23 ANNI DALLA STRAGE DI CAPACI MANTENIAMO VIVA LA MEMORIA SU FALCONE, BORSELLINO E TUTTE LE VITTIME DELLA MAFIA! Sabato 23 Maggio alle ore 20.00 davanti al Palazzo di Giustizia in Piazza Verga.

23 ANNI DALLA STRAGE DI CAPACI
MANTENIAMO VIVA LA MEMORIA SU FALCONE, BORSELLINO E TUTTE LE VITTIME DELLA MAFIA!

Sabato 23 Maggio alle ore 20.00 davanti al Palazzo di Giustizia in Piazza Verga.

Come ogni anno, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, CittàInsieme con tanti gruppi di Cittadini attivi a Catania, organizza un momento di incontro fatto di parole, note e immagini per non dimenticare i nomi di chi ha sacrificato la propria vita e di chi oggi continua a denunciare e combattere i fenomeni mafiosi, per il bene di tutti, per difendere valori imprescindibili per la civile convivenza come la legalità ed il rispetto delle regole.

La commemorazione sarà animata da CittàInsieme Giovani, con la partecipazione della giovane band catanese The Acoustic Sunlight e della coverband Legendary Sounds.

“Dalla storia… alla soluzione!”. Un momento insieme tra musica, memoria e attualità.

Saranno presenti, anche con striscioni e banchetti informativi, numerose Associazioni e gruppi di impegno civile e antimafia operanti nel territorio catanese. Hanno già dato la loro adesione: ADDIOPIZZO Catania, ALVEARE. Progetto per una democrazia responsabile, l’A.N.P.I. di Catania, le associazioni antiracket AS.A.A.E. ed ASAEC, i ragazzi di ATLAS, la Cooperativa “BEPPE MONTANA”, il Comitato Popolare ANTICO CORSO e Cittadini Attivi SAN BERILLO, i BRIGANTI RUGBY LIBRINO, CGIL Catania, l’associazione di volontariato CIVES PRO CIVITATE, la Chiesa SS. CROCIFISSO DEI MIRACOLI, l’Associazione Naturalistica e Culturale ETNA ‘NGENIOUSA, la FONDAZIONE FAVA, i volontari di GREENPEACE Gruppo locale di Catania, SICILIANI GIOVANI, i giovani del LEO CLUB Catania Gioeni, LE SICILIANE/CASABLANCA-Storie dalle città di frontiera, LIBERA (Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), MANI TESE Sicilia, l’Associazione di cultura e volontariato NUOVA ACROPOLI, OPEN MIND glbt, il Punto Pace PAX CHRISTI di Catania, il COMITATO PORTO DEL SOLE, RABBUNì, l’associazione antimafie RITA ATRIA, gli Scout di Catania dell’AGESCI Zona Etnea Liotru, l’Associazione TALITA’ KUM di Librino, YOUTHUB CATANIA, i volontari del WWF Catania. Si ringrazia anche il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali UNICT-Modulo JEAN MONNET (Politiche europee sulla lotta alla criminalità organizzata) … (per aderire scrivere a 23maggio@cittainsieme.it)

Tutti i cittadini sono invitati, in particolare i giovani, le famiglie, gli educatori, le scuole le quali possono testimoniare la loro presenza anche portando striscioni o lavori compiuti sul tema della legalità dagli studenti nel corso dell’anno scolastico.

LA MANIFESTAZIONE SARA’ PRECEDUTA:
– ALLE ORE 16 da un incontro, presso l’Aula Magna dell’I.T.C. De Felice in Piazza Roma, con Alessia Pusante (coordinamento regionale di Legambiente-scuola e formazione), Mimmo Fontana (Presidente regionale di Legambiente) e Raffaella Vinciguerra (Magistrato della Procura della Repubblica di Catania) per parlare di “Ecomafia”.
– ALLE ORE 19 da una “marcia antimafia” organizzata dagli Scout di Catania dell’AGESCI Zona Etnea Liotru con PARTENZA DA PIAZZA ROMA e arrivo alle 19.45 in Piazza Verga.

I volantini sono scaricabili dal sito www.cittainsieme.it
*
“Ragionate, siate consapevoli, partecipi, lottate per la verità e per la giustizia, perché solo così si può diventare consapevoli che l’unica possibilità di sconfitta definitiva della Mafia e della sua mentalità, passa dal vostro impegno, dalla vostra capacità di indignazione e reazione, dal vostro appassionarsi ad un tema che riguarda tutti noi, che riguarda il nostro passato, presente e futuro”.giovanni_falcone

Lo Voi Procuratore di Palermo: annullata la nomina al Tar da: antimafia duemila

lo-voi-redAccolto il ricorso di Lari e Lo Forte
di Aaron Pettinari – 21 maggio 2015
La nomina del Procuratore capo di Palermo,Francesco Lo Voi, da parte del Csm, è stata annullata. La prima sezione quater delTar del Lazio ha accolto il ricorso presentato dai procuratori Sergio Lari(Caltanissetta) e Guido Lo Forte(Messina). Per i giudici amministrativi il Csm aveva “l’onere della motivazione rafforzata” riguardo la scelta di Francesco Lo Voi a capo della Procura di Palermo. Per il Tar infatti la “delibera di nomina non supera il vaglio di legittimità apparendo la motivazione del giudizio di prevalenza (di Lo Voi, ndr) non coerente rispetto agli indici di valutazione del parametro attitudinale”. In sostanza per il Tar la prevalenza del nome di Lo Voi sugli altri due, decisa dal Csm, non sarebbe in linea con la valutazione dei parametri che attestano l’attitudine dei candidati a ricoprire il ruolo apicale di una Procura. Inoltre il Csm è stato condannato a pagare le spese di giudizio per complessivi 3000 euro.
La sentenza del Tar apre un nuovo capitolo su una vicenda tutt’altro che conclusa. Infatti, sebbene fosse esecutiva, può essere sospesa dal Consiglio di Stato a richiesta della parte soccombente. Se fosse accolta la richiesta di sospensiva, Lo Voi resterebbe al suo posto in attesa che sulla questione si pronunci il Consiglio di Stato che potrebbe confermare o annullare il pronunciamento del Tribunale amministrativo. In caso di conferma la parola passerebbe al Csm che dovrebbe rivalutare la posizione dei tre candidati anche alla luce dei principi indicati dai giudici amministrativi.

Un ricorso di principio
A prescindere dal destino e dalle decisioni che verranno prese il ricorso presentato dagli altri due candidati, leggendo anche il Testo Unico sulla Dirigenza Giudiziaria il Consiglio Superiore della magistratura, era più che legittimo. Nel testo infatti si danno una serie di criteri di valutazione dei candidati che vanno dal merito alle attitudini di ogni singoli. Anche il dato esperienziale è destinato ad avere un peso specifico in queste valutazioni, ovvero, in base a quanto scritto nel testo, “una maggiore esperienza professionale, purché strettamente collegata a positive valutazioni sul piano delle attitudini e del merito, segnala che il magistrato ha maturato una capacità professionale ed un profilo attitudinale peculiari, che gli consentono di affrontare con maggiore sollecitudine ed in termini più adeguati le problematiche relative alla conduzione e gestione di un ufficio direttivo”. Ciò significa che “sulla carta” il Csm non potrà non pesare il “curriculum” di ogni candidato. Altro elemento cardine che il Consiglio si troverà a valutare è anche l’opportunità di scegliere un Procuratore Capo in grado di svolgere quel ruolo garantendo un certo numero di “anni di servizio”.
Ed è da questo punto che si è arrivati al ricorso dopo un dibattito che da luglio scorso infiammo corridoi e segrete stanze di Palazzo dei Marescialli, e non solo. Tutto ha inizio con l’intervento diretto dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sulla nomina del successore di Messineo al vertice della Procura palermitana. Napolitano, con una missiva, chiese ai vecchi componenti di eleggere “in via prioritaria” i procuratori degli uffici giudiziari rimasti da più tempo senza titolare. Un atto in cui si chiese al Consiglio superiore della magistratura di seguire un criterio cronologico nella scelta dei nuovi procuratori con il risultato che, nonostante l’importanza dell’ufficio, la poltrona di procuratore di Palermo è finita in fondo alla lista. Il Quirinale motivò la sua richiesta con la necessità di “evitare scelte riferibili a una composizione del Csm diversa da quella del Consiglio che sta per insediarsi”. E’ così che vennero messe in naftalina la terna di nominativi che vedeva in vantaggio con tre voti Guido Lo Forte (capo della Procura di Messina) su Sergio Lari (già procuratore capo a Caltanissetta) e Franco Lo Voi (Eurojust), entrambi fermi ad un voto.
Con il nuovo Csm la situazione venne ribaltata e sulla nomina di Lo Voi, insediatosi lo scorso dicembre, non sono mancate le critiche non tanto sulla sua professionalità quanto sul criterio di scelta adottato dal Csm, sostanzialmente fondato su logiche di correnti politiche e correntizie all’interno della magistratura (Lo Voi, ex rappresentante italiano all’Aja per Eurojust, la spuntò con 13 voti, a fronte dei 7 di Lari e dei 5 di Lo Forte, per un anonima in cui pesarono soprattutto le decisioni dei laici). La sentenza del Tar del Lazio, anche se diventasse definitiva, potrebbe non cambiare lo status all’interno della Procura palermitana. Infatti la pratica tornerebbe poi al Csm che procederebbe a una nuova valutazione e finché non c’e una nomina diversa la titolarità dell’ufficio rimarrebbe invariata.
Il ricorso rappresenta poi anche una questione di principio, al riconoscimento nei confronti di due magistrati che potrebbero garantire solo per poco l’incarico di Procuratore Capo di Palermo. Il minimo per essere nominati è quello di tre anni di continuità, un requisito che sarà nei fatti disatteso al compimento dei 67 anni di età. Oltre allo “stop anagrafico”, poi potrebbero anche trovarsi altre soluzioni, magari assegnando loro altri incarichi (E’ di oggi la notizia della proposta unanime della Commissione per gli incarichi direttivi al plenum del Csm per la nomina di Sergio Lari come procuratore generale di Caltanissetta e Roberto Alfonso come Pg di Milano) ma sul Csm resterebbe comunque una “macchia” indelebile che non potrà essere dimenticata

La scuola dell’autonomia è la scuola del mercato da:www.resistenze.org – proletari resistenti – scuola – 19-05-15 – n. 544

 

SenzaTregua | senzatregua.org

16/05/2015

Con l’approvazione dei primi articoli della riforma della scuola promossa dal governo Renzi si conduce davvero a termine un ciclo ventennale di riforme della scuola. Non è semplice retorica, ma un’analisi reale dell’impatto che questa riforma ha nell’ordinamento scolastico, in relazione con le precedenti riforme ed un intero percorso di modifica del funzionamento delle scuole. Non a caso il Ministro Giannini ha scritto sul proprio profilo twitter parole chiarissime, affermando che con l’approvazione dell’art 1 della riforma della scuola «finalmente si potrà dare piena attuazione all’autonomia».

In questi anni, a partire dalla riforma Berlinguer, dei governi di centrosinistra tutte le riforme della scuola sono state orientate nella direzione dell’autonomia delle scuole, rispetto ad un sistema centralizzato. Il problema è che come spesso accade la presentazione delle riforme può apparentemente sembrare positiva. Lo stesso concetto di autonomia richiama immediatamente all’idea di maggiore efficienza rispetto agli sprechi, alle lungaggini ed inefficienze burocratiche tipiche di un sistema centralizzato, ad una maggiore aderenza alle esigenze degli studenti, alle caratteristiche specifiche del territorio, all’idea di una maggiore libertà nell’insegnamento e nella valorizzazione delle specificità e delle capacità individuali.

È su questo presupposto, che non si confronta e non parte dalla realtà obiettiva della scuola italiana e in generale del sistema nel quale questo concetto viene immerso, che in realtà non si coglie l’impatto devastante che l’autonomia scolastica ha nel sistema formativo italiano. Oggi il governo Renzi spinge alle estreme conseguenze il ragionamento iniziato da Luigi Berlinguer, e proseguito senza soluzione di continuità dalla Moratti, da Fioroni, dalla Gelmini con varie riforme più o meno attuate negli anni.

Per l’autonomia scolastica valgono gli stessi identici ragionamenti dell’economia di mercato, ossia il presupposto che nella concorrenza si raggiungano livelli migliori di servizio e di efficienza. Chi concepisce la riforma della scuola oggi, ragiona a partire da questo assunto. Le scuole in autonomia vengono di fatto messe in competizione, come se fossero imprese concorrenti per l’appunto, e non parti di un unico grande sistema nazionale finalizzato alla formazione degli studenti. Le stesse distorsioni che l’economi di mercato genera si verificheranno, ed in parte già si verificano, nelle scuole. L’idea della scuola azienda di berlusconiana memoria, che poi altro non era che la conseguenza inevitabile del concetto di autonomia immerso in un sistema economico di mercato, trova con Renzi la piena attuazione. La figura del preside-manager in questo senso è l’emblema non solo del dirigismo interno alle scuole, da oggi imperante e senza freni, ma della necessità strutturale di porre a capo della scuola-azienda una figura che operi appieno in un contesto di vero e proprio mercato. È a partire da questo ragionamento che crolla il mito dell’autonomia scolastica e si rivela in tutta la sua portata disastrosa e profondamente distorsiva rispetto all’idea di un sistema di formazione nazionale.

Il presupposto anche qui è di natura economica: lo Stato non finanzia interamente le necessità delle scuole, che devono provvedere al reperimento di fondi in modo autonomo. A farne le spese sono le famiglie – grandissime assenti dal dibattito di questi giorni, perché nessuna forza politica ha messo in rilievo il ruolo del contributo –  che pagheranno di tasca propria servizi essenziali, prima coperti dallo Stato, e tutta l’offerta formativa autonoma. Anche il dibattito sul 5×1000 – tanto per fare un esempio  –  dimostra come il governo cerchi in tutti i modi fonti alternative al finanziamento statale, che si convertono nella realtà in prospettive differenti. Dove prima c’era la certezza di un finanziamento statale, oggi c’è l’incertezza di una potenziale contribuzione volontaria, che sta sulla carta ma che non c’è nella realtà e che soprattutto si basa sui livelli di reddito differenti, e quindi sarà inevitabilmente distribuita in modo discriminatorio tra aree del paese. A risorse certe se ne sostituiscono di potenziali, alla omogeneità del finanziamento di base – garanzia di uno standard al di sotto del quale non si può scendere – si apre alla differenziazione dell’autonomia, che potrà generare livelli di eccellenza ma naturalmente anche e soprattutto livelli dequalificati. Per ogni scuola di eccellenza, quante saranno quelle dequalificate? E soprattutto quale differenziazione di classe, territoriale (la questione meridionale è una realtà amplificata dalla crisi), genererà tutto questo?

Visto che il concetto di autonomia si ispira al mercato, guardiamo ai risultati dell’economia di mercato, ossia il termine eufemistico con cui viene definito il capitalismo. Si ripete qui la stessa illusione della “concorrenza perfetta” quel meccanismo che ci propinano a reti unificate ma che in realtà non esiste, se non sui libri di testo. I magnifici risultati della concorrenza perfetta si convertono nella realtà nella disuguaglianza, nel meccanismo che genera grandi concentrazioni monopolistiche, imprese che soccombono e imprese che crescono. Tutto questo è assolutamente paragonabile a quello che accade con la scuola dell’autonomia, lì dove in concorrenza è messo il livello formativo. In questo caso le scuole probabilmente non soccomberanno in modo formale, ma il loro livello formativo sarà dequalificato.

Il dirigente scolastico potrà scegliere insegnanti, programmi formativi, stringere accordi con imprese locali alle quali affidare la formazione lavorativa e stabilire programmi di reperimento delle risorse. In sostanza l’amministratore delegato della scuola dovrà far funzionare la società. Ora però il punto è capire la missione che viene affidata alle singole scuole in autonomia, la formazione degli studenti. Sono in grado singole istituzioni scolastiche, private di qualsiasi programmazione nazionale seria, di realizzare questa funzione in concorrenza tra loro, nel mondo dell’economia di mercato? Questo è il punto dell’autonomia renziana, estrema conseguenza del concetto di autonomia scolastica. Ovviamente le scuole tecniche e professionali risulteranno più colpite, o più soggette ad influenza delle imprese reali, e con queste tutte le scuole delle periferie delle città e delle zone più difficili del Paese. Senza mai dimenticare poi che grazie al centrosinistra la scuola pubblica in Italia è composta da scuola “statale” e scuola “paritaria” che compartecipano in modo paritetico al sistema nazionale di istruzione pubblico, e che quindi possono competere liberamente, a tutto vantaggio delle scuole “paritarie” eufemismo per dire “private”.

Alle scuole si affida sulla carta la missione impossibile di modificare la realtà sociale in cui operano, con uno Stato che rema contro nel peggiore dei casi e nel migliore ostenta un interessato disinteresse, con le scuole costrette a fare da esattori di tasse dalle famiglie, e gettarsi nelle mani dei privati. Una riprova dell’ipocrisia è il tweet della Giannini sull’articolo 6 della riforma. Twitta il ministro: «Con articolo 6 #labuonascuola per istituti tecnici superiori fondi sempre più collegati a livelli occupazione diplomati». In che modo le scuole del sud Italia, ormai ridotto ad un deserto industriale, potranno riuscire ad operare in questo contesto? I livelli occupazionali di intere aree geografiche del paese possono essere attribuiti alla responsabilità delle scuole e non alle politiche imprenditoriali delle imprese, alla crisi di sistema che stiamo attraversando, alla posizione dell’Italia nel quadro economico internazionale? Quale può essere la responsabilità delle scuole di fronte alla delocalizzazione e alla perdita di posti di lavoro? È chiaro che si tratta di un meccanismo perverso che innesca una spirale che ha un’unica uscita. Una parte delle scuole, immerse nel mercato, dovranno legarsi a quelle imprese che nel mercato risultano vincenti. I sistemi scolastici collaterali ai grandi gruppi monopolistici sono i soli nell’ambito della formazione tecnica e professionale a poter garantire la sopravvivenza degli istituti scolastici, a tutto danno ovviamente dello studente/lavoratore. Alla formazione scuola/lavoro viene destinata la miseria di 100 milioni di euro a livello nazionale, ossia l’equivalente di un paio di caccia F.35.

Le sfide che un sistema d’istruzione deve affrontare oggi, specialmente di fronte alla crisi economica, pongono di fronte ad una scelta netta. Da una parte la scuola dell’autonomia, come scuola del mercato, della competizione, della netta divisione tra eccellenza per pochi e mediocrità per tanti; dall’altra l’idea di un massiccio intervento di risorse statali nel selezionare obiettivi formativi che garantiscano un sistema di istruzione qualificato per tutti, indipendentemente dalle condizioni di classe e dalle differenze territoriali che affliggono il nostro Paese. In questo contesto l’autonomia non può che essere rigettata, perché non si tramuta in una reale potenzialità migliorativa del sistema d’istruzione, ma in un suo peggioramento. Lo sviluppo di progettualità autonoma deve partire da una base di gratuità dell’istruzione e di finanziamento statale che riesca a garantire il finanziamento della scuola. Su questo presupposto, e su una pianificazione reale, a livello nazionale, badando alle necessità di ogni territorio, e con un piano specifico per le aree più difficili del Paese, a partire da questo si potrebbe sviluppare pienamente la potenzialità creatrice degli insegnanti, degli studenti e della scuola nel suo complesso, liberandola dal ricatto capitalistico della concorrenza. Ma questa prospettiva di sviluppo delle capacità e dell’interesse, che rompe burocratismi, lentezze e corruzione, non ha nulla a che vedere con l’autonomia della scuola prospettata dai governi nell’ambito di questo modello economico. È l’autonomia della compartecipazione diretta di lavoratori e studenti alla definizione di obiettivi che solo con il socialismo si potrà sviluppare. Ed è un’autonomia vincolata ad obiettivi reali e concreti, in un contesto di omogeneità e universalità, che prevede anche aree di eccellenza specifica in settori (musicali, sportivi, artistici…) ma a partire dal presupposto che tutti partano da condizioni eguali di partenza.

Una parte della sinistra e dei sindacati studenteschi ha per anni visto illusoriamente questa possibilità nell’autonomia dimenticando il contesto e l’importanza delle condizioni economiche nelle quali questo concetto viene sviluppato. L’autonomia nel capitalismo non sarà mai questo, quindi è inutile sognare ad occhi aperti, non partendo dal potere reale che le differenze economiche e sociali hanno in questo sistema. Non a caso è sulla collegialità che questa illusione cade immediatamente, perché la definizione dei ruoli e la separazione del lavoro, e con essa del potere decisionale è strutturalmente collegata alla natura economica della scuola di mercato. Il preside amministratore delegato della scuola impresa, il decisionismo della competizione, contro il modello collegiale della compartecipazione delle componenti alle decisioni delle scuole, non solo a livello di singolo istituto, ma anche negli organismi provinciali e statali di decisione.

L’autonomia scolastica è oggi un concetto da rifiutare totalmente senza nessuna illusione, dalla riforma Berlinguer alla sua estrema portata data dal governo Renzi. Rigettare l’autonomia  – e con essa il contributo scolastico –  è l’unica mossa per limitare i danni arrecati ad un sistema di istruzione che certamente meriterebbe di essere riformato, ma nella direzione esattamente opposta rispetto a quella proposta oggi da Renzi.

Il lavoro esce a pezzi dal rapporto annuale Istat. E Renzi e Padoan continuano a dire che c’è la ripresa ! Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Sette milioni di disoccupati, anzi, di senza-lavoro, aumento vertiginoso del part time, rigorosamente involontario, e fuga di cervelli che diventa sempre più intensa. Anche se i professoroni dell’Istat usano eufemismi e giri di parole, è il lavoro il capitolo che più esce con le ossa rotte dal rapporto annuale dell’Istat. Il Bel Paese presenta un quadro che dire drammatico è davvero dire poco. Ci sono contraddizioni e incoerenze del tutto evidenti,che entrano nel lessico della politica con la strana categoria della flessibilità, ma che ci parlano di un paese che nemmeno arranca più. Sembra una comunità trascinata alla deriva su una zattera all’apparenza sicura ma pronta a rovesciarsi alla prima onda atlantica. “Si ignora che siamo a tre milioni di disoccupati di lunga durata e a un tasso di disoccupazione al 12,5%. Questi sono segni che dicono che la ripresa non ha un fondamento strutturale di risoluzione del problema vero del Paese che si chiama disoccupazione”, dice Susanna Camusso, leader della Cgil.

Viene da chiedersi, ma su che statistiche i politici fanno le leggi? Una è quella che riguarda la precarietà. L’Istat certifica che la media della permanenza in un lavoro senza diritti è di cinque anni. E quindi che senso ha, come fa il Jobs act, imporre un altro tunnel afflittivo di tre anni? Misteri del renzismo. Ma non è finita. L’altro dato interessante è quello che riguarda il part time. Aumenta in modo costante. ”L’unica forma di lavoro che continua a crescere quasi ininterrottamente dall’inizio della crisi è proprio il part time”, che raggiunge 4 milioni di lavoratori nel 2014 (il 18% del totale e 784 mila in più che nel 2008). Nel 63,3% dei casi è part time involontario, un livello molto superiore alla media Ue (24,4%). Possibile che a nessuno sia venuto in mente che in realtà si tratta di lavoro nero? No! E sapete perché? Perché gli stessi professoroni dell’Istat hanno certificato che il lavoro nero è al 12,6 per cento! Ah, se lo dicono loro! A leggere questi numeri viene davvero da pensare che la matematica sia tornata ad essere una “opinione”. Va detto che qui viene esibita una valutazione molto “statistica” del lavoro, e quindi molto lontana dalla realtà. Basti pensare che prima della crisi le valutazioni comuni nelle ricerche, anche delle varie commissioni di inchiesta parlamentari, parlavano di un tasso di lavoro nero tra un quinto e un quarto del pil.

Un altro fenomeno in crescita è la ‘fuga dei cervelli’, anche se l’Istat usa la formula ‘mobilità intellettuale’. “Tre mila dottori di ricerca del 2008 e 2010 (il 12,9%) vivono abitualmente all’estero” spiega l’Istat nel rapporto annuale, sottolineando: “La mobilità verso l’estero è superiore di quasi sei punti a quella della precedente indagine (7% dei dottori di ricerca delle coorti 2004 e 2006)”. Guardando alle specializzazioni, la spinta ad andare fuori confine risulta
più forte per fisici, matematici e informatici.

“No all’Imu agricola”.Gli agricoltori di mezza Italia oggi sotto Montecitorio. (Audio Autore: fabio sebastiani) da: controlacrisi.org

I tartassati dell’Imu sui terreni agricoli si ribellano. E sono pronti a calare a Roma per far sentire le loro ragioni. Il 21 saranno sotto Montecitorio per una iniziativa pubblica di grande risonanza. Sono in tanti, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ed hanno anche l’appoggio di tanti sindaci, i tartassati dal “patto di stabilità”.
Insomma, il movimento c’è. Ed hanno una bandiera che a fianco dell’immancabile spiga di grano riporta l’effige della lettera “R”, che sta per “Rispetto”. Rispetto per il loro lavoro, rispetto di quel minimo di legalità che se da una parte viene richiesto sempre ai cittadini, quando entra in ballo l’amministrazione pubblica diventa carta straccia.
La questione non è muova. La norma sull’Imu sui terreni agricoli con l’ultimo “aggiornamento” è diventata un mostro giuridico vero e proprio. Sia perché, come al solito, produce figli e figliastri, introducendo sperequazioni inimmaginabili tra terreni confinanti che per il catasto appartengono a due comuni diversi, dove in uno c’è l’Imu e nell’altro no. Sia perché per come sono messi gli agricoltori oggi la tassa diventa una insopportabile gabella che in molti casi è il viatico per il fallimento. E poi l’immancabile ciliegina sulla torta, la legge è stata ritagliata su numeri, quelli che riguardano i rendimenti, vecchi di almeno trent’anni. Per farvi un esempio pratico, se chi aveva una coltivazione di mandarini trent’anni fa poteva considerarsi un privilegiato oggi è quasi alla fame. Insomma, per sapere di terra bisogna aver visto da vicino almeno un campo di grano. Per uno come Renzi formato negli studi televisivi di Canale 5 è una impresa anche distinguere una pianta di lattuga da un cespo di indivia. L’ex sindaco di Firenze però sembra averlo capito al volo che il testo dell’Imu sui terreni agricoli era, parole sue, “una cazzata”; solo che finora non ha fatto nulla per porvi rimedio. Risultato, a breve ci saranno le scadenze dei pagamenti, gli agricoltori si rifiutano in massa di pagare e quindi, da qui l’appoggio dei sindaci, i comuni non possono chiudere i bilanci. Questa storia è talmente caotica che non sembra, a dire la verità, il frutto di una semplice distrazione.
Gli agricoltori sono a dir poco “biliosi”. Hanno già fatto diverse iniziative soprattutto al Sud. Ma ora puntano dritti a Roma, visto che sono riusciti a concludere un solido accordo con i colleghi del centro-Italia. Tanto che oggi per fare la conferenza stampa corredata dalla proiezione di un video sono stati ospitati nella sala del Carroccio al Campidoglio.
Per adesso i trattori li tengono fermi nel garage, sottolinea Gianni Fabbris (intervista audio) (Altragricoltura), uno dei leader di questo movimento che per il momento ha deciso di chiamarsi “Su la testa”, ma sono pronti ad accenderli, come hanno già fatto altre volte.
Allora si trattava della lotta contro le requisizioni delle aziende agricole da parte degli ufficiali giudiziari e dello stato comatoso in cui si trovava, e si trova, l’agricoltura; oggi, l’Imu rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso. Anche perché la crisi morde ancora e il mercato è letteralmente in mano alla speculazione.”Le terre svuotate saranno sempre più preda di sciacalli e avventurieri della trivella facile o del business dei rifiuti”, scrivono nel loro volantino. La loro piattaforma ha due semplici punti: il ritiro dell’Imu agricola e misure, questa volta da parte delle Regioni, per le aziende in crisi.
All’interno della manifestazione del 21 maggio si terranno a Montecitorio i Consigli Comunali Congiunti di diversi comuni italiani con la partecipazione di molti sindaci e di delegazioni di agricoltori, cittadini e associazioni che, dopo aver ratificato un documento comune sottoposto al governo, “avvieranno una campagna nazionale con gesti anche clamorosi di disobbedienza istituzionale e civile”.

Pubblico impiego in attesa della Consulta sul blocco dei contratti da settanta mesi Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Secondo l’Istat, ci vogliono in media oltre 4 anni di attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto, 49,1 mesi ad aprile, in deciso aumento rispetto al 2014 (28,3). Considerando solo il settore privato l’attesa è di 31,6 mesi. Ad alzare di parecchio la media è il settore pubblico in cui i mesi sono più di 70. In attesa di rinnovo ci sono 38 contratti (di cui 15 appartenenti alla pubblica amministrazione) relativi a circa 5,4 milioni di dipendenti (di cui circa 2,9 nella p.a.). La quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 41,8% nel totale dell’economia e, restringendo l’analisi al solo settore privato, del 24,8%, in decisa diminuzione sia rispetto al mese precedente (44,4%) sia rispetto ad aprile 2014 (50,3%).

I sindacati del pubblico impiego, intanto, vanno in pressing sul Governo, forti di una scadenza ormai prossima, quella del 23 giungo, quando la Corte Costituzionale deciderà sul blocco della contrattazione che ormai prosegue da “sei anni”, denunciano le categorie di Cgil, Cisl e Uil. Il blocco ha consentito risparmi dell’ordine di un punto di Pil (16 miliardi). Dopo l’affaire pensione, che a saldo ha consentito allo Stato di prendersi un altro punto di Pil, si accendono i fari sulla Consulta e sulle ripercussioni che il suo giudizio potrebbe avere sulla finanza pubblica. Il ministro della P.A, Marianna Madia, nei giorni scorsi ha già gettato acqua sul fuoco, spiegando che c’è già una sentenza della Corte, secondo cui lo stop agli aumenti salariali è stato dichiarato legittimo purch‚ temporaneo. Ma è proprio la durata del blocco a essere messa sotto accusa dai sindacati, che chiedono all’esecutivo di non aspettare la sentenza e di “riaprire la contrattazione prima”.

Intanto, annunciano, non staranno a guardare e per il mese di giugmo sono in programma “tre grandi assemblee” che coinvolgeranno tutto il Paese, dal Nord al Sud. Insomma verrà data “continuità alla mobilitazione”. Soprattutto i sindacati stanno lavorando per mettere a punto una piattaforma unitaria, il 5 giugno è in calendario un incontro, così da presentarsi con rivendicazioni comuni davanti al datore di lavoro, lo Stato. Certo la pronuncia della Consulta non lascerà indifferenti, comunque vada a finire.
La Uil stima come di certo per le tasche del travet il blocco sia costato caro, con una perdita del “potere d’acquisto del 10,5% tra il 2010 e il 2014”. Ad avere fatto scattare l’operazione è stato uno dei ricorsi presentati dalla Confsal Unas, sigla che rappresenta i dipendenti dei ministeri.

Rodotà: «Dalla scuola all’Italicum la pedagogia del Capo mina la democrazia» Fonte: il manifestoAutore: Roberto Ciccarelli

Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»

«Fino ad oggi ci siamo con­cen­trati sul modello di orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale emerso dal com­bi­narsi dell’Italicum e della riforma del Senato – afferma Ste­fano Rodotà – La riforma della scuola appro­vata ieri alla Camera mostra un ele­mento radi­cale: l’idea che Renzi ha della società».

Pos­siamo farne un pro­filo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elet­to­rale e di quella costi­tu­zio­nale?
La scuola è la parte più impor­tante del Wel­fare tra­di­zio­nale. In un momento in cui aumen­tano disoc­cu­pa­zione e povertà si dovrebbe inve­stire sul suo ruolo di inclu­sione per impe­dire il ripro­dursi delle disu­gua­glianze. Invece la riforma disco­no­sce che la scuola sia un corpo sociale com­po­sto da sog­getti dif­fe­ren­ziati e riba­di­sce una for­tis­sima spinta verso la seg­men­ta­zione sociale. Attacca il con­tratto nazio­nale, esclude i corpi inter­medi, e in par­ti­co­lare i sin­da­cati, non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica espressa dagli inse­gnanti e dagli stu­denti che si stanno oppo­nendo. Sono gli ele­menti già emersi nel Jobs Act che ha por­tato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In que­sto modello di società non c’è spa­zio per la coe­sione sociale.

Nel Ddl scuola appro­vato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un cre­dito d’imposta al 65% per il bien­nio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, rico­no­sciuto a chi farà dona­zioni in denaro per le scuole pub­bli­che o pri­vate. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Que­sta norma è un incen­tivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pub­blico per affi­darla ai pri­vati che la gesti­ranno come meglio cre­dono. È come incen­ti­vare a farsi una pre­vi­denza pri­vata oppure una sanità privata.

Con­tra­sta con l’articolo 33 della Costi­tu­zione che pre­vede l’esistenza di scuole pri­vate «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole pari­ta­rie appro­vata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggi­rare pro­prio que­sto arti­colo. Quando l’hanno scritto, i costi­tuenti non ave­vano pre­clu­sioni ideo­lo­gi­che ma inten­de­vano rico­no­scere la prio­rità degli inve­sti­menti nella scuola pub­blica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo per­met­tere che la scuola pub­blica fun­zioni al meglio. Solo quando que­sta con­di­zione sarà sod­di­sfatta, si potrà pen­sare di dare un euro anche ai pri­vati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiun­tiva ai pri­vati. I fondi a loro desti­nati sono sot­tratti alla scuola pubblica.

È stato detto che que­sta norma rispec­chia il plu­ra­li­smo e, in più, rap­pre­senti la fine di un tabù ideo­lo­gico della sini­stra.
Altro che abbat­tere un tabù. Ne costrui­sce un altro: la distin­zione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene que­ste posi­zioni crede che il ruolo della scuola pub­blica sia in con­trap­po­si­zione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragaz­zino. Il pro­blema è un altro: la scuola pub­blica, come spa­zio pub­blico di rico­no­sci­mento e con­fronto, è irri­nun­cia­bile per­ché qui posso costi­tuirmi come cit­ta­dino. Se invece dico che ognuno può farsi la pro­pria scuola reli­giosa, etnica, ter­ri­to­riale o cul­tu­rale inne­sco un con­flitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a rico­no­scere l’altro in base alle sue diver­sità, ma un luogo dove si adem­pie una fun­zione pub­blica per un numero ten­den­zial­mente ridu­ci­bile di per­sone. Tutto que­sto è in con­flitto con l’idea di una società aperta e plu­rale dove l’uguaglianza esi­ste nella misura in cui viene rico­no­sciuta la diver­sità delle opinioni.

Crede che Renzi abbia attri­buito al «pre­side mana­ger» un’importanza para­go­na­bile alla lea­der­ship poli­tica che lui intende svol­gere in poli­tica e nello Stato?
Cer­ta­mente. È rive­la­tore di que­sto atteg­gia­mento il fatto che abbia scelto di usare la lava­gna e il ges­setto: voi siete gli sco­lari e io il mae­stro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cam­biato la sua comu­ni­ca­zione e si è messo nella posi­zione di chi parla dall’alto. È la rap­pre­sen­ta­zione tan­gi­bile della con­cen­tra­zione dei poteri nella figura del pre­si­dente del con­si­glio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole rea­liz­zare con le riforme isti­tu­zio­nali. Con que­sto dise­gno di legge Renzi tende a tra­sfe­rire que­sta visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure api­cali dei pre­sidi affida la mis­sione della scuola, quella di pro­durre buona cul­tura, ugua­glianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha defi­nito que­sta poli­tica come una «peda­go­gia del Capo».

Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di deci­dere e di ren­dere più effi­ciente la scuola.
Ma il pro­blema della respon­sa­bi­lità diri­gen­ziale non può tra­dursi nell’accentramento del potere e soprat­tutto nella pos­si­bi­lità di sele­zio­nare i docenti. È lo stesso mec­ca­ni­smo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati con­cessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per faci­li­tare le assun­zioni. In que­sto modo i diritti dei lavo­ra­tori sono stati subor­di­nati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un cen­tro di potere per gestire un isti­tuto con una logica tutta impren­di­to­riale e ad esso si subor­dina la par­te­ci­pa­zione nella scuola.

Chi si oppone a que­sta poli­tica è accu­sato di essere cor­po­ra­tivo o un relitto della sto­ria. Come si smonta que­sta reto­rica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sbu­ro­cra­tiz­za­zione della società, ma di con­cen­tra­zione del potere in una sola per­sona. Nei set­tori dove que­sto è acca­duto, ad esem­pio nelle opere pub­bli­che, sono venuti meno i mec­ca­ni­smi di con­trollo, di par­te­ci­pa­zione e tra­spa­renza. Il potere è stato usato in maniera discre­zio­nale e la cor­ru­zione si è moltiplicata.

In Ita­lia è inne­ga­bile il pro­blema della buro­cra­zia, non crede?
Ma non lo si risolve aumen­tando dise­gua­glianze e ingiu­sti­zie. Man mano che si intro­duce la logica pri­va­ti­stica e l’accentramento della gestione si inde­bo­li­scono le pos­si­bi­lità di con­trollo e di par­te­ci­pa­zione. Que­ste fun­zioni sono essen­ziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garan­tire l’inclusione sociale, non la com­pe­ti­zione tra le persone.

Per­ché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costi­tu­zione non ha pro­dotto una poli­tica capace di affron­tare la sfida di Renzi?
Si è pen­sato che, tutto som­mato, ci sarebbe stato il tempo neces­sa­rio per aggiu­stare le cose. Quando poi si sono com­presi gli effetti isti­tu­zio­nali e sociali della sua poli­tica è stato troppo tardi. La poli­tica uffi­ciale non è stata in grado di con­trap­porsi a Renzi. Que­sto vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi cri­tica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Que­sti ele­menti erano pre­senti sin dall’inizio e adesso le resi­stenze sono tar­dive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chia­ma­vano «pro­fes­so­roni», né voglio fare la parte della Cas­san­dra. Per me è un ele­mento di autocritica.

Cosa è man­cato a que­sta oppo­si­zione?
La visione alter­na­tiva di una società dove la poli­tica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire poli­tico per rie­qui­li­brare la forte con­cen­tra­zione di potere che si sta rea­liz­zando a livello isti­tu­zio­nale. La società deve ricon­qui­stare il suo ruolo nel momento in cui lo spa­zio nelle isti­tu­zioni si restringe. Rimet­tere in movi­mento que­sti mec­ca­ni­smi oggi è un pro­blema poli­tico che si devono porre anche chi sta nelle isti­tu­zioni. Non si può fare poli­tica solo attra­verso gli emen­da­menti. Quella può per­met­tere di sal­varsi l’anima solo quando si discute una legge