La lunga erosione della democrazia Fonte: il manifesto | Autore: Luciana Castellina

25 aprile. L’attacco contro la Costituzione si scatena perché la nostra società è passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente, e non è, più protagonista

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La cele­bra­zione delle date impor­tanti non è sem­pre uguale. Per­ché la memo­ria stessa è sog­getta alla sto­ria, e le cose si ricor­dano in modo diverso a seconda dei tempi. Tal­volta si è invece ripe­ti­tivi: è quando non ci sono par­ti­co­lari e nuove ragioni che spin­gono a ripen­sare l’evento com­me­mo­rato. E per­ciò resta un rituale. Quante volte nei tanti 8 marzo della mia vita mi è acca­duto di sbuf­fare per il fasti­dio della ripe­ti­ti­vità. Poi scop­piò il nuovo fem­mi­ni­smo e quella gior­nata si arric­chì di una carica inno­va­tiva che ci fece tor­nare con gioia a distri­buire mimose.

Per il 25 aprile non ho sbuf­fato mai, ma è vero che, pas­sato il peg­gio della guerra fredda — quando i governi dc arre­sta­vano i par­ti­giani, o quando arrivò Tam­broni — anche la Resi­stenza rimase spesso immo­bile. Oggi, 2015, è evi­dente a tutti che la data è cal­dis­sima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo spe­ci­fico aspetto: non tanto per­ché chi ne fu com­bat­tente riu­scì a cac­ciare i tede­schi , che pure non è poco. Piut­to­sto per­ché è in que­gli anni ’43–45 che ven­nero poste le fon­da­menta — per la prima volta — di uno stato demo­cra­tico in Ita­lia. Che oggi mi pare in peri­colo, non per­ché assa­lito dai fasci­sti, ma per­ché eroso dal di dentro.

Noi uno stato popo­lare, legit­ti­mato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risor­gi­mento, come sap­piamo, fu assai eli­ta­rio e pro­dusse una par­te­ci­pa­zione assai ristretta, estra­nee le classi subal­terne; i governi della nuova Ita­lia nata nel 1860 restano nella memo­ria dei più per la disin­vol­tura con cui gene­rali e pre­fetti spa­ra­vano su ope­rai e con­ta­dini. Poi venne addi­rit­tura il fascismo.

A dif­fe­renza del maquis fran­cese o della resi­stenza danese o nor­ve­gese, la nostra non aveva pro­prio nulla da recu­pe­rare, niente e nes­suno da rimet­tere sul trono. Si trat­tava di inven­tarsi per intero uno stato ita­liano decente, e dun­que demo­cra­tico. (Come in Gre­cia, del resto, dove però una pur straor­di­na­ria Resi­stenza non ce l’ha fatta).

Non è una dif­fe­renza di poco. E se la Resi­stenza ita­liana ci ha per­messo di riu­scirci, è anche per­ché è stata la prima volta in cui in Ita­lia le masse popo­lari hanno par­te­ci­pato mas­sic­cia­mente e senza essere inqua­drate dai bor­ghesi alla deter­mi­na­zione della sto­ria nazionale.

E anche per un’altra ragione: per­ché il dato mili­tare, e quello stret­ta­mente poli­tico — l’accordo fra i par­titi anti­fa­sci­sti — pur impor­tanti, non esau­ri­scono la vicenda resi­sten­ziale. Un ruolo deci­sivo nel carat­te­riz­zarla l’ha avuto quello che un grande sto­rico, coman­dante della bri­gata Gari­baldi in Luni­giana, Roberto Bat­ta­glia, chiamò “società par­ti­giana”. E cioè qual­cosa di molto di più del tratto un po’ gia­co­bino, o meglio gari­bal­dino, dell’organizzazione mili­tare più i civili che ne aiu­ta­rono eroi­ca­mente la sus­si­stenza; e cioè l’autorganizzazione nel ter­ri­to­rio, l’assunzione, gra­zie a uno scatto di sog­get­ti­vità popo­lare di massa, di una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, per rispon­dere alle esi­genze della comu­nità, il “noi” che pre­valse senza riserve sull’ “io”.

L’antifascismo come senso comune, più che nella tra­di­zione pre­bel­lica, ha ori­gine in Ita­lia da que­sto vis­suto, nell’ espe­rienza auto­noma e diretta di sen­tirsi — «attra­verso scelte che nascono dalle pic­cole cose quo­ti­diane», come ebbe a scri­vere Cala­man­drei — pro­ta­go­ni­sti di un nuovo stato, non quello dei monu­menti dedi­cati ai mar­tiri, ma quello su cui hai diritto di deci­dere, di una patria che non chiede sacri­fici ma ti garan­ti­sce pro­te­zione, legit­tima i tuoi biso­gni, ti dà voce. E’ la comu­nità, insomma, che si fa Stato, a par­tire dal senso di appartenenza.

La Costi­tu­zione par­to­rita dalla Resi­stenza riflette pro­prio que­sta presa di coscienza, e infatti defi­ni­sce la cit­ta­di­nanza come piena appar­te­nenza alla comu­nità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una media­zione di ver­tice fra i par­titi, non fosse nata pro­prio da quella espe­rienza diretta che fu la “società par­ti­giana.” E dalle sue aspi­ra­zioni. Per que­sto ha una ispi­ra­zione così ugua­li­ta­ria e for­mu­la­zioni in cui è palese lo sforzo di evi­tare for­mule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straor­di­na­rio arti­colo ‚per esem­pio, che dice come, per ren­dere effet­tive libertà e ugua­glianza”, sia neces­sa­rio “rimuo­vere gli osta­coli che le limi­tano di fatto”.

Pro­prio riflet­tendo su quanto da più di un decen­nio sta acca­dendo, a me sem­bra che la crisi visi­bile della demo­cra­zia che stiamo vivendo non sia solo la con­se­guenza del venir meno di quel patto di ver­tice, e dei par­titi che l’avevano sot­to­scritto, ma più in gene­rale dell’impoverirsi del tes­suto politico-sociale che ne aveva costi­tuito il con­te­sto. E se è pos­si­bile l’attacco che oggi si sca­tena con­tro la Costi­tu­zione è pro­prio per­ché la nostra società non è più “par­ti­giana”, ma pas­siva, pri­vata di sog­get­ti­vità, estra­nea alla poli­tica di cui non si sente più, e infatti non è più, pro­ta­go­ni­sta, chiusa nelle angu­stie dell’”io”, sem­pre meno par­te­cipe del destino dell’altro, lon­tana dal decli­nare il “noi”.

Non ci sarà esito posi­tivo agli sforzi che in molti, e da punti di par­tenza anche dif­fe­ren­ziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sini­stra se non riu­sci­remo a risu­sci­tare prima sog­get­ti­vità e senso di respon­sa­bi­lità col­let­tiva . Non riu­sci­remo nem­meno a sal­vare la Costi­tu­zione, e fini­remo anche per can­cel­lare la spe­ci­fi­cità della Resi­stenza ita­liana. Quell’attacco mira pro­prio ad impo­ve­rire l’idea stessa della demo­cra­zia che essa ci ha rega­lato, ridu­cen­dola a un insieme di regole e garan­zie for­mali e indi­vi­duali, non più ter­reno su cui sia pos­si­bile eser­ci­tare potere.

Stiamo attenti a come cele­briamo il 25 Aprile. Ber­lu­sconi, quando per una volta si degnò di par­te­ci­pare a una ini­zia­tiva per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il ter­re­moto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cam­biare il nome della festa: non più “della Libe­ra­zione”, ma “della Libertà”. Pro­po­sta fur­bis­sima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della sto­ria e rac­conta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per ricon­qui­starla. Se smar­riamo la sto­ria can­cel­liamo il ricordo delle squa­dracce fasci­ste al soldo degli agrari e dei padroni che bru­cia­rono le Camere del lavoro, la vio­lenza con­tro le orga­niz­za­zioni popo­lari; depen­niamo la Resi­stenza stessa e sopra­tutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato ita­liano democratico.

Rischiamo di dimen­ti­care che per man­te­nere la libertà c’è biso­gno di sal­va­guar­dare la Costi­tu­zione e per farlo di rico­struire una “società par­ti­giana” per l’oggi: uno scatto di sog­get­ti­vità, di assun­zione di respon­sa­bi­lità, un impe­gno poli­tico col­let­tivo, rimet­tere il “noi” prima dell’”io”.
Sapendo che oggi il “noi” si è estre­ma­mente dila­tato. Non è più quello di chi vive attorno al cam­pa­nile, e nem­meno den­tro i con­fini nazio­nali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quo­ti­diano, lo stra­niero — e con lui la poli­tica estera — lo incon­triamo al super­mar­ket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per que­sto non è pen­sa­bile festeg­giare il 25 Aprile senza pale­sti­nesi e immi­grati, così come senza gli ebrei che da qual­che parte pati­scono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debor­dare dal tema “Libe­ra­zione” sen­tirsi parte, vit­time e però anche respon­sa­bili, di tutti i disa­stri che afflig­gono oggi il mondo.

“Difenderemo l’Italia dall’Italicum fino alla fine, parola di Anpi”. Intervista a Ernesto Nassi Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

La rotondità della data non può mettere in secondo piaano la rotondità della Resistenza. Che molti ormai relegano a una celebraazione formale, soprattutto a sinistra…
Bisogna dire che la sinistra italiana non ha mai vissuto un periodo come questo. Ha vissuto periodi difficili e di contrasto tra le varie anime, che alla fine trovavano sempre un’intesa. Questa volta vedo che c’è uno sfilacciamento preoccupante. Anche perché questo Governo sta facendo quello che vuole. Noi come Anpi siamo nettamente contrari alla riforma della Costituzione e alla riforma elettorale perché non permette ai cittadini di esprimere il prorio volere. Se tu pensi che la riforma del Senato che fino ad oggi è stato elettivo da domani sarà nominativo. Quindi la democrazia si va a far benedire. I cittadini non possono più esprimere il loro volere. Questa è la realtà. E questo è un bruttismo segnale perché può aprire la strada a qualunque avventura negativa. Noi lo temiamo e ci battiamo fino all’inversomile perché gli italiani capiscano che questa è una cosa che demolisce la democrazia. E va nel senso contrario a quello che volevano i partigiani quando volevano cambiare il nostro Paese. Volevano un paese in cui al centro ci fosse l’essere umano senza distinzioni e dove ognuno trovasse la sua collocazione. E inv ece con questo sistema qui c’è una nomenclatura, ristretta, che decide tutto al posti di tutti, cioè della democrazia.

Si ma i militanti del Partito democratico non sembrano voler reagire a tutto questo. Lo prevedevi o ti ha sorpreso?
No, non mi ha sorpreso. Purtroppo lo prevedevo. E prevedo anche cose peggiori. Mi auguro che ci sia qualcuno che rifletta dentro il Governo. Devono capire che così gli italiani si allontanano defintivamente dalla politica. Io sono tra quelli che ancora crede nel valore die partiti. Credo, insomma, che la politica sia importante. Però credo pure che fare una lotta contro i partiti sia fare un lotta contro la democrazia.

Nel vostro sforzo di attualizzazione del messaggio della Resistenza avete aperto le sedi ai giovani. Che bilancio fate di questi anni?
Giovani e donne, per la precisione. Più di quaranta circoli a Roma. Siamo l’unica associazione che rappresenta un punto di riferiemento per gli antifascisti che sempre di più aumenta gli iscritti e la partecipzione. L’Anpi è la casa degli antifascisti. E’bene che tutti lo sappiano. E quindi rispettiamo e onoriamo quella memoria. L’Italia che si è ribellata agli invasori nazisti e ai servitori fascisti.

Oggi si tocca con mano la frattura con le Brigate ebraiche. Che possibilità di uscita vedi da questa situazione fastidiosa?
A noi questa cosa fa male, perché con il mondo ebraico abbiamo avuto sempre buoni rapporti. Con la brigata ebraica un ottimo rapporto, con l’Aned uguale. Quest’anno non so cosa sia realmente accaduto. Loro si lamentano perché sono presenti le bandiere palestinesi. Voglio ricordare che nel nostro statuto al punto due si dice che noi dobbiamo stare vicino ai popoli che lottano per la propria libertà. Noi rispettiamo il nostro statuto. E non che diamo spazio , o cose varie, a queste realtà. Oggi chi parla dal palco saranno i partigiani. E ci racconteranno il loro 25 aprile di 70 anni fa. Oggi quattro associazioni di partigiani sono presenti. A noi dispiace molto che abbiano deciso di non venire. Noi abbiamo invitato la Brigata ebraica. La comunità ebraica non l’abbiamo mai invitata perché noi facciamo l’appello di venire a tutti gli antifascisti. E chi si sente antifascista bene. L’invito lo facciamo alle realtà che hanno combattuto la guerra di liberazione.

L’Europa è percorsa continuamente da rigurgiti di fascismo. E la vicenda Ucraina è emblematica…
Il problema è che l’Europa è troppo debole. Il punto è che non ha nel suo habitus mentale l’antifascismo. Come in Italia, non abbiamo mai affrontato il tema del fascismo. In Germania l’hanno sviscerato coinvolgendo tutti. E sono arrivati alla conclusione che è stato qualcosa di deleterio per la Germiania. Se lì tu fai un saluto nazista ti arrestano. Se lo fai qui non ti dice niente nessuno. Come è successo con l’ultimo striscione Rsi sul lungotevere. Questo Stato ha fatto due leggi, Scelba e Mancino e devono essere applicate. Questi fanno come gli pare, dapertutto. I Catelli Romani sono diventati un feudo della destra. C’è troppa tolleranza. E non è democrazia questa. La democrazia è un’altra cosa. Questo paese ha combattto contro il nazismo e il fascismo e ha vinto. E ha fatto nascere la Costituzione. Ha fatto nascere un paese democratico e allora per favore lo rispettassero.

Milano, la contestazione di rito non guasta la festa Fonte: il manifesto | Autore: Luca Fazio

Fac­cia­mola fuori subito, chie­dendo scusa alle migliaia di per­sone impos­si­bili da con­tare che hanno invaso Milano come non acca­deva da anni (forse dal 1994) e anche ai let­tori. Come i “gaz­zet­tieri” impon­gono — così il pre­si­dente dell’Anpi Carlo Smu­ra­glia eti­chet­terà dal palco i gior­nali che non aspet­ta­vano altro — tocca occu­parsi della con­te­sta­zione alla bri­gata ebraica. Un clas­sico che va in scena tutti gli anni nella stroz­za­tura di piazza San Babila, anche se il 25 aprile è tutta un’altra storia.

Il con­tatto avviene quando il rituale del comi­zio sta per con­clu­dersi, men­tre il cor­teo sfila come se fosse su un altro pia­neta, troppo distante per darne la misura. Quest’anno gli attori sono più nume­rosi del solito: un cen­ti­naio di mili­tanti filo pale­sti­nesi tenuti a bada da poli­ziotti anno­iati e altret­tanti mani­fe­stanti con le inse­gne della bri­gata ebraica. Sono pochi minuti di insulti rias­su­mi­bili nello slo­gan “Fuori i sio­ni­sti dal cor­teo”. Lo spez­zone incassa e pro­se­gue verso piazza Duomo.

Non ci sarebbe altro da aggiun­gere se non fosse che, allo scopo di “scor­tarla”, lo spez­zone del Pd si è posi­zio­nato pro­prio dopo la bri­gata ebraica. I mili­tanti del par­tito di Renzi, in gran spol­vero per il 70esimo della Libe­ra­zione, si sono rin­chiusi in una spe­cie di gab­bia. In realtà la loro mis­sione non era altro che un pre­te­sto per esi­stere in una piazza che ormai li snobba come un corpo estra­neo: è andata a finire che si sono cor­do­nati da soli, per­ché non si sa mai. E ave­vano ragione. Magliette gialle per l’imbarazzante ser­vi­zio d’ordine e sguardi smar­riti per non accet­tare pro­vo­ca­zioni. Che ci sono state: “Servi, siete servi”. In piazza San Babila, come da copione, ma qui e là anche lungo il cor­teo, dove nes­suno pen­sava che all’ordine del giorno ci fosse la que­stione israelo-palestinese. Senza esa­ge­ra­zioni, però, per­ché que­sto è il 25 aprile e nes­suno, tan­to­meno il Pd, può per­met­tersi di gua­stare que­sta giornata.

In fondo l’ha detta giu­sta il pre­si­dente della Repub­blica Ser­gio Mat­ta­rella aprendo il suo inter­vento al Pic­colo Tea­tro Grassi quando i pre­senti molto sele­zio­nati lo hanno sor­preso into­nando Bella ciao : “Come è bella Milano, imban­die­rata a festa, che si uni­sce di nuovo per i settant’anni della Libe­ra­zione”. Non è solo una mani­fe­sta­zione, sono dieci cor­tei uno den­tro all’altro che ten­gono insieme forza, debo­lezza, spe­ranze, disil­lu­sioni, rab­bia, entu­sia­smo e fru­stra­zioni di un “popolo” che una volta si defi­niva di sini­stra e che oggi pro­cede a ten­toni e in ordine sparso. Inu­tile fare l’elenco delle sog­get­ti­vità chia­mate ogni anno a dare il meglio di sé, per non dire dei tanti poli­tici che qui avan­zano sem­pre in punta di piedi — Milano non è città che si spreca in strette di mano.

In coda ci sono tan­tis­simi ragazzi, e que­sta è la nota più posi­tiva. Piut­to­sto tri­ste, invece, è la quasi totale assenza di un pen­siero sulla tra­ge­dia che ogni giorno si con­suma nel canale di Sici­lia. Una scritta da via Padova, un paio di car­telli e solo un ten­ta­tivo di lasciare almeno un segno in piazza Duomo: poco prima che ini­zino i comizi uno stri­scione cala dal palazzo dell’Arengario — “Libe­riamo il Medi­ter­ra­neo”. Piazza Duomo è sfre­giata dalla gab­bia che con­tiene il palco per il con­certo inau­gu­rale dell’Expo. I lavori in corso la rim­pic­cio­li­scono, il cor­teo si fran­tuma e le “auto­rità” par­lano davanti allo spez­zone più com­po­sto. Il sin­daco Giu­liano Pisa­pia almeno ci prova: “Non solo non dob­biamo dimen­ti­care, ma dob­biamo ricor­dare chi è ancora oppresso per il colore della sue pelle, per il suo credo reli­gioso, per il suo desi­de­rio di libertà, chi fugge da fame, guerra, tor­ture e cerca e spera di tro­vare chi lo accolga e aiuti come vuole la nostra Costituzione”.

Anche il segre­ta­rio gene­rale della Cgil, Susanna Camusso, si sof­ferma su “un fon­da­men­tale egoi­smo da scon­fig­gere” get­tando uno sguardo al di là del Medi­ter­ra­neo, ma l’affondo più con­di­viso dalla piazza dice che “non ser­vono egoi­smi da parte di troppi che pen­sano di essere uomini soli al comando, la libertà è rico­no­scere tutti i diritti con­di­visi”. In quel momento i seguaci del par­tito unico della nazione sono ancora lon­tani (e saranno altri fischi quando arri­ve­ranno in Duomo). Anche il pre­si­dente dell’Anpi Carlo Smu­ra­glia, come il pre­si­dente Ser­gio Mat­ta­rella, dice tutto con una frase: “Oggi è una mera­vi­gliosa gior­nata di festa. Che cosa scri­ve­ranno i gaz­zet­tieri che hanno scritto che ci sareb­bero stati inci­denti, poca gente, e che dice­vano che avremmo tenuto fuori la bri­gata ebraica?”. Già.