Tinebra, malato per i pm loquace con La Sicilia da: loraquotidiano.it

tinebra-giovanni-web1di Giuseppe Pipitone – 5 gennaio 2015

Intervista del quotidiano di Ciancio al magistrato che per primo indagò sulla strage di via d’Amelio, credendo alle dichiarazioni del falso pentito Scarantino. Ai giudici del processo Mori Obinu e ai parlamentari del Copasir che volevano interrogarlo, l’ex procuratore di Caltanissetta inviò un certificato medico

Ai giudici che processavano Mario Mori e Mauro Obinu per il mancato arresto di Bernardo Provenzano inviò un certificato medico, spiegando di versare in gravi condizioni di salute e di non potere presentarsi in aula per deporre. Stesso copione ha seguito con i parlamentari del Copasir: certificato medico e audizione rinviata di alcune settimane, quando il comitato per la sicurezza si è addirittura spostato a Catania per interrogarlo. Quando a chiamarlo sono inquirenti e magistrati, l’ex procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra (in foto) ha spesso a portata di mano un certificato medico, che attesta la sua instabile condizione di salute, perfino per rispondere ad alcune semplici domande. Nel 2010, quando a citarlo come teste fu il pm Nino Di Matteo, Tinebra chiese addirittura che la sua audizione davanti al giudice Mario Fontana venisse cancellata.

Quando, invece, ad interpellarlo è il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio Sanfilippo, ecco che le condizioni di salute migliorano di colpo. E davanti al taccuino di un entusiasta Tony Zermo, il magistrato che per primo indagò sulla strage di via d’Amelio è talmente loquace da riempire un’intera pagina del giornale di Ciancio, ancora oggi indagato per concorso esterno a Cosa Nostra dalla procura di Catania, lo stesso ufficio inquirente che Tinebra si era candidato a dirigere nel 2011, rimanendo alla fine alla guida della procura generale etnea. Incarico che, nonostante le instabili condizioni di salute, Tinebra ha ricoperto fino a poche settimane fa, quando è andato in pensione. Ecco quindi che ieri La Sicilia approfitta dell’occasione per mettere in pagina un’esclusiva intervista al magistrato che gestì Vincenzo Scarantino, il falso pentito che con le sue dichiarazioni depistò le indagini sulla strage di via d’Amelio.

Tinebra non ha mai amato le interviste, ma si concede al vostro cronista che trascorse vicino a lui gli anni delle indagini per la strage Falcone e per la strage Borsellino” spiega Zermo, con piglio autocelebrativo. Poi parte subito alla carica sparando una raffica di domande velenosissime. “Tinebra ha avuto una grande carriera, che gli è rimasto alla fine?” chiede il “vostro cronista”. “Ho guardato dentro di me uomo più che magistrato e ho detto di sentirmi a posto con la coscienza per avere fatto fino in fondo il mio dovere” spiega l’intervistato. Poi, dopo una serie di fondamentali note biografiche del giornalista (“Tinebra fuma ancora, anche se limitatamente. Anni addietro mi aveva detto: Devi smettere di fumare, fai come me, ogni giorno dal pacchetto metti via una sigaretta e così nemmeno te ne accorgi. Si vede che ci ha ripensato”), finalmente si entra nel vivo dell’intervista. Borsellino? “Con Paolo eravamo vecchi amici, eravamo in confidenza. Mi disse: senti, vieni presto, ho delle cose da dirti, però non ti seccare, parliamo quando tu sarai investito ufficialmente. Lui era molto rispettoso delle regole. Quella settimana accaddero tante cose: giorno 15 luglio presi possesso della Procura, lui mi disse che l’appuntamento del venerdì doveva saltare perché lui doveva ancora rientrare dalla Germania e stabilimmo che ci saremmo visti il lunedì. La domenica doveva andare a salutare sua madre e quel giorno ci fu la strage in via D’Amelio. In pratica non abbiamo avuto tempo per parlare di niente. Quindi m’è rimasto il dubbio su che cosa mi voleva dire”. Un dubbio comprensibile, dato che lo stesso interrogativo se lo pongono da vent’anni investigatori e magistrati: su cosa indagava Borsellino? Perché è stato assassinato con quelle modalità? Sapeva della Trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra? E per quale motivo vennero depistate le indagini condotte da Tinebra? “L’idea, l’idea, è quella dell’alta mafia, di altissima mafia, quella delle menti raffinatissime di cui parlava Falcone dopo l’attentato dell’Addaura”, spiega Tinebra nebuloso.

“Cosa possiamo intendere per altissima mafia? Anche quella legata ai gruppi industriali del Nord?” chiede Zermo incalzante. Il magistrato però nicchia: “Non posso dire, perché non ci sono prove”. Zermo, però, non si arrende. “Ma Paolo che ti diceva? Aveva una pista? La pista degli appalti ad esempio?” chiede, mettendo in mostra la sua confidenza con il giudice assassinato in via d’Amelio. “Lui diceva di sì – spiega Tinebra – o comunque si occupava anche degli appalti. D’altra parte la pista era quella: o mafia e appalti, o mafia e politica, o mafia e imprenditoria. O mafia e basta, perché c’è anche questa ipotesi, perché la mafia aveva tale e tanta forza da poter contare sui contatti che voleva, sulle consulenze che le servivano”. Imprenditoria, appalti, politica, ma soprattutto mafia. E basta. E il falso pentito Scarantino? Tinebra mostra pudore: “Non ho mai voluto parlare di questo, né voglio parlarne adesso. Dico solo che sbagli non ne abbiamo fatto, perché ci siamo limitati a prendere atto di quello che dicevano i pentiti e di quello che era stato riscontrato. Le cose senza riscontri finivano nel cestino”. Ma non era Tinebra che, subito dopo il pentimento fasullo del picciotto della Guadagna, diceva di aver seguito “il metodo Falcone ed è arrivata la luce”, sottolineando che “quella di Scarantino è una piena confessione”?

Zermo però considera esaurito l’argomento e passa subito ad un altro scottante argomento: il protocollo Farfalla, e cioè l’accordo top secret tra il Dap e il Sisde di Mori. Il magistrato ne ha mai sentito parlare, dato che era lui all’epoca il direttore del Dap? “Per la verità non ho mai saputo di questo protocollo”, chiarisce subito Tinebra. “Posso solo dire che sono venuti da me dei capi delle strutture investigative, come ad esempio il generale Mori, che mi hanno chiesto un appoggio. E io ho sempre risposto di sì nell’ambito delle regole”. Che appoggio? In che termini? Zermo però non ha tempo, e preferisce evitare una seconda domanda sull’argomento, virando invece su un altro fondamentale interrogativo: “Come ti sei trovato negli ultimi anni da Pg?” A giudicare dai vari certificati medici spediti a tribunali e comitati parlamentari per la sicurezza, non troppo bene.

Tratto da: loraquotidiano.it

2015: PANE AL PANE E VINO AL VINO di Giulietto Chiesa da: tutti i colori del rosso

Una previsione facile facile: il 2015 sarà sicuramente peggiore del 2014. In compenso sarà migliore del 2016. Abbiamo finito l’anno sotto il segno del patto di stabilità. Che è quello che precede la stabilità definitiva, il rigor mortis, l’immobilità che accompagna la dipartita. Il Paese è allo sfacelo: industriale, tecnologico, organizzativo, morale. Il Jobs act è espressione misteriosa nei suoi dettagli esecutivi, ma chiarissima nel suo significato finale, nel “vettore di uscita”: licenziamenti sempre più facili, introduzione per legge del diritto dei padroni di licenziare i dipendenti. E, cosa ancora più strategicamente importante: eliminazione di fatto della contrattazione collettiva. Così ogni lavoratore è solo contro chi gli dovrebbe dare lavoro. Cioè impossibilitato a difendersi. In questo modo un’altra fetta importante del reddito nazionale sarà trasferita dai più poveri ai più ricchi. Ovvio che “crescere”, in questa prospettiva, sarà impossibile, poiché la massa di denaro che viene sottratta ai più poveri equivarrà a ridurre la massa di denaro destinata ai consumi (essendo evidente che i più ricchi non potranno, neanche se volessero, spendere il troppo che hanno a disposizione).

Che equivale a tagliare il ramo su cui si è seduti. Ma aspettarsi da questi signori una visione strategica è come sperare nella Befana. Tutti potrebbero capirlo, ma il fatto è che la gente comune non ha letto Aristotele, e quindi non sa che è impossibile che chi è troppo ricco “segua i dettami della ragione”. Chi è ricco vuole sempre essere “più ricco”. Solo i poveri pensano che si accontenterebbero se fossero ricchi: appunto perché non sono ricchi! I dati lo dimostrano. Nell’ultimo decennio il 10% del reddito nazionale è stato prelevato dalle tasche dei più poveri per andare ai più ricchi. E non basta perché ne vogliono ancora di più. Una specie di bulimia invincibile. Renzi è il loro uomo. L’hanno portato al potere con il consenso del 40% degli italiani. Non è vero per niente, ma questo lo pensano tutti. In primo luogo i giornalisti e i commentatori. In realtà Renzi l’ha scelto meno del 20% degli italiani. Ma, in virtù della legge elettorale, il suo potere è praticamente assoluto.

Ecco perché il 2015 sarà peggiore del 2014: perché gli italiani non hanno letto Aristotele (“La Politica”), laddove dice che “le Costituzioni rette sono quelle che hanno di mira il bene comune”. A parte l’espressione comica dell’”avere di mira” che fa venire in mente un cecchino, che sta sparando sul “bene comune”, è chiaro cosa Aristotele intendeva dire: tenetevi una Costituzione Retta, se già ce l’avete, altrimenti vi verrà data una Costituzione Storta, che è quella che ha di mira l’estensione della ricchezza e del potere dei più ricchi. E’ proprio quello che è accaduto: avevamo un Costituzione Retta, e ce la siamo fatta scippare. Non c’è già più, sostituita da una Costituzione Storta. Dove la gente non ha più non solo un reddito accettabile, ma nemmeno gli strumenti per difendersi. La gente, le masse, sono state trasformate in individui isolati, in monadi sole, che si specchiano nello schermo di un computer, o di un televisore. Epicuro, l’inventore dell’idea di monade, è morto da tempo e non c’è nessuno che spieghi alle genti che, se vogliono liberarsi, dovranno aprire una finestra e guardare fuori da se stessi. Sembra – stando a uno studio di Tullio De Mauro – che un discreto 40% di italiani (che sanno tutti leggere e scrivere) non sia più in grado di capire bene quello che legge e, soprattutto, quello che vede in tv. Così tu credi di comunicare, ma nessuno ti capisce. Altro che finestre da aprire!

Che fare nel 2015? Cambiare il vocabolario odierno e tornare a quello di prima. Quello con cui fu scritta la Costituzione Retta del 1948. Per esempio, con quel vocabolario si potevano dire cose semplici e comprensibili. Come questa: i nani proprietari universali, cioè i banchieri, ci stanno portando in guerra. La gente ancora capisce cosa significa guerra. Banchiere è cosa nota. Nano è un po’ più difficile da capire, essendo una metafora. Ma s’intende qui “nano intellettuale”, cioè persona che capisce poco quello che fa e dice lui stesso.

Questi vogliono fare la guerra perché sanno che il loro castello di carte si sta rompendo. E pensano che con la guerra, che tutto distrugge, noi non ci accorgeremo di niente. Cosa pensate a proposito del prezzo del petrolio? Che scenda perché lo dicono le leggi del mercato? Niente affatto. Non ci sono leggi di mercato in questo casino che affonda. Scende perché Washington vuole abbattere la Russia e l’Iran e poi andare all’assalto di Pechino. E’ una dichiarazione di guerra “di carta”, dove brucerà molta carta (i nostri risparmi), prima di trasformarsi in una guerra vera, con armi del tutto nuove che noi non conosciamo nemmeno. Loro pensano di salvarsi, perché sanno che saranno le genti, cioè noi, che ci romperemo per primi l’osso del collo. Il che è vero, verissimo. Ecco perché ci serve, urgentemente, il vecchio vocabolario dove le parole erano italiane e chiare. Dove se dicevi “fuori” voleva dire fuori. Ecco io propongo che il 2015 dica: “fuori l’Italia dalla Nato e fuori la Nato dall’Europa”.

Cominciamo da qui. In guerra ci vadano loro. Noi non abbiamo nemici e abbiamo ancora qualche pezzo di una Costituzione Retta da difendere, per esempio l’articolo 11. Spendiamo 70 milioni di euro al giorno (ho scritto “al giorno”) per tenere in piedi una Difesa che non serve a nulla. Cioè che serve a “loro”. In caso di guerra non reggerebbe dieci minuti. Quei denari potremmo usarli per sviluppare l’agricoltura, e l’industria, e la scuola e moltiplicare i posti di lavoro. Magari non ci riusciamo, perché siamo monadi un po’ istupidite, ma non è che siamo – collettivamente intesi – peggio dei nani di cui sopra. In ogni caso, se aprissimo qualche finestra, almeno il giro sulla giostra attorno al sole sarebbe più bello, avrebbe un senso per noi e i nostri figli. Sarebbe un buon anno, invece che “il loro anno”.

 

Riforma elettorale: un passato che ritorna da: rifondazione comunista di Domenico Gallo

Quest’anno la befana por­terà un dono molto vele­noso a tutti gli ita­liani: il 7 gen­naio infatti ini­zierà al Senato la discus­sione sulla nuova legge elet­to­rale, l’Italicum, por­tata in aula a tam­bur bat­tente, prima che venisse esau­rito l’esame in Com­mis­sione, per sod­di­sfare l’esigenza di Renzi di con­fe­zio­nare il regalo agli ita­liani prima che le Camere siano distolte dal lavoro legi­sla­tivo per l’elezione del capo dello Stato.

Com’è noto, molte ed auto­re­voli cri­ti­che sono state sol­le­vate nei con­fronti della prima ver­sione dell’Italicum con­cor­data fra Renzi e Ber­lu­sconi ed appro­vata, senza troppe varianti, dalla Camera dei Depu­tati. In par­ti­co­lare, l’appello dei giu­ri­sti, pub­bli­cato dal mani­fe­sto del 27/1/2014, ha segna­lato lo scon­certo della cul­tura giu­ri­dica demo­cra­tica di fronte ad una riforma elet­to­rale che ripro­duce con poche modi­fi­che lo stesso sistema elet­to­rale che la Con­sulta ha annul­lato con la sen­tenza n. 1/2014, man­te­nendo un enorme pre­mio di mag­gio­ranza, le liste bloc­cate ed addi­rit­tura rad­dop­piando le soglie di sbarramento.

Nel pas­sag­gio al Senato si annun­cia un peg­gio­ra­mento deci­sivo della pur pes­sima riforma appro­vata dalla Camera: il pre­mio di mag­gio­ranza non verrà più attri­buito alla coa­li­zione ma alla sin­gola lista che, supe­rando una certa soglia, otterrà un voto in più delle altre, ovvero che pre­varrà nel bal­lot­tag­gio. In que­sto con­te­sto il pre­ve­di­bile dis­senso dei par­titi minori, esclusi dai van­taggi della coa­li­zione, ver­rebbe taci­tato con un abbas­sa­mento al 3% delle soglie di sbar­ra­mento, men­tre il pri­vi­le­gio delle liste bloc­cate verrà sostan­zial­mente con­ser­vato, ren­dendo bloc­cato il capo­li­sta in un sistema elet­to­rale fon­dato su liste corte.

In que­sto modo, attra­verso la riforma elet­to­rale si rea­liz­ze­rebbe un cam­bia­mento epo­cale del sistema poli­tico di governo. Per legge ver­rebbe attri­buita la mag­gio­ranza poli­tica e la guida del Governo ad un solo par­tito, a pre­scin­dere dalla volontà del popolo sovrano. Per ren­dersi conto della gra­vità di que­sta svolta, basti pen­sare che, dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Bado­glio) ad oggi, in Ita­lia si sono sem­pre e solo suc­ce­duti governi di coa­li­zione, o quan­to­meno soste­nuti da una mag­gio­ranza di coa­li­zione. Per­sino nel 1948, quando la Dc ottenne la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi, De Gasperi pre­ferì for­mare un governo di coa­li­zione, per assi­cu­rarsi quel minimo di plu­ra­li­smo che gli con­sen­tiva di non restare pri­gio­niero dei suoi padrini poli­tici in Vati­cano. Anche con la svolta del mag­gio­ri­ta­rio deter­mi­nata dalla legge Mat­ta­rella e poi con il Por­cel­lum in Ita­lia si sono sem­pre alter­nati governi soste­nuti da una mag­gio­ranza di coa­li­zione. Nella cosid­detta seconda Repub­blica le mag­gio­ranze par­la­men­tari, per quanto coese, hanno dato vita a governi di coa­li­zione, che hanno man­te­nuta aperta una sia pur minima dia­let­tica poli­tica nella deter­mi­na­zione delle scelte di governo.

Si tratta indub­bia­mente di una svolta gia­co­bina, che assi­cura arti­fi­cio­sa­mente tutto il potere ad un solo par­tito. Inol­tre que­sta svolta si rea­lizza in un momento in cui il par­tito poli­tico ha per­duto del tutto il carat­tere di una strut­tura della società civile, ha ces­sato anche di essere un intel­let­tuale col­let­tivo, per tra­sfor­marsi in un mero appa­rato di potere oli­gar­chico, una signo­ria domi­nata da uno o pochi uomini al comando ed imper­mea­bile ad ogni con­di­zio­na­mento per­sino dei pro­pri elet­tori (come inse­gna la vicenda del Job’s Act).

Nella sto­ria ita­liana l’unico pre­ce­dente del governo di un solo par­tito, deter­mi­nato dalla legge elet­to­rale, risale al 1924 ed è stato frutto della legge Acerbo, che rispon­deva alla neces­sità del Capo poli­tico dell’epoca di assi­cu­rarsi un Par­la­mento sot­to­messo ai suoi voleri e di sba­raz­zarsi dei con­di­zio­na­menti delle coa­li­zioni, che costi­tui­vano indub­bia­mente un osta­colo alla rea­liz­za­zione del suo pro­gramma poli­tico. La legge Acerbo, attra­verso un enorme pre­mio di mag­gio­ranza assi­cu­rato ad una sola lista, attri­buiva il con­trollo della mag­gio­ranza poli­tica e del governo ad un solo par­tito. Il dibat­tito che si svolse in occa­sione dell’approvazione della legge Acerbo è attuale ancora oggi, data la note­vole somi­glianza di quella riforma con l’Italicum nella nuova ver­sione pro­po­sta da Renzi. Gio­vanni Amen­dola osservò che la riforma elet­to­rale cam­biava la natura del Par­la­mento per­ché attri­buiva al governo la facoltà di nomi­narsi la sua mag­gio­ranza. Il governo non dipen­deva più dal Par­la­mento, ma, vice­versa, il Par­la­mento dipen­deva dal governo. E così avvenne!

Gra­zie al pre­mio di mag­gio­ranza asse­gnato ad una sola lista, il Par­tito della Nazione, gui­dato da un gio­vane pre­si­dente del Con­si­glio, pagando il mode­sto prezzo di imbar­care nel listone qual­che fuo­riu­scito dei par­titi alleati, ottenne una schiac­ciante mag­gio­ranza for­mata da uomini di fidu­cia “nomi­nati” dal Capo poli­tico. La riforma Acerbo ottenne l’effetto voluto: con­sentì al Capo poli­tico di sba­raz­zarsi del ricatto di par­titi e par­ti­tini e deter­minò l’avvento di un par­tito unico al governo che, per vicende suc­ces­sive, si impose come unico par­tito. La legge Acerbo fu lo stru­mento deter­mi­nante che con­sentì a Mus­so­lini di stra­vol­gere la Costi­tu­zione dell’epoca e di por­tare a com­pi­mento il suo pro­getto politico.

Non si può igno­rare, per­tanto, il valore costi­tu­zio­nale delle leggi elet­to­rali, che è sem­pre stato ben chiaro ai teo­rici dello Stato di diritto. Oltre 200 anni fa Dome­nico Roma­gnosi osser­vava che: «La teo­ria delle ele­zioni altro non è che la teo­ria della esi­stenza poli­tica della Costi­tu­zione.. E’ evi­dente che quando il diritto elet­to­rale venga radi­cal­mente modi­fi­cato è la Costi­tu­zione che viene posta in discussione».

È assurdo che in Ita­lia si vogliano imporre modelli elet­to­rali che il nostro Paese ha già cono­sciuto con esiti nefa­sti, come se la Sto­ria non esi­stesse e la memo­ria dovesse essere con­fi­nata fuori dalla poli­tica. Un Paese che liquida la pro­pria memo­ria è desti­nato a rivi­vere i fatti che ha dimenticato.

Jobs Act: il ritorno del “padrone” Fonte: micromega | Autore: Domenico Tambasco

Alessandro è un giovane addetto alle pulizie sui treni, che da circa due anni svolge le proprie mansioni con scrupolo e diligenza. La sua vita lavorativa scorre tranquilla, almeno fino a quando non riceve, alla vigilia di Natale, una lettera recante la dicitura “ contestazione disciplinare”. Non è una lettera di auguri, bensì l’inizio di un procedimento disciplinare in cui gli viene contestata una semplice dimenticanza: l’aver lasciato su un treno la valigia di servizio con l’attrezzatura per pulire. Alessandro, dopo qualche secondo di smarrimento, fa mente locale e poi ricorda: si tratta del pomeriggio del 3 dicembre, quando a causa di un’errata indicazione di un capo treno lasciava su un convoglio diverso da quello su cui era in servizio il trolley con gli strumenti per le pulizie. Nulla di particolare, si intende: dopo una veloce chiamata alla responsabile, ad Alessandro veniva recapitata alla prima fermata una nuova valigia di servizio: ed il treno giungeva a destinazione pulito e lustro come sempre.

Janine invece è una lavoratrice modello, da due anni addetta al controllo di qualità dei vasi in vetro prodotti dall’azienda per cui lavora: mai un errore, sempre tutto perfetto. Da alcune settimane, tuttavia, Janine è tormentata dai problemi familiari, e soprattutto da un marito che le ha preannunciato di volersi separare: pensa giorno e notte al destino della sua famiglia, e soprattutto dei due gemelli avuti quattro anni prima. I pensieri negativi si trasferiscono a lavoro; e scatta purtroppo l’errore: Janine non si accorge di una partita di trenta vasi lievemente difettosi. Anche lei, in prossimità delle vacanze di Natale, ha ricevuto una lettera di “auguri”, con la stessa dicitura di quella di Alessandro: “ contestazione disciplinare ”. Le si contesta il negligente controllo di una partita di circa quaranta vasi di vetro difettati, successivamente immessi sul mercato. A lei che, in diversi anni di lavoro, non ha mai mancato una partita difettosa. Ma, tant’è, si sa che spesso nel lavoro la riconoscenza non esiste, e Janine se ne fa una ragione.

Questi due episodi, tratti dalla realtà della vita quotidiana sono esemplari di come, d’ora in poi – o meglio, dal varo del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” in poi –, l’esistenza di ciascun lavoratore potrebbe essere, in qualsiasi momento, completamente devastata dal minimo errore o dalla più piccola mancanza, anche incolpevole.

Basta raffrontare il destino dei nostri due protagonisti con l’applicazione prima dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (nel testo modificato della cosiddetta “Legge Fornero”) ancora oggi in vigore e poi con la disciplina del tanto declamato “contratto a tutele crescenti”: destini talmente divergenti, da riportare alla mente le scene del film “ Sliding doors”.

Esaminiamoli più da vicino, non prima di aver tuttavia svolto una breve premessa.

I fatti non sono contestabili. Si tratta di illeciti disciplinari, incolpevoli quanto si vuole, ma pur sempre configurabili come violazioni del dovere di diligenza, prescritto come tale dall’art. 2104 del codice civile. Ne deriva, per il datore di lavoro, il potere di censurare queste mancanze con delle sanzioni di carattere punitivo denominate “ sanzioni disciplinari”, e regolamentate dall’art. 2106 c.c., che così statuisce: “ L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti (artt. 2104 e 2105 c.c., ovverosia la violazione rispettivamente del dovere di diligenza e di fedeltà) puo’ dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione”. Norma codificata quasi al tramonto del regime fascista che ribadisce, tuttavia, un elementare principio di “civiltà giuridica”: ogni pena deve essere adeguata, proporzionata alla gravità del fatto, dell’illecito da sanzionare. E’ il principio di proporzionalità, nato agli albori del diritto: che altro è la legge del taglione ( lex talionis ), se non l’affermazione della necessaria corrispondenza (cioè proporzione) della pena rispetto all’illecito (il biblico “occhio per occhio, dente per dente” )?

Del resto, appare evidente come il principio di proporzionalità sia il principale istituto di garanzia (insieme al principio di legalità) posto a tutela proprio della dignità personale di chi è sottoposto all’irrogazione di una pena, di qualunque tipo essa sia: è intuitivo a chiunque, infatti, il grave vulnus cui sarebbe sottoposta qualsiasi persona – e con essa anche la stessa idea di giustizia – destinataria di una sanzione esorbitante rispetto alla tenuità del fatto contestato.

Dunque, proprio in applicazione del principio di proporzionalità, anche nell’irrogazione dei provvedimenti disciplinari relativi al rapporto di lavoro, la legge e la contrattazione collettiva hanno previsto un sistema di sanzioni adeguate e “crescenti” (il termine è ormai inflazionato…) rispetto alla gravità degli illeciti: nell’ordine, il rimprovero verbale, il rimprovero scritto, la multa di importo non superiore a quattro ore della retribuzione base, la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per non oltre dieci giorni e, per finire, il licenziamento con e senza preavviso.

Torniamo ai nostri protagonisti.

Alessandro, anche se incolpevolmente, ha violato il dovere di diligenza di cui all’art. 56 comma 1 lett. b) del CCNL applicabile (il CCNL Mobilità del 20.07.2012), che prescrive l’obbligo di cura, per il dipendente, “ degli oggetti, macchinari, attrezzi, strumenti ed indumenti da lavoro affidatigli”. Mancanza, questa, punibile nei casi più lievi con il rimprovero verbale o scritto ex art. 58 e, nelle ipotesi più gravi, con la multa ex art. 59 CCNL (che sanziona i comportamenti che, come nel caso di specie, si sostanziano in negligenze da cui non derivino pregiudizi al servizio, alla regolarità del servizio o agli interessi dell’azienda).

Anche Janine, pur con tutta la comprensione per la sua situazione personale, ha comunque chiaramente violato la prescrizione dell’art. 9 del CCNL applicabile (il CCNL Metalmeccanici Industria del 5.12.2012) che prevede la sanzione disciplinare dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione (a seconda della gravità del caso concreto) per il lavoratore che “ esegua negligentemente… il lavoro affidatogli”.

Ora, la “prova del nove” sta proprio in questa domanda: cosa accadrebbe ad Alessandro e Janine nel caso in cui i rispettivi datori di lavoro decidessero di punirli con la sanzione più grave e sproporzionata del licenziamento disciplinare? Quale sarebbe il destino di questi due lavoratori vittime di una reazione tanto esorbitante quanto ingiusta?

Con una certa approssimazione, derivante dal fatto che anche la legge Fornero aveva cercato a suo tempo di abolire il principio di proporzionalità in materia di licenziamento disciplinare – tuttavia non riuscendoci, anche in ragione del dominante orientamento giurisprudenziale venutosi a creare presso i Tribunali di merito [1] -, possiamo a ragione sostenere che oggi Alessandro e Janine conseguirebbero la reintegrazione nel proprio posto di lavoro ed il pagamento di un’indennità risarcitoria pari a tutte le retribuzioni decorrenti dalla data del licenziamento a quella della reintegra (non superiore comunque a 12 mensilità), grazie all’applicazione dell’art. 18 comma 4 Stat. Lav. (come modificato dalla Legge 92/2012) che censura il caso in cui “ il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Il ritorno al lavoro ed un adeguato risarcimento del danno: la vita torna quella di sempre, nel suo quotidiano seppur faticoso fluire. Quel che si dice una giusta tutela dell’ordinamento dinanzi ad una condotta iniqua del datore di lavoro.

Domani [2] , tuttavia, il quadro cambierà completamente, e con esso i destini di Janine ed Alessandro: l’articolo 3 comma 2 dello “ Schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” esclude espressamente dalla tutela reintegratoria – apprestata per l’insussistenza del fatto materiale – proprio il caso del licenziamento disciplinare sproporzionato (“ rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” ), in questo modo disponendo l’applicazione della semplice tutela indennitaria dell’art. 3 comma 1. Il giudice, pertanto, “ dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.

Alessandro e Janine, nonostante l’accertata sproporzione del provvedimento disciplinare, nonostante la palese – e dichiarata – ingiustizia di un licenziamento che colpisce in modo tanto iniquo quanto assurdo una minima mancanza, si troveranno in mezzo alla strada dall’oggi al domani. Unico beffardo ristoro, quale “contropartita” per la perdita del posto di lavoro e della relativa retribuzione necessaria “ ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.), sarà l’indennità pari ad un minimo di quattro mensilità (addirittura sotto i valori medi della vecchia “tutela obbligatoria” prevista dall’art. 8 L. 604/1966) e ad un massimo di 24 mensilità, livello quest’ultimo raggiungibile tuttavia solo dopo dieci anni di lavoro.

In questo quadro a tinte fosche, non può passare in secondo piano l’umiliazione che subisce l’esercizio del controllo di legalità da parte del giudice, ridotto da un lato alla mera funzione “medico-legale” di accertamento della morte del rapporto di lavoro (e ciò nonostante l’accertata illegittimità della condotta datoriale) e dall’altro al deprimente esercizio contabile di calcolo dell’indennità definita tariffariamente dal decreto attuativo, senza alcun margine discrezionale nell’adeguamento dell’indennità stessa alla gravità dell’illecito datoriale.

Non saremmo tuttavia così sicuri, al posto del Governo e degli “illuminati” consiglieri del Principe, della correttezza e della conformità costituzionale di tale disciplina, che con un tratto di penna abolisce secoli di civiltà giuridica rappresentati dal principio di proporzionalità e dall’adeguamento della norma al caso concreto. La considerazione, infatti, della circostanza che da un lato sarebbe ancora possibile annullare sanzioni disciplinari di gran lunga meno gravi del licenziamento (quali la sospensione, la multa, il richiamo verbale o scritto) in ragione della loro sproporzione e dall’altro situazioni del tutto diverse avrebbero lo stesso indennizzo a causa della sola anzianità di servizio, pone seri dubbi in ordine alla conformità della disciplina del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” con il principio di ragionevolezza e proporzione così come delineato dall’art. 3 della Costituzione ed enucleabile da una pluralità di pronunce della stessa Corte Costituzionale.

Del resto, appare davvero assurdo e irragionevole pensare che se ai nostri due sfortunati protagonisti fosse stata invece irrogata dai rispettivi datori di lavoro la sanzione disciplinare della sospensione di dieci giorni dalla retribuzione e dal servizio, in quel caso allora essi avrebbero potuto ricorrere dinanzi al Giudice per chiederne l’annullamento, eventualmente derivandone la “trasformazione”, da parte dello stesso Giudice, in un diverso provvedimento disciplinare più proporzionato (la multa di quattro ore o la sospensione di un giorno). Così come appare altrettanto folle giuridicamente equiparare nelle conseguenze sanzionatorie questi casi di licenziamento sproporzionato rispetto ad altre e differenti ipotesi (prendiamo il caso di scuola di un’assenza ingiustificata di un giorno o di una lieve insubordinazione) che, seppur di per sé non idonee a giustificare un provvedimento di licenziamento, sono di certo più gravi delle mancanze testè citate: in questo caso, tuttavia, il trattamento risarcitorio sarebbe identico (sei mensilità di indennizzo), alla luce dell’anzianità di servizio di due anni dei nostri due lavoratori.

Ma c’è qualcosa di ancor più grave, rispetto alla possibile violazione dell’art. 3 della Costituzione e del correlativo principio di ragionevolezza, che emerge dall’applicazione delle “tutele crescenti”: si tratta delle possibili, pregiudizievoli conseguenze individuali e sociali provocate dalla nuova disciplina.

E’ evidente, infatti, che la facoltà riconosciuta per legge al datore di porre fine al rapporto di lavoro per qualsivoglia minimo illecito disciplinare – di per sé punibile anche solo con un richiamo verbale – a fronte del pagamento di un mero indennizzo economico – indennizzo modesto soprattutto nei primi anni del rapporto – trasforma in modo radicale la figura del prestatore di lavoro subordinato (e del relativo rapporto), un tempo definito dal codice civile come colui che “ si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa” (art. 2094 c.c.). Il rapporto di lavoro subordinato dunque non è più il sinonimo della collaborazione e della cooperazione nell’ambito dell’organizzazione produttiva, in cui datore e prestatore interagiscono in un’ottica di parità ed equilibrio contrattuale, ma al contrario si riduce alla mera e bieca sottomissione del prestatore di lavoro ad un volere tanto arbitrario quanto paternalistico, in cui il destino personale e lavorativo è rimesso alla – di fatto – insindacabile volontà altrui. Siamo al ritorno del padrone.

Del resto, il fatto che un provvedimento disciplinare anche palesemente sproporzionato possa comunque condurre alla cessazione definitiva del rapporto di lavoro, oltre all’introduzione di un nuovo ed odioso elemento di precarietà nell’unica area – quella della cosiddetta tutela reale – rimasta fino ad oggi immune, non fa che accrescere il senso di profonda ingiustizia provato dal lavoratore eventualmente oggetto di simili – ed immaginiamo frequenti – condotte, manifestamente lesive della dignità personale. Con gravi ed evidenti ricadute, è il caso di precisarlo, sulla stessa coesione sociale, trattandosi di norme e situazioni che, certamente, non potranno che generare profondi contrasti e gravi tensioni tra le parti: tutto il contrario del lavoro inclusivo e aperto delineato dalla carta costituzionale e dalla stessa costituzione europea (art. 4 Cost. e art. 31 Carta dei diritti fondamentali Ue).

Dinanzi a questo nuovo sconfortante panorama lavorativo, risuona in lontananza l’eco delle parole di Bertold Brecht: Quelli che stanno in alto

si sono riuniti in una stanza

uomo della strada

lascia ogni speranza [3] .

NOTE

[1] Si cita per tutti l’ordinanza “capofila” dell’orientamento del cd “fatto giuridico”, Tribunale Bologna, sezione lavoro, 15 ottobre 2012; solo recentemente la suprema Corte di Cassazione, con pronuncia n. 23669 del 6 novembre 2014, pare aver “riaperto i giochi” anche con riguardo all’interpretazione dell’art. 18 Stat. Lav. post Legge Fornero, accedendo alla tesi del “fatto materiale” ed escludendo in linea di principio qualsivoglia valutazione in ordine alla proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto. Resta tuttavia il dettato dello stesso art. 18 comma 4 Stat. Lav. che, nel prevedere fra i casi di reintegra il caso in cui “ il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, sembra far rientrare anche la questione della proporzionalità nel meccanismo della reintegra, indipendentemente dall’adesione alla tesi del fatto materiale o del fatto giuridico.

[2] Lo schema di decreto attuativo è in attesa del parere non vincolante delle competenti commissioni della Camera dei deputati e del Senato, che dovranno esprimersi entro 30 giorni. Decorso tale termine, il Governo –apportate le eventuali modifiche a seguito delle osservazioni delle Commissioni-, procederà all’approvazione definitiva del decreto legislativo.

[3] Versi tratti da “ Quelli che stanno in alto”, in Poesie Politiche, B. Brecht, Torino, Einaudi, 2014, p. 49.

Elezioni in Grecia: Speranza contro paura Fonte: Il Manifesto | Autore: Pavlos Nerantzis

La spe­ranza per un avve­nire migliore in Gre­cia e nel resto dell’Europa, ma anche la volontà poli­tica di appli­care il pro­gramma eco­no­mico a favore degli strati sociali mag­gior­mente col­piti dalla crisi. È la rispo­sta di Syriza alla stra­te­gia della paura pro­mossa dai con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia e i loro soste­ni­tori, ter­ro­riz­zati dai son­daggi che con­ti­nuano a dare in testa la sini­stra radi­cale greca, tre set­ti­mane prima delle ele­zioni del 25 gennaio.

Syriza, secondo gli ultimi due son­daggi, si con­ferma in testa tra il 30,4 e il 29,4 per cento, con­tro il 22 per cento e il 27,3 di Nea Dimo­kra­tia del pre­mier Anto­nis Sama­ras. Al terzo posto si tro­vano i nazi­sti di Alba Dorata con il 5,7 per cento, secondo uno dei due son­daggi, men­tre secondo l’altro la terza forza sarebbe il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia (Kke) con il 4,8 per cento. I socia­li­sti del Pasok, invece, che hanno soste­nuto il governo di Sama­ras, rischiano di non essere eletti al par­la­mento (3–3,5 per cento). Alla domanda su chi sarebbe il miglior pre­mier al momento per il Paese, il 41 per cento si schiera a favore di Sama­ras con­tro il 33,4 per cento che pre­fe­ri­sce Tsi­pras. Il 74,2 per cento poi ha rispo­sto che la Gre­cia deve a ogni costo rima­nere nella zona euro.

La pro­spet­tiva della vit­to­ria di Syriza non piace, però, ai mer­cati come anche a una parte della stampa inter­na­zio­nale, che insi­ste sull’ even­tua­lità di un Gre­xit, nono­stante Ale­xis Tsi­pras non smetta di sot­to­li­neare che il suo par­tito non ha la minima inten­zione di uscire dalla zona euro. A que­sti timori è stato attri­buito il calo del 5,6 per cento, ieri, della Borsa di Atene e pure la ten­sione regi­strata sullo spread elle­nico, che è bal­zato a 876 punti, 21 in più rispetto al dato di partenza.

Pure la Grande coa­li­zione a Ber­lino, a leg­gere il set­ti­ma­nale Der Spie­gel, si pre­para a una uscita di Atene dall’euro, tenendo conto che «que­sto fatto non avrebbe riper­cus­sioni gravi al resto dell’ Ue». Ma Ber­lino per il momento smen­ti­sce. Ieri il por­ta­vove di Angela Mer­kel ha detto che il governo tede­sco non ha cam­biato posi­zione. Anzi, ha aggiunto, la can­cel­liera tede­sca «insieme ai suoi part­ner lavo­rano per raf­for­zare la zona euro nel suo insieme e per tutti i suoi mem­bri, Gre­cia inclusa».

L’ipotesi di un Gre­xit è stata respinta anche da Parigi e da Bru­xel­les che, oltre a far ricor­dare ad Atene che ci sono impe­gni che «vanno ovvia­mente rispet­tati», riba­di­scono che in base ai trat­tati dell’Ue non è pos­si­bile l’uscita di un paese mem­bro dalla zona euro. In altri ter­mini, come ha pre­ci­sato un por­ta­voce della Com­mis­sione euro­pea, la par­te­ci­pa­zione all’euro è irre­ver­si­bile, secondo l’articolo 140, para­grafo 3 del Trat­tato Ue. Quindi per un Gre­xit sarebbe prima neces­sa­ria una modi­fica del trat­tato, «la cui pro­ce­dura pre­vede l’ una­ni­mità dei paesi mem­bri, l’approvazione del par­la­mento euro­peo e ovvia­mente da parte dei par­la­menti nazionali».

Per il momento quindi i part­ner euro­pei, alleati di Anto­nis Sama­ras, fanno una mano­vra: sem­brano abban­do­nare la stra­te­gia della paura e le inter­fe­renze, come era suc­cesso durante le ele­zioni pre­si­den­ziali, lasciando Atene libera di deci­dere il pro­prio destino. Almeno appa­ren­te­mente, per­ché die­tro le quinte lavo­rano per affron­tare la que­stione prin­ci­pale, che il nuovo governo greco se sarà gui­dato da Ale­xis Tsi­pras met­terà sul tavolo dei col­lo­qui: il taglio del debito pub­blico greco. Una richie­sta che, nel caso venisse accet­tata da Ber­lino e ovvia­mente da Bru­xel­les — per­ché di fatto que­sti pre­stiti ad Atene non saranno mai rim­bor­sati per intero — rischie­rebbe un con­ta­gio poli­tico a Roma e a Madrid. Allora lo scon­tro tra un governo delle sini­stre e la can­cel­liera tede­sca sarebbe ine­vi­ta­bile e solo a quel punto si potrebbe par­lare del rischio di un Gre­xit pro­vo­cato da Berlino.

Intanto l’arresto ad Atene di Chri­sto­dou­los Xiros, espo­nente dell’organizzazione “17 Novem­bre”, con­dan­nato a sei erga­stoli e ulte­riori 25 anni di pri­gione ed evaso un anno fa dal car­cere di Kry­dal­los, è diven­tato un altro motivo di scon­tro tra Nea Dimo­kra­tia e Syriza. Il pre­mier Sama­ras, che pure nel pas­sato aveva accu­sato Tsi­pras di «andare a brac­cet­to­con i ter­ro­ri­sti» e di «rap­porti tra Syriza e orga­niz­za­zioni ter­ro­ri­sti­che», ieri ha accu­sato la sini­stra radi­cale di non aver emesso un comu­ni­cato stampa a favore degli agenti che hanno arre­stato il ricer­cato numero uno in Gre­cia. Xiros stava pre­pa­rando un attacco con­tro le car­ceri di Kory­dal­los per far eva­dere i dete­nuti dell’organizzazione “Cospi­ra­zione dei nuclei di fuoco”.