Falange Armata, romanzo criminale dal delitto Mormile alla Uno bianca da: i quaderni de l’ora

La prima puntata dell’inchiesta sulla sigla oscura che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista: dai delitti della Banda della Uno Bianca, fino agli eccidi di Cosa Nostra

di Giuseppe Pipitone

26 ottobre 2014

Questa è una storia di omicidi e stragi, di patti tra pezzi dello Stato e associazioni criminali, di boss di Cosa Nostra che imbucano lettere per rivendicare i loro delitti, di presidenti del consiglio che rivelano in Parlamento l’esistenza di organizzazioni militari clandestine. Una storia che lascia traccia di sé nei comunicati inviati ai giornali, nelle voci metalliche che telefonano alle agenzie di stampa, nelle rivendicazioni di delitti che partono dal profondo nord, si fermano in Emilia Romagna, dove imperversa la banda della Uno Bianca, e sbarcano in Sicilia seguendo la scia di sangue tracciata dagli eccidi targati Cosa Nostra. Una linea della palma al contrario, che semina terrore, panico e confusione, e che alla fine ha sempre la stessa sigla: Falange Armata. Due parole che suonano minacciose, che strizzano l’occhio all’estremismo della destra eversiva – la Falange era il partito fondato in Spagna negli anni ’30 dal militare José Primo de Rivera – e che presto rimangono impresse nella memoria di chi inizia a leggerle sui giornali. Perché quelle due parole, Falange Armata, sui quotidiani e sui tg ci finiscono sempre più spesso, ogni volta che su e giù per lo stivale mitra e tritolo vengono azionate seminando morte. Chi ci sia dietro quella firma di terrore che per un lustro rivendica ogni singolo atto criminale della strategia stragista è un mistero, come un mistero rimane ancora oggi cosa sia nel dettaglio la Falange Armata. Perché la sigla oscura torna alla ribalta nell’ottobre 2013: una lettera spedita nel carcere milanese di Opera al capomafia Totò Riina con l’invito a “chiudere la bocca” per il boss corleonese. Un messaggio inquietante dato che in quei mesi il capo dei capi viene intercettato dalla Dia di Palermo mentre si lascia andare a rivelazioni inedite con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Stralci di quelle conversazioni finiranno sui giornali soltanto alcune settimane dopo: gli estensori di quella missiva come fanno quindi a sapere che Riina viene ascoltato in carcere dai pm palermitani? Un interrogativo ancora oggi al vaglio degli inquirenti, particolarmente colpiti dal fatto che la Falange sia tornata a farsi sentire dopo vent’anni esatti di silenzio.

Gli esordi del terrore: da Mormile, alla Uno Bianca
Indicata all’inizio come un’organizzazione terroristica creata per destabilizzare il Paese, la Falange esordisce quando mette la firma sull’esecuzione di Umberto Mormile, educatore nel carcere milanese di Opera, ucciso a colpi di pistola l’11 ottobre del 1990, da un commando in motocicletta, mentre sta andando a lavoro con la sua automobile. Per quell’omicidio sarà poi condannato il boss della ‘Ndrangheta Domenico Papalia, all’epoca recluso a Opera, deluso dal fatto che Mormile, dopo aver intascato denaro, lo avesse abbandonato senza procurargli i benefici carcerari promessi. Un nome, quello di Papalia, che ricomparirà più volte tra i rivoli di mistero dei primi anni ’90: a citarlo è il boss mafioso Nino Gioè, nella lettera lasciata in carcere prima che i secondini lo trovassero morto nella sua cella cella; diranno poi che si trattò di suicidio, mentre ancora oggi sono molti i punti di domanda che si annidano sulla fine del boss di Altofonte. Oltre alla lettera di Gioè, Papalia compare anche in un’informativa della Dia nel 1994, dove è indicato tra gli ‘ndranghetisti che a Milano erano in contatto con ambienti legati alla Massoneria, forse con Licio Gelli in persona. Papalia, però, non è l’unico personaggio interessante coinvolto nell’esecuzione di Mormile. Secondo le prime piste investigative imboccate all’epoca, un ruolo nell’esecuzione dell’educatore carcerario lo gioca Angelo Antonio Pelle, lo ‘ndranghetista che nel 2004 finirà nella lista allegata al Protocollo Farfalla: d’accordo con il Dipartimento d’amministrazione penitenziaria, il Sisde allora guidato da Mario Mori metterà a libro paga a otto boss detenuti, che diventeranno confidenti dei servizi in cambio di denaro. Corsi e ricorsi di una storia che nell’aprile del 1990 deve ancora cominciare.

L’atto primo va in scena precisamente il 27 ottobre 1990 quando al centralino dell’Ansa di Bologna arriva una strana telefonata che rivendica l’assassinio di Mormile, ammazzato ormai sei mesi prima: “Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito” dice al telefono una voce, che sembra voler tradire appositamente un accento tedesco. In coda alla comunicazione c’è la firma letta al telefonista: Falange Armata Carceraria. Quella prima rivendicazione è importante per due motivi: l’estensione nella sigla, quel “Carceraria”, utilizzata per prendersi la responsabilità dell’assassinio proprio di un educatore di detenuti, che poi sparirà presto dalle rivendicazioni di morte dei falangisti; il dato più rilevante però è il tempo: tra l’omicidio Mormile e la telefonata all’Ansa, passano ben sei mesi. In quei giorni, l’opinione pubblica italiana è in fibrillazione perché il 24 ottobre l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti interviene alla Camera dei Deputati, rivelando l’esistenza di Gladio, l’evoluzione di Stay Behind, l’organizzazione militare segreta costituita in ottemperanza al Patto Atlantico. Andreotti alla Camera definirà Gladio come “un’organizzazione di informazione, risposta e salvaguardia”. Passano 72 ore e sulla scena italiana compare la Falange, rivendicando un fatto di sangue accaduto parecchi mesi prima. Complice il caos mediatico suscitato dalle ammissioni di Andreotti, però, quella prima telefonata dei falangisti. non lascia particolare segno.

Risonanza maggiore avranno le rivendicazioni successive dei falangisti, che dopo qualche mese si spostano un po’ più a sud, sulla via Emilia, dove dalla fine degli anni ’80 la Banda della Uno Bianca semina terrore e morte a buon mercato. Il 4 gennaio del 1991, la banda guidata dai fratelli Savi massacra tre carabinieri di pattuglia al quartiere Pilastro a Bologna; 24 ore dopo, questa volta puntualissima come se il sistema fosse ormai rodato, arriva la rivendicazione della Falange, che come sempre conclude i suoi comunicati con quel leit motiv inquietante :“Il terrorismo non è morto, ci conoscerete in seguito”. In seguito, però, arriverà solo una perizia della balistica che indicherà come una delle pistole utilizzate dalla Banda della Uno Bianca nella strage del Pilastro sia la stessa che ha messo fine alla vita di Mormile un anno prima: una connessione che rimarrà soltanto agli atti, dato i due omicidi non sono mai stati messi in relazione. E in comune hanno soltanto quella voce metallica, che tenta di depistare le indagini, di confondere i mass media e seminare terrore. Poi, dopo il Pilastro la Falange scompare: o meglio, scende ancora più a sud, in Sicilia.

Prima puntata – Continua

A Borgaro (Torino), sindaco e assessore (Pd-Sel) vogliono i bus differenziati per i Rom. Prc: “Stupidità” Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

A Borgaro, un paese in provincia di Torino di poco più di 13mila abitanti, il sindaco, Claudio Gambino, ha proposto di far effettuare corse separate ai bus, per i Rom e per gli altri cittadini. Lo ha annunciato lui stesso in una intervista a La Stampa riferendosi al campo nomadi di strada dell’Aeroporto, il più grande del capoluogo piemontese. “Non è razzismo, è soltanto un modo per risolvere un problema che va avanti da troppo tempo”, ha sostenuto il primo cittadino, annunciando l’intenzione di parlare con il questore di Torino della proposta. La giunta di Borgaro è di centrosinistra, sostenuta da Pd e Sel. Di segno contrario la reazione di Nicola Fratoianni, deputato di Sel.Dura la reazione di Ezio Locatelli, segretario del Prc di Torino. “La proposta “avvallata dall’assessore comunale di Sel”, è “di una stupidità assoluta”. “Non siamo in Sudafrica ai tempi dell’apartheid- continua Locatelli – siamo in un Paese dove la Costituzione fa giustamente divieto di qualsiasi discriminazione. I temi della sicurezza e della convivenza, nella misura in cui esistono, si affrontano in altro modo, nel rispetto della dignità di tutte le persone senza discriminazione e distinzione alcuna ‘di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali’”. “Quella del sindaco e dell’assessore di Borgaro è l’espressione del degrado in cui è caduta tanta parte della politica istituzionale – conclude Locatelli – . C’è da vergognarsi. Un degrado al quale bisogna reagire con forza”.

Piergiovanni Alleva: L’articolo 18 contro il turnover drogato Fonte: Il Manifesto | Autore: Piergiovanni Alleva

La retorica della tutela del lavoratore e non del posto di lavoro si riduce a una ben magra figura quando si esamina il testo della delega sulla «flexicurity», il sistema di ammortizzatori sociali previsto dal governo. Del decreto Poletti e del Jobs Act II, che contiene tra l’altro il via libera al demansionamento e allo spionaggio elettronico, proprio nulla merita di essere salvatoLo scon­tro poli­tico sul Jobs Act sta, con la mani­fe­sta­zione sin­da­cale di oggi, entra nel vivo, ed è dun­que oppor­tuno ricor­dare alcuni punti cen­trali del con­flitto, tenendo conto di ulte­riori ele­menti che emer­gono dalla legge di sta­bi­lità dell’anno 2015:

1) Il primo punto è ovvia­mente quello della per­ma­nenza, oppure, della abro­ga­zione o, al con­tra­rio, dell’estensione a tutti i lavo­ra­tori della fon­da­men­tale norma dell’art. 18 dello Sta­tuto, della cui valenza pre­ven­zio­ni­stica di licen­zia­menti arbi­trari e anti­ri­cat­ta­to­ria, si è detto più volte, sot­to­li­neando la sua fun­zione di garan­zia della dignità del lavo­ra­tore che rende logica e natu­rale la sua esten­sione e non già la poli­tica della restri­zione o abro­ga­zione che il governo Renzi per­se­gue con molta aggressività.

Le noti­zie di stampa indi­cano lo stru­mento o moda­lità che il governo inten­de­rebbe uti­liz­zare e di cui la legge delega, noto­ria­mente «in bianco», su que­sto argo­mento invece tace: la via è quella di ren­dere insin­da­ca­bile il licen­zia­mento per giu­sti­fi­cato motivo ogget­tivo (o economico-produttivo) che così diver­rebbe una como­dis­sima scap­pa­toia, «tra­ve­stendo» da licen­zia­menti per motivo ogget­tivo, anche i licen­zia­menti in realtà dipen­denti da intenti disci­pli­nari o discriminatori.

Le «belle addor­men­tate» della cosid­detta «sini­stra» del Par­tito demo­cra­tico sono dun­que avver­tite (non neces­sita messa in guar­dia, per for­tuna, Fas­sina) di non accet­tare il com­pro­messo della inop­pu­gna­bi­lità dei licen­zia­menti per motivo ogget­tivo in cam­bio di una pro­messa per­ma­nenza dell’art. 18 per i licen­zia­menti discri­mi­na­tori e disci­pli­nari, per­ché si trat­te­rebbe di una sal­va­guar­dia solo apparente.

La legge di sta­bi­lità aggiunge ora una tes­sera al mosaico, per­ché il governo gioca una carta pesante: lo sgra­vio con­tri­bu­tivo al 100% di durata trien­nale per i con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato che saranno sti­pu­lati nel corso dell’anno 2015. Il mes­sag­gio che viene inviato ai datori di lavoro è chiaro: poi­ché nelle pre­vi­sioni del governo all’inizio del 2015 l’art. 18 sarà stato eli­mi­nato almeno per le nuove assun­zioni, che saranno anche rese eco­no­mi­che dallo sgra­vio degli oneri con­tri­bu­tivi, nulla dovrebbe più ostare all’incremento dell’occupazione da parte delle imprese.

Notiamo, en pas­sant, che come sem­pre nei pro­clami di Renzi «il fumo pre­vale sull’arrosto» per­ché la nuova incen­ti­va­zione, ai sensi degli artt. 11 e 12 della legge di sta­bi­lità, assorbe e sosti­tui­sce lo sto­rico incen­tivo pre­vi­sto dall’art. 8 comma 9° della legge n. 407/1990, che in tutti que­sti anni ha assi­cu­rato agli impren­di­tori del sud e agli arti­giani che effet­tuino una nuova assun­zione, pro­prio uno sgra­vio con­tri­bu­tivo del 100% per tre anni e, agli altri impren­di­tori del 50%.

La dif­fe­renza risiede soprat­tutto nel fatto che per la legge n. 407/1990 doveva trat­tarsi di disoc­cu­pati o cas­sain­te­grati da più di 24 mesi, men­tre per la legge di sta­bi­lità è suf­fi­ciente che si tratti di disoc­cu­pati da più di 6 mesi. Que­sta appa­rente miglio­ria nasconde però un seris­simo pro­blema: infatti, come si evita che le imprese pro­ce­dano a un acce­le­rato tur­no­ver tra «vec­chi» occu­pati, sog­getti a con­tri­bu­zione pre­vi­den­ziale e ancora tute­lati dall’art. 18 e, «nuovi» assunti «alleg­ge­riti» da que­sti «fardelli»?

Occorre riba­dire il nor­male prin­ci­pio che l’incentivazione dovrebbe comun­que essere riser­vata solo ad assun­zioni che rea­liz­zino «incre­menti occu­pa­zio­nali netti» sia rispetto all’anno pre­ce­dente sia, rispetto all’anno suc­ces­sivo all’assunzione incentivata.

Ma è pro­prio il man­te­ni­mento dell’art. 18 e, meglio ancora, la sua esten­sione a tutti che costi­tui­rebbe il più effi­ciente anti­doto verso quel pro­ba­bile tur­no­ver «dro­gato», che si capi­sce senza sforzo nella legge di sta­bi­lità e mira a eli­mi­nare il prima pos­si­bile la pre­senza dell’art. 18 nell’ordinamento.

2) Il secondo punto è dato dalla cri­tica e dal rifiuto della fle­xi­cu­rity pra­ti­cata dal governo Renzi e cioè da quel sistema di ammor­tiz­za­tori sociali che secondo la sua pro­pa­ganda dovrebbe ren­dere indo­lore — lesione della dignità a parte — la per­dita della sta­bi­lità tute­lata dall’art. 18 dello Sta­tuto, gra­zie alla garan­zia di un ade­guato red­dito di tran­si­zione e di rapidi e più age­voli canali di ricollocamento.

È stato ripe­tuto sino alla nau­sea che al lavo­ra­tore le garan­zie e tutele vanno ora assi­cu­rate «nel mer­cato» e non più come, voluto dalla legi­sla­zione sta­tu­ta­ria, «nel rap­porto di lavoro».

Ma que­sta reto­rica della tutela del lavo­ra­tore e non del posto di lavoro si riduce a una ben magra figura quando si esa­mina ciò che emerge dal testo della delega con riguardo alla sup­po­sta fle­xi­cu­rity: gli ammor­tiz­za­tori con­ser­va­tivi, ossia, le inte­gra­zioni sala­riali nel corso del rap­porto di lavoro ven­gono gra­ve­mente limi­tate per­ché scom­pare la cassa inte­gra­zione per chiu­sura azien­dale non­ché quella per pro­ce­dura con­cor­suale e, altresì, la cig «in deroga», che è stata in que­sti anni indi­spen­sa­bile e per la quale infatti la legge di sta­bi­lità pre­vede un ultimo finan­zia­mento per l’anno 2015. Alla fine la fle­xi­cu­rity del governo Renzi si riduce tutta a un mode­sto incre­mento della inden­nità di disoc­cu­pa­zione ordi­na­ria (rea­liz­zato dalla legge «For­nero» che lo ha anche ribat­tez­zato Aspi) con la pre­vi­sione a regime di una durata di 12 mesi e di 18 mesi per i soli lavo­ra­tori ultra cin­quan­tenni, ma con la gra­vis­sima scom­parsa, per con­verso, dell’indennità di mobi­lità di lunga durata da 2 a 4 anni, dell’indennità di mobi­lità dall’art. 7 della legge n. 223/1991.

Senon­ché, il Jobs Act sem­bra voler fare ben di peg­gio, giac­ché il pro­getto di legge delega intro­duce un cri­te­rio con­for­ma­tivo della futura inden­nità — detta nAspi (o nuova Aspi) — che è l’esatto con­tra­rio del prin­ci­pio di sicu­rezza sociale, dal momento che pre­vede che la durata dell’indennità di disoc­cu­pa­zione sia pro­por­zio­nale alla sto­ria con­tri­bu­tiva del lavo­ra­tore. Il che è come dire che chi ha lavo­rato più a lungo avrà una inden­nità più lunga e, chi invece ha lavo­rato poco per­ché pre­ca­rio l’avrà breve o brevissima.

Un cri­te­rio, in altre parole, di tipo assi­cu­ra­tivo che nulla ha a che fare con lo scopo di sov­ve­nire al biso­gno che ovvia­mente è mag­giore per chi nel tempo pas­sato ha lavo­rato poco e in modo discontinuo.

3) Pro­prio la con­di­zione dei pre­cari è la terza e forse mag­giore falsa pro­messa del Jobs Act per­ché la legge delega, al solito, non pre­vede nulla di mini­ma­mente deter­mi­nato rispetto alla eli­mi­na­zione o ridu­zione delle varie tipo­lo­gie di con­tratto pre­ca­rio, anzi, nella misura in cui pre­vede che tutele o mini-tutele per la disoc­cu­pa­zione vadano intro­dotte anche per le col­la­bo­ra­zioni coor­di­nate e con­ti­nua­tive fa sup­porre che impli­ci­ta­mente, voglia rilan­ciare que­sta insi­dio­sis­sima figura di lavoro para­su­bor­di­nato che invece lo stesso decreto legi­sla­tivo 276/2001 aveva ristretto in ambiti limi­ta­tis­simi con­sen­tendo per il resto solo col­la­bo­ra­zioni «a progetto».

Del Jobs Act II, che tra l’altro con­tiene anche perle quali la liceiz­za­zione del deman­sio­na­mento e dello spio­nag­gio elet­tro­nico del lavo­ra­tore sul posto di lavoro, pro­prio nulla merita di essere sal­vato, così come anche del Jobs Act I (ovvero il «decreto Poletti»), che ha intro­dotto i con­tratti a ter­mine «acau­sali» e che ampia­mente merita di essere abro­gato o annul­lato per molte ragioni a suo tempo espo­ste e che qui sarebbe lungo ripe­tere. Non si tratta, però di ritor­nare alla situa­zione deter­mi­na­tasi con la legi­sla­zione «For­nero» e nean­che a quella imme­dia­ta­mente precedente.

Una vera riforma ma in senso pro­gres­si­sta e uni­ver­sa­li­sta del diritto del lavoro è neces­sa­ria e sicu­ra­mente pos­si­bile, ma per que­sto occorre creare nuove aggre­ga­zioni poli­ti­che che pos­sono nascere pro­prio nella tem­pe­rie della lotta con­tro il Jobs Act e le teo­rie neo-liberistiche del governo Renzi.

Call Center, quella “terra di nessuno” chiamata Italia. Il 21 è sciopero generale Autore: remo pezzuto da: controlacrisi.org

Sciopero nazionale dei call center il 21 novembre. Le segreterie nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil hanno deciso di dichiarare la seconda giornata di sciopero nazionale del settore con manifestazione a Roma, che sarà accompagnata da una vera e propria ‘Notte bianca dei call center’. Il settore è investito da centinaia di licenziamenti. 

Una ricerca condotta dall’Istat e dall’Isfol certifica che gli addetti ai call center sono oggi in Italia i lavoratori che stanno attraversando la crisi con il maggior senso di insicurezza ed insoddisfazione. Nel nostro Paese sono 2.270 le aziende di call center e ci lavorano circa 80.000 donne e uomini. Nonostante sia un settore in crescita, sia in termini di fatturato che di addetti, la mancanza di regolamentazione degli appalti ha creato una competizione sleale sul mercato: i lavoratori sono alla totale mercé di un sistema che permette che le commesse vengano tolte ed assegnate su criteri che esulano totalmente dal fattore lavoro.

Nella provincia jonica gli operatori di call center sono circa 4.000, sparsi tra le varie micro sedi e le imprese più grandi come Teleperformace – che, solo a Taranto, conta oltre 1500 dipendenti e centinaia di lavoratori a progetto, Mach10 e Human Power. La loro condizione lavorativa, le tutele e i diritti vanno di pari passo con il tipo di contratto con il quale sono assunti. Si va da una realtà dove le tutele sono relativamente alte come Teleperformance – dove ci sono lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato -, ad aziende in cui ancor oggi concetti come “tutele e diritti” sono obiettivi da raggiungere – per non dire da conquistare. Le ultime denunce della Slc-Cgil di Taranto hanno evidenziato però che esiste una forte presenza di “sommerso”. Sono stati censiti infatti circa 134 lavoratori privi di contratto (come nel caso del call center di Grottaglie), pagati 2,50 € l’ora – rispetto alle 5 € previste dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Motore di questo fenomeno sono i committenti e a pagare le conseguenze delle gare a ribasso sono i giovani o chi vive in uno stato di bisogno. Le condizioni che gli vengono imposte dal ricatto occupazionale degli imprenditori da “sottoscala” sono al limite della schiavitù. Ripresi costantemente da telecamere, i lavoratori sono costretti a non chiedere mai spiegazioni, pena la sospensione o l’allontanamento e licenziamento dall’azienda, come risulta dalla denuncia effettuata dall’Slc nel caso di un call center di Taranto.

In questi anni la regolarizzazione e la stabilizzazione dei precari nel settore in-bound (ovvero i call center che ricevono le chiamate) sono state barattate dai governi con incentivi alle imprese; ciò ha prodotto una proliferazione di unità e la frammentazione del settore. Finiti però gli incentivi, le aziende hanno preso a scaricare il loro rischio d’impresa sui lavoratori attraverso esternalizzazioni, appalti, subappalti (nel migliore dei casi), sino ad arrivare alla delocalizzazione. Il settore ha vissuto anche delocalizzazioni “interne”, fra diverse regioni d’Italia, che hanno prodotto ulteriori divisioni all’interno del Paese e nel fronte dei lavoratori, messi uno contro l’altro per un lavoro sottopagato. Le grandi aziende appaltano l’assistenza clienti a società di servizio, che spesso a loro volta subappaltano il lavoro: in tutti questi passaggi le aziende guadagnano a discapito dei lavoratori, le cui condizioni di lavoro vengono riviste invariabilmente al ribasso.
Come potrebbe sentirsi sicuro il lavoratore di un’azienda che si vede togliere il lavoro da un importante committente e che vede il proprio futuro legato a meccanismi di vero e proprio ricatto occupazionale?Perché dovrebbe sentirsi protetto un lavoratore che sa bene che la propria storia retributiva, la propria professionalità sono considerati un peso da eliminare dalla maggior parte degli uffici acquisti delle grandi committenze, che vedono nella compressione brutale del costo del lavoro e dei diritti la strada maestra per massimizzare i profitti?

Eppure l’Unione Europea ha emanato la Direttiva 23/2001 che prevede clausole speciali per il mantenimento dei diritti in caso di esternalizzazione ad altra azienda. La mancata trasposizione di quella direttiva, che ha impedito l’estensione delle tutele previste dall’articolo 2112 del c.c. in occasione della successione o cambio di appalti, ha creato in Italia un vuoto normativo che consente di creare crisi occupazionali esclusivamente per ridurre il salario dei lavoratori e comprimerne i diritti
La crisi occupazionali delle aziende di call center non sono determinate quindi da un calo dell’attività lavorativa, ma unicamente dall’opportunità concessa al committente di cambiare liberamente il fornitore del servizio senza essere tenuto a garantire la continuità occupazionale a quei lavoratori che già prestavano la propria attività. Presso la sede di Taranto di Teleperformace quasi due anni fa si è firmato un accordo sindacale per ridurre il costo del lavoro, con un abbassamento del livello e il congelamento degli scatti d’anzianità per tutta la durata dell’accordo, da gennaio 2013 a giugno 2015. I call center sono realtà in cui la struttura dei costi si basa quasi esclusivamente sui salari; la tendenza è quindi a scaricare gli sconti sulle tutele e i diritti dei lavoratori, e naturalmente sugli stipendi, così come previsto appunto dall’accordo del 10 gennaio 2013 che ha aperto alle deroghe al contratto nazionale. In questo modo il committente mantiene basso il costo con gli sgravi contributivi permanenti e le retribuzioni dei lavoratori ai minimi contrattuali e senza anzianità, mentre lo Stato paga due volte: gli ammortizzatori sociali per i disoccupati e gli incentivi per le nuove assunzioni, senza creare nemmeno un posto di lavoro nuovo.

In nessun paese europeo ciò è possibile, in quanto il recepimento della direttiva su citata ha portato al varo di leggi che direttamente, come nel caso della TUPE inglese (o con rimandi ai contratti di lavoro, come accade in Spagna), impone di garantire continuità occupazionale in caso di successione di appalti per le stesse attività. In questo modo quei mercati hanno deciso di premiare le aziende che investono in tecnologia e che riescono ad essere efficaci sviluppando ed investendo in IT e ricerca.
In Italia invece si premia l’imprenditore più spregiudicato, che viola regole e leggi e in questo modo comprime il costo del lavoro. In questi anni, però, non solo le aziende hanno diviso il fronte dei lavoratori, ma anche i governi. La “politica dei due tempi” del governo Prodi e del suo ministro del lavoro, Cesare Damiano, ha prodotto una spaccatura verticale tra gli operatori dell’in-bound, che hanno vissuto i processi di stabilizzazione, e i lavoratori dell’out-bound, che continuano a lavorare con contratti a progetto o addirittura con la partita Iva pur essendo nella realtà dipendenti.
Sul fronte sindacale, a Taranto, quella di Teleperformance è tra le realtà più sindacalizzate. Slc-Cgil conta più di 500 iscritti su 1700 lavoratori. In vista della manifestazione del 25 ottobre promossa dalla Cgil si stanno organizzando assemblee per sensibilizzare i lavoratori. Ma non essendo uno sciopero, le adesioni maggiori provengono da chi non è in turno, e sono comunque alte. Le modifiche del governo all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, oltre che le norme sulla videosorveglianza potrebbero servire all’azienda per mandare via personale senza passare dai ministeri e dagli ammortizzatori sociali.
Le mobilitazioni organizzate dagli operatori di call center sono tantissime. Per lo più focolai sparsi sul territorio nazionale. Tuttavia questa azione a macchia di leopardo dovrebbe confluire in una mobilitazione nazionale per bloccare il settore, ampliare il fronte rivendicativo allo scopo di migliorare la condizione di tutte e tutti indipendentemente dal contratto o dal servizio che offrono (inbound/outbound). I lavoratori vogliono un lavoro di qualità non sottopagato, sfruttato fino all’osso, precario e sotto ricatto.
Oggi il governo deve confrontarsi con le paure di questi migliaia di lavoratori, paure che non si possono risolvere con un hashtag o con un selfie. Per portare il terrificante dato italiano a livelli accettabili ci voglio fatti concreti e decisioni coraggiose, in linea con quanto avvenuto nel resto d’Europa. L’attuale condizione degli operatori e operatrici di call center è inaccettabile e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che non è più rinviabile in Italia una norma che garantisca i lavoratori nei cambi di appalto e che, una buona volta, tolga i lavoratori dalla tenaglia del costante gioco a ribasso dei committenti e dalla sfrenata ricerca di profitti di certi imprenditori.

Il colpo di grazia bipolare Fonte: Il Manifesto | Autore: Alberto Burgio

La legge elet­to­rale che Renzi intende varare entro l’anno è un sin­tomo della crisi demo­cra­tica nella quale ci avvi­tiamo e un’avvisaglia di nuove regres­sioni. Al pari delle altre «riforme» isti­tu­zio­nali dise­gnate da que­sto governo e con­sa­crate dal patto con Berlusconi.

Il con­fronto è alle prime bat­tute e quanto si cono­sce del merito non con­sente ana­lisi det­ta­gliate. Tanto più che, inve­stendo la durata della legi­sla­tura, ogni discus­sione sulla mate­ria si sa come comin­cia ma non come andrà a finire. Tutti gli osser­va­tori però con­cor­dano che Renzi farà di tutto pur di por­tare a casa il pre­mio di mag­gio­ranza alla lista, in omag­gio alla «voca­zione mag­gio­ri­ta­ria» del Pd teo­riz­zata sette anni or sono da Vel­troni. L’idea è di por­tare final­mente a com­pi­mento, con l’istituzione di un regime bipar­ti­tico, la «rivo­lu­zione bipo­lare» avviata negli anni Novanta.

Come leg­gere tale pro­getto? Comin­ciando col met­tere in chiaro che bipar­ti­ti­smo signi­fica due cose.

In primo luogo, quanto il pre­mier vagheg­gia è l’estensione a un più vasto set­tore poli­tico del modello auto­ri­ta­rio oggi appli­cato in seno al Pd nelle rela­zioni con gli oppo­si­tori interni. Un sistema bipar­ti­tico con­tem­pla due grandi for­ma­zioni in grado di con­ten­dersi la quasi tota­lità dell’elettorato, al netto dell’astensionismo. Ciò signi­fica che il capo di un sif­fatto par­tito sarà in con­di­zione di imporre obbe­dienza a tutte le sog­get­ti­vità costrette a con­ver­gere (e ammesse) nella sua orga­niz­za­zione. Sarà il domi­nus incon­tra­stato di un’ampia zona del ter­ri­to­rio poli­tico nazio­nale, costretta ad atte­nersi ai suoi dik­tat. Se a ciò aggiun­giamo che l’articolo 49 della Costi­tu­zione (stando al quale la vita dei par­titi dovrebbe svol­gersi ««con metodo demo­cra­tico») è oggi total­mente disat­teso (i par­titi sono feudi coman­dati da ristrette cer­chie sele­zio­nate in ragione della fedeltà al capo), è ragio­ne­vole pre­ve­dere un’ulteriore bru­tale lesione dei già com­pro­messi stan­dard di demo­cra­zia del paese.

Soste­nere in que­sta situa­zione che le coa­li­zioni elet­to­rali hanno fatto il loro tempo per­ché oggi «serve il plu­ra­li­smo in un solo par­tito» non è che la razio­na­liz­za­zione della scelta di pro­ster­narsi dinanzi al più forte senza badare a spese. Come la «sini­stra» del Pd ben sa (salvo non averne sin qui tratto le debite con­se­guenze), nelle inten­zioni (peral­tro dichia­rate) di Renzi il supe­ra­mento delle coa­li­zioni mira a un unico fine: gover­nare da solo, senza attar­darsi in media­zioni né dover fare con­ces­sioni a chic­ches­sia. Al mas­simo il plu­ra­li­smo nel Pd ren­ziano (e lo stesso vale per la con­tro­parte con­ser­va­trice o come dir si voglia) potrebbe rea­liz­zarsi secondo il modello del «par­la­men­ta­ri­smo nero» di gram­sciana memo­ria. Il quale, com’è noto, con­cer­neva il par­tito della nazione ai tempi del duce.

C’è poi un secondo tema, ancora più di fondo. Il citato arti­colo 49 della Carta sta­bi­li­sce che «tutti i cit­ta­dini hanno diritto di asso­ciarsi libe­ra­mente in par­titi per con­cor­rere (…) a deter­mi­nare la poli­tica nazio­nale». Se si è molto inge­nui, si può pen­sare che nes­suna legge elet­to­rale potrebbe sof­fo­care la libertà di asso­ciarsi. Ma una legge bipar­ti­tica la svuota, col pre­fi­gu­rare uno schema di con­ten­di­bi­lità del potere che sco­rag­gia la for­ma­zione di forze poli­ti­che minori.
Si obiet­terà: non ci sono forse «grandi demo­cra­zie» su basi bipar­ti­ti­che? Con que­sto bril­lante argo­mento si è pro­ce­duto vent’anni fa alle «riforme» che hanno «moder­niz­zato» la strut­tura isti­tu­zio­nale della Repub­blica, di fatto stra­vol­gendo la forma di governo par­la­men­tare. Per cui ci ritro­viamo una Costi­tu­zione mate­riale – un pre­si­den­zia­li­smo spu­rio per cui nes­suno si perita di lamen­tare che un pre­si­dente del Con­si­glio non sia stato «eletto dal popolo» – espo­sta a derive (in atto) di stampo fran­ca­mente autoritario.

Sta di fatto che quell’argomento, solo in appa­renza inec­ce­pi­bile (sulla demo­cra­ti­cità dei paesi anglo­sas­soni ci sarebbe molto da dire), è let­te­ral­mente fuori luogo quando si tratta dell’Italia, poi­ché il bipar­ti­ti­smo può con­ci­liarsi con accet­ta­bili stan­dard demo­cra­tici sol­tanto in paesi nei quali la sto­ria politico-culturale si è svi­lup­pata secondo uno schema duale. Di norma, mediante la con­tesa tra pro­gres­si­sti (social­de­mo­cra­tici o labu­ri­sti) e con­ser­va­tori (libe­rali), sulla base di una con­di­visa lealtà stra­te­gica nei con­fronti della strut­tura sociale esi­stente (la società capi­ta­li­stica). Non è que­sto il caso del nostro paese, che si è unito e ha vis­suto per 150 anni sullo sfondo di un più arti­co­lato ven­ta­glio di cul­ture politiche.

In Ita­lia non c’è sol­tanto la cul­tura libe­rale – laica o cat­to­lica; pro­gres­si­sta, mode­rata o rea­zio­na­ria – che oggi di fatto ispira la tota­lità delle forze poli­ti­che in par­la­mento. Hanno cit­ta­di­nanza anche posi­zioni cri­ti­che, a comin­ciare dalla cul­tura clas­si­sta legata alla sto­ria del movi­mento ope­raio. Posi­zioni che resi­stono, avendo dato un con­tri­buto deci­sivo alla costru­zione della demo­cra­zia ita­liana, ben­ché tutte le «riforme» di que­sti 20–25 anni abbiano mirato ad «asfal­tarle».
Ora Renzi vuol dare il colpo di gra­zia anche su que­sto ter­reno, incu­rante del fatto che ciò radi­ca­liz­ze­rebbe la crisi di rap­pre­sen­ta­ti­vità del sistema pro­vo­cando il defi­ni­tivo distacco dalla poli­tica di quanti già oggi diser­tano in massa gli appun­ta­menti elet­to­rali. Non è un errore dal suo punto di vista, né un sacri­fi­cio, con­si­de­rati i van­taggi che ci si ripro­mette di trarre dalla ridu­zione dello spet­tro degli inte­ressi sociali in grado di esi­gere rappresentanza.

Negli anni di Wei­mar Hans Kel­sen osservò che un sistema è demo­cra­tico sol­tanto se riflette la com­po­si­zione poli­tica del paese e sal­va­guarda i diritti delle mino­ranze. Per que­sto l’unico sistema elet­to­rale com­pa­ti­bile con l’ideale demo­cra­tico è il pro­por­zio­nale, posto che si è costretti ad affi­darsi alla rap­pre­sen­tanza. Quello che si pro­fila nella post-democrazia ita­liana, orfana di custodi della Costi­tu­zione, è l’esatto oppo­sto del modello kel­se­niano. A riprova del fatto che spesso dalla sto­ria non si impara nulla.

“Bello, Ciao”. Piazza San Giovanni fa preoccupare Matteo Renzi. Camusso: “Continueremo anche con lo sciopero generale”Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

“Bello, Ciao”. Piazza San Giovanni fa preoccupare Matteo Renzi. Camusso: “Continueremo anche con lo sciopero gener
“Lavoro, lavoro, lavoro”. Susanna Camusso sale sul palco alle 13.30 in punto. Una mezz’ora di ritardo sulla tabella di marcia. La straordinarietà della giornata lo consente, però. Almeno 500mila persone hanno gremito piazza San Giovanni e le vie laterali. Il suo intervento è tutto sulla stessa chiave: diritto al lavoro, lavoro con diritti. Non c’è dichiarazione esplicita di guerra. Per adesso si rimane in trincea. “Certo, continueremo anche con lo sciopero generale”, dice Camusso subito l’apertura del suo intervento infiammando la piazza. Insomma, sbaglia chi pensa a “una fiammata”; e non basta nemmeno esercitarsi sui numeri “oppure che è una protesta e non una protesta”. Camusso attacca la legge di stabilità sottolineando che “non cambia verso”. “Troppo facile dividere il mondo del lavoro e non guardare alla corruzione e alla criminalità”, incalza Camusso. “Non va bene che il presidente del Consiglio dica cose che poi non fa in Italia”, aggiunge. Camusso, in sostanza, accusa Renzi di essere troppo sottomesso ai poteri economici:dalla Thyssenkrupp ai call center. “Stiamo organizzando la festa delle imprese o portiamo il paese fuori dalla crisi?”, chiede polemicamente Camusso. “La funzione di un governo è stare dalla parte di chi è debole”.
L’art. 18 secondo Camusso va esteso a chi non ce l’ha. E quindi con Renzi si prepara al muro contro muro, “estendendo le tutele a partire dallo Statuto dei lavoratori”.

Più chiaro è l’intervento di un lavoratore della metropolitana di Napoli. “Noi saremo sempre presenti, anche per lo sciopero generale”. Il suo intervento è un uragano di emozioni e arrabbiatura. Peppe ricorda il suo comapagno di lavoro, e fa zittire la piazza in un interminabile minuto di silenzio.
Sicuramente verso lo sciopero generale ci va la Fiom. “Una persona intelligente dovrebbe capire – dice il segretario della Fiom Maurizio Landini – che il consenso di quelli che lavorano e di quelli che cercano un lavoro oggi il governo non ce l’ha. Se davvero vuole cambiare il Paese occorre fare delle cose non contro chi è in piazza”. “Il corteo è strariuscito, per quello che ci riguarda non ci fermiamo qui”, aggiunge. Il 27, subito dopo l’incontro a palazzo Chigi Camusso vedrà i segretari generali . E da lì dovrebbe arrivare la dichiarazione dello sciopero generale.“Ho votato Pd per cambiare le cose – dice Pasquale, un lavoratore che arriva da Milano – ma in questo modo non andremo da nessuna parte. Penso che a questo punto serva una pausa di riflessione. Fare carriera sulla pelle dei lavoratori non serve a niente.Semplicemente. Già mi ha fregato la Fornero e adesso arriva qusto. Fate un po’ voi”.