La Donna italiana in Europa. Se ne parlerà a Monaco di Baviera – di Paola Zuccarini da: ndnoidonne

Si tiene il 29 novembre 2014 l’annuale incontro di ReteDonne e.V (Coordinamento Italiane all’Estero) sul filo del tema ‘Donne d’Europa’

inserito da Redazione

L’associazione Retedonne e.V. – costituitasi nel 2010 ad Amburgo – opera su piano nazionale ed è impegnata nel confronto tra immigrazione vecchia e nuova, nel rapporto con le istituzioni italiane e tedesche della capitale con lo scopo di offrire un contributo alla politica d’integrazione e – nel mettere a disposizione l’esperienza migratoria – si propone di fornire consulenze e fungere da moltiplicatore per progetti ed iniziative a livello locale e federale.
Le componenti dell’associazione ReteDonne e.V. vivono in Germania (principalmente ad Amburgo, Francoforte, Berlino, Colonia e da poco a Monaco di Baviera) e in Europa, sono attente ai problemi dell’Italia e del resto d’Europa e stanno creando un riferimento per donne attive in settori diversi, interessate allo scambio.
Ogni anno ReteDonne organizza un convegno con l’obiettivo sia di creare uno scambio di esperienze e collegamento tra organizzazioni e singole donne con retroterra migratorio impegnate in diversi settori, sia di facilitare la conoscenza, l’ampliamento e l’approfondimento della tematica dell’emigrazione e rafforzare la rete di nuove risorse per lo sviluppo e la realizzazione di progetti che abbiano prospettive comuni.
Una meta prioritaria di Rete Donne e.V. è quella di rendersi più visibili alle istituzioni tedesche e di riuscire a venire a far parte del Frauenrat (consiglio delle donne), Istituzione tedesca cardine che riunisce tutti i gruppi di donne (dallo sport alla politica) che abbiano almeno 200 iscritte e che ha peso nelle questioni politiche e sociali.
Quest’anno, il convegno sarà il 29 novembre presso l’Istituto Italiano di Cultura di Monaco di Baviera. L’associazione ReteDonne e.V. – di cui sono parte dal dicembre scorso – dedicherà al tema della Donna italiana in Europa una giornata dal titolo “Donne d’Europa”, la quale verterà su quattro argomenti fondamentali concernenti l’integrazione della donna in ambiti politico, sociale, professionale, scolastico.
Come ogni anno, gli obiettivi del convegno sono l’informazione su tematiche “di genere” nonchè l’avvicinamento di nuove risorse all’associazione per l’ampliamento della rete di nuove esperienze ai fini dello scambio e della realizzazione di progetti con obiettivi comuni nell’ambito della tematica dell’emigrazione, nel contatto altresì con le Istituzioni di riferimento.

Nella prima parte della giornata del 29.11.14 – che andrà dalle ore 9.30 alle ore 18.00 – dopo i saluti dei rappresentanti delle Istituzioni Italiane (del Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura Dr.ssa Giovanna Gruber, del Console Generale italiano a Monaco di Baviera Dr. Filippo Scammacca del Murgo, della deputata Onorevole Laura Garavini) e della Presidente di ReteDonne e.V., Dr.ssa Marina Mannarini – si discuterà della partecipazione politica della donna con esperienza migratoria a livello sia locale che federale, della condizione della donna nella nuova emigrazione sotto i profili sociale e psicologico e verrà altresì affrontato il tema del sistema pensionistico tedesco, sempre con preciso riferimento alla figura di genere. Le referenti prescelte hanno uno specifico ruolo nei rispettivi settori ed ambiti professionali (SPD-PD München, Caritas, Patronati Inca-Cgil/Inas-Cisl).

Nel pomeriggio porremo l’attenzione sulle questioni concernenti l’integrazione professionale e scolastica. Farò riferimento, con un intervento in ambito giuridico, alle pianificazioni e programmazioni dell’Unione Europea (programmazione “Europe 2020”, strategia comunitaria per le pari opportunità 2010-2015 e fondo sociale europeo 2014-2020). Inoltre si parlerà, con una manager italiana integrata nella realtà professionale tedesca ed una referente di una società di consulenza per donne che intendono reinserirsi in ambito lavorativo in Germania, di identità culturale, potenzialità ed iniziative di sostegno al femminile (Alessi Deutschland GmbH e Frauenakademie München e.V.).

Nell’ambito della formazione scolastica due referenti appartenenti l’una all’organo istituzionale Comites – Comitato degli Italiani all’Estero e l’altra, alla scuola italo-tedesca Leonardo da Vinci di Monaco di Baviera tratteranno il tema della scuola, dal titolo “la scuola d’Europa”.
Sono previsti inoltre gruppi di lavoro sui 4 temi per consentire approfondimenti mirati e scambio di informazioni sulle realtá locali con l’auspicio di proposte per progetti futuri comuni. Non mancherà infine un angolo dedicato alla cultura italiana tutto al femminile, con la pianista Serena Chillemi e la soprano Maria Anelli.

La partecipazione al convegno ha carattere gratuito; alla giornata in questione sono benvenute tutte le donne potenzialmente interessate alle tematiche oggetto di discussione, anche se non iscritte all’associazione ReteDonne e.V., previa iscrizione al convegno all’indirizzo: DonneEuropa2014@gmx.net.

Per ulteriori informazioni sul convegno informo che Retedonne è presente anche su Facebook alla pagina http://www.facebook.com/groups/retedonne/
PROGRAMMA

ReteDonne e.V. ringrazia per l’organizzazione del convegno le donne del gruppo di Monaco di Baviera, le referenti e le moderatrici per la loro disponibilità e tutte le Istituzioni ed associazioni che sostengono la rete, in particolare: l’Istituto Italiano di Cultura, Forum Italia e.V., il Comites Monaco di Baviera, Rinascita e.V., PoMü: un ponte tra Prato e München, Libreria Farfalla.
Hanno collaborato inoltre: Caritas, Inas-Cisl, Inca-Cgil – Monaco di Baviera, SPD-PD Monaco di Baviera – Roma, Frauenakademie München e.V., Alessi Deutschland GmbH, scuola italo-tedesca Leonardo da Vinci – Monaco di Baviera, Circolo Cento Fiori e.V..
| 20 Ottobre 2014

Ma davvero ci fanno fuori? da : ndnoidonne

Il patriarcato offre potere alle donne ma non modifica il sistema. Il femminismo ha pensato molto, ma ha inciso poco

Giancarla Codrignani

DONNA VIOLATA CHE DANZA, di GIULIA TOGNETTI

I titoli estivi dei media non debbono impressionare: notizie come “le giovani sono antifemministe” (in inglese women against feminism) sono i soliti scoop d’agosto. Questo non vuol dire che non ci siano problemi, soprattutto per chi si credeva che il patriarcato fosse finito. Bisogna invece rifare qualche conto, perché il primo segnale poco entusiasmante in campo femminista è stata, negli Usa, la bocciatura dell’Equal Rights Amendament, che doveva inserire la parità nella Costituzione americana: milioni di donne si erano mobilitate, le due Camere avevano approvato, ma gli stati non ratificarono entro i termini fissati. La ferita del 1982 non si cicatrizzò mai e il femminismo americano ne fu profondamente segnato.
L’avanzata degli anni Settanta (del secolo scorso) aveva prodotto la paura che le donne “vincessero”. Quindi si rialimentarono i non innocui costumi delle moms americane e delle frittelle con lo sciroppo d’acero, il tetto di cristallo basso per le lavoratrici in carriera e gli impedimenti a qualunque legge permissiva sull’aborto. Se ne accorse Susan Faludi che scrisse, guadagnandosi il Pulitzer, Backlash, “Contrattacco: la guerra non dichiarata contro le donne americane“. Era il 1991 e le italiane continuavano a scalare tutte le scale possibili: legge e referendum sull’aborto, fine del delitto d’onore, Nilde Iotti presidente della Camera e proprio nel 1991 nasce Linea Rosa e viene varata la legge 125 sulle “azioni positive”.

A proposito. Le “azioni positive” come sono finite? Come le “pari opportunità”: gli Enti Locali più avveduti (su impulso delle consigliere della Commissione ad hoc) le deliberano regolarmente per “favorire” e “programmare misure di contrasto” (chi se ne occupa lo fa per volontariato). Non è quindi strano che chi ha fatto le lotte non capisca che alle più giovani conquiste così dicano poco: d’altra parte nessuna di noi “vetero” fa qualcosa perché il Presidente del Consiglio smetta di tenere per sé la delega delle P.O.
Infatti il patriarcato – che di nuovo ha solo il fatto che molti maschi non nascondono il dubbio che le donne abbiano una marcia in più – tenta una nuova carta: dare alle donne pezzi di potere, posti di qualche eccellenza, purché nulla cambi del modello. Il governo Renzi è stato esemplare: dodici i ministri, sei donne e sei uomini. Perché gli asili nido diventino una priorità? Non ci pensa nemmeno la più settaria delle femministe: se c’è una minaccia di guerra la Pinotti (giustamente) va in Parlamento a proporre la partecipazione militare.

Non è una novità nemmeno questa. Nel 1978 Betty Friedan (spero che ci leggano tante ragazze e che chiedano a madri e nonne di spiegare chi era) si diceva convinta che il movimento non era più in grado di attirare le giovani. Noi non ce lo dicevamo, ma chi ha buona memoria sa che a quel tempo in Italia la legge sull’aborto divulgava la parola “autodeterminazione” e che nel 1982 l’Udi si sciolse come organizzazione centrale e gerarchica. Non fu un ballar di carnevale: a Milano le “vecchie” cambiarono la serratura della sede per impedire alle giovani di “rottamarle”. Non era bello e assomigliava molto all’intervento di D’Alema contro il governo del suo partito. Anche noi a scuola dai maschi?

Tentare di femminizzare il potere non significa risolvere i problemi delle donne con i proclami. In questi ultimi anni sia il potere, sia i problemi, sia le donne si sono grandemente trasformati. Molti obiettivi sono stati raggiunti, ma non abbiamo inciso sulla società che – come insegniamo ancora – è fatta anche di vita privata, di emozioni, di bisogni di nuova cultura, di maggiore intimità fra gli umani assediati dalle macchine. Il lavoro non è tutto, ma ciò che viene chiamato il sistema insidia non solo il lavoro, ma anche case, famiglie, generazioni.
Il femminismo ha pensato quasi tutto di un mondo delle donne. Tuttavia non esiste solo il pensiero. D’altra parte, nemmeno quello è privo di dinamiche (bisognava pur inventare la ruota). Ma quando il pensiero avverte che è ora di cambiare costume, allora bisogna fare politica. Che, probabilmente, se la volessimo femminile, andrebbe esplicitata nei fini, mezzi e metodi. I metodi, per esempio, sono rimasti i soliti anche per noi: o rivoluzione o riformismo, con la conseguenza di divisioni tra noi per scuole di pensiero, senza capacità di unire le proposte e alzarne il contenuto.

Un esempio: la legge sull’aborto è ancora discussa in molti paesi, ma se ne parla ovunque senza (o con meno) reticenza. Le giovani sanno che c’è o ci sarà una legge; e, comunque, si aspettano prima o poi la pillola abortiva. Ma il problema non era l’autodeterminazione?
Oggi ci si divide sul mantenimento del Senato. Ma davvero nel 2014 possiamo permetterci il palleggio legislativo continuo? Si possono citare molti casi, ma trovo eclatante (e intollerabile) che la legge sulla violenza sessuale – che non costava una lira allo Stato perché trasferiva lo stupro dai reati contro la morale a quelli contro la persona ed era una norma richiesta da tutte le donne, cioè il 52 % dell’elettorato – sia stata in campo per 20 anni e 7 legislature. Il fatto è che le istituzioni non le abbiamo inventate noi e sarà difficile renderle “di genere”. Tuttavia, anche nel più bieco riformismo, tentiamo di farle avanzare mentre sono in corso necessari cambiamenti: scommettiamo che in un mondo che cambia con tanta fretta le ragazze possono interessarsi delle libertà (anche di quella dei maschi, questa volta a partire da noi per cambiare i paradigmi).

200 Dollari. Il prezzo di Abasha al mercato del terrore da: ndnoidonne

Un’intervista shock ad una giovane yazida rapita dai terroristi dello Stato islamico. Lei è riuscita a fuggire, le altre donne della sua famiglia sono rimaste prigioniere degli jihadisti

inserito da Emanuela Irace

Ci sono dolori troppo forti per essere raccontati. Le immagini ricompaiono. E la paura toglie il fiato. Difficile riuscire ad esprimere sentimenti, specie se hai solo diciassette anni e il tuo paese è in guerra. Una guerra asimmetrica. Preparata minuziosamente dall’estremismo islamico quasi un decennio fa. È il 2006, l’anno in cui la cellula irachena di Al-Qaeda si salda con lo Stato Islamico dell’Iraq. Il movimento nato per unificare sotto una unica sigla la galassia jihadista post Saddam Hussein. Ma il salto di qualità è nel 2010, quando Abu Bakra al-Baghdadi trasforma lo scacchiere siriano nella piattaforma del terrorismo internazionale finanziato da comparti geo-politici antagonisti. Ad agosto lo sceicco proclama lo Stato Islamico della Siria del Levante e dell’Europa sud occidentale. Conosciuto in Italia come ISIS. È l’inizio della fabbrica del terrore.

Il califfato tra Siria e Iraq sembra diventare un problema da affibbiare nel 2017 al prossimo inquilino della Casa Bianca. E la recente coalizione più un’operazione di facciata che una reale deterrenza. Politicamente la forza della barbarie, che negli ultimi mesi ha spazzato via intere comunità è un coacervo inestricabile. Alla volontà di riscatto sunnita verso gli sciiti – saliti al potere in Iraq in seguito all’invasione statunitense del 2003 – c’è il solito corollario. Il controllo delle risorse energetiche e la suddivisione della rendita petrolifera. Il resto è cronaca di questi giorni. Cronaca di guerra. Come per il Rojava, dove i kurdi difendono da mesi il proprio territorio e la città di Kobane. Diventata simbolo di resistenza per tutte le minoranze. Yazidi e cristiani compresi. Popolazioni perseguitate e massacrate sotto lo sguardo silenzioso della comunità internazionale. È l’emergenza profughi. Un milione e mezzo solo nella regione autonoma del Kurdistan Iracheno.

Abasha è yazida. Ha i capelli lunghi e il fisico minuto. Fino a due mesi fa viveva a ovest di Mossul. In un villaggio a pochi chilometri dal confine con la Siria. Per settanta giorni e stata ostaggio dei terroristi dello Stato Islamico. Rapita. Insieme ad altre quindici donne della sua stessa famiglia. Ora abita nel distretto di Dahuk. Nel Kurdistan Iracheno. Abasha è un nome di fantasia. Mi chiede di non essere fotografata. Ha paura della vendetta jihadista. “Se parlo le uccideranno tutte. Io sono riuscita a scappare ma loro sono ancora li”, dice. Sediamo su un tappeto. Con me c’è l’interprete. Una cooperante francese e una attivista kurda. Abasha ha gli occhi grandi e seri. La sua età è poco più di quella di mia figlia. L’abbraccio e inizia a raccontare. Con fatica. “Sono scappata due volte ma la prima non è andata bene. Mi hanno catturata e rinchiusa”.

Ti ha aiutata qualcuno?
“No. Ho fatto tutto da sola”
Hai elaborato un progetto di fuga e in che modo sei riuscita a scappare?
“Avevo notato che il momento migliore era durante la cena. C’era più confusione e meno controllo. Una sera ci siamo messi a mangiare alle otto. Eravamo in tanti. Ho preso qualcosa, del cibo, e mi sono sporcata le mani. Ho chiesto di andare al bagno per lavarmele. Invece sono entrata in una stanza dove c’erano tutti i niqab, i veli neri preparati dai jiadisti per la nostra conversione, ne ho indossato uno e sono uscita. Ho corso e sono entrata in una casa. Ma quando hanno capito che ero una delle ragazze rapite mi hanno mandata via. Allora sono andata in un altra casa. E loro mi hanno aiutata. E adesso sono qui. Ma le altre donne sono ancora prigioniere”.
Cosa succede alle donne sequestrate?
“Donne e ragazze sono vendute al mercato. Vengono portate in Siria…”.

Abasha non se la sente più di proseguire. “Può raccontarti lui” mi dice indicandomi l’interprete, “lui lo sa. Era presente quando sono arrivata qui. Sono passati pochi giorni e per me è troppo doloroso. Troppo faticoso parlare..”. L’interprete è un ragazzo giovane. Mi dice che quando Abasha è arrivata al villaggio è stato straziante. Ha raccontato di una bambina violentata da 20 soldati. E la paura che potesse succedere anche a lei. E poi la fuga. E le botte. Dice che lei non è stata violentata. Ma non riesce più a dormire e ha smesso di sorridere. Ha il terrore che possa succedere qualcosa alle donne della sua famiglia.
Quanto costano e a chi vengono vendute le donne rapite?
“I prezzi variano dai 30.000 dinari ai 200 dollari. Ma adesso non valgono più niente. Spesso vengono cedute e basta. O usate dai soldati dello Stato Islamico. Abasha non è stata valutata. Ma è stata trattenuta, il suo prezzo sarebbe stato 200 dollari. Quelli che le comprano sono capi di tribù arabe e gli sceicchi delle Monarchie del Golfo .”
La comunità yazida accoglie queste ragazze?
“Adesso le accoglie. Prima sarebbe stato diverso. Meno di un mese fa Babasher, uno dei capi della comunità yazida responsabile del Consiglio Religioso, ha detto pubblicamente che bisogna rispettare le ragazze rapite. Ha anche parlato di aiuti psicologici e ha chiesto l’appoggio di associazioni europee”.
Abasha si alza in piedi e mi saluta. Si è fatto tardi anche per noi. Le dico di essere forte. Annuisce senza sorridere. Poi mi abbraccia.

| 20 Ottobre 2014

Virginia Woolf e una mostra tutta per sé da: ndnoidonne

La scrittrice londinese, icona dello scorso secolo, protagonista della mostra “Virginia Woolf. Art, life and vision” alla National Portrait Gallery di Londra.

inserito da Silvia Vaccaro

Londra. Sarebbe stata contenta Virginia Woolf di questo tributo che le ha fatto la National Portrait Gallery di Londraospitando per alcuni mesi una bella (e visitatissima) mostra su di lei? Chissà se la scrittrice, spesso schiva, avrebbe gradito tutti questi occhi curiosi, desiderosi di sbirciare tra le pieghe del suo vissuto più intimo e familiare. A rimanere di certo soddisfatti sono gli appetiti letterari dei tanti estimatori di una delle regine incontrastate della letteratura. Non di quella al femminile, come spesso forse si è abituati a pensare, ma della letteratura con la L maiuscola, capace di nutrire qualsiasi animo umano e che andrebbe dunque proposta a tutti.

La mostra, che segue sostanzialmente un andamento cronologico, si apre in fieri con un evento preciso. I bombardamenti aerei su Londra da parte dei tedeschi nel ’39. La casa dove Virginia e Leonard Woolf vivono, al numero 52 di Tavistock Square nel centro di Londra, e che ospita anche la sede della casa editrice Hogarth Press da loro fondata nel 1917, è andata ormai distrutta. “Mi aggiro tra i pezzi di mattoni rossi che hanno ceduto il passo alla polvere bianca delle macerie”, scrive Virginia nelle pagine dei suoi diari, cercati con pazienza tra le rovine, tratti in salvo e portati in macchina fino alla casa nel Sussex, dove la coppia si trasferisce negli ultimi due anni di vita della scrittrice. Si tratta degli stessi diari che comporranno i cinque volumi, pubblicati tra il 1977 e il 1984, da Ann Oliver Bell. Un corpus prezioso e sterminato quasi quanto quello composto dalle sue lettere, raggruppate in ben sei libri.

Girando per le sale, si possono ammirare alcune foto molto belle, come quelle che la ritraggono a vent’anni (foto dell’articolo), scattate da Charles Beresford. Sono queste le foto che la faranno conoscere alla gente dell’epoca e alle generazioni che verranno. Splendide anche le foto che ritraggono la scrittrice da adulta nella sua casa, ad opera di Gisele Freund, fotografa tedesca, arrivata a Londra su consiglio dell’amico James Joyce, con l’intento di fotografare scrittori britannici. Pare che la scrittrice, dapprima contraria a posare, fu convinta da Victoria Ocampo, argentina fondatrice della rivista letteraria Sur. Si entusiasmò a tal punto per questo servizio fotografico che aprì il suo guardaroba e scelse insieme alla fotografa cosa indossare. Alcune foto la ritraggono con Leonard, altre da sola, mentre fuma una sigaretta incastrata in un bocchino. Sguardo pensante e viso dalla bellezza senza tempo, catturati da Freund su una pellicola a colori, tra le prime in circolazione. Le foto sono del giugno del 1939, e precedono di qualche mese i raid e la distruzione della casa di Tavistock Square. Non passerà molto tempo tra quegli scatti e il suicidio della scrittrice, afflitta per anni da disturbi mentali, che si aggravarono proprio nel periodo della guerra. La mostra sembra però non volersi concentrare sul dolore che attraversò la vita della Woolf, quanto sulla ricchezza degli incontri e dei progetti che portò avanti lungo tutto il corso della sua vita.

Nata nel 1882, da genitori entrambi vedovi di precedenti nozze, visse i suoi primi anni al numero 22 di Hyde Park Gate, nel quartiere bene di South Kensington. Ebbe due fratelli e una sorella, Vanessa, con cui strinse un legame fortissimo. Si trovano esposte le foto di loro due bambine che giocano a cricket, accompagnate dalle parole tenere di Virginia che ricorda quegli anni: “Io e Vanessa da piccole eravamo dei veri maschiacci. Ci arrampicavamo sugli alberi, ci sporcavamo moltissimo e giravamo totalmente incuranti dello stato dei nostri vestiti”. Virginia amava anche molto osservare la sorella dipingere e posare per lei. Sono entrambe ancora piccole quando la madre viene a mancare. Per Virginia è allora che iniziano i primi problemi di instabilità, arginati dall’intervento di un’amica di famiglia, Violet Dickinson, che si occupa di lei e la spinge a inseguire il suo talento e l’amore per la scrittura. Alla fine di quell’anno Viriginia pubblica i suoi primi pezzi.

Nel 1904 muore anche il padre e i quattro fratelli, Vanessa, Thoby, Viriginia e Adrian si trasferiscono insieme nella casa al numero 46 di Gordon Square. Cominciò un frenetico andirivieni di amici di Thoby, provenienti dall’università di Cambridge, che di lì a poco formeranno il circolo letterario Bloomsbury, dal nome del quartiere dove si trova l’abitazione dei fratelli, decisi a sfidare i costumi vittoriani e a portare nella capitale inglese nuova linfa. Nel 1910, arriva la svolta che aspettavano grazie a Gordon Fray che, unitosi al gruppo, organizza due mostre nella London Grafton Gallery, con i quadri di Gauguin, Van Gogh, Cezanne, Matisse e Picasso. Il gruppo Bloomsbury, a seguito del clamore suscitato dalle opere di questi pittori, diventa noto ed entra a pieno titolo nel dibattito culturale londinese. Virginia si lascia coinvolgere. “Sono attratta dal linguaggio silenzioso della pittura”, scrive nei suoi diari e spesso posa per la sorella e per altri pittori post-impressionisti. Nella mostra sono presenti alcuni ritratti a olio della scrittrice come quello che la immortala appena rientrata a casa, seduta su una sedia con ancora indosso il cappotto e il cappello.

Dopo essersi conosciuti al Trinity College di Cambridge, nel 1912 Virginia sposa Leonard Woolf, ma solo dopo un anno di matrimonio riprendono i disturbi. Nel 1915 decidono di lasciare il centro di Londra trasferendosi nel quartiere di Richmond. Esce “La crociera” ma lei sta talmente male da non riuscire nemmeno a leggere le recensioni. Qualche anno dopo però, lei e Leonard fondano la casa editrice Hogarth Press e questa novità le dà coraggio, spingendola a scrivere e a misurarsi con uno stile nuovo, abbandonando l’estetica tradizionale del romanzo dell’epoca. Questa tensione per il cambiamento proveniva anche dagli incontri profondi con i grandi rivoluzionari della letteratura come Joyce e Eliot, il cui capolavoro “The Waste Land” venne proprio pubblicato dalla Hogarth Press. Virginia racconta della prima sera in cui venne a contatto con l’opera: “Thomas ce la recitò a cena quasi cantando. Era un testo pieno di intensità e forza.”

Nel 1924 i coniugi Woolf prendono la casa di Tavistock Square, di cui due piani saranno dedicati alla casa editrice, diventata negli anni una vera e propria impresa commerciale. In poco meno di un decennio Virginia pubblicherà tutte le opere che la consacreranno come una delle più grandi scrittrici del ventesimo secolo. E’ certo che lo spirito dell’epoca, incarnato negli scrittori già citati, era proprio quello di innovare profondamente. Inoltre, nei suoi diari la scrittrice ammette di amare molto Londra e di avere un rapporto con la città molto intenso. E’ dunque anche merito della vita che trasuda dalla capitale londinese se la sua voglia di sperimentare nuove strade e di mettersi in gioco si intensifica negli anni.

Il lavoro di Virginia Woolf dunque si contraddistingue per la grande capacità espressiva e per il carattere fortemente innovativo della forma-romanzo, ma anche per la volontà sia in qualità di scrittrice che di editrice, di promuovere valori ai quali teneva molto quali l’anti-imperialismo e il pacifismo. La mostra restituisce dunque il senso profondo delle scelte di questa artista dalla sensibilità acutissima, molto più moderna dell’epoca in cui visse, tanto da essere letta, amata e ritenuta fonte di ispirazione ancora oggi e in tutto il mondo. Se questo essere così avanti sia anche merito dei natali londinesi non lo si può stabilire con certezza, ma è certo che Londra, già nel diciannovesimo secolo, si candidava a pieno titolo a “città del futuro”.

*Sul sito della National Portrait gallery è possibile ascoltare dei podcast che ripercorrono le varie tappe della mostra. Se desiderate contattare la nostra corrispondente a Londra, se siete italiane e vivete nella capitale inglese e volete segnalar avvenimenti, fatti, storie o raccontare la vostra, non esitate a contattare Silvia scrivendo alla mail: silviavaccaro1984@yahoo.it.

| 20 Ottobre 2014

video cinegiornale CGIL contro Renzi

http://www.huffingtonpost.it/2014/10/20/cgil-parodia-renzi-cinegiornale_n_6015032.html

IL 25 Ottobre 2014 Tutti a Roma insieme alla CGIL

“A viva voce”, sinistra antagonista e informazione nell’era digitale. Un seminario da non perdere…| Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

“A viva voce”. E’ il titolo del seminario su informazione e sinistra antagonista che si terrà giovedì 23 ottobre all’Università di Tor Vergata (Aula conferenza dipartimento Studi Umanistici, II piano. Ore 15-20).
L’iniziativa si prefigge l’obiettivo di contribuire al dibattito sulla crisi dell’editoria della sinistra alternativa e antagonista dopo la chiusura di diverse iniziative editoriali, e la manifesta incapacità di alcune organizzazioni politiche e anche di molte “pratiche di movimento” di saper stare al passo con i tempi degli sviluppi del web in cui sostanzialmente i “loghi”, e i “simboli” non hanno quasi più cittadinanza. Partecipano: Fabio Sebastiani (direttore di controlacrisi), che terrà la relazione d’apertura, Giuliano Santoro, saggista, Dino Greco; e poi ancora Lucio Manisco, Ennio Remondino, Jacopo Venier, Marco Santopadre, Luigi Mazza e Mattia della Rocca. Ci sarà la partecipazione dell’ambasciatore del Venezuela in Italia che parlerà dell’esperienza di TeleSur.

La conferenza, presso il Dipartimento di Studi umanistici, che vede tra i docenti Raul Mordenti, a cui sono affidate le conclusioni, intende mettere insieme alcuni addetti del settore informazione connotati da un impegno politico nell’alveo della sinistra di alternativa e antagonista attorno all’obiettivo di ridisegnare un orizzonte all’attività di informazione e comunicazione dando la priorità al modello della rete.
Proprio grazie al delirio dell’autorappresentazione sfrenata (“mi apro un sito”) di diretta derivazione dal giornalismo cartaceo, che a sua volta genera il “baco della divisione e della frammentazione”, si assiste a un approdo in ordine sparso nel web da parte di tutti quei soggetti più o meno organizzati sul piano giornalistico che rispondono però a questo o quel “progetto politico” senza una visione globale, quando invece ci sarebbe bisogno di dare massimo sfogo all’approccio cooperativistico. Né valgono, da questo punto di vista, le analisi su una sinistra “strutturalmente” divisa. Visti i tempi, la sinistra, tutta, dovrebbe convergere almeno su un punto:la necessità di rimettere in circolo alcuni “dati” e “punti di riferimento” di base che in qualche modo rappresentino il “semilavorato” della narrazione politica. E invece ci si divide anche su questo. Senza tenere conto, colpevolmente, che i numeri e le modalità del web non consentono più l’utilizzo di modelli comunicativi verticali. Il simbolo, e il messaggio”, non hanno più alcun potere di intagibilità. Essendo l’oggetto di un processo complesso e articolato e non più e non solo di un atto di comunicazione semplice e verticale, si trasformano e prendono mille rivoli. L’unica possibilità è stare nei processi nel mondo più attrezzato e articolato possibile.

Insomma, la sinistra sembra attardarsi verso il contrario della costruzione di una rete cooperativa che, seppur con dimensioni e protocolli parziali, dovrebbe invece essere una vocazione naturale della sua pratica politica soprattutto quando si tratta di sviluppare la transizione dall’on line all’off line (e viceversa).

Una delle barriere delle “reti di fiducia”, così bene definite da Manuel Castells, è sicuramente costituita dai linguaggi, dalle pratiche di comunicazione e dai media utilizzati. Si tratta innanzitutto di linguaggi che veicolano significati su più strati: lingua nativa, video, grafica. E poi, via via, nella lingua nativa i diversi stili e i diversi contesti in quella complessità del linguaggio verbale che nella rete appare sempre all’opera in una sorta di apparente dissipazione.
Nonostante questo, la rete è in grado di decidere, come spiega Castells, in ogni momento quale linguaggio e anche quale “grammatica” rappresentano le chiavi giuste per veicolare alcuni contenuti. E quando decreta il successo per un contenuto il moltiplicatore è a molti zeri. La capacità di far navigare un determinato contenuto è legata al saper cogliere il momento giusto, ovvero il trend, per dare slancio ai propri contenuti, scegliere cioè appropriatamente l’ottica con la quale sottoporli all’attenzione del web. Questa caratteristica si lega molto al ragionamento sull’attualità dei temi che si sviluppa in redazione. E questo rappresenta in qualche modo il fondamento del “web journalism”. Web journalism non più solo “copia e incolla” di contenuti che viaggiano nella rete ma anche il tentativo di propagarli. Come? Con quale sistemi di rete? Creando quali nodi e con quali caratteristiche?

Nel processo di scambio che avviene continuamente nel web con l’obiettivo di costruire “sensi”, ci sono “orizzontalità” che entrano in relazione e non erogatori attivi di contenuti da una parte e fruitori di informazione passivi definiti da una precisa categoria tipologica dell’audience. Questo dovrebbe allargare la pratica della produzione “massiva” di contenuti da parte della sinistra antagonista fino a modificarla verso la “costruzione di sensi”.
La struttura basata sul sito statico, e quindi sulla costruzione massiva di contenuti e della sua fruizione verticale, ha fatto ormai il suo tempo. In Rete, a grandi linee, ci sei per quello che fai nella direzione della viralità e non per quello che sei nella direzione della produzione di contenuti amorfi e autorappresentativi. L’identità, definita dal sito o dalla pagina Fb, pur dovendo rispondere al principio della coerenza, va studiata in relazione al ruolo che si vuole interpretare e agli obiettivi che si vogliono ottenere di volta in volta a secondo del contesto in cui si sta operando. Una plasticità che può essere affrontata soltanto adottando una filosofia orizzontale nella gestione dell’informazione e della comunicazione. E che ovviamente abbia, appunto, a che vedere con l’attualità di quanto accade in rete.I new media offrono una grande occasione soprattutto per la moltiplicazione di canali, linguaggi e modalità di comunicazione e informazione che rappresentano. Una rivoluzione tale che se da una parte non tocca minimamente la forza degli strumenti pregressi (volantinaggio e megafonaggio, tanto per fare qualche esempio e per intenderci) dall’altra apre una prateria praticamente sconfinata. Velocità nella risposta, contemporaneità, contestualizzazione, adeguatezza grammatica, sintesi: tutte queste caratteristiche dell’informazione e della comunicazione moderna non possono essere raggiunte con un modello verticale.
Oggi le relazioni sociali entrano a pieno titolo come facilitatori nei processi di comunicazione e informazione.

Una figura che viene parecchio trascurata dalla sinistra è il rappresentante sindacale. La sua presenza potenziale in rete avrebbe in più rispetto al mediattivista il bagaglio delle relazioni sociali, la capacità di scegliere il contesto più opportuno, l’appropriatezza del linguaggio da impiegare, la consapevolezza di muoversi all’interno di un progetto di stampo comunitario.
Intanto, i media mainstream, quelli italiani nel 99% dei casi, rappresentano plasticamente quello che Noam Chomsky chiama «la fabbrica del consenso» e vivono in osmosi con il mondo politico e le classi dirigenti da sempre spettacolarizzando qualsiasi traccia informativa e inventando sempre nuove “grammatiche”.

“Non c’è ripartenza senza autocritica”. Riflessioni di un ex operaio a margine dell’ultimo libro di Cremaschi | Autore: Gianni Marchetto da: controlacrisi.org

E’ uscito per i tipi di Jaca Book l’ultimo libro di Giorgio Cremaschi, “Lavoratori come farfalle”. Il libro ha un sottotitolo che è tutto un programma: “La resa del più forte sindacato d’Europa”. Gianni Marchetto, ex operaio Fiat e sindacalista della Fiom, propone alcune riflessioni a margine. L’occasione, insomma, per fare il punto sulla sconfitta dell’80 nell’ottica, però, di una valorizzazione del punto di vista dei lavoratori.

Caro Giorgio, vorrei dirlo in premessa: FINALMENTE… una ricostruzione di questi ultimi anni, sulla quale vale la spesa riflettere. E io lo faccio, grazie a te, tentando un “controcanto”. In fondo in fondo anche la tua ricostruzione è un po’ un controcanto: fatto di lotte, manifestazioni non sempre comprese (quando non osteggiate) dai gruppi dirigenti delle centrali sindacali, compresa la CGIL. E mi pare manchi nella tua ricostruzione l’intreccio tra le lotte, le manifestazioni, l’atteggiamento dei gruppi dirigenti e… gli accordi, i contratti, le leggi e LA LORO GESTIONE.

Tu parti dagli anni ’80, il decennio della ritirata sindacale e lo individui come il decennio nel quale, accanto ad una crisi molto seria dell’apparato produttivo del nostro paese e dell’offensiva del padronato (italiano e internazionale), è maturata una linea sindacale perdente e dove è cresciuto un gruppo dirigente votato al “male minore”. Male minore che ci ha portato al “male” attuale.

Gli anni ’70: gli anni d’oro del movimento operaio italiano
Io invece parto dagli anni ’70, perché è (anche) lì che bisogna saper cogliere i prodromi della sconfitta dell’80. Con il biennio del ’68 e ’69 si afferma nel nostro paese un movimento partecipato, che incentiva non solo la partecipazione diffusa ma anche il protagonismo degli uomini e delle donne più curiosi e intraprendenti e questo per tutti gli anni ‘70. Un movimento che mette in discussione quanto di “leninismo” era ancora presente nelle varie formazioni del movimento operaio (partiti, sindacati, gruppi) attraverso la pratica della “validazione consensuale”: rendere valido una qualsiasi questione con il consenso, pratica quanto mai complicata e controversa perché ha a che fare con le teste di uomini e donne in carne ed ossa, con le loro aspirazioni individuali, con le loro ambizioni, e un eccetera sconfinato. Quando dico “leninismo” non intendo quella pratica di necessaria disciplina che un gruppo sindacale o politico deve avere per ottenere dei risultati, ovvero di studio attento della realtà, ma quanto di deleterio e fallimentare (vedi la fine del “socialismo reale”) era presente nella “dottrina del leninismo”: ovvero il “come ti educo il pupo”, la stracca abitudine di indottrinare la gente, quasi che le teste di costoro fossero delle vasche vuote in attesa di essere riempite dal verbo dei “sapienti” (leggi, i dirigenti di partito e di sindacato). Infatti la contesa fu aspra tra coloro i quali tentavano di uscire da questo “leninismo” e coloro i quali lo difendevano aspramente nei loro comportamenti quotidiani. Chi vinse? Alla fine della fiera vinsero i “leninisti”, sia nelle formazioni politiche sia nei sindacati.

Quando vinsero i “leninisti”? paradossalmente quando attraverso i voti (in aumento) le formazioni di sinistra ebbero più potere nei luoghi di rappresentanza a tutti livelli: dai comuni, alle province, alle regioni, al parlamento. Nei sindacati quando la maggioranza dei sindacalisti (e anche una buona parte di delegati) si “ubriacarono” delle loro conquiste… lasciandole sulla carta, spendendo pochissimo tempo nella pratica della gestione di accordi, contratti e leggi, finendo così di stufare una buona parte di lavoratori e “insegnando” a decine e decine di imprenditori che tanto valeva firmare degli accordi se poi rimanevano sulla carta…
Perché vinsero i “leninisti”? perché nella gestione quotidiana del “potere” il modello vincente fu quello dominante: più produttività = più comando (sia nella fabbrica che nella società). Vedi ad esempio la conclusione della crisi produttiva alla FIAT nel 1980 (con i 35 giorni) e vedi il fenomeno del craxismo in Italia. In pratica si affermò il modello attuale che vuole maggiore EFFICIENZA a scapito della partecipazione democratica.
Perché noi perdemmo? (noi sta per quelli della “validazione consensuale”).

  • 1° perché non ci fu abbastanza scavo teorico sul tema della produttività e sulla efficienza/efficacia: bisognava affermare un ben altro binomio PIU’ PRODUTTIVITA’ = PIU’ DEMOCRAZIA (una sfida innanzi tutto per noi). Termini i quali nella cultura del movimento operaio sono sempre stati concepiti come antinomie. Bisognava quindi affermare un altro criterio di produttività: fare il massimo con il minimo sforzo (in una qualsiasi azienda) e fare il massimo con il minimo di spesa nella società (quindi affermando nella pratica democratica il valore delle priorità in maniera partecipata e il bilancio anch’esso in maniera partecipata).
  • 2° perché la pratica della “validazione consensuale” esige una ferrea disciplina (questa sì leninista), nel senso che occorre essere determinati nel praticarla e coerenti nelle risultanze. Io per esempio fui un “cantore” delle sue virtù, molto meno nella pratica quotidiana. Mi facevo prendere dalla fretta, dal fastidio di ascoltare tutti, di trovare una sintesi unitaria, ecc. quando tra pochi c’era la possibilità di decidere (male, visti i risultati odierni).

I pochi e i molti…
I pochi (le nostre “avanguardie”) sempre prese dalle lotte e poco dalla gestione degli accordi, contratti e leggi e i molti (una buona metà tra i lavoratori) che sul finire degli anni ’70, (caso FIAT) non portavano mai a casa un mese intero, dovuto dalla perdurante crisi produttiva della FIAT, e quindi della CIG, (vedi i bidoni di auto non vendute che affollavano i piazzali) e dei ricorrenti scioperi nelle officine, non sempre compresi dai lavoratori. Per non dire il fossato che si venne ad aprire dalle competenze di parecchi gruppi dirigenti di fabbrica sui problemi della “prestazione di lavoro” e la crassa ignoranza che caratterizzava in modo crescente i gruppi dirigenti dei sindacati sui problemi della condizione concreta dei lavoratori.

Per non dire il “ciucco” preso dal maggiore nostro dirigente di allora: Bruno Trentin che nei fatti attraverso una escalation dei contratti di allora nella pratica andava affermando “il salto dell’asticella”: ergo se ad un accordo o contratto non pienamente gestito come si rispondeva? “alzando l’asticella”! quasi che ad uno che non riesce a saltare un metro possa saltare un metro e dieci! Vedi per tutte la “1° parte dei CCNL”! e avanti popolo.

Gli anni ’80: gli anni della ritirata

Sono gli anni del riflusso, anni di resistenza di ristretti gruppi dirigenti di fabbrica contro gli effetti della crisi produttiva, contro la voglia di rifarsi la bocca da parte del padronato rispetto a tutti gli anni ’70. Contro il cedimento di CISL e UIL (vedi la scala mobile). La cosa, almeno per me, che ancora adesso non trova risposta è la completa sordità dei gruppi dirigenti rispetto ad un fatto democratico che venne del tutto sospeso per oltre un decennio: la rielezione delle “rappresentanze unitarie” dei lavoratori in tutti i luoghi di lavoro. E sì che avevamo a che fare con una intera generazione educata, cresciuta nella pratica democratica delle elezioni dei propri rappresentanti, nel ruolo delle assemblee dei lavoratori. Quanto meno la si poteva tentare: una parte dei Delegati eletti alla maniera degli anni ’70, una parte eletti su liste e se gli altri sindacati non ci stavano lo doveva promuovere lo stesso la CGIL per i propri Delegati. Era una contraddizione, certo, però positiva. E a ciascuno dei compiti predefiniti. Non se ne fece niente, abituando i quadri di fabbrica a far da sé in molti casi in maniera “divisiva” (così si dice adesso).

Gli anni ’90: gli anni della concertazione
Devo dire che sei il primo che parla criticamente della strategia della “codeterminazione” dei suoi aspetti positivi (tutti teorici e sulla carta) e dei suoi effetti negativi avvenuti là dove questa si affermò, vedi nei grandi gruppi tipo la FIAT, Zanussi, ecc. mi pare (e pareva a me allora) una strategia impostata in un periodo di sconfitta dei lavoratori e dei loro sindacati, a fronte del fatto di una imprenditoria poco avvezza al rispetto delle regole. In molti casi si tramutò in “collaborazionismo”. Parlo per diretta esperienza avendo io fatto una esperienza per ca. 2 anni in una “Commissione di partecipazione nazionale” del gruppo FIAT (su Salute e Sicurezza). Ho girato, a spese della FIAT mezza Europa, ma se qualcuno mi domanda se questa mia attività ha prodotto un infortunio in meno o migliorato un tantino di più la salute dei lavoratori? …

Contro il perbenismo e il moderatismo, malattie senili del comunismo
Mi pare che anche tu fai riferimento al concetto di “rassegnazione”. Ivar Oddone negli anni ’70 mi diede da leggere un libro: “Piani e struttura del comportamento”, un saggio di marca americana dei primi anni ’60, edito dalla Boringhieri, scritto a tre mani da Miller, Gallanter e Phribam (un antropologo, uno psicologo e un linguista) che così argomentava: “nei comportamenti degli uomini ci sono alcune costanti che durano da millenni. Ovviamente cambiando i contesti, cambiano le forme nelle quali tali comportamenti si manifestano. Davanti ad un modello consolidato (la famiglia, la tribù, lo schiavismo, il capitalismo, il socialismo, il liberismo, il fordismo, il taylorismo, più o meno applicato o modificato: essenzialmente caratterizzato dal rapporto tra chi pensa e chi esegue) cosa ci si aspetta dal comportamento di un individuo? che si integri nel modello esistente accettandolo come dato di “natura” o che all’opposto si ribelli a tale modello e (si badi bene) nel caso della ribellione è bene che ciò si manifesti in maniera esplicita per poter procedere nella successiva selezione o per mettere in pratica quelle politiche (del personale in fabbrica o del potere costituito fuori) atte a rendere innocua la ribellione stessa, attraverso la blandizie (la corruzione) o attraverso la repressione”.Diventa chiaro che “integrazione-ribellione” sono le due facce di una unica medaglia: lasciano il tutto così com’è. Solamente due generazioni sono uscite in avanti da questa antinomia: la generazione che fece la resistenza e quella del ’68 e ’69 che emancipò una giusta ribellione in una stagione molto lunga di “diritti e potere”: gli anni ’70.

Il principio di realtà
Siccome vengo da una lunga militanza, ho il ricordo nei primi anni ’60 del principio di realtà affermato da uno come Togliatti, e ciò era giusto, per non sbarellare nel velleitarismo. Solo che il nostro non si faceva imprigionare da questo, partiva dalla conoscenza concreta della realtà NELLE COSE, NEGLI UOMINI E NEI MODELLI per affermare una volontà di cambiamento che non disdegnava gli OBIETTIVI PIU’ UTOPICI (IL SOCIALISMO), quindi la capacità di parlare non solo al cervello, ma anche al cuore di donne e uomini, specie se giovani. Intanto però la realtà va squadernata e trovo quanto mai curioso che non si faccia nessun riferimento all’andamento della struttura manifatturiera e dei servizi nei vari documenti del recente congresso della CGIL. Così come ai dati occupazionali. Così come alla presenza o meno in questa fase di crisi di “aziende esemplari” [in dieci anni dal 2001 al 2011, ndc].

1. La stragrande maggioranza di queste aziende sono di piccole dimensioni e i proprietari sono relativamente giovani, quasi tutti pieni di intraprendenza. Dentro ci sta’ di tutto: dalla genialità, alla professionalità, al rispetto delle regole, alla ignoranza più crassa, al lavoro sottopagato, in nero, alla evasione fiscale e contributiva, fino agli odierni “forconi”. Li accumuna, nel periodo attuale, la stessa condizione: tutti con “la bocca alla canna del gas”. Quando vanno in banca trovano degli strozzini, mentre invece per le aziende grandi (magari con i debiti) c’è la manica larga;
Domanda: è da qui che verranno le “magnifiche sorti” di un rinnovato capitalismo sgravato finalmente dai lacci dell’art. 18? A me non pare, perché: 1° sono da sempre nell’area non tutelata dall’art. 18 – 2° il mercato di riferimento è sostanzialmente quello nazionale dove la domanda è più che stagnante (non c’è il quattrino che gira, la gente non compera, per cui…) – 3° se avessero dei soldi da investire per fare innovazione (sui prodotti, sulle tecnologie, ecc.), basta vedere il capitale sociale di queste imprese: RIDICOLO. Ci sarebbero delle chance, ma soldi non ci sono e le banche non ne danno;

2. Una minoranza di medie e grandi aziende, affermate da anni, però con imprenditori avanti con l’età, che non hanno più voglia di rischiare (l’hanno già fatto in gioventù), ora la villa c’è, la pelliccia per la moglie pure, i figli sono sistemati e i profitti sono remunerati non con la ricerca di produttività (quindi innovazione ecc.) ma con l’abbassamento del costo del lavoro, le esternalizzazioni, la delocalizzazione, la precarietà, e un eccetera sconfinato.
Quando un numero crescente di queste imprese sono in mano alla mafia e alla malavita.

Queste imprese (ormai da parecchi anni) sono nei fatti un terziario delle grandi manifatture della Germania. Domanda: è da qui che verranno le “magnifiche sorti” di un rinnovato capitalismo sgravato finalmente dai lacci dell’art. 18? Anche qui io ho miei dubbi. Ancorché facciano ricorso alla libertà di licenziare (specie attraverso la “pulizia etnica”: inidonei, invalidi, anziani, donne in maternità, ecc.), sostituendoli con gioventù precaria, non ci sarà nessun aumento di occupazione, quanto meno di sostituzione e come sempre accade nella sostituzione si realizza sempre un “risparmio” di mano d’opera. D’altra parte in queste imprese nel 2013 sono avvenuti ca. 100.000 licenziamenti (attribuiti a varie cause) e nessun incremento di occupazione.
Ci sarà senz’altro un incremento dei profitti, dovuti all’estensione del lavoro precario e parecchio “addomesticato”, senza tutele.
Quindi, l’attuale imprenditoria per ignoranza, ignavia, e con la filosofia di “farsi ricco in fretta”, ci sta’ portando allo sfracello.

Stessa cosa per i comuni (in provincia di Torino)
In provincia di Torino vi sono 315 comuni per un totale di 2.302.353 abitanti con 1.050.370 famiglie. Con tutta probabilità ci saranno dei comuni amministrati da cialtroni così come da persone probe, democratiche, ecc. cosa conosce delle “esperienze esemplari” la CGIL e lo SPI? Bisogna, quindi, oltre alla conoscenza della realtà, avere anche la capacità di fare “sognare” la propria gente, specie nell’attuale fase, se non si vuole lasciarla nella rassegnazione e nello scoramento, e i più sfortunati negli incubi, prede della rassegnazione e o del qualunquismo. Domanda: specie nella maggioranza della CGIL pare che sia questo il tratto distintivo? A me non pare proprio, quasi tutti come sono impegnati a giustificare l’esistente e una parte persino la forza politica di riferimento.
Il che mi porta a osservare (in maniera sconsolata) un altro fenomeno, descritto in una frase di A. Gramsci: “la classe operaia porta con sé tutti i difetti della borghesia che la comanda”. Spero di sbagliarmi…

Si può ripartire? SI!
Il che non vuol dire che tutta questa nostra borghesia sia di tal fatta. Quel tanto che stando al libro di A. Calabrò (Orgoglio Industriale, Ed. Mondadori) questi ci dice che nel 2008 su ca. 4milioni di aziende manifatturiere, ce ne sono 4.600 (lui le chiama “multinazionali tascabili”) che forse ci tireranno fuori dalla crisi. Domanda: chi le conosce, cosa fanno e cosa fa lì il sindacato (posto che ci sia)? Domanda successiva: è una bestemmia pensare di poter costruire a sinistra (a partire dai sindacati) un archivio di queste aziende per portarle all’onore del mondo, per tentare di farle mettere in contraddizione con il resto delle imprese? Per tentare una sorta di “alleanza dialettica” con il movimento dei lavoratori. Non fosse altro perché in questo campo vi sono senz’altro le possibilità di un “conflitto” più avanzato e non solo sulla difensiva. O no? A meno che lo sport preferito nei sindacati e nella sinistra sia quello “di continuare a mettere il lievito sulla merda”.

La ri-partenza e una autocritica
A patto però di essere consapevoli di tre questioni:

  • la 1° ha bisogno di una salutare autocritica di tutti coloro i quali furono i protagonisti di quella stagione, nel senso di vedere i limiti di quella esperienza che grosso modo si può così definire: diventammo tutti quanti dei “bravi poliziotti” e chi come il sottoscritto si misurò con i problemi della prestazione di lavoro finì nel fare il “guardiano del 133 di rendimento” (è la misura massima stabilita per lo sfruttamento di una persona).
  • La 2° quella di riconoscere che avevamo (chi più, chi meno) delegato al solo inquadramento unico la “carriera dell’operaio”, oscurando invece quanto dall’esperienza operaia e quindi quanto dalla sua “competenza professionale allargata” poteva venire, offrendo invece delle ipotesi di maggiore professionalità a nuovi modi di lavoro (le isole e quant’altro), ovvero quello di riconoscere che all’operaio intraprendente restavano aperte due strade: la 1° diventare talmente bravo da passare dall’altra parte (senza nessun giudizio moralistico, passare dalla parte di coloro i quali in una fabbrica hanno il compito di costruire delle Istruzioni per gli Esecutori) ovvero 2° strada, diventare talmente bravo e passare a fare il sindacalista! La 3° è quella di essere approdati a livello della migliore liberal democrazia, ergo: i lavoratori devono avere il diritto di esprimere i loro giudizi, specie con il voto sugli accordi e sui contratti (la libertà di opinione). A me pare che a questa concezione (del tutto giusta) occorra affiancare una strategia che si fondi sulla “democrazia cognitiva” (al cambio svizzero: mettere nella bagna i lavoratori).

“Contro il Jobs Act e l’austerity lo strumento c’è. Lo sciopero Usb del 24 ottobre!”. Intervista a Tomaselli Fonte: contropiano | Autore: redazione

Sciopero generale il 24. La piattaforma stavolta sembra decisamente “politica”, e rivolta non solo contro il governo italiano. Cosa è cambiato?
Veramente USB dal 2010, anno della sua costituzione, ha sempre attribuito le responsabilità politiche della crisi soprattutto alle istituzioni e ai grandi gruppi di potere europei ed internazionali, più che alla politica italiana. Certo, poi ci sono i governi nazionali e quelli che si sono succeduti dal 2007 in poi ce l’hanno messa tutta per far contenti Unione Europea, BCE e Fondo Monetario Internazionale.
Oggi forse le cose sono un po’ più chiare a tutti ed è più facile spiegare ai lavoratori ed alla gente comune che sarebbe inutile puntare il dito soltanto sul governo Renzi se non si attaccano le politiche internazionali, a cominciare da quelle europee.
La sovranità nazionale nell’ambito legislativo – e nello specifico in quello del lavoro, delle politiche economiche e sociali – è ridotta quasi a zero e se si vuole invertire la tendenza è indispensabile mettere sotto accusa le politiche dell’Unione europea e quelle di chi, come Renzi, le applica in Italia. Quindi si, questo sciopero generale, nelle sue motivazioni assume oggi un valore che va oltre i confini nazionali.Anche la Cgil “medita” uno sciopero, ma forse a novembre. Intanto anche la Fiom ha cominciato a contestare Renzi quando si presenta in fabbrica e minaccia addirittura l’occupazione delle fabbriche. Quanto è credibile questo “indurimento” del vecchio sindacato italiano? Non rischia comunque di arrivare a giochi fatti?
Lo sciopero della Cgil! Quale sciopero e quale Cgil? Mi viene da rispondere così, perché negli ultimi anni, ogni volta che accade qualche cosa di pesante per il mondo del lavoro, partono le bordate della Camusso che dopo le immancabili riunioni con Cisl e Uil, che regolarmente non se la filano per nulla, e la spinta della Fiom – parla di sciopero generale. Non mi sembra che ce ne siano stati da parte loro, in questi anni di crisi e di attacco continuo ai diritti ed al salario. Sarebbe quindi ora di smetterla con le evocazioni. E quando parlo di evocazioni parlo anche della Fiom. Se Landini inizia a fare conflitto vero nel Paese troverà USB sul campo, perché lo pratica da anni.
Forse è anche possibile che prima di Natale la Camusso indica lo sciopero generale, ma a giochi fatti rappresenterebbe la solita minestra riscaldata utile a far sfogare la gente ed affermare la propria identità.
Il 24 ottobre c’è uno sciopero generale che può essere utilizzato da chiunque volesse dare un segnale forte e cade proprio nel momento nel quale si sta facendo passare il peggio del peggio in parlamento e sui posti di lavoro: tutti sono invitati a partecipare, soprattutto chi in Cgil continua a fare opposizione interna e chi continua ad evocare mediaticamente l’occupazione delle fabbriche ma non riesce ad esprimere all’esterno reale e concreto conflitto sociale.
In questo senso ci rivolgiamo però soprattutto a quei delegati e a quegli iscritti della Cgil che chiedono lo sciopero generale e sono sempre più delusi: lo strumento c’è, il 24 Ottobre, utilizzatelo!

Vedi qualche segno di ripensamento – tra i soggetti sindacali e politici – sulle scelte fatte finora e che sembrano aver facilitato il compito dei “riformatori”?
Non mi sembra che ci siano segnali che vadano in direzione contraria a quanto fatto sino ad ora. Certo, qualche ripensamento si intravede, o meglio si legge tra le righe del caos interno al PD o nelle formazioni di ciò che rimane della cosiddetta sinistra radicale o negli scossoni interni alla Cgil. Ma quel che preoccupa è che quasi nessuno tra questi soggetti dimostra di avere un progetto che, partendo da un’analisi concreta dell’attuale fase politica ed economica, rimetta in discussione complessivamente e radicalmente i modelli sociali ed economici del sistema. Nessuno parla in modo critico dell’Unione europea, nessuno dice che ci stanno trasformando in una grande Grecia, in un mercato da sfruttare in tutti i sensi.
Ripensamenti? No, altrimenti questi soggetti non continuerebbero a speculare sulle spoglie del paziente che è quasi deceduto; non si limiterebbero a parlare di riforma elettorale, di Senato, di province e di altri problemi che poco hanno a che vedere con il mondo reale che si trova davanti tutti i giorni chi lavora senza contratto e con salari a livelli inferiori di quelli dieci anni fa, chi il lavoro lo ha perso e chi non sa neanche che cosa sia, chi studia senza futuro e chi è in pensione con un reddito da fame.

Non sembra aria da grandi mobilitazioni vincenti, comunque. Anche l'”antipolitica”, che pure sembra un sentimento diffuso e ancora forte, non sembra più mordere come prima. Da cosa dipende?
E’ faticoso mobilitare i lavoratori anche perché è sempre più difficile trovare lavoro e sempre più facile perderlo. La gente è stanca e mancano punti di riferimento forti e credibili a livello politico: quelli che una volta ti spingevano a ricercare e praticare il cambiamento, a rimboccarti le maniche ed a lottare, quelli che ti facevano utilizzare lo strumento sindacale non soltanto per difendere i tuoi interessi particolari, ma anche per tentare di costruire un sistema ed un mondo migliore di quello che ti ritrovi a vivere. Oggi manca la politica, quella vera. E tutto è diventa più difficile.
Io credo però che mobilitarsi, lottare e più in generale partecipare, sia qualche cosa che parla anche al cuore e alla testa della gente e che sia necessario continuare a praticare il conflitto, anche se marginale o circoscritto, piuttosto che evocarlo sui grandi temi senza mai arrivare a praticarlo come fa più di qualcuno.
E sono convinto che proprio dai conflitti locali, da quelli sulle specifiche vertenze, da quelli interni alle categorie ed ai singoli posti di lavoro, si costruisce poi una mobilitazione generale che deve avere caratteristiche globali, ma non deve mai abbandonare la quotidianità dei problemi della gente. Così stiamo costruendo la giornata del 24 Ottobre.

Il sindacalismo di base, in diverse componenti, sembra ancora incapace di fare un salto di qualità. La prima data scelta – il 14 novembre – non è stata mutata nemmeno quando si è saputo che la partita del jobs act sarebbe stata chiusa entro ottobre. Perché?
Dal nostro congresso nazionale dell’anno scorso è emersa un’esigenza che poi è diventata anche un obiettivo: il superamento del sindacalismo di base come oggi è realizzato per costruire il sindacato di classe. Un sindacato indipendente, di massa e generale, che coniughi l’intervento a livello territoriale con quello nazionale, quello del posto di lavoro con quello di categoria. Insomma, un sindacato che nella pratica come nell’analisi, coniughi gli interessi specifici e quelli generali.
Se partiamo da questo presupposto è evidente che quelle attuali forze sindacali che in generale vengono definite “di base” e che sono divise in decine di sigle e siglette, talvolta riescono ancora a dare risposte specifiche in particolari situazioni, ma molto più spesso sono assolutamente inadeguate agli obiettivi che ritrovi nei loro comunicati o nei loro statuti. USB ha imboccato un’altra strada, più difficile e sfidante, ma a nostro avviso la sola che può far fare un salto di qualità al sindacato in questo paese, recuperando valori e pratiche sindacali che si sono abbandonate da decenni: al tempo stesso senza cadere nella spirale che ha trasformato la stessa Cgil in un sindacato che non pratica conflitto e non indica obiettivi di reale cambiamento.

Che significa in pratica?
Tu hai toccato un aspetto che per certi aspetti può essere chiarificatore. USB ad agosto ha proposto una riunione a tutti gli altri sindacati di base per costruire una risposta comune a ciò che si stava prospettando e si sta concretizzando oggi. La riunione si è svolta all’inizio di settembre e si è intrecciata con un percorso già avviato in estate da alcune forze sociali e sindacali (compresa USB), quella dello “strike meeting”. Si è quindi deciso di costruire uno sciopero generale e sociale per il 14 novembre prossimo. Poi è accaduto di tutto e le accelerazioni delle misure sul lavoro da parte del governo ci hanno fatto riflettere. Abbiamo proposto a tutte queste forze di anticipare lo sciopero generale al 24 ottobre, data al centro dell’agenda politica ed istituzionale che riguarda la controriforma del lavoro.
Senza entrare nei particolari, gran parte di questi soggetti ha risposto “no”, perché ognuno aveva costruito un suo percorso fatto di altri scioperi di categoria, di momenti di protesta, di propaganda ed informazione ai quali non voleva rinunciare, di tentennamenti o di vecchi rancori…. e così ci siamo trovati ad indire lo sciopero generale noi, l’Unicobas e l’Orsa, pur lasciando aperta anche la finestra del 14 novembre. Questo è un esempio che definisce chiaramente “chi fa che cosa”. Non parlo degli altri sindacati o di altri movimenti, parlo di USB. Se dobbiamo essere efficaci dobbiamo essere chiari e se necessario saper modificare tempi, modalità e tipologia di intervento, per essere adeguati alle risposte che vogliamo dare. I rituali della politica e del “far sindacato di base”, per come si è sviluppato negli ultimi decenni, è a nostro avviso superato. E la giustezza di tale posizione viene confermata dalle migliaia di lavoratori, di delegati e rappresentanti di altre sigle sindacali che in questi ultimi anni si sono avvicinati ad USB, ne hanno rinforzato la struttura e stanno trasformando questo sindacato in quello che ci eravamo prefissati con la sua costituzione nel 2010: un’alternativa credibile, un sindacato conflittuale ed indipendente, che tende a diventare, giorno dopo giorno, consenso dopo consenso, in un sindacato di classe e di massa

Sembra chiaro che “il giorno dopo” il jobs act ci troveremo davanti a un “mondo nuovo” – o molto antico – che metterà ogni forza sindacale davanti a molti aut aut. Come si prepara l’Usb a questo “cambio di passo” che si annuncia pesante?
Il Jobs act è l’ultimo di una serie di provvedimenti che sarebbero stati già pesanti e contestabili in una situazione economica del paese che qualcuno definirebbe “normale”: diciamo l’Italia prima dell’inizio della crisi. Oggi questi provvedimenti, oltre ad essere oltraggiosi rispetto a gran parte della popolazione italiana che non arriva a metà mese, oltre a sottrarre diritti e salario, a determinare privatizzazioni e nuove tasse locali, a far sembrare elemosina gli 80 euro elargiti in cambio del blocco dei contratti o del taglio dei posti di lavoro, sono profondamente inutili ai fini dichiarati di rilancio dell’economia.
E allora bisogna continuare a dire con forza che il lavoro si crea non abbassando il suo costo o regalando moneta alle grandi imprese per assicurar loro i profitti che si attendono, ma attraverso un ruolo diverso dello stato e del pubblico, che deve poter intervenire direttamente nei settori che ritiene strategici e trainanti, anche attraverso le nazionalizzazioni. Serve una politica che ci stacchi dall’Unione Europea che sta destrutturando completamente tutti i settori produttivi dove questo paese eccelleva. Serve una politica che abbia il coraggio di prendere queste decisioni. Serve un sindacato che non guardi in faccia a nessuno, che non abbia governi amici e che costruisca conflitto vero sia a livello vertenziale, sia a livello generale.
Questo è quello che cercherà di fare USB, sapendo che più si avvicinerà l’obiettivo di essere considerato l’alternativa al sindacato concertativo e collaborativo, più saranno i lavoratori che si organizzeranno in USB, maggiori saranno gli ostacoli che si frapporranno sul nostro cammino, più gravose le responsabilità e ancor più pesanti i tentativi di fermarci. Ma noi siamo così: più tentano di impedire il nostro agire sindacale, maggiori sono le energie che riusciamo a mettere in campo.
Il 24 Ottobre è un passaggio importante, ma soltanto un passaggio e dimostreremo a tutti di esserci: abbiamo la testa dura e se ne accorgeranno!