“Ultimo” teste al processo d’Appello Mori-Obinu da: antimafia duemila

ultimo-falco-processo-20150514di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo – 14 maggio 2015
L’allora capitano De Caprio sarà sentito oggi assieme al colonnello Giovanni Paone
Si sono conclusi ieri gli esami dei testi dell’accusa al processo d’appello Mori-Obinu che vede imputati i due ex ufficiali del Ros per non aver arrestato Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel ’95. Il processo proseguirà questo pomeriggio con le audizioni dei testi della difesa, l’allora capitano Sergio De Caprio (alias Ultimo) e il colonnello Giovanni Paone.
Quest’ultimo è stato citato dal difensore di Mori e De Donno, Basilio Milio, in merito alle modalità di gestione del confidente Luigi Ilardo a Bagheria ed in merito al materiale tecnico utilizzato in tutta la vicenda.
L’esame di “Ultimo”, invece, verterà in particolare sulle vicende che si sono verificate nell’aprile 1993 a Terme Vigliatore e che hanno portato alla mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola.
Una storia che, secondo la ricostruzione dei Pg Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, presenta diversi elementi “oscuri”.
E’ il 15 marzo del 1993 quando all’interno della pescheria di Domenico Orifici, grazie alle intercettazioni ambientali, viene registrata, senza essere identificata, la voce di un uomo. Le registrazioni proseguono e pochi giorni dopo la stessa voce fa riferimento all’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa. A svelare l’identità di tale “Zio Filippo” è Orefici che, parlando con il figlio, è diretto: “qua c’era Nitto Santapaola”. Ed ancora una volta la voce del boss catanese viene sentita il giorno successivo.
Mori, secondo la ricostruzione dell’accusa, venne informato della presenza del boss latitante dal maresciallo della sezione anticrimine di Messina Giuseppe Scibilia tanto che, così come risulta dall’agenda dello stesso Mori, il giorno successivo si recò a Catania.

Il giorno in cui si sarebbe dovuto tenere il blitz (6 aprile 1993), però, ecco che accade qualcosa di strano. Il capitano De Caprio “mentre si trovava ‘casualmente’ in transito nella zona dove era stato localizzato il giorno prima Santapaola” insieme al capitano Giuseppe De Donno e altri militari del Ros aveva individuato un uomo, scambiato per il latitante Pietro Aglieri. Così ebbe luogo un inseguimento, finito a colpi d’arma da fuoco, dell’incensurato Giacomo Fortunato Imbesi, scambiato per il boss Pietro Aglieri anche se, si legge nel documento di settembre, “non esisteva alcuna somiglianza fisica”. Altra questione riguarda poi l’irruzione armata effettuata nella villa degli Imbesi, collocata a 50 metri dal luogo dove venne individuato il nascondiglio di Santapaola, con l’impiego di militari provenienti anche da altre sedi fuori dalla Sicilia. Un’irruzione che non viene menzionata in alcun atto ufficiale salvo un verbale di perquisizione (che verrà acquisito) che non indica né il nome dei militari e in cui manca la sottoscrizione delle persone che subirono la perquisizione. Unica firma presente quella del carabiniere Pinuccio Calvi con quest’ultimo che, sentito dagli inquirenti, ha dichiarato che la propria firma è stata falsificata. Non solo. Quei militari del Ros che quel giorno risultavano presenti hanno affermato “di non avere partecipato all’irruzione armata e di non sapere chi fossero gli uomini che l’avevano eseguita”. Ovviamente, a seguito dell’irruzione nella villa, “Santapaola non si recò più nel luogo dove era stato intercettato”.

La guerra di Mimmo in cima alla gru contro il potere di Marchionne. “Aspetto Renzi, mi deve delle risposte” Autore: fabio sebastiani

Quarta notte di protesta per Mimmo Mignano, arrampicato su una gru dei cantieri della metropolitana di Napoli. Mimmo protesta contro il suo licenziamento e quello di altri quattro colleghi da parte della Fiat di Pomigliano, avvenuto nel giugno dello scorso anno, ma anche contro le lungaggini della giustizia che rischiano di allungare il calvario delle tute blu messe fuori dall’azienda perché avevano reso palese il loro dissenso dalla “linea Marchionne”.
Solidarietà a Mimmo è stata portata nel pomeriggio anche da Daniele Sepe, che con il suo sassofono ha intonato un ”Bella ciao” (video), tra i manifestanti in presidio a sostegno dell’operaio. Lui ha ribadito che resterà su quella gru fino al 16 maggio, giorno in cui è previsto il taglio del nastro della stazione della metro da parte del premier Matteo Renzi.
”Sto ammirando i lavori da quassù – spiega in un video Mimmo – è tutto molto bello. Ma oltre tanta bellezza c’è solo la precarietà: vorrei fare a Renzi qualche domanda, a partire dalla disoccupazione, la precarietà, la giustizia, la scuola. Vorrei sapere da lui se è giusto che centinaia di lavoratori licenziati sono costretti ad attendere i tempi del tribunale di Nola che, per mancanza di personale, rinvia cause, e costringe ad aspettare una sentenza per anni, sebbene la legge preveda che una causa per licenziamento debba essere discussa entro 40 giorni dal provvedimento: noi cinque siamo in attesa da 11 mesi. E ancora vorrei chiedergli se sa che Fca, nonostante i proclami, ha ancora migliaia di persone fuori dal ciclo produttivo costrette a vivere con 700 euro al mese”.
Mignano è stato licenziato lo scorso giugno, insieme ad altri quattro operai del reparto logistico Fca di Nola, per una protesta ritenuta offensiva dall’azienda: i cinque simularono il suicidio di Marchionne con un manichino impiccato ad una forca, nel giorno dei funerali di una cassaintegrata, suicidatasi nella sua abitazione, e ritrovata quattro giorni dopo. Il licenziamento di Mignano fu ”subordinato” alla reintegra del lavoratore al proprio posto di lavoro: il 49enne, infatti, era in attesa di discutere un’altra causa di licenziamento per un’altra protesta avvenuta anni prima. Il licenziamento divenne effettivo dopo il reintegro deciso dal tribunale di Nola a luglio successivo.

“Con la scusa del terrorismo ci tolgono i diritti”. Rodotà denuncia la deriva europea Fonte: L’Espresso Autore: Antonio Rossano

È dal giugno del 2013, quando Il The Washington Post ed il The Guardian pubblicarono le rivelazioni di Edward Snowden sulle attività di intercettazione e sorveglianza a tappeto messe in atto dalla Nsa, che il termine “sorveglianza di massa” è entrato nella discussione pubblica e nella consapevolezza collettiva.

Se da un lato è proprio di questi ultimi giorni la notizia che una Corte Federale di New York ha dichiarato “illegali” queste attività di sorveglianza, dall’altro, proprio in Europa, dopo gli attentati terroristici di Parigi, i governi di Francia e Spagna, sostenuti dai rispettivi parlamenti, hanno avviato un’attività di legiferazione mirata a censurare la libertà di espressione e ad attivare meccanismi giuridici e tecnologici volti a controllare massivamente i cittadini e le loro comunicazioni.

Con grave pericolo per la democrazia di quei paesi. Ma anche con il timore che quella che sta diventando una vera e propria deriva autoritaria, possa espandersi ad altri paesi del vecchio continente o comunque minarne l’integrità e la fragile unità istituzionale.

Per Stefano Rodotà è un momento di importante verifica della tenuta delle istituzioni ed ordinamenti europei da cui potrebbe nascere, sul piano della democrazia, un’Europa a due velocità.

Professor Rodotà, in Francia e Spagna la democrazia e la libertà di espressione sembrano a rischio. Cosa sta accadendo nel cuore dell’Europa?

Sta accadendo, e non è la prima volta, che utilizzando come argomento, o meglio, come pretesto, fatti riguardanti il terrorismo o la criminalità organizzata si dice “l’unico modo per tutelare la sicurezza è quello di diminuire le garanzie e di aumentare le possibilità di controllo che le tecnologie rendono sempre più possibile”. E questo è sempre avvenuto, è avvenuto in particolare dopo l’11 settembre, vicenda che ho vissuto in prima persona perché all’epoca presiedevo i garanti europei e ho avuto una serie di contatti continui con gli Stati Uniti che chiedevano un’infinità di informazioni da parte dell’Europa, cui abbiamo in parte resistito. Questa volta si tratta di una spinta molto interna. Però mi consenta di fare una notazione perché in questi anni si è parlato infinite volte di “morte della privacy”: questa è una vecchia storia, perché già negli anni ’90 l’amministratore delegato di Sun Microsistems Scott McNealy diceva , riferendosi alla potenza della tecnologia: “Voi avete zero privacy, rassegnatevi”. La verità è che il rischio non viene dalla tecnologia, viene dalla politica, dalla pretesa di una politica autoritaria di usare tutte le occasioni per poter aumentare il controllo sui cittadini. Controllo di massa, non controllo mirato. Politica in senso lato. Perché sono i governi, le agenzie governative di sicurezza che in questo modo cercano di impadronirsi della maggior quantità di potere possibile.

C’è un “pericolo democrazia”?

Questo momento rappresenta un passaggio istituzionale importante, vi è una prepotenza governativa, rispetto alla quale i parlamenti non se la sentono di resistere: tanto in Spagna quanto in Francia, in sostanza c’è una accettazione sia della maggioranza che dell’opposizione. In Francia addirittura l’iniziativa è di un governo socialista, anche se sappiamo chi è Manuel Valls e perché è stato scelto. Tutto questo sta spostando l’attenzione e le garanzie nella direzione degli organismi di controllo giurisdizionali, cioè gli organismi che vegliano sulla legittimità di queste leggi dal punto di vista del rispetto delle garanzie costituzionali. Che sono le Corti Costituzionali in Europa e negli Stati Uniti le Corti Federali. Non vorrei che si dicesse “Eh cari miei voi la privacy l’avete già perduta perché la tecnologia in ogni momento vi segue e vi controlla”, perché la verità è che l’attentato ai diritti fondamentali legati alle informazioni viene dalla politica e questo è il punto. Non è la tecnologia.

La motivazione che viene proposta dai governi è sempre di voler individuare i criminali, non spiare i cittadini e con la tecnologia è possibile farlo…

Non tutto ciò che è tecnologicamente possibile è politicamente ammissibile e giuridicamente accettabile. C’è un momento in cui la politica si deve assumere le sue responsabilità e non può dire “ma la tecnologia già rende disponibile tutto questo”. La legge spagnola e la legge francese mettono radicalmente in discussione la libertà di manifestazione del pensiero. Finora commettere un reato nell’accesso ad un sito era previsto solo per la pedopornografia. Adesso in Spagna è previsto “l’indottrinamento passivo”: il semplice fatto che io vada su un certo sito può essere reato. D’altro canto, nella norma francese in discussione si è introdotta la possibilità di mettere in rete strumenti che consentono di seguire continuamente l’attività delle persone. Nella legge francese si usa addirittura l’espressione “boîtes noires” per definire dei congegni che riducono le persone ad oggetti, utilizzando un apparato tecnologico per verificarne minuto per minuto, il comportamento. E qui c’è una trasformazione stessa del senso della persona, della sua autonomia, del suo vivere libero. La Germania ha stabilito che non è possibile farlo, esiste una privacy dell’apparato tecnologico che si utilizza, estendendo l’idea di privacy dalla persona alla strumentazione di cui si serve. Inoltre, relativamente alla possibilità di entrare all’interno dell’apparato tecnologico dell’utente, che è una delle ipotesi al vaglio del legislatore, la Corte costituzionale tedesca recentemente ed ancor più recentemente la Corte Suprema degli Stati Uniti hanno affermato che non è legittimo. Se la Francia porta avanti questa discussione e la Germania resta ferma sui principi enunciati dalla sua Corte Costituzionale allora avremo nuovamente un’Europa a due velocità, dove i cittadini francesi perdono velocità, perdendo diritti.

Ma ormai forniamo, consapevolmente o meno, i nostri dati ovunque, in rete. Non è già andata perduta la nostra privacy?

Io so che se uso la carta di credito in quel momento sono localizzato, viene individuato che tipo di transazione viene effettuata e quindi si sa qualcosa sui miei gusti, sulle mie disponibilità finanziarie e così via. Però questo argomento non giustifica il fatto che poi, la conseguenziale raccolta delle informazioni implichi che chiunque se ne possa impadronire impunemente. Anzi il problema di uno stato democratico è quello di rendere compatibile la tecnologia con la democrazia. È questo il punto. Uno stato che dice di voler mantenere il suo carattere democratico non dice “visto che ho una tecnologia disponibile la uso in ogni caso”. Il problema ulteriore è che si sta determinando un’alleanza di fatto tra soggetti che trattano i dati per ragioni economiche e agenzie di sicurezza che li trattano per finalità di controllo. Perché, dopo l’11 settembre in particolare, l’accesso ai dati raccolti dalle grandi società da parte dei servizi di intelligence c’era e c’è stato solo l’accenno a qualche timida reazione, ad esempio, da parte di Google. Sappiamo che in quel momento si sedettero allo stesso tavolo gli “Over the Top” (intendendo con questo termine le grandi multinazionali dell’ICT – ndr) ed i responsabili delle agenzie di sicurezza.

Ma oltre la questione giuridica vi è la necessità di una maggiore consapevolezza degli utenti, che si rendano conto anche di cosa accade, di come sono gestiti i propri dati che capiscano l’uso che ne viene fatto…

Assolutamente d’accordo. C’è un grande problema culturale. È un problema che investe il sistema dell’istruzione ed il sistema dei media. Molte delle sentenze che ho citato, infatti, provengono da richieste di semplici cittadini o di associazioni che hanno portato davanti alle corti questi comportamenti. Quindi non c’è dubbio che oggi il problema, in largo senso, della “consapevolezza civile” è un problema fondamentale. I cittadini non sanno ad esempio, che possono rivolgersi persino al ministero dell’Interno per sapere se vi sono trattamenti in corso sul proprio conto. Addirittura in Italia, tramite il Garante, il cittadino in alcuni casi può accedere ai dati trattati dai servizi di intelligence che lo riguardano.

Pensioni, Renzi opta per l’elemosina. Pronta la class action di Codacon. Prc: “Restituzione fino a 5.000 euro” Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Su scuola e pensioni il premier Renzi è costretto a registrare due segni “meno”. Il modo peggiore di imboccare la campagna elettorale per le regionali ormai in pieno svolgimento. Questa mattina ha provato a spiegare agli italiani dai microfoni di “Radio Anch’io” che verranno restituiti solo una parte dei soldi, appena un quinto con molta probabilità. “Stiamo studiando come fare a rispettare la sentenza e, contemporaneamente, l’esigenza di bilancio, sapendo che questi soldi, purtroppo, non andranno – ha precisato il presidente del Consiglio – ai pensionati che prendono 700 euro al mese”.
“Sulle pensioni si prepara l’ennesimo furto da parte del governo. Renzi sta per disattendere la sentenza della Consulta, ormai e’ evidente. Cosi’ come e’ acclarato che il premier e’ l’ennesimo cicisbeo di madama Merkel messo a Palazzo Chigi per ottemperare ai diktat dell’austerity”, tuonano i deputati M5S. I sindacati preferiscono tenere un profilo un po’ più basso. E si capisce perché. La sentenza della Consulta potrebbe essere l’occasione per riaprire un tavolo sulla legge Fornero, come vhiedono da tempo. “Va messa mano alla riforma Fornero per risolvere tante ingiustizie e sulle pensioni la sentenza della Corte deve essere applicata. Anche nella riforma della scuola non vi e’ traccia di un sistema duale efficace”, ha detto a Bolzano il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso a margine del convegno sulle strategie sindacali nell’era della globalizzazione. Per Paolo Ferrero, segretario del Prc, sulle pensioni “serve una scelta chiara: il governo restituisca interamente il maltolto fino a 5000 euro, che deve diventare il tetto massimo per le pensioni”. “In Italia occorre infatti abolire le pensioni d’oro superiori a 5.000 euro al mese – aggiunge Ferrero – così come occorre fare una tassa sulle grandi ricchezze per finanziare il reddito minimo”.
Intanto, il Codacons, l’associazione dei consumatori, punta dritto alla Class Action, a partire da Calabria ed Emilia Romana. L’associazione ha reso noto di avere pubblicato sul suo sito http://www.codacons.it la diffida che i pensionati possono scaricare ed inviare all’Inps. Con questa diffida si chiede di “porre in essere tutti gli adempimenti necessari alla rideterminazione e aggiornamento delle pensioni, cosi’ come mensilmente erogate, secondo l’impianto normativo stabilito dalla normativa in vigore alla data di caducazione della norma censurata con sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale e quindi alla sostanziale rivalutazione e adeguamento dei trattamenti pensionistici in base alla disciplina precedente secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448; altresi’, alla corresponsione, a far tempo dal 1 gennaio 2012, degli arretrati maturati in forza della predetta sentenza n. 70/2015 Corte Cost. nell’importo complessivo maturato fino all’effettivo soddisfo”.