COMUNICATO STAMPA ANPI CATANIA SULLE INDAGINI RELATIVE AL CARA DI MINEO

 

anpi
L’ANPI di Catania esprime sdegno e preoccupazione per le notizie relative ai legami tra numerosi esponenti della classe politica capitolina, l’organizzazione criminale “Mafia capitale” e il CARA di Mineo. Già da tempo abbiamo denunciato in pubbliche manifestazioni la nostra preoccupazione per la conduzione amministrativa e politica dei dirigenti del CARA di Mineo.

Lo scenario emerso dalle inchieste fornisce la peggiore conferma dei nostri sospetti, ci meraviglia che nonostante che da tempo le associazioni antirazziste e alcuni politici denuncino fatti gravissimi, nessuno sia intervenuto a fermare la gestione del gruppo LA CASCINA.

Invitiamo la magistratura a continuare la ricerca delle responsabilità senza timore per nessun potere politico.

Invitiamo il ministro Alfano di commissariare la gestione del Cara di Mineo oggi stesso o trarne le giuste conclusioni e domani dimettersi.

Da parte nostra continueremo a vigilare e denunciare la corruzione che mina la democrazia.

ANPI Provinciale Catania

Catania 7/6/2015

con preghiera di pubblicazione

Santina Sconza

Sul futuro dell’ANPI e dell’antifascismo in Italia da: www.resistenze.org – cultura e memoria resistenti – antifascismo – 28-05-15 – n. 546

 


Una riflessione “a bocce ferme”

Andrea Martocchia *

21/05/2015

Prima di mettere nero su bianco questi miei pensieri ho voluto attendere il passaggio delle ricorrenze del 70.mo della Liberazione dell’Italia e dell’Europa, che ci hanno visto tutti impegnati in numerose iniziative, poiché ritengo che certe questioni vanno affrontate il più possibile a mente fredda, usando tutta l’attenzione, la lucidità e la pacatezza di cui siamo capaci.

Mi riallaccio solo in parte alla discussione pubblicamente inaugurata da Saverio Ferrari (1) poiché era da tempo che ragionavo sulle tematiche più larghe che vado ad esporre. Premetto che il mio intervento è motivato dalla passione personale, che mi porta ad avere a cuore sia le sorti dell’antifascismo in generale sia le più specifiche sorti dell’ANPI, Associazione della quale non ho la tessera pur frequentandone con assiduità crescente sedi, soci e soprattutto compagni partigiani per attività connesse alla ricostruzione storiografica oltre che per affinità ideale.

Cos’è l’ANPI?

Ferrari a mio avviso pone il tema dell’antifascismo in un’accezione troppo larga, che travalica ciò che può essere davvero pertinente per l’ANPI (errore “per eccesso”); al contempo egli non tematizza, e dunque non aiuta ad affrontare, la questione specifica del carattere e dei compiti dell’ANPI (errore “per difetto”). Cosicché, gli interrogativi posti da Ferrari colgono solo alcuni aspetti nella ridda di discussioni sviluppate dentro, attorno e fuori dell’ANPI da qualche tempo; discussioni che peraltro hanno già portato ad alcune conseguenze e decisioni, quale è stata quella della concreta trasformazione dell’ANPI da associazione “chiusa” (riservata agli ex combattenti) ad associazione “aperta” (da qualche anno possono iscriversi tutti). Per quanto ne so io, il confronto sulla natura e sul destino dell’ANPI prosegue molto animato soprattutto all’interno della stessa Associazione.

Il momento simbolico del 70.mo coincide con un cruciale passaggio nella storia e nella natura dell’ANPI e della Repubblica Italiana. Siamo – già da qualche tempo, in realtà – al tornante storico della scomparsa degli ultimi partigiani; eppure le riflessioni sulle implicazioni anche politiche di questo tornante sono state finora assolutamente insufficienti.

In estrema sintesi, su che cosa debba essere l’ANPI prevalgono oggi due tesi:
– la prima riconduce l’ANPI ad una associazione combattentistica (ed in tal caso il suo ruolo sarebbe già pressoché esaurito) o comunque a realtà meramente testimoniale (e perciò sempre meno influente nella politica e nella società, e sempre meno interessante anche per lo storico professionista che si occupa di Resistenza);
– la seconda, pur rivendicando all’ANPI la sua origine di testimone, ne sottolinea la funzione attuale come soggetto guardiano della Costituzione e/o, più genericamente, dell’etica della politica.

Questa seconda visione è prevalente oggi negli organismi direttivi dell’ANPI. Tuttavia, a parte il fatto che per poter imporre dei valori bisogna avere la forza/rappresentatività sociale necessaria, è innegabile che per lungo tempo quella dell’ANPI sia stata una funzione di servizio, in senso sia positivo – in quanto “fondamento morale” della Repubblica – sia negativo – in quanto strumento di legittimazione per istituzioni che troppo spesso hanno deluso le aspettative.

L’ANPI si trova di volta in volta presa in mezzo a tensioni da parti opposte, sulle questioni più diverse e tutte potenzialmente laceranti: dai reiterati casi di revisionismo storico fino allo scontro israelo-palestinese, dalla TAV alle nuove guerre, dalle “foibe” all’antifascismo militante… al contempo essa subisce gli scossoni provocati dalla deriva politica (indubbiamente verso destra) dell’ “azionista di riferimento”, cioè il Partito Democratico in quanto principale erede delle forze politiche egemoni nel processo di costituzione dell’Italia repubblicana.

Antifascisti e Partigiani

Vorrei allora sgombrare il campo da una prima questione: certamente oggigiorno c’è un buon 75% di antifascismo che non è rappresentato dall’ANPI, ed anzi va detto che la percentuale non ha mai raggiunto il 100%.

In effetti, l’ANPI non nasce come ambito organizzativo “degli antifascisti”, bensì come Associazione Partigiani. Tale definizione la porta ad avere un ruolo sostanzialmente diverso rispetto a quello auspicato da Ferrari, e non da oggi: ad esemplificare tale specificità è l’esistenza di un’altra associazione, l’ANPPIA, preposta alla organizzazione delle istanze degli antifascisti “storici”, che non necessariamente furono (o poterono essere) partigiani.

Non è una distinzione di lana caprina: soprattutto, non lo è di fronte ad una estensione direi vertiginosa del concetto di “antifascismo”, e alla concomitante perdita del senso esatto del termine “fascismo”. Succede infatti che iniziative e festival “antifascisti” organizzati sul territorio portino in risalto battaglie e identità che molto poco hanno a che fare con il fascismo “storico”: dai diritti LGBT ai vegani, dalla TAV al commercio equo e solidale… Un tale allargamento della prospettiva è accettabile solo nella misura in cui non travolge/oscura la esigenza di precisare e difendere la specificità ed i valori della guerra vinta contro il nazifascismo (1941-1945), specificità e valori che hanno diritto a sedi dedicate per essere affermati e tramandati.

Tuttavia, affermando che l’ANPI è il consesso “dei partigiani” più che degli “antifascisti” (tantomeno degli “antifascisti in senso lato”), ancora non abbiamo definito esattamente l’oggetto della nostra riflessione.

E’ ben noto il dibattito sul carattere “uno e trino” della Resistenza italiana, intesa di volta in volta come (a) movimento di liberazione nazionale (b) moto di emancipazione sociale (c) guerra civile tra diverse opzioni politiche. Per di più, nelle nostrane interpretazioni della Resistenza è normalmente eluso il suo carattere internazionale e internazionalista – al quale è soprattutto dedicato il lavoro storiografico che stiamo portando avanti in prima persona da qualche anno. (2) Di quest’ultimo aspetto l’ANPI si è fatta interprete in ritardo e con difficoltà: basti pensare alla recente sofferta battaglia interna all’Associazione sulla possibilità di tesseramento per i cittadini non italiani, o al fatto che solo da pochissimo l’ANPI ha aderito alla Federazione Internazionale delle organizzazioni sue omologhe (FIR). Tali ritardi si spiegano solo e precisamente con il fatto che l’ANPI ha a lungo operato essenzialmente come vestale di un culto della Resistenza intesa esclusivamente come “lotta di liberazione nazionale”, cioè usando quella accezione della Resistenza che è l’unica funzionale alle esigenze istituzionali. Solo in tale accezione, infatti, la Resistenza può essere presentata come atto costituente di questa Nazione e di questo Stato (“Secondo Risorgimento”).

Benché restrittiva, tale accezione era e rimane prevalente nel discorso pubblico tanto da essere stata addirittura rilanciata in occasione delle recentissime celebrazioni per il 70.mo: infatti, in occasione della sessione a Camere riunite del Parlamento, il 16 aprile u.s., cui su invito del Presidente Mattarella hanno presenziato un gran numero di partigiani, nei discorsi delle autorità (cito soprattutto la Boldrini) si è voluto fermamente ribadire che la Resistenza fu un moto “nazionale” e “interclassista”. Per converso, le celebrazioni del 70.mo della Liberazione a livello europeo sono state sostanzialmente minimizzate e disertate, in un frangente dei rapporti internazionali che vede anche i nostri politici fomentatori di una rinnovata ostilità contro la Russia.

Il dilemma attuale dell’ANPI

Torniamo dunque all’ANPI.

Nell’ANPI assieme all’anima antifascista convive, sin dall’inizio, un’anima patriottica che perfettamente interpreta quella concezione del “Secondo Risorgimento” di cui sopra. D’altronde le due anime – antifascista e patriottica – hanno convissuto già nel movimento partigiano, incontrandosi ma anche scontrandosi. Esse possono coincidere, ma non lo devono necessariamente. Andrebbe allora innanzitutto analizzata questa dialettica, che non è affatto risolta, come dimostrano le polemiche in merito al Giorno del Ricordo ed ai presunti crimini della Resistenza jugoslava.

Tuttavia, il problema attuale, che rischia di essere un problema di vita o di morte per l’ANPI, in questa fase, mi sembra soprattutto quello della sostenibilità del suo ruolo “istituzionale” tradizionale: tolte infatti le celebrazioni del 70.mo, le nuove istituzioni repubblicane dimostrano di non essere più completamente devote alla Costituzione cosicché sempre meno potranno in futuro essere considerate filiazione della Resistenza. Questa contraddizione, tutta politica, ha precipitato l’ANPI in una condizione imbarazzate, e questo sin dai tempi del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica: tant’è vero che attorno al 1990 ci fu anche chi parlò di scioglimento dell’ANPI, ed alcune sezioni riversarono per intero gli archivi agli Istituti della rete ISMLI (Istituti per la storia della Resistenza e della società contemporanea in Italia).

Di fronte ai passaggi istituzionali in corso, che con la gestione Renzi sembrano soggetti ad una drammatica accelerazione, l’ANPI rischia di rimanere stritolata. Va rilevato che è proprio il presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia, uno dei più autorevoli critici dei progetti di riforma istituzionale/costituzionale sul tappeto.

Allora che cosa vogliamo dall’ANPI? Vogliamo trasformarla in qualcosa che non è mai stata? Lasciamo che sia cancellata dagli eventi politici e biologici? Mentre gli ultimi partigiani scompaiono, il 70.mo della Liberazione rischia di essere veramente l’anno del “botto” dell’ANPI.

Io credo che dobbiamo rispetto all’ANPI e perciò non le dobbiamo chiedere l’impossibile. Dobbiamo invece porre le questioni su di un piano più generale, che non riguarda solo il destino dell’ANPI bensì anche la sorte dello Stato italiano da un lato e la sorte della storiografia della Resistenza dall’altro.

Liberare l’ANPI, liberare la storiografia della Resistenza

Rinnovate forme di “sovversivismo delle classi dirigenti” hanno minato la fondazione antifascista e costituzionale della Repubblica da molti anni oramai: su questo, o si affianca e difende l’ANPI in tutte le sedi associative e politiche possibili, oppure non si può pretendere proprio nulla dall’ANPI. Negli anni si è alzata la voce allarmata di chi ha parlato di tradimento della Resistenza, di chi ha ricordato la persecuzione antipartigiana del dopoguerra… Se l’ANPI non poteva reagire a suo tempo, tantomeno la si può caricare di ogni responsabilità per le sconfitte politiche che abbiamo subito tutti: si tratta casomai di proseguire in ogni sede con le battaglie per la democrazia e la giustizia sociale che i partigiani iniziarono. Anche la battaglia contro le nuove destre, non riguarda solamente l’ANPI e l’ANPI in nessun caso potrebbe farsene carico da sola.

Dunque l’ANPI non deve essere sovraccaricata di funzione politica, bensì eventualmente deve esserne emancipata, poiché è stata la politica che, per troppo tempo, ha “tenuto schiava” l’ANPI.

La questione a mio avviso si pone in maniera esattamente opposta per quanto riguarda la funzione “storiografica” dell’ANPI, che le è stata sottratta e dovrebbe esserle in qualche modo restituita.

La politica ha oggettivamente condizionato la scrittura della Storia della Resistenza in Italia, per alcuni versi impedendola. Essa ha costretto l’ANPI a ruoli cerimoniali e ha demandato ad altre sedi la storiografia; ma quali sono queste altre sedi? Nel migliore dei casi sono sedi accademiche e para-accademiche, in particolare la rete ISMLI che, fondata 66 anni fa da Ferruccio Parri, è stata ristrutturata ad hoc a partire dagli anni Settanta, assumendo infine una funzione quasi “totalitaria” di scrittura della Storia della Resistenza attorno agli anni Novanta. Ebbene sulla attività di questi Istituti dell’ISMLI sarebbe necessario sviluppare una riflessione critica non meno importante di quella che riguarda l’ANPI. Da anni è in atto un processo di mutazione, spesso evidenziato dal cambiamento di nome – dalla “Storia della Resistenza” o “del Movimento di Liberazione” alla “Storia Contemporanea” –, per cui si tende ad occuparsi di ogni sorta di questioni che riguardano la contemporaneità e la realtà locale, dalle analisi paesaggistiche alle tradizioni culinarie, creando pesanti discontinuità quando non proprio dismettendo la funzione iniziale. Questo in un contesto in cui, nel corso di settant’anni e ancora oggi, si è sviluppata una rigogliosa sub-letteratura memorialistica locale e individuale sugli eventi della II Guerra Mondiale e sulla Resistenza, che per uno storico è ardua da manipolare ma che rappresenta in troppi casi l’unica fonte, benché secondaria, per la ricostruzione di eventi anche cruciali. Se aggiungiamo che le politiche archivistiche in questo campo sono state assenti o incoerenti, e che da un certo punto in poi si è colpevolmente sostituita una estetizzante ricognizione della “memoria” alla scientifica ricostruzione della Storia, il risultato netto è che la storiografia della Resistenza a 70 anni dagli eventi è lacunosa, dannatamente frammentata e prevalentemente ad uso e consumo delle necessità di portare acqua al mulino di interpretazioni di comodo.

Cosicché, chiunque si occupi di questi temi incappa in una serie di paurosi “buchi” storiografici. D’altronde, il revisionismo, poi diventato rovescismo, si è innestato sulla narrazione già incompleta di una “guerra di liberazione nazionale” cui si sarebbe dovuto premettere il racconto di crimini di guerra italiani ed affiancare il contesto di una Resistenza che è stata internazionale e internazionalista più ancora che “italiana”. Di tutto questo in molti partigiani combattenti c’è (o c’era) perfetta contezza: bisogna restituire a loro la parola, se non materialmente, almeno attraverso le testimonianze che hanno lasciato.

Bisogna soprattutto restituire la parola ai tanti partigiani che nel dopoguerra sono stati emarginati, costretti alla emigrazione o alla irrilevanza politica, e che in molti casi hanno persino rinunciato a impegnarsi attivamente nell’ANPI o in altre realtà consimili. E’ il caso ad esempio di decine di migliaia di partigiani italiani all’estero, le cui vicende sono colpevolmente trascurate, come quelle dei partigiani stranieri in Italia.

Sintesi conclusiva

Dal 1945 in poi si è imposta una chiave di lettura totalizzante per la vicenda della Resistenza in Italia, quella di una lotta di liberazione *nazionale* contro l’occupante *straniero* (tedesco). Questa operazione è stata possibile, e per certi versi anche legittima, nel contesto della Guerra Fredda, in virtù di una convergenza “multi-partisan” che oggi però mostra il segno. Di fronte ad attacchi perduranti rivolti contro *tutta* la memoria partigiana, è perdente e controproducente, oltreché anacronistica, la tendenza a forzare, ancora, la memoria storica nell’angusta strettoia “nazionale”. In particolare, l’ANPI può farsi portatrice e promotrice di una visione più complessiva e meno “istituzionale” della vicenda partigiana, allentando i condizionamenti politici e tornando ad avocare a se anche una funzione di tipo storiografico, culturale, didattica e divulgativa.

Definitivamente abbandonato lo status di associazione combattentistica – dal quale derivano solo vincoli e nessun vantaggio – l’ANPI dovrebbe a mio avviso in primis mantenere la funzione di depositaria della memoria storica dei partigiani combattenti, non solo e non tanto in senso morale-celebrativo quanto proprio nel senso concreto delle storie vissute e della loro documentabilità, recuperando le troppe memorie relegate nell’oblio a causa di contingenze politiche non favorevoli. Solo a queste condizioni l’ANPI può continuare nel proprio percorso, anche dopo la scomparsa della generazione dei partigiani, via via accogliendo anche le memorie degli altri antifascisti del passato e del presente e valorizzandole.

E’ solo da tale tesoro di esperienze reali che all’ANPI deriva quella autorità morale per cui può indicare alla pubblica opinione che cosa sono stati il nazifascismo e le sue politiche di guerra, e come e perché il loro riaffacciarsi deve essere scongiurato.

*) Saggista, co-autore de “I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana” e segretario del Coord. Naz. per la Jugoslavia ONLUS.

1) Lo scambio tra il saggista Saverio Ferrari e il presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia è riprodotto integralmente di seguito.

2) http://www.partigianijugoslavi.it ; http://www.diecifebbraio.info ; http://www.cnj.it/partigiani


IL TESTO DELL’ARTICOLO DI SAVERIO FERRARI (OSSERVATORIO DEMOCRATICO NUOVE DESTRE) SUL “MANIFESTO” DELLO SCORSO 4 MARZO 2015, LA RISPOSTA DEL PRESIDENTE NAZIONALE DELL’ANPI CARLO SMURAGLIA SU ANPI NEWS E IL COMMENTO FINALE DI FERRARI:

Saverio Ferrari: L’ANPI BATTA UN COLPO VERSO I NUOVI MOVIMENTI

L’antifascismo è oggi sempre più stretto fra due derive opposte. Tra la parte istituzionale, incarnata dall’Anpi, da un lato, e l’antifascismo antagonista e giovanile, dall’altro.
L’Anpi in questi ultimi anni ha cercato di rinnovarsi. Un’operazione riuscita a metà. Sono arrivate nuove iscrizioni, spesso di militanti in fuga dai partiti di sinistra, e si è assistito a una ripresa di vitalità. Ma in diverse situazioni si sono anche manifestate chiusure e indisponibilità al dialogo con le nuove generazioni. Un panorama vario e articolato, città per città. Prevalente è stato però, nel complesso, l’affermarsi di un profilo marcatamente istituzionale, con un’attività di tipo celebrativo quasi esclusivamente rivolta al passato. Lontano dal cogliere nella sua portata l’attualità e il pericolo delle nuove spinte xenofobe e razziste, quanto dell’irrompere sulla scena di nuove destre, nostalgiche e populiste. Emblematico il caso milanese, dove l’Anpi ha considerato “pericoloso” mobilitarsi il 18 ottobre scorso contro la manifestazione nazionale della Lega e di Casa Pound, con migliaia di camicie nere e verdi in piazza Duomo. Sistematica la rinuncia, anche in seguito, a contrastare ulteriori iniziative dell’estrema destra, tra l’altro in piazza Della Scala, sotto il comune, come di recente accaduto. L’opposto di Roma dove, invece, l’Anpi è scesa in piazza, senza tentennamenti, sempre contro Lega e Casa Pound, a fianco dei centri sociali, in un vasto schieramento antifascista, mobilitando decine di migliaia di persone. Due linee.

UNA REPUBBLICA ANCORA ANTIFASCISTA?

Vi sono certamente, sullo sfondo, le difficoltà del gruppo dirigente nazionale dell’Anpi a comprendere appieno alcuni mutamenti in corso nelle stesse istituzioni, sempre meno rispondenti al dettame costituzionale. In tutta Italia si tengono da anni iniziative pubbliche apologetiche del “ventennio”, con il costituirsi di formazioni apertamente neofasciste e neonaziste, con tanto di corollario di atti violenti, senza alcun vero contrasto istituzionale (si perseguono solo “i casi limite”). Ciò a prescindere dal succedersi di governi, ministri dell’interno, questori e prefetti, in una sorta di assoluta continuità. Un dato di fatto. Come la sospensione dell’applicazione di leggi ordinarie, in primis la legge Mancino, istituita proprio per contrastare l’istigazione all’odio razziale, etnico e religioso. Alla stessa Anpi, quando protesta, si replica asserendo la legittimità di tutti a esprimersi, fascisti compresi. Allo stesso modo si risponde alle interrogazioni parlamentari, a volte di deputati e senatori del Pd, paradossalmente da parte di altri esponenti del Pd al governo. Una rilegittimazione dei fascisti ormai avvenuta. Una nuova fase nella storia della Repubblica, al passaggio epocale del cambiamento della sua carta costituzionale. Affidarsi alle istituzioni democratiche per combattere i fenomeni neofascisti sta divenendo un evidente controsenso. Bisognerebbe prenderne coscienza. La crisi dell’antifascismo passa anche da qui.

Lo stesso futuro dell’Anpi appare incerto all’avvicinarsi del suo prossimo congresso nazionale. L’opposizione manifestata alle riforme in campo, sia elettorali sia costituzionali, sta producendo continui tentativi di contenimento, soprattutto attraverso l’azione del Pd ai livelli locali, volta a depotenziare, sfumare, se non apertamente intralciare, la linea ufficiale. Il rinnovo, in programma, del presidente nazionale dell’associazione sarà probabilmente l’occasione per cercare di “riallineare” l’Anpi, confinandola definitivamente a funzioni meramente celebrative. Un’eventualità più che concreta.

L’ALTRO MOVIMENTO

Lontano dall’antifascismo istituzionale si muove ormai da diversi anni un’area composita di giovani organizzati in centri sociali, collettivi e associazioni, presente su una parte importante del territorio nazionale. Quasi un mondo a parte con cui l’Anpi il più delle volte rifiuta il dialogo. A questa realtà si deve spesso l’iniziativa di contrasto, in tantissime città, delle iniziative razziste e neofasciste. La loro generosità ricorda da vicino i «reietti e gli stranieri» di cui parlava negli anni Sessanta Herbert Marcuse ne L’uomo a una dimensione, quando negli Stati Uniti scendevano nelle strade per chiedere «i più elementari diritti civili», affrontando «cani, pietre e galera», a volte «persino la morte» negli scontri con la polizia. Rappresenta nel suo complesso una realtà antifascista di tipo diverso, per nulla istituzionale e poco propensa al perbenismo, cresciuta con propri simboli (le due bandiere dell'”antifa” sovrapposte, mutuate dalle battaglie di strada dei comunisti tedeschi a cavallo degli anni Trenta contro le squadre d’assalto naziste) e propri modelli storici, gli Arditi del Popolo, in primo luogo, espressione di un’unità dal basso dei militanti di sinistra oltre le appartenenze politiche.

Come nel caso recente di Cremona (gli scontri a gennaio dopo il ferimento quasi mortale di un militante di un centro sociale da parte degli squadristi di casa Pound), quest’area, a volte, fa prevalere l’azione diretta rispetto a ogni altro calcolo politico, restando priva di sbocchi e isolata anche dalla sinistra politica.
L’esigenza di un nuovo movimento antifascista è più che matura. Un movimento necessariamente plurale, aperto alle nuove generazioni, privo di steccati e istituzionalismi fuori tempo, in grado di relazionarsi con il presente e i pericoli rappresentati dagli attuali movimenti razzisti e neofascisti. La stessa capacità di trasmettere la memoria della Resistenza non può che partire da qui, per non ridursi a vuota retorica. Un rischio già presente. Questo nuovo movimento non può che nascere dal confronto e dalla capacità di dialogo fra i diversi antifascismi. Sarebbe il caso che per prima l’Anpi battesse un colpo.

SAVERIO FERRARI

Milano, 3 marzo 2015

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ANPI NEWS n. 157 – 31 marzo/7 aprile 2015:

NOTAZIONI DEL PRESIDENTE NAZIONALE ANPI CARLO SMURAGLIA:

Quasi un mese fa, ho letto un articolo di Saverio Ferrari su “il manifesto”, intitolato: “Appello all’ANPI: guardi ai nuovi antifascisti”. Un articolo molto ampio, in cui si fornisce un quadro non proprio esatto dell’ANPI di oggi e del suo antifascismo, contrapponendogli un quadro di “nuovi” movimenti antifascisti, a cui si dovrebbe, praticamente – secondo l’A. – l’unica vera ed efficace iniziativa di contrasto del riemergente neofascismo e neonazismo. Non occorrono molte
parole per confutare un simile assunto.

Anzitutto, ragioniamo sull’immagine dell’ANPI, che avrebbe cercato – senza riuscirci – di innovarsi, mantenendo tuttavia uno spiccato carattere “istituzionale” e “collaborativo”.
Strano che Ferrari, che pure è stato – fino a poco tempo fa – componente anche di un organismo dirigente periferico (dell’ANPI), ci conosca così poco.
Teniamo viva la memoria, è vero, ma è nostro dovere (altrimenti, chi lo farebbe?), e comunque ci sforziamo di renderla attiva, per aiutare soprattutto a conoscere i fatti della storia, anche perché servano di esempio e di monito per il futuro e favoriscano la riflessione storica.

Ma facciamo anche tante altre attività; ci occupiamo della scuola e della “cittadinanza attiva” (vedi il protocollo di intesa sottoscritto col MIUR il 24 luglio 2014 e in corso di attuazione), ci occupiamo delle stragi nazifasciste degli anni ’43-’45, non solo partecipando alle iniziative di ricordo, ma anche promuovendo seminari e convegni per irrobustire, con gli storici, la conoscenza di tutto quanto è accaduto; mettendo in cantiere un “Atlante delle Stragi”, che sarà d’importanza storica e per il quale siamo riusciti ad ottenere un finanziamento da parte della Germania; ci occupiamo delle riforme costituzionali, contrastando con forza ed energia quelle che ci appaiono non come modifiche, ma come stravolgimenti della Carta costituzionale; ci occupiamo di diritti, di pace, di lavoro, esercitando quella “coscienza critica” che ci è stata indicata come un dovere primario da parte del Congresso nazionale del 2011;
ci occupiamo di donne, di emancipazione, di libertà e uguaglianza; e tantissimo, di formazione non solo dei giovani ma anche dei nostri dirigenti.

E tutto questo non è né statico né tanto meno “istituzionale” (ma cosa vuol dire, alla fine, questa espressione?.
Ci occupiamo, e molto, piaccia o no a chi chiede che l’ANPI “batta un colpo”, di antifascismo, non solo perché siamo sempre attivi nel richiamare gli organi istituzionali ed elettivi al ruolo che loro è assegnato da una Costituzione profondamente e nettamente antifascista, in tutte le sue norme, i suoi princìpi ed i valori che esprime, ma anche perché cerchiamo, in tutte le forme possibili, di contrastare i movimenti neofascisti e neonazisti, che si stanno sempre più
espandendo, nonostante le nostre iniziative e nonostante gli sforzi di quello che Ferrari definisce come “l’altro movimento”.

Non a caso, abbiamo tenuto un Seminario, su questi temi, con l’Istituto Cervi e nella sua sede; non a caso abbiamo tenuto un Convegno, a Roma, nell’aprile 2014 proprio sul modo di contrastare questi fenomeni. A quel Convegno avevamo invitato tutte le istituzioni (dico tutte) e sono venuti solo due parlamentari! Poi abbiamo pubblicato e diffuso un opuscolo che riassume i contenuti di quel Convegno e in cui sono collocate, in appendice, due sentenze
della Corte di Cassazione che considerano reato il saluto romano in luogo pubblico, fornendo così indicazioni precise ai nostri organismi periferici perché si attivino sempre, contattino Sindaci, Prefetti, Questori, facciano denunce all’Autorità giudiziaria, insomma scuotano il silenzio e l’indifferenza con cui il nostro Paese affronta (o meglio, non affronta) un problema che è grave, storicamente e politicamente, e denso di incognite per il futuro.
Certo, noi preferiamo i presìdi agli scontri frontali, evitiamo le occasioni di contrasto violento, cerchiamo di coinvolgere i cittadini e non di allontanarli, ma non manchiamo di adottare, in ogni occasione, le iniziative che riteniamo utili, o anche solo opportune. Bisogna riconoscere che gli esiti di questo impegno sono, a tutt’oggi, ancora limitati. Ma ottiene qualcosa di più “l’altro movimento”? Un corteo, uno scontro, sono più efficaci di un presidio? La realtà ci dice di no e ci insegna che ciò che conta è non rassegnarsi mai e contestare sempre le iniziative neofasciste, assumendo per primi le iniziative necessarie per controbatterle, per ottenere che vengano impedite, per suscitare le reazioni che dovrebbero provenire proprio dagli organi dello Stato e dagli Enti locali.

Tutto questo è un “calcolo politico”, come sembra sostenere l’articolo? Non è così, anche se è ovvio che bisogna dotarsi, contro un fenomeno grave e pericoloso, di una qualche strategia.
Non la intravvedo, questa strategia, nell’articolo, anche se presentata con una certa enfasi, ma in realtà limitata ai cortei, che talora sono utili, se richiamano l’attenzione e coinvolgono i distratti, ma sono semplicemente rischiosi se conducono ad uno scontro, quanto meno privo di effetti positivi. Che sia meglio unire le forze, non è dubitabile, ma bisogna farlo con un minimo di umiltà e di vera disponibilità, senza essere convinti di essere gli unici detentori della verità. Ci si chiede di “battere un colpo”; ma su che cosa, se siamo già in campo da sempre e continuiamo, doverosamente e quotidianamente, ad interrogarci se quanto facciamo è sufficiente o possiamo e dobbiamo fare qualcosa di più efficace e come?

Io sono convinto che il problema principale stia in questo Stato, che non riesce a diventare antifascista, che non sente la memoria come un valore da coltivare, che non si pronuncia neppure di fronte ai fenomeni più gravi e appariscenti. Sono convinto che se il Ministero degli Interni desse direttive precise e conformi alle linee ed ai valori della Costituzione, se i rappresentanti periferici dello Stato si adeguassero, se tutti i Sindaci facessero capire con chiarezza che nel territorio che amministrano, i fascisti e i nazisti, comunque si chiamino, non sono graditi, qualcosa comincerebbe a cambiare. E sono convinto che bisogna superare quel muro di indifferenza e disimpegno che caratterizza tanta parte degli italiani. Se su questo si è disposti a svolgere un’azione comune, noi siamo già in campo e non abbiamo alcun bisogno di inventare nuovi organismi, mentre sentiamo forte l’esigenza di un antifascismo diffuso.
Non a caso in molte città esistono da tempo “Comitati antifascisti”, nei quali c’è sempre l’ANPI, che cercano di realizzare il coordinamento di azioni e unità di intenti; soprattutto c’è l’ANPI, che ha aperto dal 2006 agli “antifascisti” e ne ha tratto enorme vantaggio, non per i numeri ma per la crescita delle idee, dei confronti, delle proposte, delle iniziative.

Se abbiamo ancora bisogno di “crescere”, come sostiene l’articolo, ci si dia un contributo di idee e di proposte, ma non si pretenda di risolvere il problema contrastando proprio la forza più determinata e forte che è impegnata, su questo terreno, praticamente dalla Liberazione.

Non c’è da inventare nulla di nuovo; abbiamo suggerito di prendere sempre le iniziative più “tempestive”, di organizzare presìdi quando occorre e di fare manifestazioni quando sono idonee non solo a richiamare l’attenzione, ma anche ad allargare il fronte antifascista, anziché rinchiuderlo in un recinto. Abbiamo anche fornito gli strumenti per investire l’Autorità giudiziaria dell’esigenza di far applicare le leggi che ci sono, checché se ne pensi; stiamo organizzando un incontro di riflessione per capire meglio che cosa attrae i giovani e che cosa può suscitare in loro positivi ed efficaci entusiasmi, nel solco della Costituzione. Possiamo sbagliare, possiamo avere incertezze e dubbi sulle iniziative da intraprendere, ma cerchiamo di fare sempre meglio e di più, senza avventure. Se esiste un problema dei giovani (che dobbiamo cercare di capire noi, prima di ogni altra cosa), bisogna affrontarlo con serietà e approfondimento, nello sforzo di individuare una strada, suscitare interessi, proporre precise scelte di campo, rendendoci conto che anche fra loro ci sono differenze, modi di vedere ed agire diversi; e soprattutto che nessuno ne può rivendicare il monopolio. Nelle loro mani sta il futuro del Paese: sono loro che dovranno combattere le battaglie necessarie per preservare la democrazia da ogni pericolo; anche loro, però, dovranno fare le loro riflessioni e mettere in campo ricerche di identità e di prospettive. Noi possiamo confrontarci, anche richiamandoci alle nostre esperienze, per quel che valgono e fornire qualche spunto di riflessione, però con l’umiltà di chi ha sperimentato in concreto il valore e il significato delle “scelte” e non pretende che vengano adottate come modello, ma al più siano oggetto di conoscenza e di riflessione. Siamo di fronte a fenomeni che sembravano inimmaginabili, in una Europa che ha vissuto gli orrori della dittatura, della persecuzione dei “diversi”, della barbarie più disumana.

Tutto questo non è bastato a vaccinarci, tutti, contro il pericolo di ritorni al passato, anche se in forme diverse. Dobbiamo, dunque, fare di più e meglio, dobbiamo capire come e perché nascono certi movimenti e perché suscitano attenzione anche da parte dei giovani; e dobbiamo cercare di combatterli in forme unitarie, ma capaci di ampliare il consenso. Lo facciamo, tutto questo, senza iattanza, ma con convinzione e fermezza e con la ricerca continua di andare oltre gli schemi che già conosciamo, soprattutto per creare, nel Paese, un vero “clima ” antifascista . Siamo pronti, come indica il documento politico del Convegno di Torino, ad essere la “casa degli antifascisti” se sono disponibili anche al confronto e se considerano con attenzione tutto ciò che, talora faticosamente e magari qualche volta sbagliando, cerchiamo di fare. Non c’è bisogno, dunque, di case “nuove”, perché una l’abbiamo già e da molto tempo ed è una casa aperta per tutti coloro che vogliono, sinceramente e lealmente, perseguire l’obiettivo di un Paese più intimamente e profondamente antifascista e caratterizzato da una più solida democrazia.

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COMMENTO FINALE DI SAVERIO FERRARI:

La risposta del presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia in realtà è una non-risposta. Dopo più di un mese si è solo degnato di un commento sul bollettino interno dell’Anpi. Come dire: quell’articolo un dibattito pubblico non lo merita. Un atto di supponenza.
Per altro, con ogni evidenza, l’articolo uscito sul Manifesto, non è stato nemmeno davvero letto, preferendo procedere attraverso il metodo della caricatura. Lo schema è il seguente: da un lato c’è l’Anpi che agisce a tutto campo e che si impegna anche nei confronti delle istituzioni, ammettendo comunque non solo di non aver più sponde politiche in Parlamento, ma anche di non aver in questo campo conseguito alcun risultato, non traendo però l’ovvia conclusione che forse le stesse istituzioni stanno mutando natura (una delle considerazioni su cui si invitava a una riflessione), dall’altro si muove un informe movimento attraversato da pulsioni violente con cui nulla si vuole aver a che fare.
Conclusione: c’è solo l’Anpi, non esiste nessuna altra realtà antifascista, tantomeno nata fra le nuove generazioni, qualora esistesse, è solo il frutto di un’invenzione o parte di una combriccola di teppisti, rimaniamo nella nostra torre d’avorio, autosufficienti e autoreferenziali. Non discutiamo, infine, con nessuno che ci pone problemi o mette in discussione le nostre certezze.
Peccato. Si tratta dell’ennesima occasione mancata per mettere l’Anpi in sintonia con la realtà. Fino a quando si penserà di poterlo fare?

SAVERIO FERRARI

Milano, 7 aprile 2015

La guerra imperialista, la pace imperialista: La I Guerra Mondiale e il trattato del Trianon alla luce di oggwww.resistenze.org – pensiero resistente – movimento comunista internazionale – 21-05-15 – n. 546

 


Rivista Comunista Internazionale n. 5

Partito dei Lavoratori Ungherese * | iccr.gr

25/11/2014

L’anniversario dei cento anni dallo scoppio della I Guerra Mondiale, assume sempre più un importante posto nella lotta ideologica e politica in Ungheria.
Entrambi i blocchi della classe capitalista ungherese, il socialdemocratico e il liberale, cercano di sfruttare questo anniversario per i propri interessi.

Le forze conservatrici, con in testa il governo in carica, si sforzano di mostrare le virtù storiche dell’Ungheria borghese, di costruire un ponte storico e spirituale fra la monarchia Austro-Ungarica, l’epoca Horthy e il regime conservatore-cristiano di oggi.

Le forze social-liberali dal canto loro sfruttano l’anniversario del centenario per dimostrare che la responsabilità della sconfitta nella I Guerra Mondiale e il conseguente trattato di pace di Trianon, non ricadono su tutta l’Ungheria ma solo sull’élite politica di allora.

Di conseguenza, dei problemi contemporanei dell’Ungheria è responsabile solamente l’attuale élite politica conservatrice-cristiana, cioè la coalizione governativa che unisce il partito Fidesz e il partito Democristiano.

Nelle manifestazioni collegate alla ricorrenza ritroviamo continuamente riferimenti politici ed ideologici all’oggi. Non casualmente, visto che nella primavera 2014 avranno luogo in Ungheria le elezioni parlamentari. Verranno messe sul tappeto molte questioni: se rimarranno al potere le forze conservatrici che hanno cambiato radicalmente la precedente politica liberale o, se dopo l’intervallo quadriennale, al potere torneranno le forze liberali socialdemocratiche.

Le forze capitaliste usano il centenario per falsificare ed offuscare, agli occhi delle generazioni contemporanee, il movimento comunista presentatosi dopo la I Guerra Mondiale, l’esperienza storica della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre 1917, la Repubblica Sovietica Ungherese del 1919 e per indebolire le forze anticapitaliste odierne. Il Partito Operaio Ungherese non può astenersi dalla lotta in relazione al centesimo anniversario dall’inizio della I Guerra Mondiale.

Oggi dobbiamo trovare nuovi argomenti, nuovi mezzi per la difesa delle posizioni marxiste-leniniste  riguardanti la guerra e il legame tra imperialismo e guerra.

Dobbiamo dimostrare che l’imperialismo anche oggi partorisce guerre, le cui cause devono essere ricercate nell’attuale crisi del sistema capitalista. Dobbiamo dimostrare che alle guerre imperialiste seguono gli accordi di pace imperialisti.
Questo succedeva cent’anni fa, questo succede anche oggi.

L’Ungheria e la I Guerra Mondiale sulla base degli avvenimenti

Nel centenario dall’inizio della I Guerra Mondiale il ruolo più importante nelle pagine dei mass-media viene concentrato sulle grandi potenze, paesi come l’Ungheria non costituiscono il centro dell’attenzione. Per questo, ricordiamo alcuni avvenimenti. Come è stata coinvolta l’Ungheria nella guerra e quali furono le sue conseguenze?

Il 23 luglio 1914 si svolse la riunione del governo reale ungherese coordinata dal primo ministro, conte Istva Tisza, nel corso della quale il governo fu informato del fatto che, dopo l’omicidio a Sarajevo, l’ambasciatore austro-ungarico a Belgrado, barone Vladimir Gkizl, aveva consegnato al governo reale Serbo l’ultimatum che sarebbe scaduto alle ore 18,00 del 25 luglio.

L’ultimatum riponeva la responsabilità del duplice omicidio di Sarajevo sul governo e sulle autorità della Serbia, ricordava al governo Serbo gli impegni assunti, accusava il governo Serbo di tollerare e appoggiare il movimento nazionalistico “panserbo”. L’ultimatum pretendeva, altresì, che il governo serbo pubblicasse in un’ora precisa sul suo organo di stampa ufficiale, una dichiarazione con un contenuto preciso di condanna del movimento “panserbo”; lo stesso testo si sarebbe dovuto trasmettere all’esercito sotto la forma di decreto regio.

Era necessario eliminare dal sistema di propaganda, dagli organi dell’amministrazione statale e dall’esercito tutta la propaganda indirizzata contro la monarchia. Si esigeva lo scioglimento di tutte le organizzazioni nazionaliste, compresa la Narodna Odbrana [“La difesa del popolo”, movimento nazionalista serbo creato nel 1908 a seguito dell’annessione della Bosnia-Erzegovina all’impero Austro – Ungarico, e che aveva costituito ancxhe un’organizzazione paramilitare- NdT]. Tuttavia, ciò che offendeva maggiormente la dignità dello stato indipendente erano i punti 5 e 6 dell’ultimatum. La monarchia esigeva dai suoi organi statali la partecipazione al soffocamento dei movimenti miranti a minare l’integrità territoriale della monarchia mentre le autorità austro-ungariche avrebbero assunto il diritto di effettuare controlli sul territorio serbo.

Simili richieste appaiono legittime e anche oggi le incontriamo nell’arsenale di una serie di grandi potenze, non è così?

Il primo ministro della Serbia, Nikola Pasic, si rivolse così al popolo serbo: “Avendo coscienza di adempiere alle vostre aspettative, alle vostre esigenze per il mantenimento della pace, cosa condivisa non solo dalla Serbia ma, siamo certi, da tutta l’Europa, il governo serbo accoglie positivamente i desideri del governo regio e imperiale, ma esiste anche un limite oltre il quale nessuno Stato può retrocedere”.

Un tale appello potrebbe essere pubblicato anche oggi e spesso se ne pubblicano di simili.

Il 28 luglio l’imperatore Francesco Giuseppe firmò la dichiarazione di guerra:
“L’azione piena di odio del nostro avversario ci ha obbligato, dopo tanti anni di pace, a sfoderare ancora la nostra spada per difendere l’onore della monarchia, il mantenimento del suo prestigio, la sovranità della sua posizione ed il mantenimento della sua integrità territoriale. Il Regno Serbo che, dall’inizio della sua esistenza fino ad ora, abbiamo sostenuto ed aiutato sia io che i miei predecessori, è passato alla via dell’inimicizia nei confronti della monarchia austro-ungarica, dimostrando ingratitudine e dimenticando velocemente tutto ciò che è stato fatto”.

Non obblighiamo nessuno a fare parallelismi, ma anche oggi osserviamo la stessa presunzione.

Cos’ha significato la I Guerra Mondiale per l’Ungheria?

Nel comune esercito austro-ungarico in cinque anni di guerra hanno combattuto 4 milioni di soldati ungheresi, più di 600mila sono morti in battaglia ed 1milione e mezzo sono stati feriti o fatti prigionieri.

Nelle retroguardie il 18% della popolazione partecipava ai preparativi di guerra, e a questi deve aggiungersi l’industria bellica che occupava 88 mila persone. Le spese di guerra dell’Ungheria ammontarono a 7,82 miliardi di dollari (a parità di cambio del 1920) e tale somma superava di trenta volte il PIL medio annuale dello Stato ungherese degli anni anteriori alla guerra.

Come risultato della sconfitta bellica l’Ungheria si trovò in una profonda crisi economica, politica e sociale che distrusse la stessa monarchia. Il 25 ottobre del 1918 fu annunciata ufficialmente la creazione del consiglio nazionale ungherese con presidente il conte Mihàly Kàrolyi.

La classe dominante ungherese non poté affrontare la crisi provocata dalla guerra e dalla disoccupazione di massa.

La situazione peggiorò per il fatto che la parte meridionale del paese era occupata dagli eserciti francese e romeno e quella settentrionale dall’esercito ceco, mentre l’Intesa avanzava nuove richieste. In questa situazione la classe dominante dimostrò la propria debolezza. L’aristocrazia consegnò il potere alla classe liberale borghese con a capo Kàrolyi, la stessa dopo pochi mesi consegnò il potere alla socialdemocrazia. I socialdemocratici non riuscirono ad affrontare la situazione, pertanto proposero ai comunisti di dividere con loro il potere e venne proclamata la Repubblica Sovietica Ungherese.

Il potere operaio-contadino ungherese durò 133 giorni, nell’agosto 1919 lo distrussero le forze controrivoluzionarie della classe dei latifondisti ungheresi con l’aiuto dell’Intesa.

La I Guerra Mondiale terminò ufficialmente in Ungheria il 4 giugno del 1920, quando si firmò il trattato del Trianon, facente parte del sistema di trattati firmati a Parigi.

Alla guerra imperialista segue la pace imperialista. Gli stati dell’Intesa indebolirono la Germania ed eliminarono il suo alleato tradizionale, la monarchia austro-ungarica.

Sulla base del trattato di pace il regno ungherese perse più dei due terzi dei propri territori (il territorio del paese diminuì da 282.000 km quadrati a 93.000 km quadrati); più di 3,3 milioni di ungheresi si trovarono a risiedere all’altro lato del nuovo Stato ungherese, cioè diventarono una minoranza etnica nel loro stesso paese.

In riferimento all’economia, gli stati vicini presero il 61,4% dei terreni coltivabili, l’88% delle zone boschive, il 62,2% delle linee ferroviarie, il 64,5% delle vie asfaltate (rete stradale), l’83,1% dell’acciaio, il 55,7% delle imprese industriali ed il 67% degli istituti creditizi e bancari.

Cosa si aspetta la classe capitalistica ungherese dall’anniversario del centenario?

Il settore conservatore-cristiano della classe borghese ungherese, dà una grande importanza al centenario e ciò risulta dalla linea politica realizzata dal governo Fidesz – cristianodemocratici con a capo Orbàn che si trova al potere dal 2010.

Cosa intendiamo dire? “Di fronte a questi avvenimenti non si deve avere un approccio di carattere europeo occidentale, ma deve essere adottato un punto di vista mitteleuropeo”. Così dice Maria Smidt, direttrice del museo Casa del terrore, una “storica di regime” dell’attuale élite politica ungherese.

“Nostro obiettivo è la formazione di una sana coscienza nazionale e di una memoria nazionale”, aggiunge la Ioundit Hemmerstein, sostituta del Segretario di Stato e responsabile della cultura.

A cosa aspira il governo conservatore-cristiano? Prima di tutto alla liberazione dell’opinione pubblica dai “residui spirituali del passato comunista”. Per esempio va cancellata la tesi che la I Guerra Mondiale fu un conflitto tra potenze imperialiste, mentre i soldati furono vittime della guerra sanguinaria! E si deve assolutamente dimenticare che la rivoluzione russa del 1917 ha avviato una “nuova epoca” nella storia! Mentre la Repubblica Sovietica Ungherese va dimenticata come se non fosse mai esistita.

Contemporaneamente il governo conservatore cristiano pone come obiettivo l’eliminazione anche delle opinioni liberali e socialdemocratiche riguardanti la I Guerra Mondiale e le leggi che ne hanno fatto seguito.

Il governo non si stanca di ripetere che l’Ungheria non si trova nella parte orientale, ma nella parte centrale dell’Europa. Il governo respinge l’opinione liberale che l’Ungheria avrebbe dovuto trarre insegnamenti dall’Occidente, al contrario si sforza di persuadere che, ogni volta che l’Ungheria abbandonava la via nazionale autonoma, si è sempre ritrovata sottomessa all’Occidente. Allo stesso tempo l’approccio ufficiale conservatore-cristiano considera la I Guerra Mondiale come guerra per la difesa della nazione. “La guerra, una volta iniziata, fu a favore degli interessi dell’Ungheria, perché diede la possibilità di difesa armata degli interessi ungheresi. Non dobbiamo dimenticare che i dirigenti politici di tre popoli vicini (Cechi, Romeni e Serbi), e l’intellighenzia che li sosteneva, decenni prima del 1914 parlavano apertamente di necessità di divisione del territorio del regno ungherese.

Su questa base possiamo sostenere che la I Guerra Mondiale sia stata imposta all’Ungheria come guerra difensiva”, dice lo storico Herne Raffai. Dal 1990 al 1994 Raffai fu segretario di Stato del ministero della difesa durante il governo Antall, diventato famoso perché agli inizi degli anni ’90 aiutava i Croati a separarsi dalla Jugoslavia rifornendoli di armi.

Le forze conservatrici-cristiane affrontano la guerra come una questione che unificò tutta la nazione, non si stancano di sottolineare che all’inizio della I Guerra Mondiale si arruolarono nell’esercito 3,6 milioni di uomini di cui 600 mila restarono uccisi o dispersi e vengono compresi anche gli Ebrei d’Ungheria nella “grande unità nazionale”. Dei 932 mila abitanti di origine ebraica che vivevano allora nel paese “all’incirca 200 mila persone di origine israelita servirono l’esercito, tanti assunsero alti gradi, molti furono generali” sottolinea l’attuale ministro della difesa e ripubblica una raccolta chiamata “L’albo d’oro degli Ebrei arruolati nell’esercito: in memoria della Guerra 1914-18”. Questo volume, che supera le 500 pagine, venne pubblicato nel 1941 come contrappeso agli umori antisemiti.

Le forze conservatrici-cristiane prolungano la questione della I Guerra Mondiale al 1920, fino alla firma del trattato del Trianon, inoltre sottolineano che l’ingiustizia di cui fu vittima la nazione ungherese produce conseguenze ancora oggi.

Secondo le intenzioni del governo odierno, le manifestazioni attinenti l’anniversario del centenario debbono svolgere un ruolo importante nella rivalutazione della storia ungherese da posizioni conservatrici-cristiane. L’attuale interpretazione considera la monarchia austro-ungarica (1867-1918), una preziosa conquista della storia ungherese, la cui influenza arriva fino ai giorni nostri.

Tale periodo viene glorificato come secolo d’oro.

La posizione ufficiale considera come continuazione dell’epoca imperiale il periodo 1920-1945, identificandolo con la persona di Miklòs Horhty, l’allora leader dell’Ungheria.

Secondo la posizione contemporanea ufficiale, l’epoca di Horthy fu un periodo di successo, di rafforzamento della classe borghese, di sviluppo borghese. Il governo di Orbàn si considera sé stesso come l’erede dell’epoca di Horthy.

Le forze liberali assegnano la responsabilità della I Guerra Mondiale all’allora élite conservatrice ungherese, compiendo un parallelismo tra passato e presente. Come afferma lo storico Andras Geriò, appartenente alla classe borghese: “La guerra è un fatto ineluttabile di cui soffrono solamente gli essere umani. Dal punto di vista liberale, non è una tragedia nazionale, come la immaginano le forze conservatrici, ma è solo una tragedia dell’élite liberal conservatrice ungherese”.[1]

Secondo la loro opinione, a cavallo tra i due secoli, l’élite politica ungherese perse la sua agilità, non realizzò la riforma agraria, non sistemò i rapporti con le minoranze etniche, non cambiò la struttura della monarchia e tutto ciò sfociò nel coinvolgimento dell’Ungheria nella guerra che perse.

Contemporaneamente i liberali si sforzano, non meno dei conservatori, di assolvere l’allora classe borghese, sottolineando che l’Ungheria venne costretta ad entrare in guerra.

L’Ungheria non vantò rivendicazioni territoriali, non volle la guerra, non desiderò conquistare altri popoli. Lo stesso Istran Tis era contro la guerra, però l’Ungheria come parte della monarchia non poté esimersi dall’entrare in guerra. Dal punto di vista della nazione ungherese ciò rappresentò una strada senza uscita.[2]

Il festeggiamento del centenario assicura un ampio terreno per le manifestazioni del nazionalismo. Molti storici dichiarano “L’Ungheria solo per gli ungheresi”.

Riferendosi agli stati confinanti si ricomincia ad usare la formula usata prima del 1920: “paesi della Santa Corona Ungherese”.

Il punto di vista ufficiale considera eroi i soldati ungheresi che parteciparono alla guerra. Nel 2018, con la conclusione di una serie di manifestazioni per il centenario, dovrebbe essere pronto un insieme di dati contenente le perdite militari ungheresi, in tutte le zone abitate si dovrebbero ripristinare i monumenti alla I Guerra Mondiale. In molti casi si creeranno “luoghi eroici di memoria” ove si erigeranno contemporaneamente monumenti ai partecipanti alla I e la II Guerra Mondiale nonché ai partecipanti dei fatti del 1956.

Le manifestazioni per la ricorrenza non sono prive di anticomunismo.

L’Ungheria, come vedete, si incaricò di una grande missione statale storica: dopo il 1919 diventò un avamposto per la lotta contro il bolscevismo. Molti si sforzano di spiegare che sostanzialmente le idee comuniste furono estranee al carattere ungherese, però la I Guerra Mondiale diede origine a quel trauma, il cui effetto portò all’apparizione dell’ideologia comunista insieme anche a quella fascista.

Dobbiamo notare ancora un elemento delle manifestazioni commemorative – l’apparizione di umori antirussi. Il giovane storico liberale Peter Tsunderlik ha frequentemente dichiarato come l’impressione negativa creatasi nel mondo per la politica ungherese sia opera dei russi e degli altri popoli slavi. “Questa impressione negativa – dichiara – la dobbiamo maggiormente all’interpretazione della storia da parte dei popoli slavi” ed arriva a sostenere che i popoli slavi diffondano una cattiva fama sull’Ungheria e con “l’aiuto di questa demonizzazione eleveranno loro stessi al livello dei popoli civili”[3]

La guerra cent’anni fa e nei giorni nostri

La I Guerra Mondiale e la partecipazione dell’Ungheria non possono essere considerate in alcun modo casuali o come il risultato di una qualsiasi costrizione storica; esattamente come non si debbono interpretare in tal modo le guerre contemporanee e la partecipazione dell’Ungheria ad esse.

Cent’anni fa l’Ungheria entrò nella I Guerra Mondiale per tre motivi basilari:

* La I Guerra Mondiale venne provocata dalle contraddizioni tra paesi capitalistici. La lotta economica e politica per il dominio sul suolo europeo condusse alla guerra. L’Ungheria, sia pur da una posizione di sottomissione, era parte dell’ordine capitalista mondiale. Per la sua posizione e per i suoi legami d’alleanza l’Ungheria non poté restare fuori dalla guerra.

* Il movimento del capitale ungherese era possibile solo nella direzione dei Balcani, però i Balcani furono inseriti nella sfera di interessi anche di altre forze capitaliste, di altre grandi potenze. La classe dominante ungherese – non tutti i suoi strati allo stesso grado – ebbe quindi un interesse alla guerra e per questo l’Ungheria entrò nel conflitto.

* La guerra, malgrado il rischio, fornì la possibilità alla classe dominante di allentare la tensione interna esistente nella società ungherese.

Qual era il tratto distintivo della classe dominante ungherese di quell’epoca? Nel 1867 l’Ungheria, dopo molti secoli, conquistò una parziale indipendenza. L’aristocrazia ungherese composta dai grandi latifondisti non fu abbastanza potente da ottenere la piena indipendenza dall’Austria, così venne firmato il Compromesso o Ausgleich tra le aristocrazie austriaca ed ungherese [il “compromesso austro-ungarico” definisce la riforma costituzionale introdotta nel 1867 dall’imperatore Francesco Giuseppe con la quale si stabiliva una condizione di parità dell’Ungheria all’interno della monarchia asburgica, NdT]. Venne istituita la monarchia austro-ungarica che mantenne comuni ministeri delle forze armate e degli esteri, come comune fu la persona del monarca: Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria e Re d’Ungheria.

La sostanza dell’Ausgleich fu quella di unire il mercato, il sistema creditizio, la conservazione del sistema capitalistico semifeudale (che stava di fronte alle masse operaie e contadine), di mantenere il dominio austriaco ed ungherese su cechi, croati e sugli altri popoli dell’impero Austro-Ungarico.

Così l’Ungheria si integrò nel capitalismo europeo del 19° secolo. I circoli capitalistici dei due paesi acclamarono l’accordo perché per la creazione di un mercato comune servivano la stabilità politica interna ed il peso internazionale della monarchia.

Le particolarità della classe dominante ungherese agli inizi del 20° secolo derivarono da questa situazione.

* Il potenziale economico dell’aristocrazia ungherese e della classe capitalista era inferiore rispetto ai suoi concorrenti europei e ciò conferiva alla politica ungherese un carattere di provincialismo semifeudale e da neo-arricchiti.

* Affrontando la pressione del capitale tedesco, francese e inglese, il capitale ungherese avrebbe potuto muoversi solo nelle zone vicine, principalmente nei Balcani. Con la struttura dei rapporti internazionali allora vigente, gli interessi austro-ungarici potevano essere conseguiti solamente con mezzi militari; e ciò ha causato la posizione di sottomissione della classe dominante ungherese e la sua permanente dipendenza dal capitale e dalle potenze stranieri.

* La classe dominante ungherese nei territori est-europei e balcanici confliggeva con gli interessi della Russia, e ciò conferiva, conseguentemente, un carattere antirusso alla sua politica.

* La classe dominante ungherese poteva riuscire nella realizzazione dei propri interessi solamente schiacciando gli interessi di altre nazioni, ciò conferiva alla politica ungherese un carattere esclusivamente nazionalista.

* La firma del Compromesso, insieme ad altri fattori, si rese possibile dal momento che la classe dominante ungherese necessitava di garanzie esterne per il mantenimento del controllo sulle masse lavoratrici e per il mantenimento del sistema capitalistico semifeudale.

Negli ultimi 25 anni l’Ungheria ha preso parte a più di una guerra.

Nel 1999, immediatamente dopo l’adesione alla NATO, concesse il proprio territorio ed il proprio spazio aereo per l’aggressione della NATO contro la Jugoslavia, e partecipa alle guerre in Iraq ed in Afghanistan.

Le moderne guerre imperialiste sono il risultato delle contraddizioni del sistema capitalista, della lotta per la ripartizione del mondo e contemporaneamente costituiscono il mezzo per la rimozione della tensione sociale provocata dalla crisi capitalista.

Dagli inizi della prima decade del secondo millennio, i paesi leader del mondo capitalista sono attraversati da una profonda crisi, che non è un’ordinaria crisi ciclica del capitalismo; ma è una crisi provocata dalla sostanza interna del capitalismo e per questo non può trovare una via d’uscita.

I paesi capitalistici più forti tentano di risolvere le loro crisi spostandone il peso sui paesi capitalistici più deboli, da una parte facendo aumentare le contraddizioni interne ai paesi capitalistici e, dall’altra parte, fomentando gravi conflitti sociali nei paesi meno sviluppati.

Gli Stati Uniti, appoggiandosi alle conquiste della mondializzazione e dell’informatica, distruggono impietosamente tutto il mondo; e mirano ad annientare totalmente il movimento comunista, assoggettando la Russia e la Cina. Vogliono imporre in tutto il mondo, attraverso una guerra di civiltà, il dominio della civiltà giudaico-cristiana. Con il pretesto della guerra al terrorismo si muovono contro tutti coloro il cui comportamento differisce da quello voluto dagli Stati Uniti. Gli Usa tentano di sopperire all’indebolimento delle proprie posizioni economiche con l’aggressività.

La partecipazione dell’Ungheria alle guerre dei giorni nostri si spiega in gran parte con la particolarità del capitalismo ungherese e della classe capitalistica ungherese formatisi dopo il 1990.

Cosa caratterizza il capitalismo ungherese contemporaneo?

* La classe capitalista ungherese è molto più debole rispetto ai suoi partner europei. Il capitalismo ungherese si è costituito attraverso il processo di svendita della maggior parte della ricchezza nazionale alle imprese straniere. La classe capitalistica ungherese e la sua politica sono in modo rilevante dipendenti dall’estero.

* Un milione dei dieci milioni di ungheresi può considerarsi appartenente agli strati benestanti, cioè a quelli per i quali il capitalismo si è dimostrato conveniente. I restanti nove milioni sono poveri o comunque hanno visto peggiorare la propria condizione con l’arrivo del capitalismo. La tensione sociale è continua e, nel caso di un peggioramento della situazione di crisi in Europa, può condurre a un radicale cambiamento di direzione. La classe capitalistica ungherese lo comprende perfettamente, sa che 24 anni fa in Ungheria c’era il socialismo e le persone ricordano quel periodo. Precisamente per questo motivo, la caratteristica della politica della classe dominante ungherese è l’estremo anticomunismo e la reazione.

* Il capitale ungherese anche oggi può fondamentalmente espandersi verso l’Europa orientale ed i Balcani, paesi nei quali vivono anche minoranze etniche ungheresi. Per la classe politica ungherese e per la sua componente conservatrice sono caratteristici i suoi umori anti-russi.

* La classe capitalistica ungherese non ha cessato di ambire all’espansione della propria influenza anche sulle popolazioni ungheresi dei paesi vicini e al ritorno a una posizione di potenza di media grandezza sulle regioni dell’Europa Orientale.

Cosa caratterizza la politica della classe capitalistica europea?

La classe dominante ungherese si compone di due gruppi. Le forze conservatrici-cristiane perseguono una politica nazionalista e si collocano in posizione più vicina alla Germania. La componente social-liberale, che esprime gli interessi della classe borghese liberale ungherese, dei circoli ebraici e che è caratterizzata da un pensiero liberale socialdemocratico, è più vicina agli USA e a Israele.

Tuttavia entrambi i settori della classe capitalista hanno interesse al mantenimento del capitalismo e alla diffusione del sistema in altri paesi d’Europa. La politica dei due gruppi si distingue solo per i metodi e per la direzione verso la quale danno un peso maggiore o minore.

La classe borghese ungherese considera come una garanzia esterna fondamentale per il capitalismo ungherese l’alleanza ungarico-americana, la NATO, la UE; di conseguenza i governi borghesi perseguono apertamente la politica della NATO e della UE. Però gli obblighi assunti nei confronti degli USA e della NATO non hanno nessuna attinenza con gli interessi nazionali o con la sicurezza dell’Ungheria, mentre servono agli aggressivi obiettivi di potenza degli USA e dei circoli egemonici delle potenze capitalistiche. Così, per esempio, la partecipazione dell’Ungheria ai bombardamenti della vicina Jugoslavia, comprendente anche zone di residenza della minoranza ungherese, fu in piena contraddizione con gli interessi nazionali ungheresi.

La classe capitalistica ungherese non è nella posizione di svolgere un ruolo militare autonomo, gli USA e la NATO si aspettano da essa la partecipazione alle comuni attività degli stati imperialisti.

Però non si fa solo riferimento al fatto che la classe capitalistica ungherese non abbia altra scelta, visti gli obblighi che scaturiscono dalla sua partecipazione alla NATO e alla UE: la classe dominante ungherese considera come proprio interesse “pescare nelle acque torbide”, prendendo parte alle guerre, senza troppi rischi. Basandosi su questo, l’Ungheria ha partecipato all’aggressione della NATO contro la Jugoslavia, alle guerre contro l’Iraq e l’Afghanistan, all’intervento militare contro la Libia ed ora sta partecipando alle dimostrazioni contro la Siria.

Oggi in Ungheria esiste una base della NATO per garantire i trasporti militari aerei e operano numerosi istituti della NATO e degli USA.

La classe capitalistica ungherese considera necessarie le “riforme democratiche” in Ucraina, in Bielorussia, in Serbia ed in altri paesi. I governi ungheresi contribuiscono con mezzi politici ed economici e attraverso lo spionaggio. Questa è una politica pericolosa, perché, data la sua posizione geografica, l’Ungheria verrebbe coinvolta in qualsiasi guerra terrestre in Europa Orientale.

La classe capitalista ungherese è consapevole di non essere in grado di soddisfare i propri interessi economici solamente all’interno della UE e perciò ricerca anche altre direzioni per i suoi movimenti.

Oggi riguardano principalmente i Balcani e, più esattamente, la Croazia, il Montenegro, la Macedonia (FYROM) e ancora la Georgia, il Kazakistan e l’Azerbaigian.

La politica della classe capitalista è sostanzialmente antirussa, anche se singoli fattori possono cambiare a seconda del governo che si trova al potere, e continua pertanto a considerare la Russia come un attore, che, dal punto di vista strategico, rappresenta un pericolo per il sistema capitalista ungherese.

La politica della classe capitalistica ungherese su aree ben determinate (Balcani, Bielorussia, Vicino Oriente) confligge obiettivamente con gli interessi russi. I governi ungheresi tentano di ridurre la propria dipendenza energetica dalla Russia per incrementare la libertà d’azione della politica ungherese.

La classe capitalistica ungherese non ha abbandonato i piani di espansione della sua influenza sulle popolazioni ungheresi dei paesi vicini.

Le forze social-liberali vorrebbero attuarla con mezzi principalmente economici, invece quelle conservatrici attraverso il conferimento della doppia cittadinanza e l’incorporazione nello stato ungherese degli ungheresi residenti all’estero.

Questa politica rappresenta una fonte di tensione permanente nell’area.

La classe capitalistica ungherese considera la politica estera come un mezzo adatto per distogliere l’attenzione della società dai problemi interni. E problemi di questo genere ce ne sono abbastanza, iniziando dalla disoccupazione di massa fino ai problemi connessi alle popolazioni zigane.

In conclusione, possiamo sostenere che il cambiamento del sistema sociale avvenuto in Ungheria nel 1989-90, l’ingresso dell’Ungheria all’interno dell’integrazione politica e militare dei paesi capitalisti non hanno fatto diminuire ma, al contrario, aumentare il pericolo militare. La particolarità della formazione del capitalismo ungherese, le caratteristiche contemporanee della classe capitalista ungherese rafforzano maggiormente questo pericolo.

Guerra imperialista – pace imperialista

Come abbiamo visto precedentemente, il trattato di pace del Trianon che ratificò gli esiti della I Guerra Mondiale, ebbe gravi conseguenze per l’Ungheria. Il trattato concluse la guerra in sintonia con gli interessi delle maggiori potenze capitaliste dell’epoca.

Durante il periodo fra le due guerre l’obiettivo principale della politica estera ungherese fu la restituzione dei territori persi. L’Ungheria non era in grado di farsi restituire quei territori con le sue uniche forze, e ciò ha spinto le classi dominanti ungheresi alla collaborazione con la Germania nazista e, attraverso di essa, alla guerra.

L’Ungheria è stata sconfitta nella II Guerra Mondiale. Il trattato di pace di Parigi, firmato dopo la guerra confermò i confini stabiliti con il trattato del Trianon. “In considerazione del fatto che, essendo divenuta alleata della Germania hitleriana e avendo partecipato al suo fianco contro l’Unione delle Repubbliche Sovietiche, del Regno Unito, degli Stati Uniti d’America e delle altre Nazioni Unite, l’Ungheria ha la sua parte di responsabilità per questa guerra.”[4]

La pace di Parigi fu una pace imperialista, indipendentemente dal fatto della partecipazione ad essa di un paese socialista, dell’Unione Sovietica. Il trattato di pace regolamentava la situazione in Europa Orientale secondo gli interessi delle grandi potenze di allora.

Negli anni del socialismo (1948 – 1989) la politica ufficiale non si occupò né della questione del trattato del Trianon, né di quella del trattato di Parigi. In quel periodo il diritto internazionale considerava i confini sanciti dopo la II Guerra Mondiale come inviolabili. Inoltre i paesi socialisti consideravano la comune appartenenza al sistema socialista come soluzione dei conflitti nazionali.

Quaranta e più anni si sono rivelati insufficienti per l’eliminazione dei conflitti nazionali.

La classe capitalistica ungherese parte dal fatto che, nonostante gli anni novanta ed i cambiamenti avutisi in Europa Orientale, gli interessi nazionali ungheresi restano tuttora irrealizzati.

I confini sanciti col trattato del Trianon nel 1920, continuano a restare in vigore, l’Ungheria non è riuscita a farsi restituire quei territori nei quali vivono ungheresi.

Nello stesso periodo la classe borghese della Germania ha realizzato i propri interessi nazionali, in quanto la RFD ha annesso la DDR.

La classe borghese della Croazia ha realizzato i suoi interessi, creando uno stato omogeneo croato, separandosi dalla Serbia. Gli albanesi sono riusciti, a danno della Serbia, a realizzare i loro interessi nazionali, è stato creato il cosiddetto Kossovo indipendente. E l’elenco potrebbe proseguire.

È un dato di fatto che negli ultimi 25 anni non sia scoppiata alcuna guerra mondiale alla quale abbia fatto seguito una regolamentazione mondiale di pace. Però è anche vero che tra il 1991 – 2001 si sono succedute guerre in Jugoslavia, compresa anche la guerra aerea della NATO contro la Jugoslavia. L’Ungheria ha partecipato a questa guerra, una guerra imperialista al servizio degli interessi degli stati capitalistici più potenti. Obiettivo della guerra era la distruzione della Jugoslavia che ostacolava l’espansione della NATO in Oriente ed una risposta all’influenza russa nella regione.

Anche questa volta la guerra imperialista è stata seguita dalla pace imperialista. Gli accordi di Dayton, firmati nel 1995, hanno trasformato la Bosnia-Erzegovina in un vassallo dell’Unione Europea. Nel 2008 con la proclamazione dell’indipendenza del Kossovo compare uno stato marionetta sotto il controllo della NATO e della UE.

La classe capitalista ungherese, in questo percorso di guerre e di radicali cambiamenti e accordi di pace, non ha fatto niente per cambiare le conseguenze del trattato del Trianon.

Gli stati guida della NATO, nonostante vi fossero propositi in tal senso, non hanno convocato una conferenza internazionale che avrebbe risolto i conflitti internazionali dell’area. I paesi capitalisti dirigenti ritenevano sufficiente l’accoglienza dell’Ungheria e degli altri paesi dell’area nella NATO e nella UE per la risoluzione dei problemi relativa all’esistenza delle minoranze etniche. Come è noto, tali problemi non sono scomparsi.

Dal 1990 le attività dell’ONU hanno decisamente mutato carattere. Finché sono esistiti i paesi socialisti, l’ONU non solo garantiva una mediazione fra gli interessi delle grandi potenze, ma assicurava anche alcuni spazi affinché i paesi progressisti del mondo, i movimenti di liberazione nazionale potessero lottare con successo contro i paesi capitalisti, inclusi gli USA. Oggi però l’ONU, pur mantenendo un ruolo di compromesso fra gli interessi delle grandi potenze, si è trasformata in strumento degli stati dirigenti del mondo capitalista.

I comunisti contro la guerra

«La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Ogni guerra è collegata saldamente al regime politico da cui nasce» scrisse Lenin nella sua opera “Guerra e rivoluzione”. Il sistema capitalista partorisce le guerre capitaliste e conduce alla pace capitalista.

In passato l’esistenza dei paesi socialisti costringeva i paesi capitalisti a sforzarsi di regolamentare le proprie contraddizioni. I conflitti interni ai paesi capitalisti permanevano, però erano stati creati efficaci meccanismi di attenuazione dei problemi che emergevano.

Dall’altra parte, la forza dei paesi socialisti, l’esistenza di un equilibrio fra le potenze, non permetteva ai paesi capitalisti di aggredire impunemente altri paesi il cui sistema o la cui politica non coincidevano con la loro politica.

Gran parte della storia dell’Ungheria del 20° e 21° secolo è trascorsa nell’ambito del capitalismo (1900 – marzo 1919, agosto 1919 – 1948,1990 fino ad oggi). In Ungheria il sistema socialista è esistito per due volte, dal marzo fino all’agosto del 1919 e dal 1948 fino al 1990.

Negli anni del capitalismo l’Ungheria ha partecipato a due guerre mondiali e ha preso parte alle guerre contemporanee: l’aggressione contro la Jugoslavia e le guerre in Iraq e Afghanistan.

Diversamente è accaduto durante i periodi del socialismo. Nel 1919 la Repubblica Sovietica condusse la guerra per la difesa della patria contro la Cecoslovacchia capitalista, la Romania e anche contro l’Intesa. Questa fu l’unica circostanza del 20° secolo nella quale l’Ungheria, senza aiuto straniero, ha riconquistato i propri territori.

Dopo il 1948 l’esercito ungherese prese parte solamente una volta a operazioni all’estero, nel 1968 durante gli avvenimenti in Cecoslovacchia. Il socialismo creò pace per l’Ungheria, il capitalismo la trascina da una guerra all’altra.

Cosa significa guerra per i comunisti? I comunisti si oppongono alla guerra, poiché le sue conseguenze le subiscono il popolo, i lavoratori. «Le masse lavoratrici sostengono tutti i pesi delle guerre, le classi agiate approfittano delle sciagure del popolo» leggiamo nell’articolo di V. I. Lenin “Dimostrazione pacifica degli operai inglesi e tedeschi”.

L’esperienza storica del movimento operaio ungherese conferma la posizione leninista che le guerre possono e devono essere indirizzate contro la classe dei capitalisti. La classe operaia ungherese nel 1919 e nel 1945, in una situazione critica provocata dalla guerra, indicò che la via d’uscita alla crisi era solamente l’instaurazione del socialismo. Sotto questa bandiera lottò per la vittoria della rivoluzione socialista.

Perciò l’imperialismo, invece di fare guerre mondiali che conducono a scosse sociali, fa di tutto per distogliere la tensione attraverso una lunga serie di guerre minori per nascondere agli uomini la vera natura delle guerre.

Per noi è un dovere difendere la nostra valutazione marxista dagli attacchi della moderna ideologia borghese e spiegare al popolo le reali cause delle guerre. Continueremo a dire con coraggio che la I Guerra Mondiale è stata partorita dal sistema capitalista! Esattamente come le guerre contemporanee.

Il sistema capitalista non si è reso maggiormente pacifista per il fatto che oggi non si conducono guerre mondiali; in realtà le guerre sono in atto, una dopo l’altra.

Inoltre, se il sistema capitalista non riuscirà a risolvere la sua crisi, non si potrà non temere una guerra in Europa.

Noi comunisti non possiamo porre il simbolo dell’uguaglianza tra l’aggressore e la vittima dell’aggressione, non possiamo dichiarare che entrambe le parti sono in torto e che entrambe le parti devono retrocedere.

Nell’estate del 1941 i comunisti ungheresi condannarono con decisione la Germania nazista e si posero senza esitazione al fianco dell’Unione Sovietica, anche se valutarono in qualche modo diversamente Stalin e la politica interna del sistema sovietico. Il Partito Operaio Ungherese durante tutti gli anni della guerra in Jugoslavia ha condannato le operazioni belliche degli USA, della UE e della NATO, ponendosi apertamente al fianco della Jugoslavia, del governo jugoslavo, del presidente Milosevic.

Il Partito Operaio è stata l’unica forza politica ungherese a sostenere i rapporti a livello superiore con la Jugoslavia.

Non eravamo d’accordo con tutta la politica interna di Milosevic, però la Jugoslavia è stata vittima di un’aggressione e l’organizzatore della resistenza contro l’aggressione era Milosevic.

Il Partito Operaio Ungherese condannava e condanna i piani militari americani indirizzati contro la Siria. Sosteniamo il popolo siriano, la Siria e sosteniamo il presidente Bashar al Assad, perché sappiamo che rappresenta la Siria indipendente e antimperialista. Per questo gli USA fanno di tutto per rovesciarlo.

Com’è noto nel 1914 i partiti del movimento operaio non riuscirono a impedire la guerra. I socialdemocratici galleggiarono sull’onda del nazionalismo. Il movimento comunista non riuscì a impedire la guerra contro la Jugoslavia nel 1999. Perché? Per il fatto che molti cavalcarono e cavalcano l’onda del nazionalismo, rifiutano l’approccio di classe e cedono alla demagogia liberal-democratica.

Che il passato sia d’insegnamento per noi.

Note:

[1] http://mandiner.hu/cikk/20130613_vilaghaboru_trianon_mennyi_mindent_vesztettunk
[2] http://www.atv.hu/videok/video-
[3] http://mandiner.hu/cikk/20130613_vilaghaboru_trianon_mennyi_mindent_vesztettunk
[4] «Izvestiya dei Soviet dei deputati dei lavoratori dell’URSS» 19 febbraio 1947. Numero 42. L’Accordo di Pace di Parigi con l’Ungheria del 1947.

* * * * *

Commento
dei rappresentanti del “Kommounistiki Epitheorisi” (KKE) nel comitato di redazione della ICR sull’articolo “La guerra imperialista, la pace imperialista: la prima guerra mondiale e il trattato del Trianon alla luce di oggi” presentato dal Partito dei Lavoratori Ungherese

Questo articolo affronta la questione delle conseguenze disastrose per il paese e per il popolo ungherese scaturite dalle ambizioni della classe borghese di rafforzare la propria posizione negli affari mondiali, partecipando alla 1° guerra mondiale come parte dell’Impero Austro-Ungarico. Tratta anche degli obiettivi attuali delle principali forze politiche borghesi dell’Ungheria, in occasione della ricorrenza della 1° guerra mondiale, che mirano a ingannare i lavoratori e giustificare storicamente le scelte di allora della classe borghese, nonostante le conseguenze catastrofiche.

Pur concordando nelle valutazioni di base di questo articolo, vorremmo richiamare l’attenzione su alcuni aspetti:
Gli autori dell’articolo asseriscono che gli Stati Uniti “mirano ad annientare totalmente il movimento comunista, assoggettare la Russia e la Cina. Vogliono imporre in tutto il mondo, attraverso una guerra di civiltà, il dominio della civiltà giudaico-cristiana. Con il pretesto della guerra al terrorismo si muovono contro tutti coloro il cui comportamento differisce da quello voluto dagli Stati Uniti.”

A nostro avviso, gli Stati Uniti usano realmente argomentazioni come “il ripristino della democrazia”, “la lotta contro il terrorismo” al fine di promuovere i propri interessi geopolitici. Del resto non sono soli (ci sono altre potenze che seguono questa linea, come l’UE ecc). Tuttavia, il movimento comunista non può accettare il punto di vista dello “scontro di civiltà” e della ricerca del predominio della “civiltà giudaico-cristiana” su altre civiltà, visto che lo scontro di civiltà è un costrutto ideologico diventato molto di moda dopo la pubblicazione del libro di Samuel Huntington. Questo professore di Harvard nel suo libro “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, riporta un punto di vista estremamente reazionario. Tale analisi della situazione nasconde l’elemento principale, il rapporto tra economia e politica e in questo modo cela le contraddizioni reali che governano la realtà imperialista contemporanea, sia la contraddizione principale tra capitale e lavoro, nonché le cause delle contraddizioni inter-imperialistiche, intenzionalmente nascoste non con lo scopo di imporre alcuni valori culturali, ma con lo scopo di servire la redditività dei monopoli, in lotta per le quote di mercato, le vie di trasporto, le risorse energetiche, ecc

Inoltre, non possiamo essere d’accordo con la valutazione di questo articolo che “Noi comunisti non possiamo equiparare l’aggressore con la vittima dell’aggressione. Non possiamo dire che entrambe le parti siano in torto, che entrambe le parti debbano fare concessioni”. E questo perché la guerra imperialista coinvolge entrambe le parti, sia quella dell’aggressore che dell’aggredito che conducono una ingiusta guerra imperialista. Se, per esempio, la Grecia è oggetto di un attacco militare ed è coinvolta in una guerra, la classe borghese della Grecia sarà responsabile per l’attacco imperialista, perché questa guerra sarà la continuazione della sua partecipazione politica nella divisione dei mercati, delle risorse energetiche, ecc, della sua partecipazione attiva nelle alleanze e negli interventi politico-militari della NATO e dell’UE, avvenute in “tempo di pace”. Di conseguenza, se una guerra è giusta o ingiusta non dipende dal fatto che sia una guerra di difesa o di attacco (in termini letterali), ma dalla linea politica da cui discende: “La domanda non è: Chi è stato il primo ad attaccare, ma: Quali sono le cause della guerra? Quali sono i suoi obiettivi? Quali classi la stanno conducendo”? (V.I. Lenin.Lettera aperta a Boris Souvarine.)

Infine, si sottolinea nell’articolo che ” Sosteniamo la nazione siriana, la Siria e il presidente Bashar al-Assad, perché sappiamo che incarnano la Siria indipendente e antimperialista e che gli Stati Uniti fanno di tutto per rovesciarla”. La nostra valutazione è che le cause della guerra in Siria sono più complesse. Non entriamo in merito perché lo abbiamo già fatto nel nostro articolo pubblicato in questo numero della ICR. Riteniamo che il movimento comunista deve avere una propria strategia autonoma che non deve identificarsi con la strategia dei regimi borghesi, e da questo punto di vista giudichiamo che i comunisti non possano identificarsi con il governo di Assad.

Alliance Against Austerity, l’intelligenza collettiva che unirà la sinistra europea: il forum di Parigi Autore: stefano galieni da: controlacrisi.org

La prima plenaria, il sabato mattina, era incentrata su una proposta di alternativa di sviluppo in Europa che può nascere solo dal confronto nella vera sinistra. E poi workshop sulla situazione greca, sui beni comuni, sulla lotta contro la disoccupazione e la precarietà, la scuola, il contrasto all’evasione fiscale. E poi le mille possibilità che da sinistra possono nascere per costruire una Europa diversa, alternativa a quella in mano ai poteri finanziari, in cui i temi da portare a valore siano il diritto al lavoro, al reddito, alla cittadinanza sostanziale, la libertà di movimento per i migranti e una stampa libera non sottomessa a pochi gruppi oligarchici. Impossibile stilare un elenco completo dei temi trattati, dalla lotta alla corruzione alla necessità di una nutrizione sana (altro che Expo), dalla necessità di pace e di una cultura della pace, alla democratizzazione del sistema bancario, alle lotte per i diritti Lgbt.

La serata di sabato si è conclusa con un concerto in piazza, la domenica, fra due plenarie si sono tenuti incontri che rilanciavano in maniera ancora più precisa l’idea che in questo mondo, di cui anche una parte della sinistra italiana è parte, possano nascere proposte credibili con cui essere nel conflitto determinato dalla crisi. La necessità di continuare a combattere il TTIP, la realizzazione di strumenti di comunicazione alternativi, la questione del debito con cui si strangolano soprattutto i paesi mediterranei, le lotte delle donne e l’urgenza di contrastare il populismo dell’estrema destra, cosa fare per rapportarsi a quanto accade nei paesi del sud del Mediterraneo e in Ucraina, come combattere ogni tipo di razzismo e come pensare il lavoro per il ventunesimo secolo.

La plenaria finale, organizzata per celebrare la vittoria di Syriza ma attenta anche a quanto pochi giorni prima era accaduto in Spagna, è stata occasione non formale per ribadire anche i punti di criticità che ancora si vivono nella Sinistra Europea. La necessità di praticare le lotte e di porsi obbiettivi ambiziosi non relegati al proprio singolo contesto statuale, quella altrettanto stringente di non pensare a modelli vincenti ed esportabili tout court ma di costruire tenendo conto delle similitudini e delle specificità di ogni singolo contesto, il bisogno di affrontare il confronto a viso aperto, senza politicismi o margini di ambiguità in una situazione in cui anche ciò che resta delle speranze che si definiscono “socialdemocratiche” sono ormai totalmente asservite al neoliberismo. Si è trattato, come nei dibattiti tematici, di una discussione franca e scevra da formalismi, a tratti anche ruvida ma importante.

Si respirava, ascoltando le persone, girando nella piazza fra un caffè e una birra, un volantino e un intervento, la voglia di costruire intelligenza collettiva, di non fermarsi a misurare le distanze che separavano ogni singola esperienza ma a volerle far comunicare e valorizzare. Un clima di fiducia contagioso che si diffondeva in un pubblico intergerenazionale, plurilingue, prodotto della frammentazione di diverse culture, quella comunista, socialista, ambientalista o semplicemente di chi si ritrova da una parte della barricata perché individuava in quel campo un referente fondamentale per la difesa dei diritti di tutte e di tutti.

Rappresentativa la presenza di Rifondazione Comunista, dal segretario Paolo Ferrero all’europarlamentare Eleonora Forenza, dalla responsabile lavoro Roberta Fantozzi al responsabile esteri Fabio Amato, fino a chi scrive. Le platee hanno riconosciuto al lavoro faticoso e duro del nostro partito una importanza enorme. Maite Mola, Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea, nel suo intervento finale ci ha tenuto a ringraziare l’Italia per l’affermazione della lista L’Altra Europa con Tsipras di cui Rifondazione è stata ed è tuttora elemento imprescindibile. Un riconoscimento esplicitamente legato al fatto che non può esserci una Sinistra rappresentativa del vecchio continente se non rappresentata anche dall’Italia, non solo per la sua storia passata ma per quanto sta avvenendo nel presente.

Il Forum si è chiuso con un appello a sostegno di Syriza e del popolo greco, oggi più che mai punto nodale di resistenza contro una Troika che vorrebbe impedire che si propagassero gli effetti salutari delle politiche del nuovo governo. La sconfitta dell’austerity passa per Atene e quando il 20 giugno la Grecia intera si ritroverà in piazza per respingere l’attacco imposto dalle istituzioni finanziarie europee e dai lacci della Commissione, non dovrà essere lasciata da sola. E combattere l’austerità anche nel proprio paese è quello che ci chiedono anche i compagni greci. Il materiale emerso dal forum è comunque reperibile per intero su http://www.forum-des-alternatives.eu/ e http://www.european-left.org/

“Coalizione sociale per costruire cultura della partecipazione”. Al via la due giorni a Roma Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Ha preso il via, oggi, con la Costituente, il cammino della Coalizione sociale, il progetto lanciato dal leader della Fiom, Maurizio Landini, che non si propone come nuovo partito politico ma punta ad andare “oltre i recinti” e a fare azioni sul territorio. Una galassia di associazioni, movimenti, comitati e liberi cittadini sono stati chiamati a raccolta e si confronteranno, oggi e domani, al centro congressi di Via Frentani, a Roma, per dare vita a un nuovo soggetto che possa dare risposta ai problemi delle persone, ovvero garantire il diritto al lavoro, alla casa, alla salute e all’istruzione.”Oggi inizia un percorso che ha come obiettivo di unire tutto cio’ che e’ diviso e rimettere al centro il lavoro, un’idea diversa di sviluppo e sostenibilita’ ambientale, la questione del sapere e della conoscenza. Un percorso che proseguira’ con tante azioni sul territorio”, ha spiegato Landini a margine dei lavori della Costituente. La coalizione sociale, ha osservato, “ancora non esiste” e cosa divenetera’ “lo decideranno le persone”. Ma ha messo in guardia: “Dentro i recinti noi ci stiamo”. Il nuovo progetto, ha spiegato”, non e’ racchiudibile dentro la dimensione destra, sinistra o centro, e’ un’altra cosa. Noi parliamo alle persone e saranno le persone che decideranno”.
E a chi come Nichi vendola gli strizza l’occhio per arrivare a costruire a sinistra un’alternativa a Renzi, Landini ha risposto: “Lo faccia pure, ci fa piacere, ma noi siamo un’altra cosa”. La coalizione sociale, ha ribadito, “e’ nata fuori dai partiti”. “In un paese in cui il 50% delle persone non va a votare – ha sottolineato – c’e’ una crisi di democrazia, le persone non si sentono rappresentate. Per poter cambiare il paese democraticamente ci vuole la partecipazione e il nostro obiettivo e’ ricostruire una cultura della partecipazione con dei contenuti che affermino il diritto al lavoro, alla casa, alla salute, che affermino la giustizia sociale”. “Non ci siamo messi d’accordo con nessuno – ha proseguito Landini – stiamo con coraggio affrontando i problemi delle persone che sono divise tra di loro, e cosi’ sta vincendo la finanza, l’ingiustizia e sta arretrando la democrazia”. La coalizione sociale, ha concluso, “esistera’ se ci saranno tante coalizioni sociali e tante pratiche sociali sui territori”.
All’assemblea hanno aderito oltre 60 soggetti tra associazioni, movimenti, sindacati. Quattro le aree tematiche: ‘Saperi e conoscenza’, ‘Economia, Politiche industriali, Cambiamenti climatici’, ‘Unions’ e ‘Rigenerare le citta”. Domani la due giorni si concludera’ con una grande plenaria in cui prendera’ la parola Landini.