Filed under: Attualità, Varie | Leave a comment »
Filed under: Attualità, Varie | Leave a comment »
7 aprile 2015
La condanna non riguarda solo le violenze, ma anche il fatto di non avere una legislazione sul reato di tortura: “Colpevoli non puniti per mancanza di leggi adeguate”
Strasburgo. Quanto compiuto dalle forze dell’ ordine italiane nell‘irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 “deve essere qualificato come tortura”. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l’Italia non solo per quanto fatto ad uno dei manifestanti durante il G8 di Genova, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura.
All’origine del procedimento c’è un ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto che all’epoca aveva 61 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l’irruzione nella sede del Genova Social Forum. Nel ricorso l’uomo afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell’ordine tanto da dover essere operato e da subire ancora oggi ripercussioni per alcune delle percosse subite. Cestaro sostiene che le persone colpevoli di quanto ha subito sarebbero dovute essere punite adeguatamente ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi.
I giudici hanno deciso all’unanimità che lo stato italiano ha violato l’articolo 3 della convenzione sui diritti dell’uomo, che recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Corte di Strasburgo ha stabilito che il trattamento che gli è stato inflitto deve essere considerato come “tortura”, ma nella sentenza i giudici sono andati oltre, sostenendo che se i responsabili non sono mai stati puniti, è soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti dipende, secondo la Corte, “in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia”.Nella sentenza si legge anche che la mancanza di determinati reati non permette allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell’ordine.
VIDEO Ritorno alla Diaz, parlano le vittime del pestaggio
In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, “aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello”, la Corte sottolinea “l’assenza di ogni nesso di causalità” fra la condotta dell’uomo e l’utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell’irruzione nella scuola. E i maltrattamenti “sono stati inflitti in maniera totalmente gratuita” e sono qualificabili come “tortura”. L’azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L’Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro.
La proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all’esame del parlamento da quasi due anni: approvata dal senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla camera dove il 23 marzo scorso è approdata in aula per la discussione generale. L’esame dovrebbe riprendere in settimana, dopo l’ok alla riforma del terzo settore, con i tempi contingentati e quindi certi e rapidi. Ma il testo, già modificato dalla Commissione giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato.
VIDEO Diaz, cronaca di un massacro quel sangue non ancora lavato
Filed under: Democrazia | Tagged: Arnaldo Cestaro, Corte di Strasburgo, forze dell’ordine, tortura | Leave a comment »
Rivolta dei Comuni italiani contro i tagli. A guidare la protesta, ironia della sorte, è proprio il successore di Matteo Renzi alla guida del Comune di Firenze, Dario Nardella, che per primo ha fatto sentire la sua voce per i maxi tagli da parte dello Stato alle città metropolitane. Con lui anche Ignazio Marino, sindaco di Roma, e Luigi De Magistris, primo cittadino di Napoli. Loro tre, insieme al presidente dell’Anci, Piero Fassino, terranno un vertice a Roma giovedì prossimo, alla vigilia del varo del Def che prevedere ulteriori tagli e razionalizzazioni nel trasporto e nelle aziende per i rifiuti. Se dovranno ulteriormente tirare la cinghia, saranno inevitabili nuove tasse locali, proprio mentre il Governo sbandiera l’intenzione di non aumentare la pressione fiscale e, anzi, di ridurla.
I sindaci chiedono un riparto più equilibrato dei tagli. Sul tavolo del Governo ci sono i criteri di ripartizione della sforbiciata da 2,2 miliardi di euro prevista dalla manovra, che deve essere distribuita fra 8 mila municipi italiani. Secondo i sindaci di Firenze, Roma e Napoli, le loro amministrazioni si trovano a dover sostenere oltre la metà del peso dei tagli destinati alle città metropolitane – ben 178 milioni (di cui 26 milioni Firenze, 87,2 Roma, 65,8 Napoli) su un totale di 256 milioni. Protestano tuttavia anche i sindaci dei piccolissimi Comuni, perché penalizzati dai criteri demografici che in 2000 amministrazioni porterebbe a tagli incrementati dal 20 al 100 per cento. “Rischiano il default centinaia di enti” spiega Massimo Castelli, responsabile dei piccoli Comuni presso l’Anci.
Già giovedì scorso il sindaco di Firenze, Dario Nardella, aveva ammesso che il taglio da 26 milioni di euro alla città metropolitana di Firenze “ci porterà a mettere le mani sulla pressione fiscale a livello metropolitano e territoriale”. “Francamente- spiega il
sindaco che è anche coordinatore delle città metropolitane dell’Anci- non so come riusciremo a sopportare un taglio del 23%. Qualunque azienda con un taglio al budget di un quarto non sarebbe in grado di sopravvivere”.
“Misure insopportabili” dice Ignazio Marino alla Repubblica, proponendo al Governo di “concordare insieme strade alternative per effettuare i tagli alla spesa pubblica”. Per Roma i tagli, pari a 87 milioni nel 2015, aumenterebbero fino a 175 milioni nel 2016 e a 262 milioni nel 2017, “5 volte superiori a quelli imposti a Milano, 4 volte quelli imposti a Torino. Non voglio scatenare assurde guerre fra poveri, ma mi limito a segnalare un paradosso”. Finora “siamo riusciti a risparmiare senza tagliare i servizi, ma in queste condizioni non è più possibile farlo. E se tagliamo servizi e mettiamo nuove tasse – aggiunge – siamo poi noi sindaci che dobbiamo andare a metterci la faccia di fronte ai cittadini”. Marino propone misure alternative, come “una tassa di 1 o 2 euro sui transiti aeroportuali”.
PIù duri i toni di Luigi De Magistris, che parla di “Governo irresponsabile” e di manovre “irragionevoli”. “Hanno messo in bilancio un risparmio di un miliardo e ora per le incongruenze delle loro manovre finanziarie fanno pagare ai cittadini un prezzo troppo alto. Questi tagli andranno a toccare un terzo del Paese”. Per il sindaco di Napoli, intervistato dalla Repubblica, “sembra di stare davanti a due-tre sarti della finanza che fanno tagli irresponsabili, ma io credo che dietro questa deriva sartoriale ci siano delle manine politiche che vogliono colpire aree strategiche del Paese. C’è una riforma appena nata, quella delle città metropolitane, e invece di mettere in campo ogni iniziativa per sostenere queste macro aree urbane – sottolinea -, gli si spezzano le gambe sul nascere, per giunta con un criterio di distribuzione dei tagli assolutamente illogico”.
Filed under: politica nazionale | Tagged: Città metropolitane, Dario Nardella, Ignazio Marino | Leave a comment »
Oggi la metà dei cittadini non va nemmeno più a votare», perché non si sente rappresentata da nessun partito. E «più della metà dei lavoratori non è rappresentata da nessun sindacato». Credo che quando si discute di «coalizione sociale», come si è fatto in questi giorni sul manifesto, si debba partire da queste due frasi del discorso di Maurizio Landini, a conclusione della bella manifestazione della Fiom a Roma, che ci richiamano, tutti, alla drammatica crisi di rappresentanza che caratterizza la nostra ormai conclamata «post-democrazia». E leggerle in sincronia con la vera e propria lezione pubblica di Stefano Rodotà, rivolta ai cinquantamila di piazza del Popolo, là dove ha detto (cito a senso) che c’è l’ assoluta necessità di una coalizione orizzontale, di una «coalizione sociale», appunto, che non solo articoli la domanda dei soggetti sociali nei confronti della politica, ma ne strutturi l’agenda (mi pare che abbia detto proprio così: l’«agenda»).
Sta qui, esattamente, il punto su cui ci laceriamo tutti, e in parte anche ci dilaniamo come se fossimo avversari anziché naufraghi. Sta nel vuoto aperto dalla crisi dei due principali pilastri della vicenda sociale e politica novecentesca: il Sindacato e il Partito. Entrambi cresciuti fino ad assumere una centralità costituente ed entrambi caduti. O comunque svuotati: ridotti spesso a involucri incapaci di trattenere le energie sociali che li avevano fatti grandi. Crisi della Rappresentanza, appunto, sociale e politica insieme.
Forse sbaglio, ma stento a vedere nell’azione di Landini un chiaro progetto, sociale o politico, né tantomeno personale (come vorrebbe il brusio pettegolo su «scalate alla Cgil» o «discese in politica»). E mi pare invece d’intuire un’umanissima, fondatissima angoscia di chi sa di stare dentro una struttura a rischio di estinzione. Una «macchina» (non solo la Fiom, ma il Sindacato nel suo complesso) che fu straordinaria per potenza e creatività, ma che andrà irrimediabilmente a sbattere o a esaurirsi (in buona parte lo è già) se non saprà cambiare radicalmente se stessa allargando il proprio campo sociale. Così come mi sembra di vedere nella furia (crescente) di Rodotà nei confronti dei partiti (in cui peraltro ha militato a lungo, in posizioni apicali), compresi quelli piccoli, e a lui vicini, più una disperazione per il vuoto che lasciano che il rancoroso disprezzo per quel che sono.
Se questo è vero, allora, quello che sia Landini che Rodotà ci indicano è un punto di partenza, non certo di arrivo. Perché se è evidente che un processo di aggregazione orizzontale, al livello dei frammentati soggetti sociali, è indispensabile per ricomporre una qualche capacità di articolare una «voce» capace di farsi sentire e di produrre un’«agenda» alternativa, rimane, grande come una casa il problema di chi — o che cosa — quell’agenda la agisca. In qualche modo il problema intorno a cui si sono arrovellati, e sono finiti in secca, tutti i movimenti di protesta emersi dagli anni Sessanta in poi, e che ora ha finito per risucchiare nel suo gorgo anche il vecchio «movimento operaio», costretto, come quelli, a ricercare, brancolando nel buio, la propria via verso una capacità d’impatto sui meccanismi fondamentali della decisione politica, in chiave non solo difensiva (o oppositiva) ma anche «offensiva». In grado cioè di imporre decisioni radicalmente diverse da quelle amministrate al livello di Governo. Problema drammatico, perché, come ci dice la Grecia, quelle politiche sono oggi mortali per la Società (distruggono, letteralmente, il Sociale). E se non vengono rovesciate anche nelle sedi stesse in cui nascono e sono «decise», non c’è scampo per chi, in basso, è costretto a subirle.
È l’eterno problema del rapporto tra Sociale e Politico. O, per dare volti ai concetti, tra Sindacato e Partito. Che non è inedito, come in molti oggi sembrano pensare, ma tema ricorrente da quando la sfera sociale si è massificata e quella politica democratizzata. Ed ha tre volte ragione Paolo Favilli a ricordarci che quel rapporto ha una sua storia: esempi concreti di multiformi soluzioni che non possiamo noi, oggi, ignorare. Almeno tre «modelli», tutti giocati nel passaggio — così simile al nostro per radicalità dei processi di trasformazione — tra Ottocento e Novecento. Il modello cosiddetto tedesco, incentrato sul primato del Partito (e della lotta politica) sul Sindacato (e l’azione rivendicativa) teorizzato da Kautsky e dalla Seconda internazionale: schema prevalso anche in Italia nel corso dell’età giolittiana e stabilizzatosi in chiave riformista nel secondo dopoguerra. Il modello inglese, quello delle Unions (!), in cui il partito — il Labour, appunto — è, almeno all’origine, diretta espressione del sindacato: sua «protesi» all’interno delle istituzioni, «associazione di associazioni» di cui le organizzazioni dei lavoratori, con struttura prevalentemente orizzontale, sono i «committenti». Infine il modello francese, quello che è stato definito «sindacalismo di azione diretta», in cui il Sindacato non solo delega ma assorbe in sé gli stessi compiti del Partito rifiutando la separazione tra lotta economica e lotta politica e costituendosi in una sorta di «Partito sociale»: modello a sua volta oscillante tra l’impostazione soreliana culminante nel mito dello sciopero generale insurrezionale e quella proudhoniana, articolata con forme di cooperativismo e di mutualismo come espressione di autogoverno dei produttori.
È ipotizzabile che, saltato definitivamente il primo modello (non c’è più un «partito di riferimento» per nessuno), torni in gioco qualcuno degli altri due? Che si possa immaginare una «coalizione sociale» committente nei confronti di un «soggetto politico» delegato a ripristinarne una rappresentanza? E con quale forma organizzativa, che non sia più quella del tradizionale partito di massa? Oppure che si riapra la strada a ipotesi di «sindacalismo di azione diretta», che però dovrebbe rivoluzionare alle radici il proprio modello organizzativo, farsi integralmente territoriale com’era il sindacato delle Camere del Lavoro e non quello delle Federazioni d’industria? Oppure — e le ipotesi possono moltiplicarsi — non sarebbe meglio continuare a «cercare ancora»? Tutti insieme. Ponendoci seriamente il problema — irrisolto — di dove, e come, possa coagularsi oggi, in Italia, quella «massa critica» in grado di tradurre nei luoghi del Governo la forza di un sociale riscattato dalla propria impotenza, prima di correre a mettere, ognuno, i propri cappelli.
Filed under: politica nazionale | Tagged: coalizione, Marco Revelli, sindacato, Stefano Rodotà | Leave a comment »