Donne e Resistenza: Le ragazze del ’43 – di Vittoria Tola da: ndnoidonne

Le donne protagoniste delle rievocazioni del 70mo della Liberazione. Le iniziative dell’Udi

inserito da Redazione

In questo 70esimo della Liberazione dal nazifascismo ci sono state tra le tante anche le testimonianze finalmente di donne, i mass media nazionali e localihanno pubblicato e mandando in onda una realtà da cui comincia ad emergere questo protagonismo femminile. In genere prevalgono ancora le testimonianze personali invece del grande sforzo collettivo e organizzato che le donne della resistenza hanno prodotto al di là di ogni appartenenza politica sociale e religiosa. Anche la Rai per la prima volta ha fatto uno sforzo più evidente soprattutto con Rai storia. Molti nuovi testi sono stati pubblicati comprese graphic novel per ragazzi e ragazze. Tante le mostre storiche, i convegni, le rassegne cinematografiche, le biciclettate nei luoghi segnati dalla presenza delle donne nella resistenza, a cominciare da Roma l’’8 marzo e in tante città italiane il 25 aprile.
L’Udi, oltre le iniziative in tutt’Italia, cominciate già un anno fànell’anniversario della nascita del Gruppi di Difesa della Donna , dal nord al sud della penisola, per questo 25 aprile ha curato un video documentario in cui quattro donne diverse, Marisa Rodano, Lidia Menapace, Luciana Romoli e Tina Costa, raccontano perché delle giovani e giovanissime si sono impegnate nella resistenza. Realizzato insieme all’Uisp, “Le ragazze del 43 e la bicicletta”, intende raccontare anche perché questo mezzo povero e indispensabile sia diventato un simbolo delle staffette e un strumento pericoloso per i nazisti che viene proibito da Kessering nella Roma occupata.
Proibito perché pericoloso per l’esercito più potente e feroce del mondo in quel momento storico. Un modo per riconoscere che la guerra partigiana e la guerra di liberazione riguardava un grande movimento di popolo in cui le donne e i giovani, sono stati fondamentali. Raccontata da queste donne la storia è straordinaria, ironica, antiretorica e dimostra cosa sia lo spirito civile e il senso della democrazia e della libertà che le anima. “Perché – come dice una delle protagoniste del video – la libertà è come l’aria, senza non si può vivere. Oggi come ieri”. Per uomini e donne come noi.
Queste parole ci fanno riflettere nel 70esimo della Liberazione dal nazifascismo sulle le tragiche immagini degli sbarchi nel mediterraneo e le scene di guerra in tante parti del mondo da cui fuggono uomini e donne si intrecciano e si sovrappongono alle immagini dell’Europa e dell’Italia nel giorno della fine della guerra: città distrutte, sfollati ovunque, bambini soli, famiglie distrutte. Scene simili che vediamo dalla Siria alla Palestina, dall’Iraq alla Somalia, alla Libia.
“Altre città sono mutilate e distrutte, le rovine s’alzano mostrando i loro interni devastati dai quali pendono solitari un lume o una fotografia. I ponti sui nostri fiumi, sulle nostre strade sono saltati, opere d’arte che erano nostro patrimonio e ambizione sono scomparse» così Alba de Cèspedes, una grande scrittrice del ‘900, scrive nell’inverno del 1944 ricordando da radio Bari i terribili problemi che in quei difficili mesi di guerra affliggevano l’Italia con razzie, eccidi, requisizioni di viveri e di beni, cumuli di macerie che sovrastavano le abitazioni e il patrimonio artistico. Il conflitto, con il suo carattere di guerra totale, aveva segnato l’esistenza quotidiana delle persone, si era inserito nelle loro vite sconvolgendo abitudini, sentimenti, affetti, vi aveva introdotto il dolore e il lutto, obbligando a rivisitare i progetti esistenziali intessuti nel tempo, carichi di emozioni e aspettative. Tra una popolazione addolorata da i lutti, stanca dei sacrifici, tormentata dalla miseria donne e uomini di diversi orientamenti si adoperano per ricomporre le trame di una coesistenza civile, di un interesse per la cosa pubblica che il ventennio fascista, con le sue pratiche di mobilitazione burocratica e le politiche di repressione, aveva cancellato. Ma non per tutti e non per tutte.
Infatti dopo l’8 settembre in Italia si registra in modo silente un ‘esplosione della partecipazione anche delle donne che, nell’eccezionalità della situazione, attraversano territori sconosciuti, si misurano con compiti fino ad allora loro preclusi o impediti con una scelta consapevole e coraggiosa. È un intervento nella scena politica e bellica che trova prima di tutto espressione nell’aiuto e nel salvataggio di massa degli sbandati dell’8 settembre, forse il salvataggio la più grande della storia come documenterà Anna Bravo. E il lavoro delle donne continua nella vasta opera di resistenza civile ingaggiata a favore degli antifascisti, dei partigiani, degli ebrei, poi dei soldati alleati; nelle tante sommosse contro il caro viveri che minaccia la sopravvivenza di intere famiglie. E poi con le staffette che portano ordini, armi e dinamite, informazioni e tutto quanto è possibile correndo rischi enormi. Poi le resistenti armate, le gappiste e le sapiste che nel partecipare in vario modo alla guerra Partigiana si assumono responsabilità enormi e gravi compiti.
Non è un caso che sia una donna come Ada Gobetti a scrivere in chiaro il suo Diario Partigiano per spiegare a un Benedetto Croce il senso di quella straordinaria esperienza che lui, come tanti altri, non riesce a capire. In questo quadro, tra il 1943 e il 1944, tornano alla ribalta nuove forme di organizzazione politica delle donne che il Fascismo aveva cancellato. Ma soprattutto nascono per iniziativa di alcune esponenti dei partiti del Clnai i Gruppi di difesa della donna, che sono la premessa alla costituzione dell’Udi avvenuta il 12 settembre 1944, che svolgerà il suo congresso fondativo a Firenze nell’ottobre del 1945 e non a caso alla presenza di Ferruccio Parri.
Il ruolo determinante delle donne fu riconosciuto esplicitamente dal Clnai in quei terribili mesi anche con un impegno formale per il riconoscimento del diritto di voto alle donne come base del diritto di cittadinanza della nuova Italia che chiedevano anche come a uguale lavoro dovesse corrispondere uguale salario tra uomini e donne. Il ruolo delle donne fu poi successivamente alla Liberazione sempre ridimensionato a un contributo, al punto da far parlare di una “resistenza taciuta o negata”. In questo 70esimo si sono viste molte iniziative e memorie sulle donne ma in forma ancora parziale e la domanda che molte di noi si stanno ponendo è perché, come ci si domanda perché ,oltre le parole, non si avverta lo spirito di chi aveva combattuto il fascismo e il nazismo e voluto con tutte le sue forze la fine della guerra e della dittatura e la nascita della democrazia e perché questo spirito non lo si riconosca non solo nelle donne Kurde ma in tutte e tutti coloro che si oppongono a ogni costo a un fondamentalismo totalitario e nelle fughe dalle zone di guerra e di disastri affrontando la morte nel Mediterraneo.
La scelta personale insieme istintiva e ragionata, e il valore che si assegna alla solidarietà e alla appartenenza alla propria collettività e al destino del mondo fanno di chi sceglie la guerra partigiana un momento irripetibile e positivo,nonostante tutto. Un momento che rimane indelebile anche con il passare dei decenni come realtà di libertà, di forza di conoscenza di sé e degli altri nonostante sacrifici immani, una straordinaria novità soprattutto per le donne.
È questo che lo storico G. de Luna nel bellissimo titolo del suo ultimo libro “la Resistenza Perfetta” sottolinea e come questa perfezione oggi può sembrare anacronistica, oppure la replica dolciasta di certi stereotipi. Eppure la Resistenza perfetta è proprio quella che emerge dai documenti, dalle testimonianze, dalla realtà di una ricerca d’archivio condotta senza pregiudizi e tesi precostituite, dai ricordi di un’intera comunità…e la Resistenza perfetta la si vede realizzata direttamente nelle esperienze esistenziali degli uomini e delle donne che la vissero e la costruirono” certi della drammaticità dell’ora e della necessità della coerenza civile e politica per cui a una coscienza civile doveva corrispondere un comportamento adeguato a tutti i costi fino alla presa delle armi fino al sacrificio della vita.
Si parla spesso della Resistenza come se fosse stata una realtà in cui solo le realtà più consapevoli politicamente si impegnano. In questo senso la legge votata dal parlamento per il 70esimo ammette solo le associazioni combattentistiche e militari e si dimentica tutta l’enorme parte della resistenza civile, a cominciare dalle donne, che per non essere solo forza militare non ha contato di meno nella resistenza morale, politica e militare. In particolare di quell’esercito di donne che tra Gdd, staffette e partigiane combattenti superarono di molto le 100mila unita in tutte le zone occupate e che sono rimaste fuori in questi mesi dalle celebrazioni ufficiali e dai contributi economici del governo così come non sono sostenuti i loro archivi che custodiscono in tutt’Italia la memoria di queste donne e di questa storia nazionale.
Negli ultimi decenni gli studi delle storiche in particolare hanno aperto squarci di ricostruzione corretta della realtà spontanea e organizzata delle donne nella resistenza e a questo contribuiscono non solo le memorie e i diari che finalmente molte donne, allora in prima linea, nel corso degli ultimi anni hanno e stanno pubblicando, finalmente riconoscendo pubblicamente, oltre ogni timidezza e un riserbo apparso sempre molto forte, quanto siano state protagoniste e fondamentali per la storia di questo paese. Sempre più a una frase che abbiamo sentito da tante donne “abbiamo fatto solo il nostro dovere” si aggiunge la consapevolezza che rivendicare la loro forza non è entrare in un’idea retorica o virilistica della resistenza. È come se ci fosse voluto per molte un tempo necessario a capire che se il passato aiuta a capire il presente anche la consapevolezza delle donne nel presente aiuta a capire meglio le ragioni e la complessità del passato

Milano: madri, rabbia e nonviolenzada: ndnoidonne

La violenza a Milano ci impone di ragionare sulle pratiche e sul futuro dei movimenti

inserito da Monica Lanfranco

Toya Graham: il mondo ha bisogno di donne (e in generale di persone) così.
Di donne che pur vivendo condizioni quotidiane di fatica, ingiustizia e pericolo trasformano la rabbia, ampiamente motivata, in costruttività, educazione e solidarietà. Di lei non sapremmo nulla se non fosse per il video girato durante la manifestazione a Baltimora di qualche giorno fa, per l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia.
Toya, madre di sei figlie e di un ragazzo, già nonna, in tv riconosce il figlio Micheal, sedici anni, che tira mattoni vestito di nero e incappucciato. La madre esce da casa di corsa, lo raggiunge, lo prende per le orecchie, lo spinge fuori dalla strada, gli tira due ceffoni quando il ragazzo accenna a tornare sui suoi passi. Alla stampa dichiarerà: ”Lo proteggo, non me lo faccio uccidere”. Toya sa benissimo di cosa parla: lavora in un centro per il recupero dalla tossicodipendenza. Violenza, droga e delinquenza sono gli approdi di molti giovani neri a Baltimora, e lei, descritta dalle colleghe come estroversa e volitiva, vuole dare una lezione a quel ragazzo che ama.
La buona politica è anche questo. Toya non è la prima: nel 2006 un gruppo di donne, molte delle quali madri, sorelle e compagne dei giovani immigrati che stavano dando alle fiamme le banlieu di Parigi scrissero una lettera pubblica contro quella violenza, affermando che distruggere auto, scuole, negozi nei loro quartieri era danneggiare, imbruttire e violare il bene comune. Nel 2001, un mese prima del G8 a Genova, un gruppo di donne con diverse esperienze politiche e di movimento scrissero insieme un documento rivolto ai compagni che teorizzavano la bontà della violenza ‘rivoluzionaria’, affermando che mimare la brutalità del potere in nome di un (presunto) ideale di cambiamento era solo mimesi, non cambiamento.
Fu allora che per la prima volta fu nominata la pornografia in connessione con la globalizzazione: la globalizzazione neoliberista, si disse, riduce l’umano a una sola dimensione, quella di acquirente (chi può), e chi non può è destinato a soccombere, giacchè l’unico spazio possibile è quello del mercato. O compri o scompari.
Se, quindi, il rischio è quello che il mercato diventi l’unico metro regolatore delle relazioni, il salto semantico è con la pornografia, lo spazio nel quale si enfatizza la sessualità genitale, eiaculatoria, spesso violenta, in stretta connessione con il denaro e il potere, che taglia fuori la relazione. AncheRaimo su Internazionale usa la metafora della pornografia (scrive di riot porn) ragionando sulle devastazioni di Milano, e la memoria va all’analisi di Robin Morgan, che nel suo Demone amante – sessualità del terrorismo, decostruisce il tema della violenza, ne svela funzione e moventi, sia nel caso del dominio di stato così come delle fattezze della violenza ‘rivoluzionaria’. Raimo parla di crisi performativa dei movimenti, e ha ragione: quando si cede alla facile giustificazione della rabbia per sfasciare ogni cosa sul proprio cammino (e si minimizza, da parte di chi guarda, la portata del gesto distruttore) vuol dire che si rinuncia alla creatività, alla fantasia, all’empatia, allo studio e alla ricerca di strade alternative di comunicazione delle proprie ragioni, d’inclusione, di consenso e soprattutto si perde irrimediabilmente il senso del proprio agire. Moltissime sono le ragioni di critica a Expò, come moltissime erano quelle fatte al G8 nel 2001. Il risultato delle violenza di allora, come di quelle di ora, è la messa nell’angolo dei contenuti della critica.
Possibile che ancora si conceda credito (e riparo) alle meschine pratiche di chi, senza volto, spacca tutto sulle strade che calpesta?

Ucciso in Brasile Eusebio, un leader indio che si batteva contro la deforestazione Autore: redazione da: controlacrisi.org

Eusebio, uno dei leader degli indigeni Ka’apor dell’Alto Turiacu, nello stato brasiliano del Maranhao, e’ stato assassinato domenica scorsa. Lo fa sapere Greenpeace in un comunicato stampa. “Non e’ la prima volta – continua l’associazione ambientalista – che i Ka’apor denunciano alle autorita’ di aver ricevuto minacce dalle imprese responsabili della deforestazione”, cacciate dagli stessi indigeni a partire dal 2013.
“I Ka’apor cercano di difendere il loro territorio- denuncia Madalena Borges, del Consiglio missionario indigeno di Maranhao – ma sono soli, senza sostegno da parte del governo, che dovrebbe impegnarsi invece a far rispettare la legge”. È infatti dal 2008 che la comunita’ indigena chiede interventi contro il taglio illegale, ma sono state condotte solo sporadiche operazioni: una volta andati via gli ispettori, l’attivita’ criminale e’ ripresa.
“Quello che incoraggia le imprese a rubare il legname dalle terre indigene- dice Chiara Campione, responsabile campagna Foreste Greenpeace- e’ il fatto che la refurtiva possa facilmente essere spacciata per prodotto legale e venduta, anche sul mercato internazionale, senza problemi. Questo genera conflitti sociali e talvolta persino omicidi”.
Ad oggi l’Alto Turiacu e’ la quinta zona indigena dell’Amazzonia piu’ colpita dalla deforestazione: dal 2012, infatti, segnalano gli ambientalisti, ha perso 44 mila ettari di foreste, pari all’8% dell’area.

La rivolta della scuola contro Renzi Fonte: Il ManifestoAutore: Roberto Ciccarelli

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Cin­que­cento mila docenti, pre­cari, stu­denti, geni­tori e per­so­nale sco­la­stico nelle piazze di Aosta, Bari, Cata­nia, Cagliari, Palermo, Milano e Roma (e in altre decine di città in tutto il paese) con­tro la riforma della scuola tar­gata Renzi-Giannini-Pd non fanno arretrare di un mil­li­me­tro il governo. Non è bastata la più grande pro­te­sta della scuola pub­blica dal 2008 (80% ade­renti allo scio­pero gene­rale) per allen­tare la presa sul pro­getto della sua tra­sfor­ma­zione azien­da­li­sta e auto­ri­ta­ria che il par­tito Demo­cra­tico per­se­gue sin dall’approvazione della legge Berlinguer-Zecchino del 2000, quando approvò anche la nor­ma­tiva sulle scuole pari­ta­rie. Ieri, da Bol­zano, il pre­si­dente del Con­si­glio Mat­teo Renzi ha rispo­sto così alle richie­ste dei mag­giori sin­da­cati di fer­mare lo’iter di appro­va­zione del Ddl sulla «Buona Scuola», stral­ciare l’assunzione dei 100.701 pre­cari in un decreto e abo­lire la con­te­sta­tis­sima norma sui «presidi-manager»: «Abbiamo intra­preso il per­corso di grandi riforme e andremo avanti con la testa dura» ha detto Renzi che ieri ha pro­po­sto di adot­tare il modello del Sud Tirolo alla scuola italiana.«Coniuga qua­lità e pra­ti­cità» ha detto.

L’ostinazione delle «teste dure» al governo, e delle loro appen­dici nel «par­tito della Nazione» è pre­sto spie­gato: con l’Italicum e il Jobs Act, la riforma della scuola è parte di un tris d’assi che Renzi intende pre­sen­tare prima dell’estate mostrando così il pro­filo com­piuto della sua per­so­nale rivo­lu­zione con­ser­va­trice. «Siamo pronti ad ascol­tare e con­di­vi­dere» ha riba­dito Renzi, fermo restando però il prin­ci­pio dell’«autonomia».
Lo scon­tro sulla scuola verte pro­prio su que­sto con­cetto di «auto­no­mia», la base di tutte le riforme della scuola da quin­dici anni. La riforma Renzi ha avuto il merito di chia­rirlo defi­ni­ti­va­mente: l’«autonomia» è quella del pre­side a capo di una scuola-azienda. La stessa che Renzi ha auspi­cato per sé impo­nendo l’Italicum. I miti fon­da­tori della sua «nar­ra­zione», cioè il deci­sio­ni­smo, l’aziendalismo e la «peda­go­gia del capo», sono al cen­tro di una riforma della scuola che auto­riz­zerà i pre­sidi a «indi­vi­duare» dagli albi ter­ri­to­riali trien­nali i docenti di loro gra­di­mento, intro­du­cendo nella scuola il sistema cor­rut­tivo dello spoil system o quello nepo­ti­stico che governa l’università ita­liana. Un rischio denun­ciato da Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola, Snals, Gilda e Cobas (che a Roma erano al Miur e poi in un pre­si­dio a Montecitorio).

Sul senso delle pro­te­ste il governo fa lo gnorri. «Per­ché uno scio­pero di que­ste dimen­sioni non si vedeva da sette anni ?» si è chie­sta ieri la mini­stra dell’Istruzione Gian­nini (Pd), colei che ha defi­nito «squa­dri­sti» i docenti che l’hanno con­te­stata a Bolo­gna e «cor­po­ra­tivi» tutti coloro che si oppon­gono alla sua riforma. Per Gian­nini il pre­side è «un lea­der edu­ca­tivo» e le rico­stru­zioni fatte in que­sti giorni sareb­bero «fan­ta­siose». Le assun­zioni dei docenti pre­cari por­te­ranno «il pre­ca­riato alla sua dimen­sione fisio­lo­gica del 2,5%». Per­cen­tuali senza fon­da­mento, visto che da quelle pre­vi­ste (alla pre­sen­ta­zione della «Buona Scuola» a set­tem­bre erano 148.100) sono stati esclusi almeno altri 100 mila aventi diritto, senza con­tare i pre­cari tra il per­so­nale Ata can­cel­lati dalla «riforma». Affer­ma­zioni che giu­sti­fi­cano la richie­sta di dimis­sioni avan­zata ieri dai sindacati.

La con­flit­tua­lità dei sin­da­cati più rap­pre­sen­ta­tivi della scuola è il pro­dotto di una spinta dal basso da parte dei docenti e dei pre­cari che, dopo mesi di ten­ten­na­menti, li hanno spinti ad una mobi­li­ta­zione tar­diva. Se aves­sero dichia­rato uno scio­pero gene­rale al mese, da otto­bre a oggi, a Renzi avreb­bero sot­tratto tempo e spa­zio per la sua «nar­ra­zione». Non l’hanno fatto e oggi sco­prono il con­flitto. Alcune orga­niz­za­zioni hanno paven­tato il blocco gli scru­tini a giu­gno. Un’azione cla­mo­rosa, se deci­de­ranno di andare fino in fondo. Altra que­stione poli­tica non secon­da­ria è la richie­sta di ritiro del Ddl emersa ieri dal mondo della scuola. Quanto inci­de­ranno sulla deter­mi­na­zione dei sin­da­cati gli emen­da­menti che saranno appro­vati alla Camera su spinta del Pd?

Lo strappo della scuola Fonte: Il ManifestoAutore: Norma Rangeri

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Sarà per­ché ha la prof in casa (la moglie, tra i pochi insegnanti a non aver scioperato), o sarà per­ché aiuta la costru­zione dell’immagine pub­blica, sta di fatto che il segre­ta­rio del Pd, ancora prima di diven­tare pre­si­dente del con­si­glio girava per leo­polde e talk-show ripe­tendo che avrebbe risol­le­vato le sorti del nostro mal­con­cio paese pro­prio a comin­ciare dalla scuola.

Se ne andava a spasso per l’Italia pro­met­tendo che avrebbe dedi­cato un giorno alla set­ti­mana del suo tempo a visi­tare bimbi e mae­stri. E la tele­vi­sione gli cor­reva die­tro per incor­ni­ciare il gio­vane pre­mier accolto dalle sco­la­re­sche festanti con fiori, can­zon­cine, cori, bat­ti­mani, sven­to­lio di bandierine.

Poi di quelle visite si sono perse le tracce, i sof­fitti delle scuole hanno continuato a crollare sulla testa dei ragazzi men­tre a palazzo Chigi si met­teva a punto un dise­gno di legge per una nuova, l’ennesima, riforma della scuola

Le ragioni della pro­te­sta, paci­fica, di massa, arti­co­lata, plu­rale saranno dif­fi­cili da disin­ne­scare. Siamo solo all’inizio della mobi­li­ta­zione e a meno di con­si­de­rare gli inse­gnanti, di tutte le sigle sin­da­cali, degli ingua­ri­bili gua­sta­fe­ste che non vedono la manna di miliardi e la valanga di assun­zioni in arrivo, biso­gnerà pas­sare dalle pro­messe ai fatti. Qui non basta un voto di fidu­cia per neu­tra­liz­zare la forza di moti­va­zioni che sono mate­riali e cul­tu­rali insieme.

È un fronte che salda il disa­gio sociale di una pro­fes­sione tra le più pre­ca­riz­zate alla con­te­sta­zione di un modello azien­dale dell’apprendimento.

Il rifiuto del sim­bolo di que­sta con­tro­ri­forma ren­ziana è il pre­side tra­sfor­mato in capo azienda, una sorta di diri­gente di reparto che indi­vi­dua e sele­ziona il corpo inse­gnante più ido­neo a for­mare i ragazzi secondo i biso­gni del mer­cato. In per­fetta coe­renza con tutta la filo­so­fia poli­tica del renzismo.

Né può fun­zio­nare il gioco media­tico, rei­te­rato in que­ste ore, del «con que­sta riforma cam­bie­remo l’Italia», replica del «con questa legge elettorale cam­bie­remo il paese», a sua volta ripe­ti­zione del «con il Jobs act abbat­te­remo la disoccupazione».

Se la piazza di S. Gio­vanni con­vo­cata dalla il Cgil 25 ottobre era stato il primo, vero strappo tra Renzi e una larga parte degli elet­tori del Pd rap­pre­sen­tata dal sin­da­cato e dal largo mondo del pre­ca­riato, le piazze piene di ieri con tutti i lavo­ra­tori e gli stu­denti in campo con­tro la «buona scuola» del pre­si­dente del con­si­glio rap­pre­sen­tano il secondo grande solco tra il governo e l’immensa fab­brica della scuola pubblica.

Pensioni, la sentenza della Consulta non darà diritti alla rivalutazione per tutti. E’ questo il pensiero del Governo Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

“Escludo che sia possibile restituire a tutti l’indicizzazione delle pensioni, per quelle più alte sarebbe immorale e il governo deve dirlo forte. Occorre farlo per le fasce più basse”. Il leader di Sc Enrico Zanetti dice di parlare a nome personale. Eppure è pur sempre un sottosegretario all’Economia. L’uscita del sottosegretario, tuttavia, è in linea con quanto dichiarato dal ministro Padoan che nel sottolineare la non pertinenza della manovra ha detto che occorrerà minimizzare l’impatto della sentenza sul bilancio. L’idea di introdurre delle soglie, hanno evidenziato e continuano ad evidenziare a più riprese dal governo, deriva del resto dalle stesse motivazioni della Corte, che ha indicato nel rispetto dell’ “equità” il principio base a cui ispirare la legislazione in materia previdenziale. Partendo da una definizione più stringente della platea si potrebbe dunque già ottenere un risparmio rispetto alle cifre monstre circolate in questi giorni ed arrivate fino ai 16 miliardi di euro di buco calcolati dal Nens. I numeri più plausibili parlano di circa 8-9 miliardi, ma prima di avere cifre ufficiali sul tavolo bisognerà attendere di capire quale sarà la soluzione politica scelta dal governo. Oltre alla platea, il Tesoro sta infatti ancora cercando di definire quanti debbano essere gli arretrati da pagare (se cioè l’adeguamento debba essere al 100% o debba prevedere un decalage a seconda dell’ammontare della pensione) e quali possano essere le modalità per l’adeguamento, ovvero se corrisponderlo in un’unica soluzione o se optare per una rateizzazione spalmata su tre o cinque anni.
Con l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge Fornero una pensione che nel 2011 era di 1500 euro lordi, appena superiore alle 3 volte il minimo, avra’ una rivalutazione di circa 85 euro al mese e 2.540 euro circa come rimborso per i due anni di blocco 2012 e 2013 e per gli effetti che questi hanno avuto sul 2014. A fare i conti è stato il segretario cenfederale della Uil Domenico Proietti. Più nel dettaglio, – il pensionato che nel 2011 percepiva un trattamento pari a 4 volte il minimo, 1.500 euro lordi, percepira’ annualmente sulla pensione in erogazione nel 2015 circa 1.026 euro in piu’; – il pensionato con un trattamento pari a 5 volte il minimo, 2500 euro lordi, percepira’ annualmente sulla pensione in erogazione nel 2015 circa 1.621 euro in piu’.