Il magistrato nel mirino di uno dei mafiosi più feroci della Sicilia. “Il piccolo corre un rischio altissimo”: ora vive blindato di Alessandra Ziniti – 14 maggio 2015
A scuola con la scorta. E anche al parco, in palestra, a casa degli amichetti. Non con la blindata del papà (che come spesso accade ai tanti magistrati sotto tutela la mattina accompagnano i figli a scuola per condividere con loro almeno un momento di quotidianità) ma con la macchina che il comitato ordine e sicurezza ha assegnato proprio a lui, un bambino di nove anni, che un boss di una cosca tra le più sanguinarie della Sicilia vorrebbe far saltare in aria insieme al padre, pm di una Direzione distrettuale antimafia siciliana da molti anni in prima linea nella lotta alle cosche.
«Si deve fare, chiunque c’è con lui e se c’è il figlio maschio meglio. Mancu la semenza ave a ristari (neanche il seme deve rimanere, ndr) ». È con una inaudita ferocia che il boss avrebbe emesso la sentenza di morte contro il magistrato che ha sventato il suo diabolico piano di accreditarsi come pentito per evitare un nuovo arresto. E così Lucio (nome di fantasia per tutelare la privacy di un bambino la cui storia abbiamo scelto di raccontare senza alcun riferimento che lo possa identificare) si è ritrovato da un giorno all’altro catapultato in una vita blindata senza sapere neanche perché. Senza i suoi “angeli custodi” lui e la sorellina e la mamma non vanno più da nessuna parte: né a prendere un gelato, né a fare un giro in bici, né a giocare a calcetto, né alle feste dei compagni. Una presenza discreta e garbata, uomini armati con il sorriso sulle labbra e la mano sul calcio della pistola, a vegliare sulla sicurezza di un’intera famiglia.
Un «rischio altissimo», è stata la valutazione del comitato per l’ordine e la sicurezza che (fatto con pochissimi precedenti anche in una terra di trincea come la Sicilia) ha disposto la tutela per i due bambini e per la moglie del magistrato anche quando si muovono autonomamente. Vita blindata e zona rimozione antibomba davanti all’abitazione e nei pressi degli edifici frequentati dalla famiglia del pm. Un severo dispositivo di sicurezza che ha destato grande impressione nella città dove il magistrato presta servizio ormai da cinque anni.
Nel suo rifugio segreto di collaboratore di giustizia, il boss c’è rimasto solo pochi mesi durante i quali avrebbe continuato a gestire i suoi traffici e a organizzare una sanguinosa faida contro il nipote che aveva osato prendere il suo posto. Poi il suo piano è stato sventato proprio dal pm che lo ha rispedito in cella. E lì ha cominciato a ordire la sua vendetta, un attentato ai danni del magistrato che lo aveva riportato in carcere. A qualunque costo, senza curarsi di risparmiare la sua famiglia, la moglie e i due figli, una bambina di dodici anni e un maschietto di nove.
A rivelare il progetto di attentato è stato uno degli ultimi collaboratori di giustizia (questa volta ritenuto attendibile), che con il boss falso pentito ha condiviso un periodo in cella. Ma non si tratta solo delle sue dichiarazioni. A confermare le parole del pentito anche la testimonianza di un altro collaboratore e soprattutto le intercettazioni ambientali subito disposte dai magistrati nella sala colloqui del carcere dove il boss è detenuto. In alcune conversazioni con il fratello e con la nuova compagna sarebbero stati individuati precisi riferimenti ad un attentato in fase di preparazione. Boss feroce e spregiudicato quest’uomo che, tornato nella sua città natale dopo aver abbandonato il domicilio protetto, per cacciare la ex moglie e le due figlie da casa le aveva minacciate con queste parole: «Andatevene o vi scanno come agnelli».
Nella città dove abita Lucio, la storia di quel bimbo sotto scorta perché coinvolto in una odiosa minaccia di morte era passata inosservata o quasi fino a quando, al processo in cui è imputato il boss, il procuratore è dovuto venire in aula e comunicare che il suo sostituto non avrebbe più potuto seguire il dibattimento perché minacciato da uno degli imputati. Lui, il boss, saputo del racconto fatto dal suo ex compagno di cella ora pentito, è cascato dalle nuvole e al suo legale ha detto: «Avvocato, quello era in cella con me ma è tossicodipendente e io con certa gente non ci parlo». A fianco del pm minacciato scende l’Anm che ne sottolinea «il quotidiano impegno in prima linea, con generosità ed equilibrio ed esprime ferma condanna per il vile progetto di attentato ed incondizionata solidarietà al collega ed ai suoi familiari».
di Saverio Lodato – 13 maggio 2015
Per un Pippo Civati che se ne va, a migliaia ne arrivano di nuovi.
Se Stefano Fassina se ne va, il problema è suo, mica del partito.
Nel mondo la “sinistra riformista” vince, a Londra e in Liguria perde la “sinistra masochista”.
Il sindacato sciopera per la scuola? Il sindacato teme di perdere potere.
La Consulta boccia il blocco delle pensioni? La Consulta non dice che c’è l’obbligo di restituire tutto.
Candidati campani in odor di Gomorra? Alcuni candidati mi imbarazzano, ma il Pd è pulito.
Maurizio Landini segretario della Fiom? Landini è un soprammobile da talk show.
L’abolizione dell‘articolo 18? L’abolizione dell’articolo 18 è “di sinistra”, di “sinistra riformista”.
Lo stato della giustizia in Italia? I giudici hanno ferie troppo lunghe.
Il popolo ha fame, come si sarebbe detto una volta? Che si mangiassero l’Italicum, in assenza delle brioches di Maria Antonietta…
Fermiamoci. Può bastare. Che è Matteo Renzi, ancor prima che: chi è?
Che è? Che interessi rappresenta e difende? Che scuola di partito l’ha mai programmato? A chi appartiene? Dove intende andare a parare? Chi sono quelli del coretto che si è messo al fianco? E’ forse la sintesi e la personificazione vivente di “mondi di sotto”, “di sopra” e “di mezzo”? Fa solo di testa sua? Risponde a qualcuno? Fa in tempo a pensare prima di parlare? Come può venirgli in mente di cambiare l’Inno di Mameli per inaugurare l’Expo?
Si esprime macinando battute. Non pronuncia mai una frase dal senso compiuto. Non risponde mai alle poche domande di pochi giornalisti audaci al punto da apparire eroici. Alterna metafore calcistiche, parole d’ordine vagamente marziali e stentoree, titoli di film, nomi di personaggi di fiction televisive, previsioni meteo che volgono inevitabilmente al bel tempo, schizzatine di veleno per l’avversario di turno, prevalentemente se proviene dal mondo del centro sinistra, silenzi eloquenti quando è chiamato a dire la sua sulle situazioni imbarazzanti e scandalose del suo governo o che riguardano uomini del centro destra.
Ha annunciato che cambierà il PD. Troppo tardi: il PD è bello che defunto e seppellito. Ha annunciato che cambierà il nome al PD. Questa poi: non si è mai visto il padrone di un cane cambiare il nome al cane morto. Annuncia che la sinistra sta vincendo, ha vinto e vincerà. L’Italia sta cambiando, è cambiata e cambierà.
Forza Italia è ridotta al 4 per cento? La “sinistra masochista” rischia di rianimare Forza Italia.
La Lega sta triplicando i suoi voti? E chissenefrega: su questo Renzi preferisce tacere.
In Italia, si voterà, forse all’inizio del quarto millennio. Poi si vedrà.
Concludendo: fior di pensatori lanciano l’allarme sul rischio del Partito Unico Della Nazione. E denunciano l’abnormità dell’”uomo solo al comando”. Capiamo queste preoccupazioni. Ma c’è un dettaglio sul quale ci permettiamo di dissentire: Renzi non è affatto l’”uomo solo al comando”. Ha le spalle coperte, copertissime. Da chi? Questo lo vorremmo tanto sapere, ma lo ignoriamo.
Sapete semmai che ci fa venire in mente la corsa di Matteo Renzi? Ci fa venire in mente la corsa della finta lepre, quella di pezza, programmata nei cinodromi per far correre i levrieri, a beneficio dello spettacolo taroccato.
Ma chi ha messo in pista la finta lepre?
Come vedete, la domanda si ripropone.
Dopo piazza del Popolo Salvini torna a Roma. Ecco una cronaca dal teatro Brancaccio, dove i militanti della formazione di destra, tutti incamiciati, hanno salutato la loro nuova guida
DI LUCA SAPPINO
12 maggio 2015
Questo anticipo di amministrative ha messo di buon umoreMatteo Salvini, questo è sicuro. Triplicare i voti di Forza Italia, lasciando al palo Silvio Berlusconi, sotto il 5 per cento, è cosa non da poco. Se poi ci aggiungete che CasaPound elegge e bene un consigliere a Bolzano (Andrea Bonazza, più un altro piazzato in una lista civica), capite perché l’umore è alto al teatro Brancaccio, a Roma, dove il leader della Lega riunisce l’esperimento di “Noi con Salvini” e i militanti della destra romana.
«Con i ragazzi della Lega, abbiamo un ottimo rapporto» spiega proprio Bonazza, felice per la sua elezione, che arriva compresa di primato: è il più votato nel centrodestra bolzanino. Bonazza sintetizza così l’amalgama verde e nera, che riempie ordinatissima il teatro, a due passi dalla sede di CasaPound, quella che gli occupanti tengono proprio a chiamare «l’ambasciata d’Italia all’Esquilino».
Pochi striscioni, pochi cori. È la prima cosa che si nota. Non ci sono le iconiche magliette di CasaPound, con i versi degli Zeta zero alfa, neanche un «Nel dubbio mena»: guardando bene si riesce solo a trovare un banalissimo «Italia, risorgi, combatti, vinci», e un «Picchia il vip», che possiamo immaginare abbia passato la censura solo perché nelle intenzioni dovrebbe esser smaccatamente goliardico.
Neanche del simbolo di CasaPound c’è traccia, d’altronde. All’ingresso c’è solo un tricolore tenuto teso, orizzontale, da due hostess: è un cesto delle offerte molto patriottico. Le bandiere, per il resto, sono quasi tutte blu. Niente verde, niente nero. Al centro c’è il simbolo elettorale, disegnato per l’occasione della liaison con la Lega. “Sovranità” è il nome; il simbolo sono tre spighe di grano, ben dorato. Sul fondo azzurro uno si aspetterebbe di vedere il profilo di Latina, una qualche palude da bonificare, e invece niente. Anche qui, delusione.
A Trento è il secondo partito dopo il Pd. Berlusconi crolla: a Bolzano prende il 3,6 per cento e si piazza nono, tra la “Lista per Benussi sindaco”, e “Io sto con Bolzano-fuer Bozen Gennaccaro”. Il centrosinistra vince al primo turno a Trento, va a ballottaggio a Bolzano. Affluenza in crollo
Si vedono persino poche ragnatele tatuate sui gomiti, che erano un must insieme alla collanina con la celtica. Qualche Spqr e molte porzioni di gladiatori, le cui gambe spuntano dalle polo ben stirate e dalle maniche delle camicie tenute a metà avambraccio. L’unico striscione, “Renzi e Marino a casa”, non ha neanche un carattere spigoloso, una qualche S mussoliniana.
L’organizzazione, questa sì, ricorda la passione per testuggini e pratiche militari. Gli avanbracci si stringono ad ogni saluto. Ma è la sicurezza che più colpisce: è in mano a CasaPound e si vede. Nulla è casuale, i ragazzi presidiano ogni porta, ogni colonna. L’ufficio stampa invece è della Lega, ma nulla può quando la testuggine decide che i fotografi devono seguire l’evento dal fondo della sala e questi, contrariati, se ne vanno proprio. Sciopero bianco. Solo l’intervento di un qualche graduato riesce a far applicare una nuova direttiva. È una fortuna, perché altrimenti ci saremmo persi l’immagine di Matteo Salvini che si mette la solita maglietta tributo, questa volta che alliscia la destra, sui Marò.
La faida con il genitore che non potrà più parlare a nome del partito e che l’ha di fatto ripudiata. L’immigrazione. Il rapporto con la Lega. E il sogno di arrivare all’Eliseo nel 2017. Intervista alla leader del Front National
Ma veniamo all’affluenza. Roma, si sa, con Salvini non è così generosa. Già a febbraio la manifestazione di piazza del Popolo era andata così così, con la piazza piena a metà, nonostante il palco fosse stato posizionato strategicamente. Il teatro è più semplice, sì, e infatti è pieno, con i suoi 1300 posti. All’ingresso ci sono i cartelloni di Grease, che questa sera non va in scena, e una camion vela col faccione di Salvini. Una decina di camionette della polizia presidiano senza avere molto da fare. «Qui non ci vengono» mi dice un ragazzo, che evidentemente considera l’Esquilino – nonostante i cinesi, e la storia dell’ambasciata in terra straniera – zona “sicura”.
Dentro ci sono i militanti di CasaPound, qualche volto della destra storaciana riconvertito al leghismo, qualche ex An, noto nei consigli municipali romani. «Qui c’è la Roma che non può tollerare che i marò rimangano ancora sequestrati» taglia corto il senatore Raffaele Volpi, braccio destro del leader Salvini, plenipotenziario per l’impresa dello sbarco a Sud. Poi c’è qualche forzista. C’è pure uno che è pure passato per la pattuglia alfaniana, ma tutti hanno la cortesia di non ricordarglielo, anche quando incurnante del pericolo sfotte lo stesso Alfano, dal palco, ed è Marco Pomarici, consigliere comunale a Roma, che fa i saluti e annuncia l’arrivo di Matteo Salvini. La platea a quel punto intona: «Un capitano! C’è solo un Capitano, un capitano… C’è solo un Capitano!». Si sente un solo «Duce!», ma è un attimo: sanno di esser osservati. Grande sventolio di bandiere, coordinato dalla sicurezza. La Lega – insomma – è ufficialmente un movimento personale, personalissimo. Ed è nero, anche se il nero cerca di darsi un contegno: «Crediamo in un solo uomo» dice ancora Pomarici per togliervi ogni dubbio, nel caso lo aveste.
Prima che lo spettacolo cominci, due militanti conversano nel foyer. Sbagliano, questi, nel prevedere la contestazione dei centri sociali romani, «di quelli della Garbatella», soprattutto, già protagonisti nei giorni scorsi di un ironico video per Salvini, che ha visto la partecipazione anche dell’attore Claudio Amendola. «Che poi» nota uno, «il quartiere ha dato i natali a grandi camerati». «Gli amici del mito tuo» continua un secondo rivolto a una terza, evidentemente fan dei Cesaroni, «stanno a veni’ qua…». Così non è. E ha gioco facile, “il fascista del terzo millennio” Simone DI Stefano, quando è il suo turno, ad esordire con uno sfottò, dal palco: «Avete per caso visto arrivare il signor Amendola?».
Per sentir parlare Matteo Salvini bisogna aspettare un po’. Non molto, in realtà, l’ordine e la disciplina fanno sì che nessuno sfori i tempi degli interventi. Neanche Simone Di Stefano parla più del dovuto, nonostante i cori e lo sventolio di bandiere. Lui è il leader che ha ormai sostituito il fondatore Gianluca Iannone. Anche Iannone gira incamiciato, sia pure a quadri, per il teatro, ma è Di Stefano, con la giacca blu, che rilascia dichiarazioni alla stampa. «Non c’è spazio per i moderati», dice, ma fa tutto un altro effetto con i suoi capelli corti sale e pepe. L’avesse detto Iannone sarebbe suonato ben più minaccioso, testa pelata e barba lunga. Ecco, sì, le barbe, poi, si può notare, sono tante. E con loro, i capelli con la piega e il doppio taglio. Anche i camerati, insomma, hanno la loro fase hipster.
È ancora Di Stefano a spiegare l’unione con Salvini. «Non dobbiamo avere preconcetti» dice ai suoi, sempre applauditissimo. «Ne avevo quando ho visto Pietro Taricone entrare la prima volta a via Napoleone III» ricorda commosso, «ne ho avuti quando ho incontrato per la prima volta Volpi e Salvini». «Mi sbagliavo» dice Di Stefano, «sono due persone rette». «Salvini non è il mostro che vuole dividere l’Italia in due, tre, quattro o cinque parti. Salvini è partito dalle periferie di Milano per andare al Sud a difendere i pescatori». Praticamente è Garibaldi. E l’accoppiata è cosa fatta.
Il leader, ovviamente, chiude. Arriva da Foggia da dove ha twittato contento nonostante sia l’ormai consueta pioggia di uova e ortaggi. Sale sul palco, indossa la maglia, si siede e ascolta, non senza aver prima registrato una comparsata a Piazzapulita, e averne messa in agenda una a Di Martedì, così che al telespettatore non sembri neanche di aver cambiato canale. E poi, siccome è evidentemente un vizio, anche qui non fa un comizio ma inscena un talk show. Due colleghi ad intervistarlo. All’ex cavaliere Berlusconi dice «avessi io 79 anni mi ritirerei a godere dei frutti del mio lavoro» e promette che tornerà a chiedere le primarie: «Non mi metterei mai a capo di una armata brancaleone di centrodestra ma, in ogni caso, il leader della coalizione alternativa a Matteo Renzi lo dovranno scegliere le piazze d’Italia». Ma il bersaglio preferito è sempreAngelino Alfano, anche perché al Sud è lui che va cannibalizzato: «Quando sento per strada qualcuno che dice il suo nome» dice Salvini, carezzando il pelo alla platea, «io mi incazzo, mi mette proprio di cattivo umore».
Il settantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista.
Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.
Il secondo fronte fu aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici avevano sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista. Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica fu altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione (in rapporto allo 0,3% degli Usa in tutta la Seconda guerra mondiale); circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70mila piccoli villaggi, 30mila fabbriche distrutte. Questa pagina fondamentale della storia europea e mondiale si tenta oggi di cancellare, mistificando anche gli eventi successivi. La guerra fredda, che divise di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda guerra mondiale, non fu provocata da un atteggiamento aggressivo dell’Urss, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense su un’Europa in gran parte distrutta.
Anche qui parlano i fatti storici. Appena un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, al Pentagono già calcolavano che occorrevano oltre 200 bombe nucleari per attaccare l’Urss.
Nel 1946, quando il discorso di Churchill sulla «cortina di ferro» apriva ufficialmente la guerra fredda, gli Usa avevano 11 bombe nucleari, che nel 1949 salivano a 235, mentre l’Urss ancora non ne possedeva. Ma in quell’anno l’Urss effettuò la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il proprio arsenale nucleare.
In quello stesso anno venne fondata a Washington la Nato, in funzione antisovietica, sei anni prima del Patto di Varsavia costituito nel 1955.
Terminata la guerra fredda, in seguito al dissolvimento nel 1991 del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, su spinta di Washington la Nato si è estesa fin dentro il territorio dell’ex Urss. E quando la Russia, ripresasi dalla crisi, ha riacquistato un ruolo internazionale stringendo crescenti rapporti economici con la Ue, il putsch in Ucraina, sotto regia Usa/Nato, ha riportato l’Europa a un clima da guerra fredda.
Boicottando sulla scia degli Usa il settantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, l’Europa occidentale (quella dei governi) cancella la storia della sua stessa Resistenza, che tradisce sostenendo i nazisti andati al governo a Kiev. Sottovaluta la capacità della Russia di reagire, quando viene messa alle corde.
Si illude di poter continuare a dettare legge, quando la presenza a Mosca dei massimi rappresentanti dei Brics, a partire dalla Cina, e di tanti altri paesi conferma che il dominio imperiale dell’Occidente è sulla via del tramonto.
L’Occidente sconfessa imperterrito l’importante contributo dell’URSS nella sconfitta della Germania nazista e dei paesi satelliti. Ma non esiste prova documentale che possa corroborare qualsiasi speculazione a riguardo: basti pensare al prezzo economico sostenuto dal popolo dell’Unione Sovietica per la vittoria.
Il danno finanziario causato dalla guerra all’Unione Sovietica ha raggiunto livelli astronomici. Il 2 novembre 1942, il Presidium del Soviet Supremo dell’URSS emanava un decreto che istituiva la Commissione statale straordinaria per identificare e valutare i crimini perpetrati dagli invasori nazisti e dai loro complici, e il danno inflitto ai cittadini, alle fattorie collettive, alle organizzazioni sociali, alle imprese statali e alle istituzioni dell’Unione Sovietica durante la Grande Guerra Patriottica. Dopo la guerra, la Commissione pubblicò le seguenti statistiche: gli invasori nazisti e i loro complici avevano raso al suolo 1.710 città e oltre 70.000 villaggi, privando circa 25 milioni di persone di un riparo. Avevano distrutto circa 32.000 fabbriche, 84.000 scuole e altre istituzioni educative, demolito e saccheggiato 98.000 fattorie collettive. Inoltre avevano distrutto 4.100 stazioni, 36.000 infrastrutture per la comunicazione, 6.000 ospedali, 33.000 ambulatori e centri di cura, 82.000 scuole primarie e secondarie, 1.520 scuole specializzate superiori, 334 istituti di istruzione superiore, 43.000 biblioteche, 427 musei e 167 teatri. Nel settore agricolo si erano appropriati o avevano ammazzato 7 milioni di cavalli, 17 milioni di capi di bestiame, decine di milioni di suini, ovini, caprini e pollame. Le infrastrutture di trasporto del paese furono danneggiate per 65.000 chilometri di linee ferroviarie e 13.000 ponti ferroviari furono gravemente danneggiati, rubate oltre 15.800 locomotive a vapore e a benzina, 428.000 vagoni ferroviari e 1.400 navi.
Le imprese tedesche come Friedrich Krupp AG, Reichswerke Hermann Göring, Siemens-Schuckert, e IG Farbenindustrie saccheggiarono i territori occupati dell’Unione Sovietica.
I danni materiali inflitti all’Unione Sovietica dagli invasori nazisti sono stati pari a circa il 30% della ricchezza nazionale del Paese. Questo dato è salito al 67% nelle zone sotto occupazione. La relazione straordinaria della Commissione di Stato è stata presentata al processo di Norimberga nel 1946. Nella tabella seguente è evidenziata una sintesi delle perdite materiali dirette.
Entità dei danni materiali diretti subiti dall’Unione Sovietica a causa della guerra del 1941-1945.
Tipo di perdita
Stime quantitative delle perdite causate da distruzione, danneggiamenti e furti
Patrimonio manifatturiero
Tranciatrici per metalli (pezzi)
175,000
Presse (pezzi)
34,000
Frese carbone (pezzi)
2,700
Martelli pneumatici (pezzi)
15,000
Impianti elettrici (kW di potenza)
5 milioni
Altiforni (unità)
62
Forni Martin (unità)
213
Macchine tessili (pezzi)
45,000
Fusi per filatoi (pezzi)
3 milioni
Risorse agricole
Cavalli (capi)
7 milioni
Vacche (capi)
17 milioni
Maiali (capi)
20 milioni
Capre e pecore (capi)
27 milioni
Trattori (unità singole)
137,000
Combinati (unità)
49,000
Seminatrici (unità)
46,000
Trebbiatrici (unità)
35,000
Stalle (unità)
285,000
Terreni coltivabili (ettari)
505,000
Vigne (ettari)
153,000
Trasporti e comunicazioni
Linee ferroviarie (in chilometri)
65,000
Locomotive (unità)
15,800
Vagoni ferroviari (unità)
428,000
Ponti ferroviari (unità)
13,000
Chiatte fluviali (unità)
8,3000
Telegrafi e linee telefoniche (in chilometri)
2,078
Alloggi
Alloggi urbani (singoli edifici)
1,209
Abitazioni rurali (singoli edifici)
3.5 million
Fonte: Nikolai Voznesensky. Voennaya Ekonomika SSSR v Period Otechestvennoi Voiny. – Moscow: Gospolitizdat, 1948.
Questi numeri non riflettono tutti i danni subiti. Essi mostrano solo le perdite derivanti dalla distruzione diretta di beni di proprietà di cittadini sovietici, fattorie collettive, organizzazioni sociali, imprese statali e istituzioni. Non comprendono le perdite quali i costi finanziari per il governo nazionale a causa della sospensione parziale o totale del lavoro nelle imprese di stato, nelle fattorie collettive, di privati cittadini, né il costo dei prodotti e delle forniture confiscati dalle forze di occupazione tedesche, le spese militari sostenute dall’URSS, né le perdite finanziarie che seguirono alla stasi nello sviluppo economico generale del paese a causa delle operazioni nemiche tra il 1941 e il 1945. La tabella che segue rende conto dei danni economici aggiuntivi subiti.
Il costo sulla produzione manifatturiera e agricola sovietica a causa dell’occupazione e della distruzione delle industrie nei territori occupati (fino alla fine della guerra).
Tipo di prodotto
Ammontare della perdita*
1. Carbone
307 milioni di tonnellate
2. Elettricità
72 miliardi kWh
3. Acciaio
38 milioni di tonnellate
4. Allumio
136,000 di tonnellate
5. Trance per metalli
90,000 unità
6. Zucchero
63 milioni di quintali
7. Grano
11 billion di pudi
8. Patate
1.922 milioni di quintali
9. Carne
68 milioni di quintali
10. Latte
567 milioni di quintali
* Le perdite sono stimate in termini di carenza di produzione. Il livello annuale di produzione nel 1940 è stato utilizzato come base per i calcoli.
Fonte: Nikolai Voznesensky. Voennaya Ekonomika SSSR v Period Otechestvennoi Voiny. – Moscow: Gospolitizdat, 1948.
Già prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, era chiaro che era l’Unione Sovietica a portare il peso maggiore del suo onere economico. Dopo la guerra, sono stati fatti vari calcoli e stime, servite come conferma di questo fatto ovvio. L’economista tedesco-occidentale Bernhard Endrucks ha condotto una valutazione comparativa della spesa pubblica per scopi militari durante la guerra dai maggiori belligeranti in campo. L’economista francese A. Claude ha prodotto stime comparative delle perdite economiche dirette (distruzione e furto della proprietà) subite dai maggiori belligeranti in campo. Abbiamo riassunto queste stime nella seguente tabella.
Spese militari dello Stato e danni economici diretti subiti dai maggiori belligeranti in campo durante la Seconda Guerra Mondiale (in miliardi di dollari).
Spese militari dello Stato*
Danni economici diretti **
Totale perdita economica ****
(1)
(2)
(3) = (1) + (2)
USSR
357
128
485
Germania
272
48
320
Gran Bretagna
120***
6.8
126.8
Francia
15
21.5
36.5
USA
275
–
275
Italia
94
–
94
Giappone
56
–
56
Polonia
–
20
20
Totale
1,189
224.3
1,413.3
* Ai prezzi correnti
** Ai prezzi del 1938
*** Insieme al Canada
**** Il potere d’acquisto del dollaro nel 1938 è stato superiore a quello durante gli anni della guerra 1939-1945. Pertanto, questo totale sarà un po’ sopravvalutato rispetto al 1938, ma un po’ sottovalutato al prezzo odierno. Detto questo, riteniamo che questa somma fornisca un’immagine fedele delle perdite aggregate che questi paesi hanno sperimentato. Fonte: Istoriya Mirovoi Ekonomiki/ Edited by Georgy Polyak and Anna Markova – Moscow: YUNITI, 2002, pgs. 307-315.
Esattamente il 30% della somma di tutte le spese militari dello Stato dei sette maggiori belligeranti durante la Seconda Guerra Mondiale può essere attribuito all’URSS. La spesa statale combinata degli alleati (URSS, USA, Gran Bretagna e Francia) su obiettivi militari è stata pari a 767.000 milioni dollari. L’URSS ha finanziato il 46,5% di tutte le spese militari sostenute dalle quattro potenze alleate.
Su un totale di danni economici diretti subiti dai cinque belligeranti, il 56% può essere attribuito all’URSS. Va notato che i danni economici diretti inflitti sull’URSS sono stati di 2,7 volte superiori rispetto ai danni similari subiti dalla Germania. Questa non dovrebbe essere una sorpresa: il Terzo Reich ha imposto una politica di terra bruciata in Oriente.
L’URSS ha portato il peso del 53% di tutte le spese militari e dei danni economici diretti subiti dai quattro paesi vincitori (URSS, USA, Gran Bretagna e Francia). Stalin era nel giusto quando suggeriva alla Conferenza di Yalta che la metà di tutte le riparazioni di guerra tedesche avrebbero dovuto esser pagate all’Unione Sovietica.
L’URSS ha subito perdite economiche complessive maggiori del 50% rispetto alla Germania. L’Unione Sovietica ha pagato il prezzo più alto di tutti i belligeranti in campo durante la Seconda Guerra Mondiale.
(1) I dati citati in questo articolo sono stati presi dal libro di Nikolai Voznesensky, Voennaya Ekonomika SSSR v Period Otechestvennoi Voiny. Moscow: Gospolitizdat, 1948. L’autore, Nikolai Alekseevich Voznesensky (1903-1950) è stato il presidente del Comitato del Gosplan dell’URSS tra il 1938 e il 1949.
L’obiettivo di Barack Obama di firmare in tempi brevi il Ttp il grande accordo commerciale con 11 Paesi dell’area del Pacifico, si blocca al Senato. L’attacco arriva dal cosiddetto “fuoco amico”, il gruppo di democratici che di fatto ha votato contro il proprio presidente, bloccando la legge che avrebbe dato alla Casa Bianca il potere di accelerare sull’intesa. Si tratta di quei poteri di “fast track” che Obama chiede da tempo al Congresso, per poter chiudere la complessa partita della Trans-Pacific Partnership.
Ora tutto e’ demandato al dibattito che si aprira’ in Congresso, con i tempi del TPP che inevitabilmente si allungheranno, rinviando quell’area di libero scambio che va dal Giappone all’Australia, dalla Corea del Sud alla Nuova Zelanda, passando per il Cile e il Messico. A questo punto però a cadere nelle maglie dell’opposizione potrebbe essere anche il Ttip, cioè l’accordo gemello che gli Usa stanno cercando di concludere con l’Europa.
Proprio pochi giorni fa dal quartier generale della Nike, in Oregon, Obama aveva lanciato un appello pubblico a fare in fretta. Ma l’effetto ottenuto è staato quello di aver portato allo scoperto le proteste. La Casa Bianca ha dovuto fare i conti con l’agguerrita pattuglia di democratici contrari, a partire da quelli appartenenti all’area liberal del partito, quella piu’ a sinistra rappresentata in particolare dalla senatrice Elizabeth Warren, protagonista negli ultimi giorni di un vero e proprio braccio di ferro con Obama. Ma determinante nello stoppare i piani del presidente è stato anche il ruolo del leader della minoranza democratica al Senato, Harry Reid.
Le obiezioni poste al TPP sono sostanzialmente tre, poste come ‘conditio sine qua non’ per concedere la ‘fast track’ al presidente: fornire assistenza ai lavoratori colpiti dall’accordo, a partire da quelli che subiscono le politiche di delocalizzazione; operare una stretta contro la manipolazione delle valute operata da alcuni Paesi che negoziano l’intesa; estendere il programma in scadenza che da’ la preferenza sul fronte degli scambi commerciali ai Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Nei giorni scorsi un alto funzionario delle Nazioni Unite, in un’intervista al The Guardian, aveva avvertito i cittadini europei sulle conseguenze dell’approvazione del Trattato di libero scambio fra Stati Uniti ed Europa, i cui negoziati sono entrati nella fase cruciale. “L’Onu non vuole un ordine internazionale post democratico – dice il rappresentante dell’Onu Alfred de Zayas – Bisogna fare tesoro delle lezioni passate. Già in altri trattati internazionali le multinazionali sono riuscite a bloccare le politiche dei governi grazie all’aiuto di tribunali segreti che operavano al di fuori della giurisdizione nazionale. Lo stesso meccanismo si vuole riproporre con il Ttip”.
Si scalda il fronte della scuola dopo il nulla di fatto nel confronto di ieri a palazzo Chigi. Tre ore di faccia a faccia tra ministri e vertici sindacali con momenti di forte tensione hanno rafforzato la convinzione che questa fine d’anno sarà davvero schioppettante. Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Gilda e Snals, che non hanno alcuna intenzione in questa occasione di rompere l’unitarietà d’azione, hanno dichiarato di voler mettere in campo nuove iniziative di mobilitazione anche durante il periodo degli scrutini. Non sarà un vero e proprio blocco perché la legge sulla regolamentazione degli scioperi non lo consentirebbe, ma certamente un gran bel disagio. “Si sta concludendo l’anno scolastico in un clima di conflitto” si rammarica il leader della Uil scuola, Massimo Di Menna. “Nei prossimi giorni organizzeremo presidi in occasione dell’inizio del dibattito alla Camera, assemblee e iniziative di lotta nelle scuole. La mobilitazione continua” promette il leader della Flc, Mimmo Pantaleo. Il leader della Fiom Maurizio Landini, intanto, in una intervista a Repubblica sottolinea la necessità di mettere in campo addirittura uno sciopero generale sulla scuola. E’ uno dei tre punti che Landini ha definito come un programma sindacale e politico necessario per fermare Renzi. “chce ha scelto di stare con le imprese”. Gli altri due sono: Ripristinare le pensioni di anzianità per alcune categorie di lavoratori, e introdurre il reddito minimo di cittadinanza “contro il ricatto della precarietà. I Cobas, che si muovono per proprio conto, oltre a interferenze in tempo di scrutini, vogliono proporre agli altri sindacati di scegliere una data, una domenica (che potrebbe essere il 7 giugno, suggeriscono) “per difendere tutti insieme la scuola bene comune”. “Vogliono andare avanti come un treno”, hanno mostrato “un’arroganza sbalorditiva” e “aperture zero” chiosa il leader del movimento, Piero Bernocchi.
Il Governo Renzi perde oggi un’occasione storica di combattere con azioni specifiche, coordinate ed efficaci la violenza maschile contro le donne con un Piano che affronti le esigenze tassative poste dalla Convenzione di Istanbul per proteggere, prevenire e punire la violenza maschile.
Il ruolo dei centri antiviolenza risulta depotenziato in tutte le azioni del piano, essi vengono considerati alla stregua di qualsiasi altro soggetto del privato sociale senza alcun ruolo se non quello di meri esecutori di un servizio.
Il Piano non è stato concertato con le Associazioni. DiRe, Ass. naz. Telefono Rosa Onlus, UDI, Fondazione Pangea, Maschile Plurale, CAM, che non hanno avuto parte alcuna nella elaborazione e nella stesura di questo documento, anzi è stato comunicato loro senza possibilità di cambiamento. Questo piano non è stato nemmeno sottoposto alla Task Force governativa in materia, il cui lavoro, a volte discutibile, in questi due anni, è stato in grande parte del tutto vanificato.
Il sistema di “governance” delineato nel Piano implica e non garantisce il buon funzionamento di tutto il sistema nazionale e pone inoltre problemi giuridici di coordinamento a livello locale, vanifica il funzionamento delle reti territoriali già esistenti indispensabili per una adeguata protezione e sostegno alle donne. In particolare le grandi città, le province e le città metropolitane rischiano che sullo stesso territorio si creino più reti con gli stessi soggetti istituzionali che si sovrappongano tra loro (es. ASL, Procura, Prefettura).
La distribuzione delle risorse viene frammentata senza una regia organica e competente e che quindi non avrà una ricaduta sul reale sostegno dei percorsi di autonomia delle donne. L’allocazione delle risorse è inoltre assolutamente esigua per gli obiettivi del piano in ambito triennale, è troppo sbilanciata sui percorsi di inclusione, in particolare quelli di inserimento lavorativo, a scapito dell’ascolto, dell’accoglienza, dell’ospitalità, dei percorsi di empowerment.
Il linguaggio del Piano è discriminatorio rispetto al genere: non c’è la declinazione al femminile quando si parla di figure professionali femminili.
Infine, la funzione dell’ ISTAT, l’istituzione dello Stato che fino ad oggi ha raccolto, validato ed elaborato i dati sulla violenza di genere, è cancellata dal Piano. Viene istituita una “Banca Dati” che sarà appaltata a privati. Con questa decisione scompare il progetto di rendere stabile e obbligatoria una periodica ricerca sulla violenza di genere.
Senza queste ricerche periodiche non è pensabile – né verificabile – alcuna politica di prevenzione e di contrasto.