sinistra persino il partito della sinistra radicale, senza spiegare come lo stato sociale possa essere mantenuto o addirittura allargato appoggiando un candidato della destra liberale che promette una forte riduzione della spesa pubblica e delle tasse per i ceti piú elevati; la scelta di restare partito ‘di lotta’ anzicché ‘di governo’ per ben tre governi di centrodestra, dal 2001 al 2011 e che minacciano persino ora avendo ottenuto il 21%, complicando la partita per la formazione del governo. Pur garantendo solo l’appoggio esterno ai governi, DF é riuscito in dieci anni a dotare la Danimarca di una tra le leggi per l’immigrazione piú restrittive d’Europa.

Ma la vera dimensione del risultato elettorale di giovedí non puó essere colta se non attraverso un’analisi piú ampia del quadro nazionale ed Europeo che mostra un panorama piú complesso. A ben vedere, é la perdita di consenso dei partiti tradizionali a liberare terreno da semina nell’elettorato; una crescente stanchezza nelle ricette tradizionali offerte dai vecchi partiti e la voglia di cambiamento sembra far tornare di moda partiti ideologici e meno tecnocrati. A sinistra, l partito della piú radicale ‘L’Unitá’ (Enhedslisten) ottiene infatti il 7,8% (+1,1%), ‘L’Alternativa’ il 4,8% partecipando per la prima volta alle elezioni mentre a destra, oltre al DF, ‘L’Alleanza Liberale’ ottiene il 7,5% (+2,5%). La contrapposizione sembra delinearsi tra una visione di politica che non ha bisogno di politica, dove burocrati e funzionari definiscono cosa é giusto e necessario, ed una politica militante, apertamente ideologica, che chiede cambiamenti rapidi e radicali in specifiche aree. In contesti, modalitá e direzioni spesso del tutto differenti, questo é avvenuto recentemente in molti paesi tra cui almeno in Grecia, Spagna, Inghilterra, Scozia, Italia e Francia.

Il voto Danese insegna inoltre che la bandiera ideologica comune dei partiti militanti, pur cosi diversi, é piantata nello stesso terreno della difesa dello stato sociale, in senso socialista e solidale nel caso di Enhedslisten, nella direzioni inquietante pseudo nazionalsocialista del Danske Folkeparti. Persino in una delle nazioni piú ricche e sicure al mondo, l’elettorato appare spaventato, chiede sicurezza sia economica che materiale. É questo un pericolo per il continente Europeo? Un grande pericolo, perché l’Europa sta attraveranso il momento piú delicato ed incerto degli ultimi settanta anni. Perché l’incerta prospettiva economica spaventa l’elettorato, sopratutto quello piú benestante nordeuropeo per cui la posta in gioco é piú alta. E perché le paure appaiono ovunque piú facilmente cavalcabili da destra, creando divisioni, additando nemici spesso immaginari e capri espiatori, piuttosto che da sinistra attraverso una narrativa unitaria e su principi di solidarietá collettiva.

La storia insegna del resto che la paura é facilmente strumentalizzata da spinte reazionarie. Un pericolo che ha forse come unico argine proprio la tanto criticata ed un po’ malandata idea di Unione Europea, argine contro l’avanzata di egoismi nazionalisti e le peggiori ombre della nostra storia Europea. É auspicabile che tutte le sinistre radicali (e non) d’Europa se ne rendano conto al piú presto e facciano della difesa del difficile ma essenziale percorso di costruzione di un Europa politica, insieme ai valori di solidarietá ed eguaglianza, i colori della loro bandiera.

Marino corre solo Fonte: Il ManifestoAutore: Eleonora Martini

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«Dob­biamo strin­gere un nuovo patto con la città, ma Roma deve sen­tire che abbiamo la deter­mi­na­zione per por­tare a ter­mine il lavoro ini­ziato, un lavoro epo­cale. Sono sicuro che nel 2023 con­se­gne­remo una città cam­biata, una città al livello di una Capi­tale euro­pea». Insi­ste, Igna­zio Marino. Ormai ha comin­ciato a cor­rere da solo, come For­rest Gump, altro che il repli­cante di Blade Run­ner, citato la sera prima alla Festa dell’Unità dove ha incas­sato l’ovazione dei mili­tanti dem infuo­cando gli animi con un effi­ca­cis­simo one man show .

Il sin­daco ieri sera ha ten­tato il bis con i 29 con­si­glieri che fin qui lo hanno soste­nuto in Cam­pi­do­glio, con­vo­cati a Palazzo Sena­to­rio davanti alle tele­ca­mere che per la prima volta hanno tra­smesso la riu­nione in diretta strea­ming. Ed è di fatto riu­scito a por­tare a casa il ricom­pat­ta­mento della mag­gio­ranza del governo cit­ta­dino, appena poche ore dopo le dimis­sioni — non ancora for­ma­liz­zate — del suo asses­sore alla Mobilità.

Guido Improta, ren­ziano di ferro, se ne va però in punta di piedi, appro­fit­tando del momento poli­tico “giu­sto” per lui, mal­grado la deci­sione covasse da tempo, almeno da quando il suo nome com­parve nelle inter­cet­ta­zioni dei pm fio­ren­tini nell’inchiesta «Sistema» e in quella della pro­cura romana sulla metro C: «La mia espe­rienza era a ter­mine e que­sta era noto — ha affer­mato ieri non appena con­fer­mata la noti­zia delle immi­nenti dimis­sioni — tempi e moda­lità della mia uscita dalla giunta sono pre­ro­ga­tiva del sin­daco e del Pd e mi atterrò alle deci­sioni che ver­ranno assunte. Sono a dispo­si­zione per gestire al meglio, senza creare pro­blemi a nessuno».

D’altronde che in poche ore l’aria sia cam­biata di nuovo — den­tro al Naza­reno e a Palazzo Chigi — e spiri ora a favore delle vele di Marino, lo si capi­sce dal cam­bio di mood di Rosi Bindi che solo qual­che giorno fa aveva sug­ge­rito al sin­daco di dimet­tersi («Vedremo la rela­zione del pre­fetto di Roma — ha detto ieri la pre­si­dente della com­mis­sione anti­ma­fia — dopo­di­ché sarà il sin­daco a pren­dere le sue deci­sioni»), e dalle parole di Roberto Spe­ranza che esorta il Pd a deci­dersi per una buona volta se vuole soste­nere la giunta di Roma oppure affos­sarla: «Quello che non è accet­ta­bile — dice — è una situa­zione un po’ strana in cui Marino fini­sce per diven­tare figlio di nessuno».

Forse pro­prio il fatto di essere figlio di nes­suno, forte delle «migliaia di per­sone che si sono col­le­gate on line» per seguire gli svi­luppi del governo della città, per­mette però al sin­daco dem di chie­dere ai con­si­glieri della mag­gio­ranza da che parte vogliono stare: «Va mol­ti­pli­cato lo sforzo di col­la­bo­ra­zione tra con­si­glio e giunta, ma voglio vedere volti sor­ri­denti e per­sone che ci cre­dono — dice — Per­ché noi non siamo stati eletti dai capi­ba­stone ma dai cit­ta­dini». Marino ripete il con­te­nuto del discorso bar­ri­ca­dero della sera prima, eli­mi­nando ovvia­mente quella frase — «tor­nate nelle fogne», rivolto alla destra — che gli è costato molte cri­ti­che, da Alfano ma per­fino da Sel, o la rive­la­zione delle richie­ste di assun­zioni che gli avrebbe rivolto l’ex sin­daco Ale­manno facendo addi­rit­tura rife­ri­mento a un sup­po­sto patto con il Pd, accusa che gli è costata una que­rela per diffamazione.

I con­si­glieri rispon­dono, inte­ra­gi­scono, gli for­ni­scono — come nel caso del capo­gruppo di Sel, Gian­luca Peciola, o del Radi­cale Ric­cardo Magi — un lungo elenco di prio­rità, di pro­blemi non più rin­via­bili su cui dare un segno imme­diato e tan­gi­bile di cam­bia­mento. Sel in par­ti­co­lare chiede a Marino però anche di con­durre una bat­ta­glia espli­cita con­tro la poli­tica del governo Renzi che «da una parte toglie risorse agli enti locali» e dall’altra gioca ambi­gua­mente con gli equi­li­bri poli­tici della città. Anche tra i con­si­glieri Pd c’è chi mostra qual­che remora alla blin­da­tura totale richie­sta dal sindaco.

Athos De Luca, per esem­pio: «Tu dici 2023? Fer­mia­moci intanto al 2018, e cer­chiamo di rag­giun­gere due o tre tra­guardi impor­tanti che fis­siamo ora». Il capo­gruppo Pd e coor­di­na­tore della mag­gio­ranza, Fabri­zio Pane­caldo, chiede di comu­ni­care di più e meglio «tutto il buon lavoro che stiamo facendo». Ma una cosa è chiara, almeno per ora: la mag­gio­ranza è coesa, e fa qua­drato attorno al sindaco.

D’altronde ieri per certi versi è stata la gior­nata della ritro­vata unità, almeno appa­rente, per il Pd, mal­grado la rela­zione di Fabri­zio Barca sul par­tito romano e la chiu­sura dei cir­coli “cat­tivi”, quelli che col­ti­va­vano «potere per il potere», abbia inne­scato molte rea­zioni rab­biose. Dal Senato in giù, però, fino al con­si­glio regio­nale e ai muni­cipi, il par­tito si è ricom­pat­tato espri­mendo con una sola voce la soli­da­rietà una­nime al pre­si­dente dem Mat­teo Orfini messo sotto scorta per via del suo lavoro di boni­fica del ter­ri­to­rio e del par­tito dalle infil­tra­zioni della mala locale.