Appello dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) ai parlamentari, ai partiti, alle cittadine e ai cittadini

EDIZIONE SPECIALE
Riforme: era (ed è)
una questione democratica
Appello dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)
ai parlamentari, ai partiti, alle cittadine e ai cittadini
Il 29 aprile 2014 l’ANPI Nazionale promosse una manifestazione al teatro Eliseo
di Roma col titolo “Una questione democratica”, riferendosi al progetto di
riforma del Senato ed alla legge elettorale da poco approvata dalla Camera.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti; ma adesso che si vorrebbe
arrivare ad un ipotetico “ultimo atto” (l’approvazione da parte del Senato della
legge elettorale in una versione modificata rispetto al testo precedente, ma
senza eliminare i difetti e le criticità; e l’approvazione, in seconda lettura, alla
Camera della riforma del Senato approvata l’8 agosto scorso, senza avere
eliminato i problemi di fondo) è necessario ribadire con forza che se
passeranno i provvedimenti in questione (pur non in via definitiva) si
realizzerà un vero e proprio strappo nel nostro sistema democratico.
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Non è più tempo di inascoltate argomentazioni e bisogna fermarsi all’essenziale,
prima che sia troppo tardi.
Una legge elettorale che consente di formare una Camera (la più
importante sul piano politico, nelle intenzioni dei sostenitori della riforma
costituzionale) con quasi i due terzi di “nominati”, non restituisce la
parola ai cittadini, né garantisce la rappresentanza piena cui hanno
diritto per norme costituzionali. Una legge elettorale, oltretutto, che
dovrebbe contenere un differimento dell’entrata in vigore a circa un anno,
contrariamente a qualunque regola o principio (le leggi elettorali si fanno per
l’eventualità che ci siano elezioni e non dovrebbero essere soggette ad accordi
particolari, al di là di ogni interesse collettivo).
Quanto al Senato, l’esercizio della sovranità popolare presuppone una
vera rappresentanza dei cittadini fondata su una vera elettività.
Togliere, praticamente, di mezzo, una delle Camere elettive previste dalla
Costituzione, significa incidere fortemente, sia sul sistema della rappresentanza,
sia su quel contesto di poteri e contropoteri, che è necessario in ogni Paese
civile e democratico e che da noi è espressamente previsto dalla Costituzione
(in forme che certamente possono essere modificate, a condizione di lasciare
intatte rappresentanza e democrazia e non sacrificandole al mito della
governabilità).
Un sistema parlamentare non deve essere necessariamente
bicamerale. Ma se si mantiene il bicameralismo, pur differenziando
(come ormai è necessario) le funzioni, occorre che i due rami abbiano
la stessa dignità, lo stesso prestigio, ed analoga elevatezza di compiti e che
vengano create le condizioni perche l’eletto, anche al Senato, possa svolgere le
sue funzioni “con disciplina e onore” come vuole l’articolo 54 della Costituzione.
Siamo dunque di fronte ad un bivio importante, i cui nodi non possono essere
affidati alla celerità ed a tempi contingentati.
In un momento di particolare importanza, come questo, ognuno deve
assumersi le proprie responsabilità, affrontando i problemi nella loro reale
consistenza e togliendo di mezzo, una volta per tutte, la questione del preteso
risparmio con la riduzione del numero dei Senatori, perché uguale risultato
potrebbe essere raggiunto riducendo il numero complessivo dei parlamentari.
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Ai parlamentari, adesso, spetta il coraggio delle decisioni anche
scomode; ed è superfluo ricordare che essi rappresentano la Nazione ed
esercitano le loro funzione senza vincolo di mandato (art. 67 della Costituzione)
e dunque in piena libertà di coscienza.
Ai partiti, se davvero vogliono riavvicinare i cittadini alle istituzioni ed
alla politica, compete di adottare misure e proporre iniziative
legislative di taglio riformatore idonee a rafforzare la democrazia, la
rappresentanza e la partecipazione anziché ridurne gli spazi.
Ai cittadini ed alle cittadine compete di uscire dal rassegnato silenzio,
dal conformismo, dalla indifferenza e far sentire la propria voce per
sostenere e difendere i connotati essenziali della democrazia, a partire
dalla partecipazione e per rendere il posto che loro spetta ai valori
fondamentali, nati dall’esperienza resistenziale e recepiti dalla Costituzione.
L’Italia può farcela ad uscire dalla crisi economica, morale e politica, solo
rimettendo in primo piano i valori costituzionali e le ragioni etiche e di buona
politica che hanno rappresentato il sogno, le speranze e l’impegno della
Resistenza.
Dipende da tutti noi.
L’ANPI resterà comunque in campo dando vita ad una grande mobilitazione per
informare i cittadini e realizzare la più ampia partecipazione democratica ad un
impegno che mira al bene ed al progresso del Paese.
La Segreteria Nazionale ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)
Roma, 16 gennaio 2015

Caso Manca, dopo l’audizione Fava: “Sciatteria giudiziaria” da: l’ora quotidiano

Il vicepresidente dell’Antimafia, dopo la convocazione del procuratore Pazienti e del pm Petroselli: ”Questa inchiesta è stata gestita con eccessiva superficialità. L’atteggiamento di questi magistrati è stato quello di spazzare via il beneficio del dubbio con sufficienza, come per dire: Attilio era un tossicodipendente occasionale, ma no, forse era un consumatore frequente, il naso si è fracassato cadendo sul letto, insomma molte cose di fronte alle quali chiunque si sarebbe fermato un attimo a ragionare”

di Luciano Mirone

15 gennaio 2015

Non usa mezzi termini Claudio Fava dopo la convocazione a Palazzo San Macuto dei magistrati di Viterbo titolari dell’inchiesta sulla morte dell’urologo Attilio Manca: il vicepresidente dell’Antimafia parla di “sciatterie giudiziarie”, di “superficialità”, e di “pregiudizi negativi” nei confronti della vittima, ma non vuole immaginare complotti, almeno ufficialmente, “per evitare di allontanarci dalla verità”. Stiamo ai fatti, dice Fava. “Ci sono due certezze: la prima è che questa inchiesta è stata fatta male, la seconda è che a Barcellona Pozzo di Gotto (città di origine di Attilio Manca, ndr.) qualcuno mente”.

Qual è l’impressione finale dopo aver ascoltato i magistrati?

“Non è una magnifica impressione. Questa inchiesta è stata gestita con eccessiva sufficienza. Non è un caso che buona parte delle attività istruttorie siano state ripetute, o siano state fatte per la prima volta soltanto su sollecitazione del Gip. Mi è sembrato (e questa la cosa più preoccupante) che ci fosse un pregiudizio negativo addirittura nei confronti della vittima, nel senso che non si riescono ad immaginare ipotesi diverse dalla morte accidentale per overdose. Di fronte ad ogni evidenza, l’atteggiamento di questi magistrati è stato quello di spazzare via il beneficio del dubbio con sufficienza, come per dire: era un tossicodipendente occasionale, ma no, forse era un consumatore frequente, il naso si è fracassato cadendo sul letto, probabilmente perché è stato in posizione supina per molte ore, insomma molte cose di fronte alle quali chiunque si sarebbe fermato un attimo a ragionare”.

Crede che dietro alla morte di Attilio Manca ci sia qualcosa di grosso?

“Attilio Manca non è morto per un’overdose accidentale. E’ un omicidio organizzato con pignola attenzione anche nei dettagli. Credo che Manca si sia trovato coinvolto, consapevolmente o inconsapevolmente, in una vicenda che ha riguardato l’operazione e le cure post operatorie prestate a Provenzano per il tumore alla prostata, e che per questa ragione sia stato ucciso”.

Non è eccessivo che i magistrati di Viterbo – durante l’audizione in Commissione antimafia – abbiano bollato Attilio Manca come un drogato, attribuendo questo termine alla madre che, cinque giorni dopo la morte del figlio, dichiarò a verbale che Attilio, negli anni del liceo, ‘’si era fatto qualche canna’’? La Polizia, invece di scrivere marijuana, scrisse “stupefacenti”, creando da quel momento l’equivoco che Attilio Manca fosse un tossico…

“In Commissione i magistrati hanno citato la deposizione della madre, che ovviamente si riferiva a un periodo studentesco in cui il ragazzo si sarà fatto qualche spinello. Però dicono pure di avere ascoltato alcuni amici d’infanzia di Barcellona, che Attilio Manca avrebbe continuato a frequentare. Secondo costoro, quando il medico scendeva in Sicilia, si ritrovava con loro anche per fare uso di eroina. Tutto questo, però, non ha avuto alcun riscontro. I colleghi laziali di Manca, sentiti sul punto, hanno smentito tutto. Peraltro è praticamente impossibile che un chirurgo possa fare uso di eroina e al tempo stesso entrare in sala operatoria con la stessa abilità di Manca”.

A proposito dei quattro ex “amici” barcellonesi che accusano Attilio Manca di essere un drogato: appartengono al contesto del circolo paramassonico “Corda fratres”, di cui fanno parte, fra gli altri, i boss Rosario Cattafi, uomo di Santapaola e dei servizi segreti deviati, e Giuseppe Gullotti, colui che recapitò a Giovanni Brusca il telecomando della strage di Capaci e che è stato ritenuto dalla Cassazione il mandante dell’assassinio del giornalista Beppe Alfano. Fra questi ex “amici” c’è anche il cugino dell’urologo, tale Ugo Manca (coinvolto in questa storia, la cui posizione è stata archiviata a Viterbo), che risulta vicino alla mafia di Barcellona e al tempo stesso intimo amico dei Colletti bianchi della città.

“In questa indagine non è stato approfondito neanche il contesto criminale di Barcellona. Che vede insieme, in un’unica filiera, Provenzano (che trascorre periodi della sua latitanza proprio in quella città) e Cattafi (che lo ospita), legato a sua volta a Ugo Manca. Non è stata considerata la possibilità di intervenire su quel tessuto di amicizie locali, pilotandole in certe direzioni”.

In che senso?

“La donna romana, considerata dai magistrati di Viterbo come la presunta fornitrice di eroina di Attilio Manca, conduce anche lei a Barcellona. C’è un rapporto dei Ros che mette insieme Provenzano, Barcellona e Cattafi, il quale, ripeto, frequentava Ugo Manca. La cosa sbalorditiva è che i magistrati di Viterbo dicono di non conoscere neanche questo rapporto. Stessa cosa della permanenza di Provenzano a Barcellona. L’unica cosa che dicono di sapere è che Provenzano non può essere stato operato da Manca perché l’intervento non sarebbe stato eseguito in laparoscopia, tecnica nella quale era specializzato Attilio. La cosa impressionante è che sono apparsi informatissimi su alcuni dettagli e particolarmente disinformati sulla dimensione criminale di Provenzano in relazione a Barcellona”.

La famiglia Manca, in tutti questi anni, neanche è stata ascoltata dai magistrati laziali.

“Trovo davvero singolare che la famiglia non sia stata ammessa neanche come parte civile al processo, così come trovo singolare che non siano stati sentiti il padre, la madre e il fratello di Attilio. Ci si è affidati a qualche interrogatorio a distanza, condotto al Commissariato di Barcellona. Penso che sia naturale, in casi del genere, per un pubblico ministero ascoltare un genitore. Non è stato fatto neanche questo”.

Landini: cambiare industria e fisco Fonte: Il Manifesto | Autore: Massimo Franchi

Inno­va­zione come nuova ban­diera del sin­da­cato. La Fiom, Mau­ri­zio Lan­dini — spal­leg­giato da Susanna Camusso — mette assieme in un con­ve­gno pro­fes­sori, ita­liani e non — oltre a Mariana Maz­zu­cato, il boc­co­niano sui gene­ris Mar­cello Minemma, fau­tore di una Bce «bad com­pany» per con­ge­lare i debiti nazio­nali, il pre­si­dente dello Svi­mez Adriano Gia­nolla — per chie­dere «di ripren­de­rer il cam­mino dello svi­luppo» con «una vera Europa sociale e un’altra poli­tica industriale».

Nella sala della Regina di una Camera dei depu­tati già in fibril­la­zione per le dimis­sioni di Napo­li­tano e l’elezione del nuovo capo dello Stato, il governo non c’è. Il mini­stro Gra­ziano Del­rio — invi­tato per tempo — è assente giu­sti­fi­cato. Le cri­ti­che sono quindi tutte per Mat­teo Renzi e le sue politiche.

Se sul Jobs act Lan­dini annun­cia un’assemblea nazio­nale dei dele­gati a feb­braio, l’intenzione di «per­cor­rere tutte le strade: quella giu­ri­dica, dei ricorsi per­ché ci sono ampie parti dei decreti asso­lu­ta­mente inco­sti­tu­zio­nali, con­si­de­rato che a parità di lavoro e con­tratto si assi­cu­rano diritti diversi ai lavo­ra­tori» e per­fino l’uso al con­tra­rio dell’odiato arti­colo 8 di Sac­coni del 2010 — «a livello azien­dale si può dero­gare alle leggi e noi lo faremo col con­tratto a tutele cre­scenti» -, è sulla parola «cam­bia­mento» che sof­ferma le sue conclusioni.

«È stato detto che stiamo peg­gio del 2011 e difatti le riforme che il governo Renzi ha fatto sono solo il com­ple­ta­mento della let­tera della Bce e dei dik­tat della troika di quell’anno. Non sono le riforme che ser­vi­vono al paese», attacca il segre­ta­rio Fiom. La per­dita dei diritti, l’aumento delle dise­gua­glianze viene poi legato alla «schi­zo­fre­nia» di un governo che aveva sem­pre negato «la nazio­na­liz­za­zione tem­po­ra­nea dell’Ilva chie­sta dalla Fiom e ora la fa solo per­ché non trova pri­vati dispo­sti a com­prarla». Oppure la riso­lu­zione delle crisi azien­dali di Terni — «Renzi s’è messo la meda­glia anche lì» — o di Elec­tro­lux «basata sui con­tratti di soli­da­rietà che nella legge di sta­bi­lità sono stati defi­nan­ziati e tagliati del 10 per cento». Il rischio è poi che a breve anche «quel poco di indu­stria pub­blica che è rima­sta sia sven­duta»: Fin­mec­ca­nica o Eni.

«Per que­sto noi dob­biamo riven­di­care più di altri il cam­bia­mento, l’innovazione». Citando il dato sul numero di impren­di­tori lau­reati — solo il 25 per cento — for­nito da Andrea Ricci, ricer­ca­tore dell’Isfol, Lan­dini ricorda una frase di Romano Prodi: «Non si può essere ric­chi e coglioni per più di due gene­ra­zioni» anche per­ché è «ormai dimo­strato che la pre­ca­rietà porta alla ridu­zione della pro­dut­ti­vità». Per tutti que­sti motivi la Fiom — e la Cgil — vogliono inno­vare i temi delle loro mobi­li­ta­zioni. «La pos­siamo girare come vogliamo, ma dob­biamo assu­mere l’idea di una Europa che abbia lo stesso sistema fiscale e una banca unica». Il pros­simo con­ve­gno della Fiom sarà pro­prio sul fisco, annun­cia Lan­dini, ricor­dando come «il Jobs act e il decreto fiscale con il con­dono sono due facce della stessa meda­glia». Per «allar­gare con­senso e rap­pre­sen­tanza serve mobi­li­tarsi anche su que­sti temi», chiude.

Sulla stessa linea lo aveva pre­ce­duto Susanna Camusso. «Dob­biamo pro­vare ad inno­vare e a farlo senza aggiu­sta­menti in un sistema che non fun­ziona o facendo riforme dello Stato e della Pub­bica ammi­ni­stra­zione che non affron­tano i pro­blemi dello svi­luppo, della ridu­zione della dise­gua­glianza. Se non riu­sciamo a mutua­liz­zare a livello euro­peo il nostro debito, prima o poi arri­ve­remo a discu­tere di uscita dall’Euro», pre­dice il segre­ta­rio della Cgil. Il pro­blema dell’Italia è quindi che «siamo un paese che guarda con invi­dia alle inno­va­zioni degli altri, ma le ripro­po­niamo solo in scala micro: abbiamo intro­iet­tato l’idea che non siamo un paese di inno­va­zione». Per aspi­rare ad «un nuovo modello di svi­luppo pro­viamo a par­tire da alcuni ambiti: l’alimentare e il made in Italy, la cura delle per­sone in un paese che uni­sce invec­chia­mento e lon­ge­vità e, infine, sul ter­ri­to­rio con manu­ten­zione, porti, turi­smo, arte». Parole nuove, per un sindacato.

“Cgil, ambiguità e attendismo non aiutano certo l’autoriforma del sindacato”. Intervento di Sergio Bellavita Fonte: il sindacato è un’altra cosa | Autore: sergio bellavita

Il 9 e 10 gennaio l’esecutivo nazionale Cgil si è riunito in una due giorni potenzialmente ambiziosa. Il tema era il rapporto tra il PD, la Cgil e il contesto sociale e politico che le scelte di Renzi hanno definito. Susanna Camusso ha introdotto la discussione sottolineando il carattere strutturale della rottura con il PD, oltre lo stesso Renzi, la scomparsa cioè di un partito di riferimento per la Cgil e quindi il delinearsi, insieme alle implicazioni pesanti del Jobs Act, di una situazione del tutto inedita.Ha lamentato il fatto che non tutti i quadri dell’organizzazione hanno compreso la necessità di elaborare il lutto di questa rottura. Ha criticato il dualismo esistente nell’organizzazione tra la rottura profonda di vertice Cgil PD e i buoni rapporti che a livello locale continuano determinando un dualismo non più sostenibile. Si è quindi interrogata su quale possa essere il rapporto tra la politica e il sindacato anche e soprattutto alla luce delle aspettative di massa che la Cgil ha raccolto intorno a se con la manifestazione del 25 ottobre. No ad una Cgil area di minoranza del PD, no a costruire nuovo partito. La Cgil non può divenire il sindacato della nostalgia, minoritario e che raccoglie la fiaccola della resistenza ma deve assumere un ruolo da protagonista nella sfida posta. Proprio perché vogliono collocare il sindacato confederale tra le cose inutili. Innovare quindi perché indietro non si torna, è sinteticamente la riflessione di Camusso. Da qui ha introdotto il tema del rapporto tra le aspettative che le piazze delle mobilitazioni hanno posto e le risposte possibili. Ha chiuso a nuovi scioperi generali a breve, il direttivo Cgil è infatti convocato per il 18 febbraio dopo un passaggio con la Uil e il tentativo di ricucire con la Cisl, affermando che la partita non si giocherebbe nelle piazze ma nella contrattazione, nel radicamento nei luoghi di lavoro e infine non si scapperebbe dalla indispensabile unità sindacale. Si è interrogata quindi su quale profilo si debba assumere in quanto nessuno, nemmeno la Cgil, sarebbe immune dai condizionamenti dei processi in corso. Rappresentanza e contrattazione devono divenire il luogo entro cui, secondo Camusso, si ricostruisce radicamento sindacale. Non si deve cadere nella pratica dell’art.8 di Sacconi, bisogna decidere se stare o meno dentro le commissioni di conciliazione del nuovo sistema. Infine secondo Susanna Camusso non si deve cedere al leaderismo in questa fase, cosa che riguarda tutti i corpi di rappresentanza, mentre bisognerebbe che i dirigenti Cgil facessero un passo indietro cedendo un po’ di potere verso il basso, a quadri e iscritti, riconoscendo cosi il valore delle persone e dei processi decisionali collettivi. La discussione che si è aperta ha rappresentato bene il disorientamento e la crisi della Cgil. Tra chi vorrebbe ricostruire il rapporto con il PD o non lo ha mai interrotto a chi pensa che il sindacato debba costruire un nuovo soggetto o almeno essere parte di esso. Sul terreno della contrattazione insediamento e rapporto con il nuovo contesto sono emerse le due spinte di fondo che esistono dentro l’organizzazione, una in sostanza dice che nel nuovo contesto bisogna starci adattando il modello e le pratiche contrattuali e l’altra che chiede un riposizionamento strategico con la riscrittura del programma fondamentale della Cgil. Una dice che nella stagione della deflazione bisogna accettare la chiusura delle politiche salariali e lavorare a quella di filiera, di sito. L’altra dice che bisogna riunificare i contratti per rafforzare la nostra capacità contrattuale perché la contrattazione nazionale è finita per come originariamente è nata. Landini ha chiesto di coinvolgere gli iscritti, anche con consultazioni ad hoc per decidere insieme a loro come proseguire la battaglia contro le politiche del governo Renzi e sulle scelte organizzative Cgil. Rinaldini ha lamentato l’eccessivo ritardo di un direttivo nazionale al 18 febbraio ed ha chiesto alla Camusso di anticiparlo.
Susanna Camusso nelle sue conclusioni ha risposto che la discussione è solo avviata e che proseguirà nella due giorni sulla conferenza di organizzazione. Il mio giudizio è che l’unica cosa vera che alla fine di questa due giorni si può dire sia stata definita è la rottura con il PD. Cosa che di per se non produce nulla ovviamente e che se non vedrà una ridefinizione della linea e delle pratiche rischia di vanificarsi in un processo inesorabile di sussunzione dentro il PD di tutta la Cgil. Per il resto la montagna di una discussione importante ha partorito il topolino. Si conferma la centralità dell’unità con Cisl e Uil, e del sistema definito dal Testo Unico del 10 gennaio. Cioè esattamente la continuità deleteria e devastante con le pratiche di questi anni. Il No ad anticipare il direttivo nazionale Cgil sta a certificare la fine della parabola di mobilitazione di questi mesi contro il Jobs Act.
La Cgil appare davvero in gravissima difficoltà ad immaginare una via d’uscita da questa sua drammatica crisi di risultati concreti. O meglio, quella parte che la drammaticità non la coglie perché si considera già parte del nuovo modello sociale questa crisi non la percepisce, mentre Landini – che sa bene quali devastanti implicazioni conoscerà l’iniziativa sindacale senza lo statuto dei diritti dei lavoratori – non riesce a dire l’unica cosa che oggi la Cgil deve fare se davvero volesse ricostruire un argine all’aggressione che governo e padronato perseguono contro il mondo del lavoro: rompere con il modello del 10 gennaio, disdettare formalmente l’accordo che accetta la totale derogabilità dei contratti e della legge. Senza quella rottura ogni discussione su come ricostruisci una contrattazione che risponda ai bisogni dei lavoratori è finta. Il Jobs Act e l’accordo del 10 gennaio sono complementari. Il regime della totale ricattabilità del lavoro funziona solo se si regge su un modello che alimenta e autorizza la contrattazione di ricatto ed espelle il sindacalismo conflittuale e viceversa. Il 10 gennaio, bisognerà riconoscerlo prima o poi , ha rappresentato l’estensione a tutti i lavoratori del modello Marchionne. Il sindacato ai tempi di Renzi, ma non è solo un processo italiano, è destinato a scomparire nella sua funzione originaria. L’unico spazio che gli viene concesso è quello aziendale per la contrattazione di scambio, aziendalista. Quella parte della Cgil che vuole davvero contrastare questa deriva deve ora rompere ogni ambiguità, ogni attendismo. Lo diciamo a Landini che legittimamente ambisce a divenire segretario della Cgil. Bisogna imporre con urgenza alla Cgil scelte nette, inequivoche, rimettendo in campo la forza della Fiom: altrimenti la fine di questa discussione senza scelte è già segnata. La Cgil ha più volte dimostrato di non aver alcuna capacità di autoriforma. Senza una rottura con la destra interna, quella che per capirci reclama la normalizzazione totale, non può esserci alcuna svolta. Non ci può essere alcun riposizionamento strategico che tenga insieme chi fa i contratti svendendo diritti e salario e chi pensa di aumentarli. Non abbiamo molto tempo per impedire che sia la linea della normalizzazione ad imporsi in maniera strisciante. Dobbiamo muoverci subito altrimenti sarà la Cgil a conquistare Landini e non viceversa.

Il presidente che sussurrava alla crisi | Fonte: Il Manifesto | Autore: Michele Prospero

Novennato. Quale eredità lascia il mandato di Giorgio Napolitano. Anni difficili, dal crollo delle coalizioni alla fine del bipolarismo, dalle leggi ad personam di Berlusconi allo statista di Rignano. Dopo di lui il parlamentarismo è più debole. E le larghe intese non hanno aiutato il paesePer un bilan­cio storico-critico dei nove anni di pre­si­denza Napo­li­tano occorre appu­rare quanto, nel suo modo di inter­pre­tare il ruolo, ci sia di occa­sio­nale e quanto invece segni un muta­mento per­ma­nente nella col­lo­ca­zione del Qui­ri­nale negli equi­li­bri dina­mici del sistema costi­tu­zio­nale. La cate­go­ria del pre­si­den­zia­li­smo di fatto, uti­liz­zata di solito per descri­vere una avve­nuta sovrae­spo­si­zione del Colle nelle vicende isti­tu­zio­nali più deli­cate, non è ade­guata per cogliere la reale por­tata, e dun­que le con­se­guenze di più lungo periodo, dell’interventismo qui­ri­na­li­zio, che è parso sicu­ra­mente accen­tuato in taluni momenti.

Mal­grado una cre­scita visi­bile dell’influenza, e talora anche della respon­sa­bi­lità pre­si­den­ziale diretta in opzioni di più stretta marca poli­tica, la repub­blica non si è tra­sfor­mata in una variante incom­pleta di regime pre­si­den­ziale. Cioè, dopo Napo­li­tano, il pro­blema sul tap­peto non è certo quello di por­tare final­mente a com­pi­mento for­male quel muta­mento qua­li­ta­tivo delle attri­bu­zioni del capo dello stato avve­nuto già sul piano della con­sue­tu­dine, con l’espropriazione defi­ni­tiva di com­pe­tenze un tempo parlamentari.

L’eccezionale cumulo di poteri di con­di­zio­na­mento avu­tosi nella per­sona di Napo­li­tano (di cui la rie­le­zione, sia pure a tempo e non sol­le­ci­tata, è una con­ferma) resta all’interno di un par­la­men­ta­ri­smo che, nelle giun­ture cri­ti­che del mec­ca­ni­smo poli­tico incep­pato, trova pro­prio nell’attivismo di altri poteri costi­tu­zio­nali (la Con­sulta o il Qui­ri­nale) una val­vola di sfogo, non priva di ele­menti di fri­zione e di ela­stica indeterminazione.

Il regime par­la­men­tare al bivio
La que­stione cru­ciale è quindi di accer­tare se, dopo il sur­ri­scal­da­mento ele­vato delle fun­zioni e delle pre­ro­ga­tive del Colle, que­sti poteri d’eccezione, riat­ti­vati in rispo­sta alla con­cla­mata situa­zione di emer­genza e gestiti secondo moda­lità suscet­ti­bili di discorde valu­ta­zione, tor­ne­ranno ad essere dor­mienti (come è già acca­duto con Scal­faro, dopo il varo della “tri­nità isti­tu­zio­nale” impe­gnata nel governo dell’eccezione e la gesta­zione di governi del pre­si­dente) o invece deter­mi­ne­ranno una sla­vina che con­durrà alla fuo­riu­scita dagli ingra­naggi pecu­liari della forma di un regime parlamentare.

Ogni pre­si­dente, get­tato in con­di­zioni cri­ti­che, come sono quelle della seconda lunga crisi dei vent’anni, che ha deter­mi­nato due crolli del sistema dei par­titi in tempi rav­vi­ci­nati e subìto l’irruzione di un potente vin­colo esterno euro­peo che ha limato l’autonomia poli­tica di una demo­cra­zia sovrana, con­duce una sua poli­tica isti­tu­zio­nale. Ed è pro­prio que­sta poli­tica delle isti­tu­zioni, cali­brata per gover­nare una fase di forte fol­lia siste­mica, che occorre ana­liz­zare, alla luce di un cri­te­rio prin­cipe che carat­te­rizza la poli­tica: l’efficacia. La domanda quindi è: Napo­li­tano, con la sua poli­tica delle isti­tu­zioni, ha arre­stato le dina­mi­che dege­ne­ra­tive che inve­sti­vano la repub­blica o ha con­tri­buito anch’egli con la sua con­dotta, che aveva delle pos­si­bili opzioni alter­na­tive, ad appro­fon­dire la crisi?

L’efficacia nella crisi
È den­tro i tempi storico-politici che ha dovuto gestire che va inqua­drato il com­por­ta­mento del capo dello stato. E quelli toc­cati a Napo­li­tano non sono stati anni banali. Come ogni pre­si­dente della seconda repub­blica, è stato eletto da una mag­gio­ranza di sini­stra. Per for­tuna, almeno per il Qui­ri­nale, l’alternanza non si è veri­fi­cata. E al Colle sono saliti per­so­na­lità nel com­plesso fedeli all’impianto par­la­men­tare della Repubblica.

Ad ognuno di loro è toc­cato di con­vi­vere con la sco­moda pre­senza di Ber­lu­sconi a Palazzo Chigi. Come è capi­tato per ogni inqui­lino del Qui­ri­nale, anche a Napo­li­tano sono pio­vute addosso le cri­ti­che per non aver rifiu­tato la firma a leggi discu­ti­bili varate dalla destra.

Ma qui, a parte Scal­faro che ha inter­pre­tato sino in fondo il ruolo di un espli­cito con­tro­po­tere, il Colle non può in maniera strut­tu­rale sur­ro­gare le fun­zioni dell’opposizione.

Per i decreti che pos­sono essere cor­retti o non con­ver­titi nel nor­male iter isti­tu­zio­nale o inva­li­dati in un’opera di con­trollo di lega­lità che si estende sino alle supreme magi­stra­ture dello Stato, la vigi­lanza pre­ven­tiva del Qui­ri­nale può essere a maglie più lar­ghe. Quando però un atto nor­ma­tivo ha effetti distor­sivi imme­diati, e la sua costi­tu­zio­na­lità è assai dub­bia (è il caso della legge elet­to­rale Cal­de­roli non cen­su­rata da Ciampi e poi irri­tual­mente demo­lita dalla Con­sulta), il capo dello Stato deve rifiu­tare la firma per­ché l’abuso di mag­gio­ranza non è facil­mente rime­dia­bile con nor­mali procedure.

Il crollo del bipolarismo
La prima fase della lunga espe­rienza di Napo­li­tano ha dovuto veder­sela con la fra­gi­lità del mag­gio­ri­ta­rio di coa­li­zione. Dap­prima il cen­tro sini­stra che, con la esplo­siva diar­chia Prodi-Veltroni creata a colpi di pri­ma­rie, non ha tenuto in aula e poi la disin­te­gra­zione della coa­li­zione di cen­tro destra hanno sve­lato l’inconsistenza degli assi por­tanti del nuovo sistema poli­tico. Il teo­rema della coa­li­zione mas­sima vin­cente con­sen­tiva di aggiu­di­carsi il pre­mio in seggi ma non di sor­reg­gere un coe­rente indi­rizzo poli­tico di mag­gio­ranza. La neces­sa­ria opera di media­zione, entro alleanze mul­ti­formi, urtava con­tro i sim­boli della per­so­na­liz­za­zione del comando (nome del pre­mier stam­pato sulla scheda elet­to­rale) e ogni blocco di potere sal­tava in aria dinanzi all’affiorare di ine­vi­ta­bili spinte centrifughe.

Al crollo del bipo­la­ri­smo mec­ca­nico ha forse con­tri­buito una certa sin­to­nia isti­tu­zio­nale sta­bi­li­tasi tra il Qui­ri­nale e Mon­te­ci­to­rio che ha indotto Fini ad assu­mere i tratti di una destra in cerca di un cor­redo libe­rale e quindi costretta alla rot­tura netta con il popu­li­smo ber­lu­sco­niano. Ma il ritardo con cui la mozione di sfi­du­cia è stata votata in aula nel 2010, ha favo­rito delle ope­ra­zioni di tra­sfor­mi­smo che hanno pro­lun­gato arti­fi­cial­mente la vita di un governo poli­ti­ca­mente morto. Quello che non ha pro­dotto per via poli­tica, la espli­cita cen­sura par­la­men­tare del governo Ber­lu­sconi, il sistema lo ha dovuto com­piere per il soprag­giun­gere di un com­plesso di inter­venti esterni e per adem­piere a degli inviti inter­na­zio­nali dive­nuti pres­santi a ridosso dell’emergenza della crisi finan­zia­ria. Abile nella depo­si­zione del Cava­liere che ha accet­tato la defe­ne­stra­zione senza andare in escan­de­scenza, la stra­te­gia del Qui­ri­nale ha mostrato una dub­bia effi­ca­cia nel governo della tran­si­zione aper­tasi nel novem­bre del 2011.

Sta­bi­lità, la regia delle lar­ghe intese
Due erano gli imperativi-cardine delle poli­ti­che isti­tu­zio­nali con­fe­zio­nate dal Colle: la sta­bi­lità di governo, come valore asso­luto in tempi di crisi, e l’emergenza eco­no­mica e isti­tu­zio­nale da affron­tare con lo spi­rito delle lar­ghe intese e secondo gli impe­ra­tivi del risa­na­mento e delle con­nesse riforme strut­tu­rali. È indub­bio che nelle fasi più gravi dell’emergenza finan­zia­ria, pro­prio Napo­li­tano sia diven­tato un inter­lo­cu­tore fon­da­men­tale che, con cre­di­bi­lità e pre­sti­gio, ha par­lato con le più influenti can­cel­le­rie (non solo) euro­pee. Però la solu­zione di una guida tec­nica dell’esecutivo pro­spet­tata dal Colle (e accet­tata dagli attori poli­tici, che quindi ne assu­mono la respon­sa­bi­lità piena) dopo la caduta del ber­lu­sco­ni­smo non si è rive­lata un fat­tore effi­cace nel con­te­ni­mento della cata­strofe in atto.

L’operazione Monti non era una rie­di­zione del governo Dini, per­ché men­tre quest’ultimo era pur sem­pre un pro­dotto dell’attivismo dei par­titi che ave­vano pro­get­tato “il ribal­tone”, e rima­ne­vano pronti a san­cire con il voto una alter­na­tiva di governo, il dica­stero Monti nasceva come un espli­cito allon­ta­na­mento della poli­tica dalle stanze del potere e come l’espropriazione di un ruolo del ricam­bio poli­tico nella fase dell’emergenza.

Per que­sto l’esperimento Monti, pro­trat­tosi così a lungo anche per la mio­pia del Pd che non per­ce­piva l’usura celere della for­mula e la rab­bia sociale che mon­tava, ha com­presso le spinte al rin­no­va­mento, sof­fo­cato domande di inno­va­zione e ope­rato come l’agente pato­geno che ha deter­mi­nato un ulte­riore aggra­va­mento del males­sere sfo­ciato nella ribel­lione dal basso con­tro il sistema al motto di “tutti a casa”. La paren­tesi tec­nica ha piaz­zato i bot e i titoli di stato ma ha spiaz­zato il sistema poli­tico indu­cen­dolo al col­lasso. Bloc­cate le vie di una alter­na­tiva den­tro il sistema, le ener­gie com­presse non pote­vano che assu­mere i con­torni della ribel­lione esterna con­tro il sistema.

Monti apre la strada a Grillo
Grillo non ci sarebbe mai stato senza Monti, con la sua strana mag­gio­ranza e la sua ino­pi­nata discesa in campo. Dalla crisi del ber­lu­sco­ni­smo, non si è usciti con lo stru­men­ta­rio dell’alternanza ma con la crisi di regime, la seconda nel giro di un ven­ten­nio. Non solo l’interprete (Monti e le sue meschine ambi­zioni di potere) ma pro­prio il rime­dio, quello tec­nico appunto, era sba­gliato come illu­so­rio neutralizzazione.

Non inco­sti­tu­zio­nale ma inef­fi­cace, alla luce del soprag­giunto crollo del sistema, è risul­tata la poli­tica isti­tu­zio­nale del Colle. Anche dopo il voto del 2013, e a caduta di sistema poli­tico ormai con­su­mata, la rilut­tanza a con­fe­rire un man­dato pieno al “non vin­ci­tore” Ber­sani ha accen­tuato i momenti di incer­tezza e di crisi. Ciò ha favo­rito l’ascesa dell’altro ele­mento di destrut­tu­ra­zione cieca, che è il ren­zi­smo (il Qui­ri­nale pro­tegge lo sta­ti­sta di Rignano, arri­vando per­sino a stig­ma­tiz­zare ogni ipo­tesi scis­sio­ni­stica nel Pd).

In fondo, quel governo di mino­ranza, che solo in aula avrebbe dovuto tro­vare i con­sensi, e che è stato negato a Ber­sani come una for­mula insulsa, costi­tui­sce il pila­stro su cui pog­gia il deci­sio­ni­smo simu­lato di Renzi. Il suo è pro­prio un mono­co­lore di fatto, che raci­mola spez­zoni par­la­men­tari ete­ro­ge­nei dopo che il gover­nis­simo era durato solo per le poche set­ti­mane che divi­de­vano il Cava­liere dalla con­danna defi­ni­tiva in cas­sa­zione. Il pro­blema è che una mag­gio­ranza Bersani-Vendola era per­ce­pita come la resur­re­zione di una sini­stra tra­di­zio­nale, ten­den­zial­mente ostile agli impe­ra­tivi domi­nanti nella vec­chia Europa, men­tre Renzi, mal­grado le prove di popu­li­smo e anti­po­li­tica, è pur sem­pre una fedele sen­ti­nella del rigore, dei con­doni fiscali e della pre­ca­rietà del lavoro. Pro­prio sui temi del lavoro, dopo una ini­ziale insi­stenza sui nuovi diritti civili e sul fine vita, sul regime car­ce­ra­rio e sugli infor­tuni nelle fab­bri­che, il capo dello Stato ha con­di­viso la reto­rica con­tro il con­ser­va­to­ri­smo della Cgil, con l’invito rivolto al movi­mento sin­da­cale a non distur­bare le pre­ro­ga­tive della mag­gio­ranza intenta nel varo delle cosid­dette riforme strutturali.

Se la repub­blica avrà, a breve o a medio rag­gio, una svolta in senso pre­si­den­zia­li­sta, non sarà però per­ché Napo­li­tano si è tra­mu­tato in “re Gior­gio”, e quindi dopo di lui occorre sol­tanto rati­fi­care gli spo­sta­menti avve­nuti nella prassi. La car­rozza del com­mis­sa­rio avan­zerà per­ché le grandi cul­ture costi­tu­zio­nali della repub­blica sono state tra­volte dal virus della sem­pli­fi­ca­zione che sug­ge­ri­sce l’illusoria solu­zione della ele­zione diretta della carica mono­cra­tica impo­sta attra­verso una ano­mala legge elettorale.

Le riforme isti­tu­zio­nali ad ogni costo, e l’Italicum impo­sto con i suoi ritoc­chi solo cosme­tici alla vec­chia legge Cal­de­roli, sono dei fasulli rimedi dati in pasto (con le norme sul o meglio con­tro il lavoro) ai cen­sori europei.

Su que­sto rifor­mi­smo improv­vi­sato dell’asse Boschi-Verdini, con­tro cui si sono accesi momenti di ostru­zio­ni­smo in aula, un minore coin­vol­gi­mento del Qui­ri­nale, a difesa della velo­cità delle mosse del governo, forse sarebbe stato più oppor­tuno, quale che sia il livello di pre­oc­cu­pa­zione sulla tenuta del sistema e sulla pre­senza o meno di valide alter­na­tive al con­dot­tiero di Rignano.

“Il presidente di tutti? Napolitano non ci ha mai ricevuto e non capiamo perché”. Parlano i famigliari delle vittime di Viareggio Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Nel giorno poi in cui il presidente Giorgio Napolitano ha lasciato il proprio incarico i familiari delle vittime della strage di Viareggio, dove ins eguito all’esplosione di un treno merci sono morte 32 persone, (riuniti nell’associazione “Il mondo che vorrei” e nell’assemblea “29 giugno”) hanno ancora una volta ribadito di non essere stati mai ricevuti nonostante le ripetute richieste.

Nei giorni scorsi, in una lettera aperta al Commissario Prefettizio, Valerio Massimo Romeo, firmata da Riccardo Antonini, il ferroviere licenziato da Mauro Moretti per avere assistito i familiari, e Claudio Menichetti, padre di Emanuela, una delle giovani vittime di questa strage, ricordano che Napolitano ha nominato cavaliere Moretti nel primo anniversario della strage ferroviaria. E che il 28 novembre 2011 all’inaugurazione della stazione Tiburtina a Roma “ha fatto blindare i familiari con cellulari e cordoni di polizia”.

Qualcuno a Viareggio, fanno sapere i familiari, si sarebbe aspettato che arrivasse dal Quirinale un invito almeno per il piccolo Leonardo Piagentini, che ha perso la mamma Stefania Maccioni, 40 anni e due fratellini Lorenzo e Luca di 2 e 5 anni (con il papà Marco gravemente ustionato). Il presidente Napolitano andò a far visita al piccolo in ospedale il giorno dopo l’esplosione ricevendo in regalo dal bambino un disegno nel quale veniva sintetizzato quanto accaduto quella notte maledetta. “Non capiamo ancora il motivo per cui non siamo stati ricevuti – dicono amareggiati i parenti delle 32 vittime – dopo quello che abbiamo subito sarebbe stato il minimo”.

Daniela Rombi, la mamma di Emanuela Menichetti, la ragazza deceduta insieme all’amica Sara Orsi in seguito alle gravi ustioni riportate nell’esplosione alla stazione di Viareggio, ieri alla ripresa dell’udienza del processo a Lucca ha ribadito che il reato di incendio colposo non deve cadere in prescrizione. “Si parla di 32 vittime bruciate vive in questa tragedia – dice – quindi non è possibile che ci sia il rischio che vada in prescrizione”. Daniela Rombi ha mostrato poi una foto in cui è riportata la figlia e gli altri ustionati gravi in via Ponchielli per rendere ancora una volta chiara l’entità di questa tragedia, unica nel suo genere in Italia.

La comunista Rosa Luxemburg da: rifondazione comunista

La comunista Rosa Luxemburg

La comunista Rosa Luxemburg

di Edoarda Masi

Un intervento della Masi per un convegno del 2004 su Rosa Luxemburg

I rivoluzionari, specie comunisti, vengono oggi comunemente rappresentati come gente di ferro, senza anima, oppure come fanatici: comunque spietati e disumani, combattenti per principi astratti e lontani dalla concreta reale vita degli individui – i soli apparentemente privilegiati dalle ideologie correnti. Qualora si tratti di donne, ovviamente le si rappresenta prive di quanto genericamente (e spesso impropriamente) vien definito femminilità.
Leggo sul numero dello scorso 14 ottobre della Far Eastern Economic Review una recensione, di Jason Overdorf, del romanzo autobiografico War Trash di Ha Jin, dove si dice «[Yu, il protagonista] più osserva le decisioni dei dirigenti del partito nel campo – per esempio, lotte simboliche per sventolare la bandiera cinese – più arriva a credere che la loro fede non lascia spazio all’umanità. ‘Ero ambivalente sul tentativo di recuperare la bandiera’. Yu riflette: ‘Da un lato, ammiravo il coraggio mostrato dai nostri uomini, e per un verso ero colpito da reverente timore per la loro passione e per l’audacia che – dovevo ammetterlo – io non possedevo. Dall’altro lato, mi chiedevo se valesse la pena di perdere la vita di un uomo per una bandiera che, per quanto simbolica, era solo un pezzo di stoffa’. Rendendo esplicito il sorprendente parallelo fra fervente comunismo e fanatismo religioso, Yu conclude: ‘Avevo notato una sorta di fanatismo religioso in alcuni di quegli uomini, capaci di rinunciare alla loro vita per un’idea’».
La mozione che nella difesa dell’individuo anche al livello minimo implica una rivendicazione di umanità contro la mistificazione delle grandi idee, religiose o laiche, ha una valenza positiva e anzi rivoluzionaria ogni qual volta quanti sono in possesso degli strumenti di dominio, valendosi strumentalmente e falsamente delle grandi idee, mirano ad assoggettare gli individui per altri fini. Un grande significato positivo ha avuto una simile mozione al tempo della prima guerra mondiale, quando le bandiere dei vari patriottismi venivano sventolate a coprire la carneficina promossa da quelli che Lenin chiamò “i briganti coronati” e gli sporchi interessi di cui erano rappresentanti. Ma allora contro il patriottismo – valido in tempi precedenti e ormai esaurito, la cui bandiera era divenuta effettivamente solo un pezzo di stoffa – la difesa degli individui si accompagnava all’affermazione di valori altri e più alti, assunti da moltitudini associate nella lotta; portatrici di nuove bandiere: di nuove idee, corrispondenti alle esigenze reali del tempo, e tali da motivare, nuovamente, anche il sacrificio dei singoli individui che in esse si riconoscevano: non una menzogna al fine della propria dipendenza ma uno strumento per la propria affermazione.
Invece, secondo il modo di pensare oggi corrente, il fervore religioso e la fede in un’idea equivalgono in ogni caso al fanatismo; chiunque impegna la propria vita o si sacrifica “per un’idea” è un fanatico; una bandiera infine è sempre solo un pezzo di stoffa. Allora, da Socrate a Gesù, e via via dovunque e per i secoli – fino a Rosa Luxemburg assassinata e gettata in un canale della Sprea – la storia appare come un susseguirsi di sacrifici privi di senso cui si sono offerti individui privi di considerazione per la propria individualità; non solo, ma con la conseguenza di imporre questa morale distorta ad altri individui, sacrificandoli a loro volta. La conclusione è una morale che privilegia l’arroccarsi di ciascuno nella difesa del proprio “particulare”. Non solo privandolo di quella “idea” o “religione” che esprima il suo rapporto e la sua comunione con gli altri e potenzi la ricchezza della propria umanità, ma anche lasciandolo, così isolato, privo dei mezzi di difesa effettivi contro chi – in possesso di strumenti di dominio (economico, militare, sociale, culturale) – intenda assoggettarlo.
All’assenza di fede religiosa e di adesione a grandi idee non si supplisce con la buona volontà. Ma una cosa è possibile: evitare che la disgraziata condizione del presente sia proiettata all’indietro, a deformare il passato. Si può almeno educare chi oggi è spossessato, privo di una speranza attiva, a conoscere che questa perdita è contingente ma non inerisce alla condizione umana in quanto tale. A questo fine – fondamentale per la rinascita di una resistenza efficace alle forze distruttive che oggi operano anche all’interno delle coscienze – è essenziale la trasmissione della storia. Non a caso le correnti ideologie funzionali alla distruzione pretendono annullare la nozione stessa di storia e l’insegnamento della storia come disciplina – quanto meno ai livelli più popolari.
L’attenzione alla biografia delle grandi personalità può essere un tramite al recupero della storia. Per quanto riguarda la storia del comunismo nel ventesimo secolo, la conoscenza dei grandi comunisti nella loro individualità aiuta a smentire la visione deformata e calunniosa che ne viene proposta da quanti, annientandola alla radice, intendono garantirsi da una eventuale rinascita nelle menti di qualsiasi ipotesi comunista. Nel contempo, aiuta a restituire agli individui la giusta collocazione – non nel solitario isolamento ma nell’adesione a grandi idee, che fa tutt’uno con la comunicazione e la comunità con gli altri individui.
Nelle lettere di Rosa Luxemburg a persone intime e ad amici emergono tratti non sempre immediatamente visibili nella superficie della figura pubblica, che la illuminano e arricchiscono.
Scrive nell’aprile 1899 a Leo Jogiches – il suo compagno per diciassette anni:

È la forma della mia scrittura che non mi soddisfa più. Va maturando nella mia “anima” una forma nuova, originale, che ignora ogni regola e convenzione. Le spezza col potere delle idee e della forte convinzione. Voglio colpire come un tuono, infiammare le menti non con i particolari ma con l’ampiezza della mia visione, la forza della mia convinzione e il potere della mia espressione.

È la coscienza del proprio eccezionale valore e il coraggio di manifestarla in termini appassionati. Il pensiero come passione è la forza del genio femminile – della femminilità che si libera dalla soggezione e si afferma, al di sopra “delle regole e delle convenzioni”. Uno dei grandi equivoci dei mediocri nemici delle donne (condiviso in parte dal femminismo di bassa lega) sta nel confondere il pensiero forte femminile con la durezza, l’assenza di sensibilità, il “tutto cervello” e “niente corpo”; e in genere credere che la profondità dei sentimenti e la sensibilità umana si identifichino col sentimentalismo, il dolciastro “latte alle ginocchia”, la mollezza scambiata per non violenza, il “pensiero debole”.
In una lettera del dicembre 1916 scritta dalla prigione a Emanuele e Mathilde Wurm, nei riguardi del pessimismo e del tono meschinamente lamentoso dei suoi interlocutori Rosa Luxemburg usa toni così violenti da apparire quasi incredibili, giacché si rivolgono a una cara amica; ma la polemica è tanto più forte quanto più profondo è l’affetto, come si sente nelle ultime righe:

Ti basta così, come auguri di Natale? Allora bada a rimanere uomo [Mensch]! Essere Mensch è la cosa più importante! E questo significa: essere fermi, lucidi e allegri. Sì, allegri nonostante tutto e tutto – giacché il piagnisteo è affare dei deboli. Essere Mensch significa gettare gioiosamente tutta la propria vita sulla bilancia della sorte, quando è necessario, ma nello stesso tempo godere di ogni giorno chiaro e di ogni bella nuvola; oh, non posso scrivere nessuna ricetta su come essere Mensch, so soltanto come lo si è, e anche tu lo sapevi quando passeggiavamo qualche ora insieme nei campi di Südende e la luce rossa del crepuscolo si stendeva sul grano. Il mondo è così bello nonostante tutto l’orrore e sarebbe ancora più bello se non ci fossero i deboli e i vili.

E alla stessa amica nel febbraio 1917, sempre dalla prigione:

Tutto il tuo argomento contro il mio motto “Qui sto, non posso altrimenti” si riduce a: Bene, sia pure, ma le masse sono troppo vili e deboli per tanto eroismo. Ergo, si deve adattare la tattica alla loro debolezza e all’assioma: “Chi va piano va sano e va lontano”.
Che visione storica limitata, agnellino mio! Non c’è nulla di più mutevole della psicologia umana. La psiche delle masse come l’eterno mare porta in sé ogni possibilità latente: la calma mortale e la tempesta, la più bassa viltà e il più fiero eroismo. La massa è sempre quello che deve essere secondo le circostanze del tempo e la massa sta sempre per diventare qualcosa di completamente differente da quello che sembra essere. Che capitano sarebbe uno che tracciasse la sua rotta dall’apparenza momentanea della superficie dell’acqua e fosse incapace di prevedere l’arrivo di una tempesta dai segni nel cielo o dalle profondità! Mia cara ragazza, la “delusione sulle masse” è la prova di maggiore vergogna per un dirigente politico. Un vero dirigente adatta la sua tattica non all’umore momentaneo delle masse ma alle leggi ferree dello sviluppo; si attiene a questa tattica, a dispetto di ogni “delusione” e per il resto lascia tranquillamente che la storia porti a maturazione il suo lavoro. […]
Che fare di questa particolare sofferenza degli ebrei? Le povere vittime delle piantagioni di gomma di Putumayo [Colombia], i negri dell’Africa con i cui corpi gli europei giocano a una partita di caccia, mi sono più vicini. […]

Qui, come in molte altre occasioni, si rivela il fortissimo senso del proprio io, la responsabilità della dirigente che non risponde solo di sé, che fa storia, e una sorta di profonda serenità che le viene da questo, e le consente di porsi al di sopra dei giudizi basati sullo psicologismo; e come ebrea, al di sopra del misero piagnisteo per esprimere invece la più alta qualità dello spirito universalistico ebraico. L’interesse umano immediato per la gente colonizzata e calpestata non è senza rapporto con l’internazionalismo autentico e la ricerca teorica sul capitalismo nelle zone periferiche.
Da una lettera a Sonja Liebknecht nel maggio 1917 [Wronke]:

Una mattina l’aprile scorso, ricordi, vi ho chiamati d’urgenza al telefono alle dieci per andare a sentire l’usignolo che dava un concerto nell’orto botanico. […]
Che cosa leggo? Per la maggior parte, scienze naturali: geografia delle piante e degli animali. Sempre più la silvicoltura sistematica, il giardinaggio e l’agricoltura vanno distruggendo a passo a passo la nidificazione e la riproduzione naturale. Alberi cavi, terreni incolti, roveti, foglie secche sul suolo dei giardini. Mi ha talmente addolorata leggerlo. Non per i canti che cantano per la gente, ma è piuttosto l’immagine della silenziosa, irresistibile estinzione di quelle piccole creature senza difesa che mi colpisce fino a farmi piangere. Mi ricordava un libro russo che avevo letto quando ero ancora a Zurigo, , un libro del professor Sieber sul massacro dei pellerossa nel Nord America. Esattamente nello stesso modo, a passo a passo, sono stati scacciati dalla loro terra agli uomini civili e abbandonati a perire in silenzio e crudelmente.
Forse sono un po’ spostata a sentire tutto così intensamente. Sai a volte mi sembra di non essere realmente una creatura umana ma piuttosto un uccello o una bestia in forma umana. Mi sento molto più a casa in un giardinetto come qui, e ancor più nei campi quando l’erba ronza per le api, che in uno dei nostri congressi di partito. Posso dirtelo, giacché tu non mi sospetterai immediatamente di tradire il socialismo! Sai che, nonostante tutto, veramente spero di morire al mio posto, in un combattimento di strada o in prigione.
Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. Non perché io trovi nella natura un rifugio riposante come tanti politici moralmente falliti. Al contrario, anche nella natura, a ogni passo, trovo tanta crudeltà che ne soffro molto. Per esempio, pensa che non posso cacciare dalla mente questa piccola esperienza. La scorsa primavera stavo rientrando a casa da una passeggiata nei campi lungo la mia via silenziosa, stretta, quando notai un piccolo segno scuro sul pavimento. Mi chinai e vidi una tragedia silenziosa: un grosso scarabeo giaceva sul dorso, difendendosi disperatamente con le zampe, mentre un gruppo di formichine brulicava su di lui e lo mangiava vivo! Mi si accapponò la pelle! Tirai fuori il mio fazzoletto e presi a scacciare quegli animaletti brutali. Ma erano così insolenti e ostinati che dovetti combattere contro di loro una lunga battaglia. Quando finalmente liberai la povera vittima e la raddrizzai sull’erba, vidi che due delle zampe erano già state mangiate…. Me ne andai col sentimento angoscioso che alla fine gli avevo reso un assai dubbio favore. […]

Qui, come da un brano di un’altra lettera a Sonja Liebknecht di metà dicembre 1917 [Breslau], ricordato nel film di Margarethe von Trotta, dove si rappresenta l’appassionata condivisione dello strazio di un bufalo malmenato, emerge l’empatia per tutte le sofferenze non solo degli uomini ma di ogni creatura, la comunione fra gli esseri viventi. Questo sentire, che è anche un pensare, si collega, ripeto, alla visione autenticamente internazionalista che porta Rosa Luxemburg al di là dell’etnocentrismo, al suo tempo presente se pur non dichiarato in tanti marxisti; la porta pure ad anticipare di quasi un secolo l’allarme per la distruzione dell’ambiente e delle specie viventi.
Leggo un brano da un’altra lettera del dicembre 1917, sempre indirizzata a Sophie Liebknecht:

[…] La scorsa notte andavo pensando: “Come è strano che io sia sempre in una sorta di allegra ubriachezza, senza motivo sufficiente. Qui giaccio in una cella scura su un materasso duro come la pietra; l’edificio ha la sua solita quiete da camposanto, tanto che si potrebbe essere già seppelliti; attraverso la finestra cade sul letto un barlume di luce dalla lampada accesa tutta la notte davanti alla prigione. A intervalli posso udire debole nella distanza il rumore di un treno che passa o, qui vicino, la tosse secca del guardiano della prigione che nei suoi pesanti stivali fa quattro passi per stirarsi le membra. Lo scricchiolio della ghiaia sotto i suoi piedi suona così disperato che tutto il tedio e la futilità dell’esistenza sembrano irradiarsi nella notte umida e cupa. Io giaccio qui sola e in silenzio, avvolta nel multiforme involucro di oscurità, tedio, non-libertà, e inverno – eppure il mio cuore batte con una incommensurabile e incomprensibile gioia interiore, come se mi muovessi nella radiante luce del sole attraverso un prato fiorito. E nell’oscurità sorrido alla vita, come possedessi un talismano che mi permettesse di trasformare tutto ciò che è male e tragico in serenità e felicità.” Ma se cerco nella mia mente la causa di questa gioia, non la trovo, non posso che ridere di me. Credo che la chiave dell’enigma sia semplicemente la vita stessa. Questa profonda oscurità della notte è morbida e bella come velluto, se solo la si guarda nel modo giusto. Lo scricchiolio della ghiaia umida sotto il passo lento e pesante del guardiano della prigione è simile a un’amabile canzoncina della vita – per una che abbia le orecchie per udire. In momenti simili penso a te, e vorrei poter consegnare anche a te questa chiave magica. Allora, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, potresti vedere la bellezza e la gioia della vita; allora anche tu potresti vivere nella dolce ubriacatura, e camminare attraverso un prato fiorito. Non pensare che ti offra gioie immaginarie, o che vada predicando l’ascetismo. Voglio che tu gusti tutti i reali piaceri dei sensi. Il mio solo desiderio è di darti in più il mio inesauribile senso di benedizione interiore […].

Il dolore individuale si perde in quello collettivo e l’individuo si risolve in forza (non solo di tipo stoico, né nel solo ottimismo della volontà) ma nel sentire della gioia. Così nei grandi mistici (san Francesco, molti buddhisti) e nei grandi materialisti, dove la gioia è nel sentimento stesso della vita, e nel dare forma. Anche, forma al futuro.

fonte: L’ospite ingrato

Curzio Maltese sulla chiusura del semestre italiano di presidenza ue Autore: Curzio Maltese da: controlacrisi.org

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Signor Presidente, Domenica a Parigi due milioni di cittadini hanno finalmente fatto battere il cuore dell’Europa. Ed è stata una consolazione, pur nel dolore, vedere in mezzo a loro voi capi di governo sfilare in piazza per una volta in nome di grandi valori invece che rinchiusi in vertici fumosi a discutere di un 3 per cento.

Sei mesi fa ci aveva illuso, qualcosa che le riesce bene, spalancando un libro dei sogni con la ricetta magica per riavvicinare i cittadini europei a un’istituzione da lei definita in una parola noiosa. Ha promesso di impegnare ambizione, energia, coraggio, qualità che le riconosco. Sono rimaste parole. In sei mesi lei ha messo molta energia nel cercare piccole scappatoie all’interno di trattati che vanno piuttosto riscritti o rottamati. O qualche pazzo crede davvero che l’Italia, con il terzo debito pubblico del mondo, la recessione e la deflazione, potrà mai applicare il Fiscal Compact? Non ha avuto l’ambizione di rivendicare un ruolo per l’area mediterranea diverso dal destino di periferia dell’impero deciso dalla signora Merkel. Non ha avuto il coraggio di chiedere la fine dell’austerità che ha distrutto il ceto medio europeo. E’ stato un semestre poco europeo e molto italiano. Lei era troppo impegnato a illustrare agli italiani le sue bizzarre cure omeopatiche. Come combattere la disoccupazione di massa e l’evasione fiscale rendendo più facile licenziare e depenalizzando i reati fiscali, compresi quelli del signor Berlusconi. Sei mesi fa è stato detto che nel rapporto fra Italia ed Europa si erano persi dieci anni dietro alle sciocchezze di Berlusconi. Con oggi siamo a dieci anni più sei mesi.

La lotta per la libertà non è uguale alla lotta al terrorismo | Fonte: il manifesto | Autore: Marco Bascetta

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Di fronte al signi­fi­cato più gene­rale e impor­tante delle grandi mani­fe­sta­zioni di dome­nica in tutta la Fran­cia non c’è che da ral­le­grarsi nel con­sta­tare l’ampiezza di una opi­nione pub­blica e di pas­sioni civili capaci di rea­gire nel nome della tol­le­ranza e della demo­cra­zia al trauma di una san­gui­nosa aggres­sione, di sot­trarsi senza riserve allo schema dello scon­tro di civiltà. Tante per­sone alle quali la libertà di tutti e di cia­scuno sem­bra stare dav­vero a cuore.

Non era affatto scon­tato in un paese in cui la sirena del Front Natio­nal trova cre­scente ascolto.

Tut­ta­via, secondo una sag­gia con­sue­tu­dine laica, con­verrà dubi­tare dei mira­coli. Due ne sono stati solen­ne­mente annun­ciati da Parigi.

Il primo con­si­ste nella repen­tina ricon­ci­lia­zione, per non par­lare di impeto fusio­nale, tra gover­nanti e gover­nati: il «popolo si stringe intorno ai suoi leader».

Il secondo nella rina­scita dalle ceneri di Char­lie Hebdo dell’ Europa poli­tica, pro­prio nel paese che, per giunta, ne aveva boc­ciato la Costituzione.

Che nel momento della più estrema minac­cia si invo­chi la pro­te­zione dei rispet­tivi governi è un sen­ti­mento com­pren­si­bile, ma che que­sti ultimi deb­bano essere per­ce­piti, sem­pre e comun­que, come la sola garan­zia delle nostre libertà, nel loro eser­ci­zio e nella crea­zione delle con­di­zioni che lo ren­dono pos­si­bile, non è che pro­pa­ganda priva di ogni credibilità.

Ordi­nare un blitz non è ancora di gran lunga prova di buon governo.

Quanto all’ Europa poli­tica, ricon­dotta alla lotta con­tro il ter­ro­ri­smo e al coor­di­na­mento tra poli­zie e ser­vizi, non è certo un passo da gigante sulla via dell’Unione. Tanto meno quando voci impor­tanti si levano, con la lode­vole ecce­zione ita­liana, a favore della sospen­sione o revi­sione del trat­tato di Schengen.

Non sta in quel cor­done di pre­mier la pro­spet­tiva europea.

La stampa di mezzo mondo titola sui «grandi della terra», (espres­sione di per sé dete­sta­bile) euro­pei e non, con­ve­nuti nella capi­tale fran­cese in difesa della «libertà» e delle sue con­crete arti­co­la­zioni quale quella, basi­lare, di stampa e di espressione.

Quanto simili valori pos­sano stare a cuore all’ungherese Vik­tor Orban, al mini­stro degli esteri russo Lavrov, al pre­mier turco o al re di Gior­da­nia ognuno lo può facil­mente con­sta­tare. E quale inter­pre­ta­zione ne pos­sano dare, poi, il greco Sama­ras o lo spa­gnolo Rajoy sarebbe pure un inte­res­sante oggetto di discus­sione. Qual­cuno si sarà detto che «Parigi val bene una messa» offi­ciata in nome della libertà, anche la più «blasfema».

Ma non è que­sto il punto decisivo.

Il fatto è che la lotta al ter­ro­ri­smo non è la stessa cosa della lotta per la libertà, seb­bene si cer­chi ripe­tu­ta­mente di con­fon­derle, appiat­tendo la seconda sulla prima.

In primo luogo per­ché ogni governo può ricon­durre chi gli pare sotto que­sto mar­chio infa­mante. E se su Al Qaeda e il Calif­fato sono tutti d’accordo, almeno per quanto emerge alla luce del sole, e tutti pos­sono dun­que mar­ciare tenen­dosi sotto brac­cio, in altri casi non è affatto così.

In secondo luogo per­ché la lotta al ter­ro­ri­smo può essere con­dotta, e il più delle volte lo è stato, facendo ricorso alla restri­zione delle libertà indi­vi­duali e col­let­tive, anche quando la si volesse con­si­de­rare come con­di­zione neces­sa­ria e pre­li­mi­nare all’esercizio di que­ste ultime.

E’ una distin­zione (non una reci­proca esclu­sione), quella tra «libertà» e «sicu­rezza», tanto deci­siva quanto offu­scata dalla testa di Medusa del grande cor­teo pari­gino. Sono i noti para­dossi della demo­cra­zia e della tol­le­ranza, che tut­ta­via non pos­sono essere elusi se non can­cel­lando l’una e l’altra dal nostro oriz­zonte politico.

In que­sti prin­cipi, i fau­tori della guerra glo­bale, e di quella interna con­tro le cosid­dette «classi peri­co­lose», vedono appunto la nostra debo­lezza, il fianco espo­sto alle armi del nemico. Al quale invi­diano, più o meno espli­ci­ta­mente, quell’idea di «ini­mi­ci­zia asso­luta» che ne ispira effet­ti­va­mente l’azione, recla­mando vio­lenza eguale e contraria.

La con­di­zione di guerra, inu­tile negarlo, esi­ste. Il fatto che l’Europa non ne sia affatto inno­cente o estra­nea, non can­cella quella bar­ba­rie con la quale è impos­si­bile scen­dere a patti.

Ma, nel cuore del Vec­chio con­ti­nente, con­tra­ria­mente a quanto auspi­cano isla­mi­sti e destre non solo estreme, le sor­genti di una guerra di reli­gione pos­sono ancora essere prosciugate.

E’ quello che milioni di per­sone chie­de­vano per le vie di Parigi. Non «strin­gen­dosi intorno ai governi», ma piut­to­sto aggre­dendo le logi­che iden­ti­ta­rie, gli egoi­smi nazio­nali e gli inte­ressi domi­nanti che ne gui­dano l’azione.