Mai dalla parte del torto da: antimafia duemila

violante-luciano-web1di Nicola Tranfaglia – 24 settembre 2014

I rapporti tra mafia e politica procedono regolarmente nel nostro amato Paese e, non più tardi di ieri, il procuratore aggiunto di Palermo, Leonardo Agueci, alla conferenza stampa per la cattura da parte dei carabinieri di cinque mafiosi corleonesi, ha ribadito che Cosa Nostra “ha dimostrato di produrre consenso elettorale producendo pacchetti di voti nella sua ricerca puntando su determinati esponenti politici” citato un deputato dell’Assemblea regionale siciliana, Nino Dina dell’UDC che – secondo il magistrato di Palermo – potrebbe aver avuto rapporto con quegli ambienti mafiosi.Il fenomeno mafioso – comunque la si pensi – ha avuto, dopo il 1943 e lo sbarco anglo-americano nella penisola (non a caso quest’anno chi fa il mio mestiere ha dovuto rispondere a molte richieste di ricordare l’anniversario della prima come della seconda guerra mondiale!), ha avuto una notevole centralità nella storia dell’Italia repubblicana.

Ma ora ritorna, per così dire, di particolare attualità di fronte alla difficile ma forse alla fine vittoriosa di un uomo politico italiano, ex magistrato ed ex presidente della Camera, come Luciano Violante (in foto) che ha tentato una seconda volta, in sfortunata coppia con un altro ex avvocato di Berlusconi, Gaetano Pecorella, di essere eletto senza fortuna alla Suprema Corte. Ma questa è una conseguenza delle caratteristiche dell’avversario arcoriano che ha portato con sé in parlamento personalità per così dire discutibili: ieri Pecorella ed oggi Bruno, felicemente respinti nelle loro inaccettabili pretese.
Il caso dell’ex magistrato – dobbiamo subito dirlo – è di tutto altro genere.
Il curriculum dell’uomo è di prima qualità, capace di presentare all’esterno una sicura caratura antifascista, al di là di un infelice discorso fatto nel 1996, appena eletto sullo scranno più alto di Montecitorio, quando guardò con particolare benevolenza ai ragazzi di  Salò o quando, sempre in quegli anni, criticò in maniera inaspettata (lui eletto più volte nella severa capitale del Piemonte!). O quando – sempre nei primi anni novanta – criticò apertamente sul quotidiano del suo partito i giudici di Palermo Falcone e Borsellino che indagavano senza timori le azioni politiche di personaggi importanti del partito di maggioranza come Giulio Andreotti e Salvo Lima. Ricordo che Violante aveva definito “precipitoso” il giudice palermitano. E quando Falcone propone, divenuto nel 1991 a Roma (ricordo di averlo incontrato per regalargli il mio libro Perchè la mafia ha vinto!) direttore degli Affari Penali con Claudio Martelli, ministro della Giustizia, e propone la creazione della Superprocura antimafia, immediatamente il deputato del PDS dichiara e fa mettere a verbale: “Non può fare una simile proposta perché è troppo legato al Ministro.” E qualche anno dopo sottolinea che Falcone era “direttore al Ministro della Giustizia” e “quindi passare alla Superprocura sembrava un’anomalia, mentre quella da un ufficio giudiziario all’altro, come per il concorrente (Agostino Cordova, procuratore capo a Cosenza) era più semplice.” Così nell’estate 1999 per ricordare un piccolo episodio del 1992 di fronte alle rivelazioni del Corriere della Sera sugli interrogatori di Massimo Ciancimino al processo di Palermo, gli torna improvvisamente in mente che, dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio, il colonnello Mario Mori gli propose più volte di incontrare privatamente l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, probabile intermediario della trattativa tra i carabinieri del ROS e il binomio dei capi mafia Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, detto Binnu. Violante, secondo il suo racconto autobiografico, si presenta dai magistrati di Palermo a spiegare di aver rifiutato il faccia a faccia, di aver proposto un’audizione in commissione Antimafia e di aver chiesto a Mori se avesse informato la procura di Palermo. L’ufficiale dei carabinieri nega di averlo fatto perché è cosa politica.
E lui non dice nulla e anzi si dimentica anche lui di avvertire la procura. E ancora, nel 1996, di fronte alle tangenti di La Spezia da parte di Lorenzo Necci, presidente delle Ferrovie dello Stato e di Pacini Battaglia. Possiamo continuare: durante la campagna elettorale per lo scontro del 2001, Violante si sbraccia a proclamare che il PDS “ha garantito sempre le proprietà e i canali televisivi dell’imprenditore di Arcore”, secondo le direttive pervenute dall’allora presidente del Partito on. Massimo D’Alema.
Insomma, possiamo dire a questo punto, senza esitazioni che l’ex parlamentare e magistrato di Torino non ha mai sbagliato posizione, ha curato nello stesso tempo quello che stava a cuore al suo partito e, nello stesso tempo, al suo sicuro percorso politico e personale. Non ce ne sono molti nella nostra classe politica tanto capaci di non sbagliare (quasi) mai.

Pagine dal diario di Carmelo Salanitro a cura di Rosario Mangiameli

Carmelo Salanitro nato ad Adrano e ucciso a Mauthausen nella ” camera dei gas” alla vigilia della liberazione il 24 aprile 1945
da: pagine dal diario a cura di Rosario Mangiameli

Anno 1931,28 ottobre
Oggi mercoledì si entra nel 10 anno del regime fascista.Oggi, compiono nove anni esatti da che il 28 ottobre 1922, ha avuto inizio una farsa che non potrà avere se non uno scioglimento tragico. Da oggi imprendo a parlare, per mezzo di questo diario, con me stesso; poichè siamo ridotti a tale, che anche con qualche amico fidato, se tu vuoi parlare delle cose del tuo paese, devi abbassare il tono della voce e guardare circospetto intorno alle pareti mute che ti circondano. Domiziano, Tiberio e i Borboni sono ormai vendicati da questo governo fascista che da diversi anni tortura i cervelli delle persone oneste e coerenti e smunge le tasche di tutti , specialmente dei poveri e degli umili, straziando e desolando il paese intero .
Imbavagliata e resa muta la stampa libera e indipendente dalle Alpi alla Sicilia, è un’ invasione di giornali asserviti e aggiogati al Governo, i quali ogni giorno non fanno altro , riuscendo a una esasperante monotonia, che ricantare le lodi e gli osanna di Mussolini, tacere su quanto avviene all’estero e nascondere le piaghe che affligono Popolo e Nazione. Sciolte le associazioni contrarie al fascismo, impedita la ricostruzione o il sorgere di partiti , non già soltanto comunisti ,repubblicani e socialisti, ma perfino liberali e monarchici,costituzionali,stati puntello della monarchia, è rimasto in piedi un mastodontico e inutile, in un paese dove si vorrebbe identificare l’Italia col Fascismo ,organismo che usurpa il nome di partito , ma è meglio definirlo una specie di cloaca dove sono andati a trovare il loro posto naturale tutti gli elementi torbidi , disonesti e marci che, sparsi prima un pò qua un pò là nelle diverse frazioni del mondo politico, adesso che queste non esistono più si sono schierati nei ranghi del partito fascista , dove raccolti e riuniti , laddove per l’innanzi erano sparpagliati , hanno formato numero e, costituendo la principale piattaforma di un partito dal programma caotico, incerto , vago, si sono infitrati, dovunque nelle amministrazioni, negli uffici, nei posti di comando, dove hanno portato la loro incapacità che è superata soltanto dalla loro insaziata voracità , paralizzando o frustando i lodevoli propositi di qualche persona onesta che si è venuta a trovare nelle file del Fascismo non si sa come e perchè.
Questi sono i capi e gli ufficiali ; l’esecito è formato di uomini che si sono iscritti chi per tornaconto, chi per calcolo , chi per paura, altri poi perchè hanno veduto dare l’adesione a tanti prima di loro; oggi del resto è quasi una necessità l’appartenere almeno a qualcuna delle organizzazioni ramificate del Partito Fascista, poichè non si può lavorare senza aver speso decine di lire e fare parte di un sindacato o di un gruppo o di un’ associazione che porti la qualifica di fascista; oggi se un professore di scuole Medie Superiore vuole essere chiamato a far parte delle commissioni esaminatrice per gli esami di maturità , deve essere fascista iscritto al Partito o a qualche associazione dipendente; non si esige che sia colto e onesto e imparziale, ma che sia munito della tessera del PNF, e insegnanti notoriamente inetti o, che è peggio, corrotti hanno potuto sedere al banco di esaminatori; così viene attuata la Riforma Gentile, che il grande Mussolini appellò la più fascistaca delle riforme del Fascismo!
Di tutti gli iscritti nelle varie file del cosidetto P.N.F. se un giorno o l’altro la situazione attuale potesse mutare e questo Regime inviso a tutti cadesse , non ci sarebbe uno solo il quale impiegherebbe più di un minuto a spezzare il distintivo e a stracciare la tessera . Ma finchè si reggerà , la maggior parte sopporterà in silenzio di farne parte e tollerare tutte le angherie e i sorprusi e le sistematiche spogliazioni. Ecco il frutto dell’aver ricostituita a libertà l’I talia, senza aver preparato gli Italiani!

Vespa, le donne, la politica da : ND noidonne

Vespa, le donne, la politica

Il tragico spettacolo in tv su donne e politica

inserito da Monica Lanfranco

E’ la politica, bellezza: non ci vuole molto a fare il titolo della trasmissione Porta a porta della notte del 18 settembre 2014, nella quale, se è possibile, uno dei fondi più fondi del nulla televisivo nazionale ha segnato un record. Confermando la buona decisione di non vedere, da anni, la tv, e informarmi in ogni altro modo possibile, sono stata quasi costretta a soffermarmi sulla trasmissione, in tarda serata, e ne sono tristemente lieta.
Lorella Zanardo, nel video Il corpo delle donne ,sottolinea che è una responsabilità enorme usare gli stereotipi per giocarci, e che ci vuole una capacità non comune di gestire il potere (presunto) che hai nel farlo, per non uscirne massacrata: per questo la puntata è da vedere, perché è una fonte primaria per dirci il livello medio culturale di questo paese, e rivela chiaramente come profondi, radicati, cementati strutturalmente siano gli stereotipi, e quindi i pregiudizi, dentro l’informazione, dentro la cultura, dentro molte di noi.
Qui è vedibile l’intera puntata, un documento da studiare e sul quale ragionare molto, portandolo nelle scuole, nelle università e nei gruppi di condivisione, perché è un modello completo di asservimento al principio di conservazione dello status quo.
Solo alcune note a margine:
1) Da una parte le politiche (due di destra, una di Sel che ha quasi sempre taciuto).
Il conduttore nomina il Pd, (assente), dicendo di “aver chiesto delle new entry ma che evidentemente sono ‘ancora un pò intimidite”.
2) Di politica non si parla, ma in compenso ci sono collegamenti con esperti di chirurgia plastica che maneggiano pornograficamente morbide protesi per il seno, ammiccano verso i glutei della modella/manichino muta, esempio dei nuovi canoni estetici odierni. Gli esperti fanno capire che il ritocchino è non solo diffusissimo, ma salutare e benvenuto.
3) Le giornaliste che fronteggiano le politiche sono più anziane di loro: forse presa da rimorso per la partecipazione ad un circo così vacuo una di loro attacca l’uso dell’inglesismo nel linguaggio di una delle deputate, cercando di umiliarla e di dare una svolta culturale al programma. Casualmente questa deputata è l’unica che, oltre a sapere l’inglese, sa anche l’italiano. Non sono però pervenute critiche al sessismo del sistema culturale, politico e sociale Italiano dalle colleghe della stampa, mentre molto tempo dall’una e dall’altra parte è speso per ‘ragionare’ sull’opportunità di mettere o meno, (per andare in aula), la canottiera, la camicia o la gonna, e quanto corta. Laura Comi, reduce da Strasburgo, ci informa che al Parlamento Europeo sono meno fiscali che in quello nazionale: lì si entra anche senza cravatta. Evviva, l’Europa è più avanti.
Come coincidenza (significativa) segnalo che proprio in questi giorni una bancaria, che si occupava di pari opportunità nel posto di lavoro, quel lavoro ora l’ha perso perché ha segnalato, su facebook, che nella sua filiale i colloqui per nuove assunzioni erano molto influenzati dalla bella presenza delle candidate.
La storia è quiSi potrà discutere sull’opportunità di ‘mettere in piazza’ le questioni di un luogo privato (la banca non è l’amministrazione comunale) ma è legittimo chiedersi se la democrazia sia davvero ancora viva in un paese nel quale il pensiero critico verso il sessismo (ben distribuito tra donne e uomini) faccia ancora così paura da creare il vuoto intorno a chi prova a parlarne.
Come definire il sentimento che ho sentito, da giornalista, da attivista femminista, da donna nel vedere trattato così il tema della partecipazione del mio genere alla politica in Italia? Ho provato vergogna, e umiliazione, a vivere in Italia.
So bene che ci sono emergenze, (non solo problemi aperti e grandi), come il lavoro, la criminalità, la carenza educativa, sanitaria e abitativa.
So bene che la cultura non viene considerata un’emergenza, quando palesemente tocca livelli di guardia, come ormai da oltre un ventennio precipita, nell’indifferenza e nella sottovalutazione.
Ma sono consapevole che l’assenza di focalizzazione sui guasti che produce la banalizzazione degli stereotipi sessisti è un pericolo enorme per una collettività.
E che, purtroppo, le donne che ora sono nei luoghi decisionali raramente vi portano differenze tese al cambiamento: a destra come a sinistra come dei ‘movimenti’ la maggior parte di esse assevera la norma, neutra e quindi maschile. A chi, come la Bindi, insiste, (ormai sola), a indicare come l’iper sottolineatura dell’aspetto fisico femminile sia un danno per l’autorevolezza si risponde (vedi Alessandra Moretti, il nuovo femminile in rapida avanzata) che il gossip rosa avvicina la gente alla politica, e ben venga.
Se non ci sono orizzonti, (almeno quelli), divergenti rispetto alla rassicurante melassa degli stereotipi, lo sguardo si ferma molto prima di riuscire ad avere visioni di liberazione.
Ad Altradimora abbiamo ipotizzato di invitare, per un tour in alcune città italiane, la neoparlamentare della lista femminista svedese eletta con il 4%: forse c’è bisogno di un aiuto esterno per capire come salvarci da tutto questo, insopportabile, letale e offensivo scenario di banalità.

L’inasprimento dei contrasti interni dei paesi belligeranti da: www.resistenze.org – cultura e memoria resistenti – storia – 18-09-14 – n. 512


Accademia delle Scienze dell’URSS | Storia universale vol. VII, Teti Editore, Milano, 1975

Capitolo XXVII – Parte prima

La guerra mondiale aveva inasprito fino al limite estremo tutte le contraddizioni del sistema capitalista.
La monopolizzazione e la regolamentazione statale dell’economia – senza precedenti nel passato – il rafforzamento della lotta di classe, la profonda penetrazione delle idee rivoluzionarie nelle masse e le azioni rivoluzionarie del proletariato dei paesi belligeranti erano la prova che il capitalismo era entrato nell’epoca della sua crisi generale.

La guerra provocò uno sfacelo economico, poiché strappò dalla produzione milioni di operai e di contadini. Il numero totale dei mobilitati raggiunse, alla fine della guerra, i settantaquattro milioni di uomini. Contemporaneamente si approfondì l’ineguaglianza dello sviluppo nei paesi capitalisti. Alcuni vennero quasi completamente tagliati fuori dalle fonti di materie prime e dai mercati, altri ottennero la possibilità di eliminare i propri concorrenti e di arricchirsi.

Si andava rafforzando la tendenza a sottomettere l’apparato statale ai monopoli capitalisti. Vari organi statali e speciali comitati stabilivano il volume della produzione nelle imprese, i tipi dei prodotti ed i termini di consegna. Ma i funzionari statali che esercitavano il controllo sulla produzione erano persone di fiducia dei cartelli, dei trusts e dei maggiori capitalisti.

Nell’economia agricola dei paesi belligeranti furono introdotti piani di semina obbligatori e la consegna forzata da parte dei contadini del raccolto allo Stato per la distribuzione razionata. Per regolamentare i consumi dei fondamentali prodotti dell’alimentazione fu introdotto, inizialmente in Germania, quindi negli altri paesi, il sistema delle carte annonarie.

Una misura assai importante tra i provvedimenti del capitalismo di Stato del tempo di guerre fu l’introduzione del lavoro obbligatorio per gli operai. Ai lavoratori fu proibito di avanzare richieste “illegali” e di ricorrere agli scioperi.

I governi dei paesi belligeranti ed i loro organi di propaganda presentavano queste misure come la “mobilitazione di tutte le forze della nazione per la difesa della patria”, e cercavano di persuadere i lavoratori che grazie al controllo dello Stato gli interessi egoistici dei capitalisti sarebbero stati subordinati agli interessi della nazione e che per questo nessuno avrebbe potuto arricchirsi con la guerra.

Ai fini del rapido arricchimento dei ceti capitalistici accanto alle commesse militari serviva anche l’inflazione. La svalutazione della moneta cartacea fu di fatto un prestito imposto dallo Stato imperialista alla popolazione. L’inflazione peggiorava la posizione degli operai e degli altri strati della popolazione lavoratrice, apriva un largo margine alla speculazione e permetteva ai capitalisti di arricchirsi a milioni.

Le imposte sui profitti di guerra furono introdotte solo nel secondo e nel terzo anno del conflitto. In alcuni paesi con queste imposte venne apertamente legalizzato un profitto “normale” del 20-30% superiore a quello dell’anteguerra. Ma anche queste imposte rimanevano in notevole misura solo sulla carta, dato che la borghesia teneva celati i suoi redditi.

I monopoli dei paesi belligeranti mantenevano legami segreti con l’avversario. Il nichel inglese estratto in Canada veniva inoltrato per vie illegali in Germania. Gli stabilimenti chimici tedeschi di Baden fornivano di propri prodotti, attraverso l’Olanda e la Svizzera, imprese inglesi e francesi. Così gli speculatori di guerra trasformavano in oro il sangue che veniva versato sui campi di battaglia della guerra mondiale.

La guerra attirò nella sua orbita anche i paesi coloniali e dipendenti e determinò in notevole grado il loro sviluppo economico e politico. Nel corso della guerra maturò la crisi del sistema coloniale dell’imperialismo e si crearono i presupposti per un’ascesa del movimento di liberazione nell’Asia e nell’Africa.

1. La situazione interna nei principali paesi imperialisti

La germania

Nell’iniziare la guerra imperialista, nel 1914, i ceti dirigenti che governavano l’impero del kaiser erano partiti dalla convinzione che essi erano preparati alla stessa meglio dei propri avversari. La Germania era superiore agli altri paesi nella produzione di armamenti, possedendo l’industria metallurgica e meccanica più progredita in Europa, un ben organizzato sistema di trasporti ferroviari, grandi scorte di carbone e di altri materiali essenziali ed una agricoltura sviluppata.

Tuttavia la Germania aveva bisogno dell’importazione del minerale di ferro e dei metalli colorati (rame eccetera), non possedeva petrolio, cotone, caucciù, manganese. La sua agricoltura non assicurava tutto il fabbisogno della popolazione in grano, orzo, lino, prodotti del latte e foraggi.

Il governo tedesco aveva creato a tempo debito grosse scorte delle materie prime deficitarie e anche nel corso della guerra, nonostante il blocco messo in atto dall’Intesa, la Germania conserve una certa possibilità d’importare le materie prime e le derrate a lei necessarie, attraverso i vicini paesi neutrali.

Così la Svezia la riforniva di minerale di ferro di alta qualità, la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia aumentarono di molte volte l’esportazione in Germania di burro, pesce e bestiame.
La sua situazione migliorò ulteriormente quando ebbe occupato, poco dopo l’inizio della guerra, le regioni del carbone e del minerale di ferro della Francia e del Belgio e quando poté disporre delle risorse industriali ed agricole della parte di Polonia conquistata.

La Germania aveva iniziato prima degli altri stati la conversione dell’economia di pace in economia di guerra; l’industria tedesca poté passare più rapidamente al capitalismo di Stato del tempo di guerra, dato che la concentrazione dell’industria e lo sviluppo dei monopoli capitalistici avevano già raggiunto un livello assai elevato. La borghesia tedesca manifestava un’attività febbrile in quei rami dell’economia che le promettevano i più elevati profitti.

Secondo i rapporti degli stessi imprenditori, la norma media del profitto nell’industria metallurgica si era elevata nel 1915 di due volte in confronto con il 1914; nell’industria chimica il tasso di profitto era passato dal 19,2 al 31,1%, nell’industria conciaria dal 20,3 sino al 37,7%. In tre anni di guerra i profitti di Krupp superarono di due volte i profitti dei tre anni prebellici. Il magnate dell’industria dell’acciaio Hugo Stinnes si arricchì favolosamente.

Nell’agosto 1914 su iniziativa di W. Rathenau, presidente della “Compagnia Generale di Elettricità” (AEG), fu creata presso il Ministero della Guerra una “sezione militare delle materie prime”, nei cui compiti rientrava la registrazione delle scorte delle materie prime industriali nel paese e la loro requisizione per necessità belliche. I magnati dell’industria condussero una dura lotta per la direzione della “sezione militare delle materie prime”. Nel 1915 Stinnes riuscì ad avere il sopravvento su Rathenau e a mettere a capo della “sezione militare delle materie prime” un sua uomo di fiducia.

I grossi industriali crearono nelle varie branche dell’industria società per le materie prime necessarie alla guerra, che s’incaricavano della distribuzione delle commesse militari alle singole ditte e della coordinazione della loro esecuzione. Nonostante tutti questi provvedimenti, la fiducia del governo, del kaiser e dello Stato Maggiore che la Germania fosse sul piano economico ben preparata alla guerra non aveva un serio fondamento. Il vantaggio della Germania negli armamenti e nel potenziale militare industriale era solo temporaneo e poteva esercitare un’influenza risolutiva unicamente nel caso di una guerra di breve durata. Ad una lunga guerra “di logoramento” l’economia germanica non era preparata.

Verso il 1916 infatti si erano già resi palesi i segni di crisi nell’economia tedesca. L’enorme ampliamento della produzione militare condusse ad un rapido consumo del capitale fisso dell’industria; si contrasse la produzione in tutti i rami dell’industria leggera, cadde l’estrazione del carbone, la fusione della ghisa e dell’acciaio. La mobilitazione dissanguò l’economia agricola, che risentiva inoltre della crescente penuria di macchine e di fertilizzanti chimici.

Nel 1915 si abbassò il raccolto delle più importanti colture agricole. Il rifornimento alimentare della popolazione si rese difficoltoso; in questo campo regnava l’irrefrenabile speculazione dei proprietari terrieri, dei contadini ricchi e dei commercianti. Le riserve interne e le scorte strategiche andavano velocemente verso il loro esaurimento.

Nel frattempo i provvedimenti applicati dall’Inghilterra e dalla Francia per il rafforzamento del blocco della Germania limitavano severamente le possibilità d’importare le derrate e le materie prime deficitarie. Gli imperialisti tedeschi ritennero di poter uscire da queste difficoltà economiche attuando la centralizzazione totale del sistema degli approvvigionamenti.

Nel febbraio 1915 fu razionato il pane: 225 grammi di farina al giorno per persona, e nel corso del 1916 furono introdotte le carte annonarie per il burro, i grassi, la carne, le patate e il vestiario. Fu introdotta anche la consegna obbligatoria di tutto il raccolto da parte dei contadini, con esclusione di quote severamente limitate per uso personale.

Nell’autunno del 1916 il raccolto delle patate fu inferiore di due volte rispetto a quello dell’anno precedente, e la patata, che era stata fino a quel momento il principale prodotto alimentare dei lavoratori, fu sostituita con la rapa; l’inverno di fame del 1916-17 fu chiamato dal popolo tedesco l’ “inverno della rapa”.
Gli imperialisti tedeschi compensarono in parte il cattivo raccolto del 1916 con lo sfruttamento delle risorse alimentari della Romania, occupata alla fine del 1916 e depredata senza pietà. Ma i rifornimenti alimentari romeni non durarono a lungo.
Nella primavera del 1917 la razione di pane fu ridotta a 170 grammi di farina al giorno, oppure 1.600 grammi di pane alla settimana. Il consumo di carne e di grassi si ridusse ad un quinto di quello dell’anteguerra.

Senza badare alle reali possibilità del paese, i ceti dirigenti junker-borghesi della Germania elaborarono nell’estate del 1916 un nuovo gigantesco programma di armamenti denominato “programma Hindenburg”, la cui attuazione doveva dare all’esercito tedesco, secondo i loro calcoli, la supremazia sopra gli eserciti dell’Intesa ed assicurare la vittoria. L’ambizioso programma contemplava il raddoppio della produzione di munizioni, di triplicare la produzione delle mitragliatrici e dei cannoni eccetera.

La direzione della realizzazione del programma fu affidata ad uno speciale organo statale, con a capo il generale Groener. Questa direzione ricevette poteri illimitati nel campo della gestione dell’industria, della regolamentazione della produzione industriale e del processo produttivo in tutte le branche. Essa si appoggiava nel proprio lavoro ai cartelli e alle unioni imprenditoriali dell’industria pesante, ai consorzi Krupp, Stinnes, Stumm e agli atri magnati dell’industria di guerra.

Nel dicembre 1916 venne approvata la legge sul “servizio ausiliario patriottico” che completava la militarizzazione del lavoro in Germania. La legge introdusse l’obbligo del lavoro per gli uomini in età da 17 a 60 anni e permetteva all’autorità di mobilitare forzosamente gli operai per qualsiasi lavoro, sia dell’industria come dell’agricoltura. Il numero dei lavoratori impiegati nell’industria degli armamenti crebbe da un milione e mezzo a tre milioni e mezzo nel 1917.

Il governo richiamò persino dal fronte gli operai qualificati per inviarli negli stabilimenti militari. Ma a causa della fame crescente la produttività del lavoro degli operai cadde nettamente e la forza di lavoro per l’industria militare non fu sufficiente.
Nell’inverno 1916-17, in seguito alla penuria di braccia, la Germania ebbe insufficienza di carbone, con riflessi anche sull’industria degli armamenti.

Per incrementare la produzione militare gli imperialisti tedeschi mobilitarono innumerevoli istituti e laboratori scientifici. I chimici tedeschi elaborarono metodi industriali per l’estrazione dell’azoto dall’aria e metodi di produzione del caucciù sintetico. Nella produzione industriale furono introdotti, con l’aiuto degli scienziati, diversi surrogati dei metalli e delle materie prime mancanti. Cionondimeno nell’industria di guerra sempre più spesso si verificarono arresti della produzione per la mancanza di materiali. L’esercito e l’economia di guerra risentirono in modo particolarmente acuto dell’insufficienza dei prodotti del petrolio.

Ubriacati dai successi reali ed immaginari sui fronti, gli imperialisti tedeschi non compresero la disperata situazione militare ed economica della Germania. Essi elaborarono vasti piani di annessione per estendere l’influenza tedesca su tutte le parti della terra. Già si parlava d’imporre un’enorme contribuzione di guerra sugli avversari, dopo averli vinti.

I partiti borghesi e junkers del Reichstag sostenevano senza obiezioni le richieste dei monopoli e dei militaristi sullo stanziamento di nuovi crediti militari, sulla militarizzazione del lavoro e dell’economia, sul rafforzamento della censura militare e sulla sorveglianza militare-poliziesca sopra la popolazione.

Il governo ed il comando militare serravano il popolo nella morsa di ferro dello stato d’assedio. Con il sostegno ai militaristi tedeschi da parte della borghesia, il dispotismo militare, che stava alla base del sistema politico dell’impero del kaiser, durante la guerra si rese sempre più palese. Persino il cancelliere ed i ministri dipendevano nelle loro decisioni dal comando supremo.

I dirigenti della socialdemocrazia tedesca e dei sindacati disorganizzavano il movimento operaio, aiutavano la borghesia ad ingannare le masse e a spingerle nella carneficina imperialista. Una grande forza venne conferita ai social-sciovinisti dalla loro alleanza con il governo, la borghesia e lo Stato Maggiore generale; la loro attività fu presa sotto la protezione dello Stato, delle autorità militari e della polizia, mentre la censura militare li proteggeva dal pericolo di essere smascherati dalla stampa.

I traditori aperti (Scheidemann, Ebert, Legien, Südekum, David e altri leaders del partito socialdemocratico e dei sindacati) erano aiutati dai centristi con alla testa Kautsky. Questi ultimi, come i seguaci di Scheidemann, avevano votato per i crediti militari, condividevano l’idea fondamentale dei social-sciovinisti sulla “difesa della patria” nella guerre imperialista ed esigevano dai lavoratori la rinuncia alla lotta di classe per la durata della guerra. Gli sforzi principali di Kautsky e degli altri centristi erano diretti a giustificare teoricamente i social-sciovinisti e a mascherare il tradimento dei principi proletari.

Cionondimeno sul fronte e nelle retrovie si diffondeva uno spirito antimilitarista. Già nel dicembre 1914 si ebbero casi di fraternizzazioni spontanee tra soldati tedeschi e soldati francesi ed inglesi. Nel 1915 divennero più frequenti scioperi e dimostrazioni operaie. Il più grande merito nel risveglio della coscienza di classe del proletariato spetta ai socialisti di sinistra.
Un piccolo gruppo di militanti socialisti che erano rimasti fedeli alla causa del proletariato (K. Liebknecht, Rosa Luxemburg, Franz Mehring, Clara Zetkin, Leo Jogiches, Wilhelm Pieck ed altri pochi) rappresentavano tutto quello che di onesto ed effettivamente rivoluzionario c’era tra i socialisti della Germania.

Liebknecht utilizzava tutti i mezzi legali ed illegali per invitare il proletariato alla lotta rivoluzionaria contro la guerra imperialista. Ottenne larga risonanza in tutto il paese ed oltre i confini della Germania la sua dichiarazione al Reichstag del 2 dicembre 1914, in cui prese posizione contro tutti i deputati socialdemocratici e votò per il rifiuto al governo dei crediti militari.

Liebknecht smascherò coraggiosamente il carattere annessionista e di rapina della guerra e denunciò l’imperialismo tedesco come causa prima del suo scoppio. In altri suoi interventi egli invitò la classe operaia alla lotta sotto la parola d’ordine “guerra alla guerra” e attirò l’attenzione degli operai tedeschi sul fatto che loro principali nemici erano l’imperialismo tedesco ed il militarismo.

Karl Liebknecht, Rosa Luxemburg e i loro compagni curarono anche la pubblicazione di una letteratura clandestine contro la guerra. Nello scritto dell’aprile 1915 “L’Internazionale”, che esercitò una funzione importante nell’unione degli elementi internazionalisti della Germania, fu smascherato il tradimento del marxismo operato dai social-sciovinisti e dai kautskvani.
Gruppi illegali rivoluzionari si formarono a Berlino, Brema, Lipsia, Amburgo ed in altri centri industriali della Germania.

Per costringere Karl Liebknecht a tacere, il governo lo chiamò al servizio militare. Rosa Luxemburg venne arrestata.
Ma ne le dure repressioni del governo del kaiser ne le persecuzioni da parte dei capi della socialdemocrazia fermarono il lavoro rivoluzionario degli internazionalisti.
Il 28 maggio 1915 W. Pieck organizzò davanti all’edificio del Reichstag una dimostrazione cui presero parte 1.500 donne.
Il 30 ottobre 1915 alcune centinaia di donne dimostrarono dinanzi alla sede del Comitato Centrale del partito socialdemocratico chiedendo una lotta risoluta alla guerra.
All’inizio del 1916 il gruppo “Internazionale” cominciò a stampare volantini rivoluzionari illegali intitolati “Lettere politiche” (più tardi “Lettere di Spartaco “) ed assunse la denominazione di “Gruppo Spartaco”.

Gli spartachisti estesero la propaganda rivoluzionaria e l’agitazione tra le masse.
Il 1° maggio 1916, trovandosi a Berlino per le sedute del Reichstag e della Dieta prussiana, K. Liebknecht organizzò sulla piazza Potsdam una dimostrazione contro la guerra sotto la parola d’ordine “Abbasso la guerra! Abbasso il governo!”; per questa nuova azione Liebknecht fu deferito al tribunale militare, che lo condannò a quattro anni di carcere.

In risposta alle rappresaglie contro Liebknecht ci fu un’ondata di scioperi politici. A Berlino in segno di protesta abbandonarono il lavoro 55 mila operai dell’industria degli armamenti. A Braunschweig venne attuato uno sciopero generale dei metallurgici. In vari altri centri industriali avvennero scioperi e dimostrazioni. Nel corso di tutto il 1916 proseguirono in Germania gli scioperi che testimoniavano il fermento rivoluzionario fra le masse degli operai.

La crescente protesta non portò tuttavia al distacco degli operai socialdemocratici dai loro capi che tradivano la causa del socialismo; questo mancato distacco fu dovuto soprattutto alla subdola tattica di Kautsky e degli altri centristi, che suggestionavano gli operai estenuati dalla guerra con false speranze sulla possibilità di concludere una pace “giusta” e “democratica” fra gli imperialisti, sforzandosi con tali prediche pacifiste di mascherare il proprio accordo con i social-sciovinisti principalmente sulla questione fondamentale della “difesa della patria” nella guerra imperialista.

Nello stesso tempo i centristi cessarono di votare al Reichstag a favore dei crediti di guerra motivando la loro posizione con il fatto che la situazione militare della Germania era sufficientemente solida, per cui si rendeva desiderabile una sua azione con proposte di pace. Nel marzo 1916 i centristi crearono al Reichstag un proprio gruppo parlamentare separato chiamato “Unione operaia”. Così, con i loro gesti di “sinistra” e con frasi ipocrite sulla “pace”, i centristi mantenevano la classe operaia sotto l’influenza degli agenti socialdemocratici della borghesia.

Ma perfino i socialisti di sinistra, i capi del “Gruppo Spartaco”, non ponevano la questione della completa rottura organizzativa con il partito socialdemocratico e continuavano a rimanere nel partito di Scheidemann e di Kautsky, ritenendo che questa tattica servisse ad attirare dalla loro parte la maggioranza del partito. In realtà questa errata posizione del “Gruppo Spartaco” alimentava fra gli operai la fiducia verso il partito socialdemocratico e la speranza di correggerne la politica.

I socialisti di sinistra anche in tempo di guerra, pur con tutti i loro grandissimi meriti, non seppero liberarsi completamente dai propri errori. Essi non compresero il legame dell’opportunismo prebellico con il social-sciovinismo del periodo della guerra, non crearono a tempo debito un partito rivoluzionario di tipo nuovo, il quale potesse dirigere la lotta del proletariato tedesco contro la guerra imperialista.

L’Austria-Ungheria

Durante la guerra emersero con particolare forza le inconciliabili contraddizioni nazionali che da tempo dilaniavano la monarchia austro-ungarica, mentre si approfondiva la lotta di classe.

L’industria austriaca era disorganizzata a seguito della caotica mobilitazione degli operai e per la crescente crisi di materie prime e di combustibili. Un danno ancora maggiore era stato inferto all’economia agricola. Nelle città e nelle regioni industriali dell’Austria nel secondo e terzo anno di guerra regnò un’autentica fame. Ma la causa più grave di calamità per le masse lavoratrici fu l’inflazione. Già nel 1916 il valore della corona austriaca era sceso al 51 % di quello d’anteguerra. La copertura aurea della valuta si era ridotta di 47 volte, più che in qualsiasi altro paese belligerante.

I comitati industriali e finanziari creati dal governo, le cosiddette “centrali” erano nelle mani del capitale monopolistico e delle grosse banche, che avevano rafforzato ulteriormente il loro potere. Fino al 1917 il governo austriaco emise sei prestiti di guerra e quello ungherese 13. La collocazione dei prestiti avveniva attraverso le grosse banche, le quali non soltanto si arricchirono straordinariamente con queste operazioni, ma rafforzarono la loro influenza sugli organi governativi in ambedue le parti dell’impero. La subordinazione dell’apparato statale al capitale finanziario approfondì la decomposizione della burocrazia austro-ungarica a tutti i livelli, fino alle sfere dei più alti funzionari.

La miseria e la fame delle masse lavoratrici erano accompagnate dalla più dura reazione. Il regime di dittatura militate e di terrore, instaurato fin dai primi giorni della guerra, era diretto a soffocare gli orientamenti antimilitaristi nel paese ed era particolarmente aspro contro i popoli slavi dell’Austria-Ungheria.

Il Parlamento della doppia monarchia (Reichsrat) non venne mai convocato nel corso dei primi due anni di guerra. L’approvazione dei crediti militati e l’introduzione di nuove leggi venivano attuate con un tratto di penna dell’imperatore e dei ministri. I circoli militaristi e la polizia disponevano di tutta la pienezza del potere.

Il sostegno militare ed economico della Germania al suo alleato si trasformò in breve in un controllo, appena mascherato, della Germania sulla politica interna ed estera dell’Austria-Ungheria e sulle sue forze armate. I piani strategici e le operazioni su tutti i fronti venivano fissati definitivamente dallo Stato Maggiore generale tedesco; dal 1916 in poi, le truppe austriache-ungheresi sul fronte russo vennero sottoposte al comando supremo tedesco anche formalmente.

I circoli governativi dell’impero si adattavano a questa dipendenza servile, dato che calcolavano di realizzare con l’aiuto della Germania i propri piani di conquista nei Balcani e in Russia e conservare il loro dominio sopra i popoli slavi oppressi. I partiti austriaci ed ungheresi della borghesia e dei proprietari fondiari sostenevano incondizionatamente la politica imperialista del governo.

I socialdemocratici, secondo l’esempio della socialdemocrazia tedesca, prendevano anch’essi posizione per una difesa della “patria”; i loro capi approvarono pubblicamente la vergognosa votazione del gruppo socialdemocratico al Reichstag tedesco del 1914. Dopo aver proclamato la “pace civile”, essi invitavano la classe operaia a sostenere la guerra imperialista presentandola, come avevano fatto i social-sciovinisti tedeschi, come una guerra di “liberazione” contro lo zarismo russo.
Avvelenando la coscienza degli operai austriaci ed ungheresi con il veleno del nazionalismo e dello sciovinismo di grande potenza e scalzando nelle masse la fiducia nei principi dell’internazionalismo proletario, i socialdemocratici riuscirono nel primo periodo della guerra a frenare le aspirazioni rivoluzionarie del proletariato austro-ungarico.

Lo stato d’animo degli operai non uscì per lungo tempo dall’ambito dei sordi fermenti. Più attivi furono gli interventi antimilitaristi delle masse lavoratrici dei popoli slavi dell’impero. L’odio verso la guerra imperialista s’intrecciava in essi alle aspirazioni di liberazione nazionale, specialmente presso i cechi, gli slovacchi ed in Galizia, particolarmente nel periodo delle fortunate operazioni dell’esercito russo sul fronte austriaco. I soldati cechi, slovacchi, ucraini si davano in massa prigionieri alle truppe russe. Nelle terre ceche dilagava il sabotaggio delle misure militari delle autorità austriache e cresceva l’agitazione disfattista.

Con il trascorrere del tempo crebbe la protesta delle masse popolari dell’Austria-Ungheria contro la sottomissione al “diktat” tedesco, contro gli abusi del governo, contro lo scatenamento del terrore poliziesco e la spoliazione dei lavoratori da parte dei proprietari fondiari e della borghesia. La proditoria collaborazione dei capi socialdemocratici e dei sindacati con la reazione imperialistica incontrò la severa critica delle masse.

Nella direzione del Partito Socialdemocratico Austriaco si formò un’ala “sinistra” con alla testa Friedrich Adler. In sostanza però essi erano dei centristi, una varietà di kautskyani austriaci. Nel partito comparve anche una corrente autentica di sinistra, i cui componenti smascheravano il carattere imperialista della guerra e la politica conciliatrice della direzione del partito. Il più importante gruppo rivoluzionano furono i “radicali di sinistra” viennesi, benché anch’essi non avessero ancora deciso la rottura organizzativa del partito e si affiancassero all’opposizione centrista.

Nella socialdemocrazia e nei sindacati ungheresi si formò il gruppo rivoluzionario di Erwin Szabo, che lottava contro i social-sciovinisti e conduceva un’agitazione antimilitarista nelle fabbriche e nelle caserme. Una debolezza di questo gruppo era rappresentata dalla sua tendenza al sindacalismo anarchico.

Alla fine del 1916 si rese chiaramente manifesto l’avvicinarsi della catastrofe per l’impero degli Asburgo. In segno di protesta contro la politica dei ceti dirigenti del governo, F. Adler si decise a un atto terroristico, e il 21 ottobre 1916 sparò sul primo ministro austriaco conte Stürgkh. L’attentato di Adler fu, come già allora osservò V. I. Lenin, un atto di disperazione da parte dei kautskyani, che rifiutavano l’uscita rivoluzionaria dalla guerra e la lotta rivoluzionaria delle masse.
Adler venne condannato alla pena di morte, commutata poi in 18 anni di reclusione. Dopo questo attentato, che suscitò grande impressione nel passe ed all’estero, il governo austriaco convocò il Reichsrat per mascherare il regime dittatoriale con un’apparenza di parlamentarismo.

Un sintomo della crisi dei ceti dirigenti in Austria-Ungheria furono anche i tentativi di negoziati segreti per una pace separata con l’Intesa intrapresi dal nuovo imperatore austriaco Carlo, che aveva occupato il trono nel 1916, dopo la morte del vecchissimo Francesco Giuseppe.

La Gran Bretagna

Alla vigilia della guerra, nell’estate del 1914, l’Inghilterra aveva attraversato una seria crisi politica, ma l’entrata in guerra portò, per un certo tempo all’instaurazione di una “pace civile” tra i capi opportunisti del movimento operaio e le classi dominanti. Il reclutamento dei volontari per l’esercito bandito dal governo dette nei primi tre mesi novecentomila uomini.

Un grande servizio fu reso all’imperialismo inglese dalla destra delle Trade Unions e del partito laburista, che avevano invitato gli operai inglesi a sostenere la guerra contro il “militarismo prussiano”. In veste di zelanti difensori della guerra imperialista si presentarono i socialisti “fagiani”; la maggioranza dei dirigenti del Partito Socialista Britannico passò a sua volta, all’inizio della guerra, su posizioni social-scioviniste.

La voce dei pochi socialisti internazionalisti e degli altri onesti militanti operai fu sommersa dal coro dei servitori dell’imperialismo britannico e della reazione e le classi dominanti poterono attuare il trapasso alla guerra senza grandi agitazioni. Le libertà democratiche vennero di fatto svuotate, la stampa fu sottoposta alla censura militare.

Tuttavia gradualmente si verificò un affievolimento dello stato d’animo sciovinista delle masse. L’afflusso dei volontari nell’esercito, nonostante l’azione della stampa borghese, della Chiesa e della Scuola, iniziò nel 1915 a contrarsi sensibilmente.
Nelle fabbriche scoppiarono scioperi. Nel febbraio 1915 avvennero grosse sospensioni di lavoro nell’industria meccanica e cantieristica nel bacino del fiume Clyde in Scozia. Nel luglio dello stesso anno scioperarono duecentomila minatori del Galles del sud.

Gl’insuccessi dell’esercito inglese sul fronte e la politica del governo troppo fiacca dal punto di vista dei circoli militaristi provocarono il malcontento della borghesia. I grossi capitalisti esigevano un’introduzione più conseguente di provvedimenti di capitalismo militare di Stato. Su questo insisteva anche Lloyd George, che si andava avvicinando sempre più alle personalità reazionarie del partito conservatore.

Nel maggio del 1915, con la partecipazione attiva di Lloyd George, il gabinetto liberale di Asquith fu trasformato in gabinetto di coalizione con l’inclusione dei conservatori e dei laburisti. Il leader dei laburisti Henderson ottenne il posto di ministro dell’istruzione, ma di fatto divenne il principale consigliere del governo per le questioni della politica operaia.

La guida dell’industria che lavorava per le necessità militari passò al Ministero degli Armamenti, alla testa del quale fu messo Lloyd George. I posti dirigenti di questo ministero furono occupati da direttori, amministratori e specialisti distaccati dalle grosse aziende e dai trusts.

Le leggi sulla “difesa del regno” (1914-1915) prevedevano l’introduzione del controllo statale sopra le ferrovie, la navigazione, gli stabilimenti militari e le materie prime strategiche; i poteri governativi sul controllo e la regolamentazione dell’industria vennero notevolmente ampliati. Il Ministero degli Armamenti ebbe il diritto di confiscare qualunque impresa necessaria alla produzione bellica. Questa “confisca” non riguardava però la proprietà né tanto meno i profitti.

Nelle imprese controllate dallo Stato vennero vietati nel modo più severo gli scioperi e fu introdotto l’arbitrato obbligatorio per i conflitti di lavoro. I leaders tradeunionisti e laburisti sostennero pienamente questo nuovo attacco della reazione imperialista alla classe operaia e diedero il loro appoggio ai circoli governativi anche per l’introduzione del servizio militare obbligatorio, nonostante l’opposizione delle masse operaie, delle organizzazioni locali del partito laburista delle Trade Unions e delle vane organizzazioni pacifiste.

Al movimento antimilitarista mancò una guida combattiva, perché spesso i suoi capi erano dei pacifisti borghesi o piccolo-borghesi. I dirigenti del Partito Laburista Indipendente (Independent Labour Party), Mac Donald, Snowden eccetera, si presentavano sotto la bandiera dell’opposizione “cristiano-pacifista”, trattenendo gli operai dalla lotta rivoluzionaria contro la guerra imperialista.

Nel maggio 1916 la legge sul servizio militare obbligatorio fu approvata dal Parlamento, con il voto contrario di un piccolo gruppo di liberali e di membri del Partito Laburista Indipendente. I nuovi provvedimenti permisero alla borghesia di realizzare un ampio programma militaristico. Nell’estate del 1916 l’industria produsse in una settimana tanti proiettili d’artiglieria quanti ne contavano tutte le scorte all’inizio della guerra.

Gli enormi profitti militari dei grossi capitalisti facilitarono il processo d’assorbimento delle piccole imprese da parte delle grandi. Si rafforzò la concentrazione della produzione e si crearono nuove unioni monopolistiche. Nel 1916 si formò, la “Federazione dell’industria britannica”, unione di industriali e banchieri che occupò il posto più importante nell’economia e nella vita politica del paese.

Il rafforzamento della potenza del grande capitale si accompagnò all’abbassamento del tenore di vita del popolo. La militarizzazione del lavoro, l’esteso lavoro straordinario senza giorni di riposo e la cattiva alimentazione logoravano le forze degli operai. Un numero sempre maggiore di essi era destinato al lavoro coatto in nuove fabbriche militari, dove vivevano in difficili condizioni di abitazione, lontani dalle famiglie.

Nel movimento operaio inglese, sotto l’influsso della guerra, si verificarono interessanti sviluppi. Nel 1916 furono obbligati ad uscire dal Partito Socialista Britannico, su richiesta della maggioranza dei suoi membri, i socialsciovinisti con alla testa Hyndman. Nella composizione della classe operaia si accrebbe notevolmente lo strato degli operai semi-qualificati o non qualificati, e particolarmente delle donne. La condizione della maggioranza degli operai qualificati peggiorò notevolmente e si verificò una riduzione numerica della aristocrazia operaia.

I principali focolai di disordini sociali del movimento antimilitarista diventarono quei rami produttivi con predominanza di quadri operai qualificati, colpiti particolarmente dalla politica della “rotazione del lavoro” attuata dagli imprenditori (cioè dalla sostituzione di operai qualificati con operai semi-qualificati, che ricevevano uno stipendio minore).

La lotta dei metallurgici, dei meccanici e dei minatori contro la “rotazione del lavoro”, per una paga uguale per uguale lavoro, faceva fallire i disegni dei capitalisti che aspiravano a utilizzare la guerra per abbassare il livello di vita degli operai qualificati e preparare nello stesso tempo le condizioni per un’offensiva contro tutto il proletariato inglese.

Il movimento operaio trovò nuove forme di lotta. Una di esse fu il movimento degli “shop stewards” (anziani di reparto e di fabbrica), che erano, in sostanza, deputati degli operai: alle loro elezioni partecipavano tutti gli operai del reparto e dell’impresa e non soltanto i membri delle Trade Unions.

All’epoca degli scioperi operai nel Clyde, nel febbraio 1915, gli “shop stewards” diressero il movimento degli operai e dopo il termine degli scioperi crearono un Comitato operaio cui appartenevano rappresentanti di tutte le imprese del bacino del Clyde. I dirigenti del Comitato operaio furono i socialisti rivoluzionari scozzesi, che si batterono coraggiosamente contro la guerra imperialista come ad esempio l’operaio metallurgico William Gallacher, il maestro elementare John Mc Lean eccetera.

Sull’esempio degli operai di questa regione, i comitati degli “Shop stewards” sorsero anche in altri centri industriali della Scozia e poi anche in Inghilterra. Alla fine del 1915-inizio 1916 il movimento degli scioperi nel Clyde si rafforzò. Gli operai meccanici chiedevano un aumento della retribuzione e l’introduzione del controllo operaio sulla produzione. Dopo che le esortazioni e le minacce di Lloyd George, che si era presentato a Glasgow accompagnato da Henderson, non ebbero dato risultati concreti, la stampa operaia locale venne soppressa ed i membri del Comitato operaio furono arrestati e confinati. John Mc Lean fu condannato a tre anni di reclusione.

Nella primavera 1916 scoppiò un’insurrezione per la liberazione nazionale in Irlanda. Alla vigilia della guerra, nella speranza di tranquillizzare il popolo irlandese, il governo aveva emanato una legge sull’autonomia (Home rule), ma la sua attuazione fu rimandata alla fine della guerra. I nazionalisti irlandesi della destra borghese si accontentarono di queste promesse e passarono al servizio dell’imperialismo inglese Le forze democratiche del popolo irlandese proseguirono invece la lotta.

Nel fronte unico nazionale, allora creato, entrarono i nazionalisti piccolo-borghesi di sinistra, che si appoggiavano ai reparti dei “volontari” irlandesi, ed i socialisti rivoluzionari irlandesi, che avevano organizzato i reparti operai della “guardia civica” irlandese. Riesumando la vecchia parola d’ordine dei rivoluzionari irlandesi: “Le difficoltà dell’Inghilterra sono buone carte per l’Irlanda”, essi preparavano l’insurrezione armata al fine di creare una repubblica irlandese indipendente.
Poco prima dell’insurrezione era fallito il tentativo intrapreso da un militante del movimento, Roger Casement, d’inviare in Irlanda armi dalla Germania.

Nella notte del 24 aprile 1916 circa milleduecento “volontari” e membri della “guardia civile” occuparono a Dublino i principali edifici e i punti strategici e proclamarono la repubblica irlandese. Comandava gli insorti James Connolly, pubblicista, poeta di talento e famoso rivoluzionario. L’insurrezione conquistò le simpatie delle masse dell’oppresso popolo irlandese. Ma queste simpatie erano passive, e il piano degli insorti di sollevare tutto il paese, non si realizzò.

Le sollevazioni dei “volontari” nella provincia si mostrarono deboli e vennero attuate con ritardo: esse furono molto disorganizzate da alcuni capi nazionalisti piccolo-borghesi, che all’ultimo minuto si erano rifiutati di partecipare all’insurrezione. Un punto debole fu anche l’assenza di un programma sociale, il quale avrebbe potato infiammare e sollevare alla lotta le masse degli operai e dei piccoli contadini. Fra le cause dell’insuccesso va notata anche la circostanza che l’insurrezione irlandese non ricevette il necessario sostegno dal proletariato inglese.

Per una settimana gli insorti di Dublino combatterono eroicamente contro un esercito inglese di ventimila uomini, che sottopose la città ad un bombardamento spietato. Ma le forze erano ineguali ed il governo britannico riuscì a soffocare l’insurrezione. Contro i rivoluzionari battuti fu attuata una feroce rappresaglia: sedici dirigenti della rivolta, tra cui Connolly e Casement, furono giustiziati. Il soffocamento dell’insurrezione, tuttavia, non rafforzò la posizione degli imperialisti inglesi in Irlanda, perché diede l’avvio a una tenace e lunga lotta partigiana diretta alla completa liberazione dell’Irlanda dal dominio dell’imperialismo inglese.

Nella stessa Inghilterra i nuovi scioperi e le agitazioni che si erano verificati nel 1916 testimoniavano del crescente malcontento dei lavoratori. Gli operai chiedevano il controllo statale sopra gli approvvigionamenti alimentari, la confisca dei profitti di guerra della borghesia, la nazionalizzazione della grande industria e dei trasporti. Perfino i dirigenti di destra delle Trade Unions furono temporaneamente costretti a sostenere queste richieste.

Provocarono allarmi nella borghesia anche le tendenze contrarie alla guerra che si diffondevano tra i soldati: “Dopo la battaglia sulla Somme – riconobbe in seguito Lloyd Gorge – l’ardore dell’esercito britannico si raffreddò”. La guerra sottomarina attuata dalla Germania aveva messo ]’Inghilterra in una posizione critica. Questi fatti rafforzarono il timore dei circoli governativi per le sorti della guerra. Parte della borghesia insisteva perfino per l’apertura di negoziati di pace con la Germania.

Nel gruppo degli uomini politici inclini a una “pace negoziata” erano i liberali W. Mc Kinley, W. Runciman e il conservatore R. Lansdowne. Il capo del gruppo che chiedeva una lotta più decisa con la Germania, Lloyd George, sosteneva che la posizione dell’Intesa era migliorata e che l’Inghilterra doveva proseguire la guerra sino alla vittoria.

Nel dicembre 1916 il gruppo di Lloyd George, appoggiandosi ai conservatori, forzò Asquith a dare le dimissioni. Venne creato un nuovo governo con alla testa lo stesso Lloyd George, e i più importanti incarichi nel gabinetto vennero occupati da conservatori. Con il nuovo governo il sistema del capitalismo militare di Stato si estese.

All’inizio del 1917 fu introdotto il controllo statale sopra tutta l’industria carbonifera e in seguito anche sull’industria delle costruzioni navali. La militarizzazione del lavoro si estese a nuove branche dell’economia. L’economia dell’Inghilterra, più di quella di qualsiasi altro paese, dipendeva dal commercio estero e dall’importazione di materie prime. La guerra aveva danneggiato i legami commerciali dell’Inghilterra scalzando il suo passato primato nel commercio mondiale. Gli Stati Uniti d’America, il Giappone ed alcuni paesi neutrali sostituivano con successo i concorrenti inglesi nei mercati asiatici, sudamericani eccetera.

Tutti i dominions britannici (Australia, Canada, Unione Sudafricana, Nuova Zelanda) sostenevano la madrepatria nella guerra. Essi partecipavano al rifornimento dell’Inghilterra e degli stati alleati con generi alimentati, materie prime strategiche ed equipaggiamenti. Trecentomila australiani, centomila neozelandesi, decine di migliaia di canadesi combattevano sui vari fronti. Tuttavia negli anni della guerra le posizioni economiche dell’Inghilterra s’indebolirono.
Nel Canada si rafforzò notevolmente l’influenza dei monopoli americani, mentre si ridussero gli investimenti di capitali inglesi nell’economia canadese. Approfittando dell’indebolimento dei legami con la metropoli la borghesia dei dominions accelerò lo sviluppo di una sua propria industria.

Francia

Fin dai primi mesi della guerra le truppe tedesche avevano occupato le zone della Francia più sviluppate sotto il profilo economico, dieci dei dipartimenti nord-orientali che rappresentavano il centro dell’industria pesante francese e dell’economia agricola più intensive. Questi territori davano, alla vigilia della guerra, il 75% della produzione di carbone e di coke, l’84 % della ghisa, il 73% dell’acciaio, il 60% della produzione dell’industria della lavorazione dei metalli eccetera. Durante la guerra furono distrutti tremiladuecentocinquantasei città e villaggi francesi e circa ottomila chilometri di strade ferrate.

La superficie seminata a grano si ridusse costantemente, dopo aver raggiunto nel 1917 il 67% della superficie d’anteguerra, mentre i raccolti delle altre colture alimentari diminuirono dai 2/3 alla metà rispetto all’anteguerra. Con l’aiuto dei sussidi del governo i capitalisti francesi costruirono nuove imprese ed ampliarono le vecchie nella zona di Parigi, nel bacino della Loira, a Marsiglia, Bordeaux, Tolosa.
In queste regioni vennero creati nuovi stabilimenti metallurgici, fabbriche di automobili e di macchine, stabilimenti chimici; s’iniziò lo sfruttamento di nuovi giacimenti carboniferi. Nei dipartimenti alpini ebbe un grande sviluppo la costruzione delle centrali idroelettriche. La nuova industria lavorava esclusivamente per la guerra.

Più del 60 % della popolazione agricola maschile e circa la metà degli operai era stata chiamata alle armi. In seguito, quando il governo sviluppò rapidamente l’industria militare, parte degli operai mobilitati venne rinviata alle fabbriche. Questi operai venivano considerati militari comandati nelle officine e sottostavano alla disciplina militare, a alla più piccola manifestazione di malcontento o d’indisciplina erano inviati al fronte.

La distribuzione delle commesse militari e degli enormi sussidi statali si concentrò nelle mani di comitati capitanati dai grossi capitalisti. In breve tempo sorse in Francia un numeroso strato di nuovi ricchi, che avevano speculato sulle forniture militari. I proprietari delle imprese industriali militari ricavavano redditi favolosi. Il profitto netto della ditta Hotchkiss, che fabbricava mitragliatrici, raggiunse in due anni e mezzo di guerra i sessantacinque milioni di franchi, quello della ditta Schneider-Creusot fu nel 1915 di cinquantacinque milioni e nel 1916 di duecentosei milioni di franchi. La società di motori Gnome e Rhône distribuì ai suoi azionisti già nel primo anno di guerra tutto il capitale versato ed oltre a questo ottenne un utile netto di circa dieci milioni di franchi.

Realizzavano elevati profitti anche le grosse banche, che avevano collocato numerosi prestiti in patria e all’estero. Questi prestiti, che servivano come fonti principali per il finanziamento della guerra, portarono ad una crescita colossale del debito statale interno (da 34 miliardi di franchi nel 1914 a 116 miliardi nel 1918) ed alla formazione di un enorme debito collocato negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna, che alla fine della guerra era pari a 5,4 miliardi di dollari.

All’inizio della guerra gli orientamenti sciovinisti nelle masse del popolo francese sembravano assai forti. La borghesia ed i capi del partito socialista avevano proclamato la parola d’ordine dell'”unione sacra” della nazione di fronte al nemico esterno. Nel governo, diretto dall’ex-socialista Viviani, entrarono i rappresentanti di diversi partiti borghesi e dei socialisti. J. Guesde e M. Sembat divennero ministri nello stesso governo con A. Millerand. Più tardi nel governo entrò un terzo socialista, A. Thomas, che occupò l’importante posto di ministro della produzione bellica.

I capi anarco-sindacalisti dei sindacati, come ad esempio L. Jouhaux, presero parte ad organismi dirigenti governativi che si occupavano della mobilitazione dell’industria e degli operai per le necessità della guerra. Lo sviluppo degli avvenimenti sul fronte e il peggioramento economico dei lavoratori in confronto al crescente arricchimento degli strati borghesi aprirono gradualmente gli occhi delle masse popolari sul vero significato della guerra.

Dell’inizio di fermenti popolari è testimonianza il movimento degli scioperi, che abbraccia nel 1915-16 diversi strati di lavoratori: ferrovieri, addetti all’abbigliamento, tranvieri, minatori, impiegati di banca. Nel 1916 il numero delle sospensioni di lavoro aumentò di tre volte rispetto al 1915. Il governo introdusse nelle imprese dell’industria della “difesa” l’arbitrato obbligatorio, che privava gli operai del diritto di sciopero, e creò l’istituto dei “delegati di officina”, che doveva facilitate la collaborazione degli operai con gli imprenditori.

Ma all’inizio del 1917 il movimento degli scioperi raggiunse una portara ancora maggiore. Il presidente della repubblica Poincaré annotava nel suo diario alla fine del 1916, uno stato d’animo “allarmante” nella popolazione parigina, la crescita del numero dei “disfattisti” e costatava che “nell’aria si sentono miasmi sospetti”. Questi “miasmi” penetravano anche nell’esercito francese, in preda a un grave malcontento. I soldati incominciavano a comprendere a chi era conveniente la guerra imperialista.

Prolungandosi la guerra, si rafforzavano anche i fermenti delle masse, e l’opposizione alla guerra nel partito socialista e nei sindacati. Dato il piccolo numero di elementi rivoluzionari marxisti nel movimento operaio francese e la debolezza delle tradizioni marxiste nelle opposizioni, i centristi avevano il predominio: J. Longuet ed altri dirigenti dell’opposizione nel partito socialista giustificavano il comportamento del partito all’inizio della guerra, il suo voto per i crediti militari e difendevano la parola d’ordine della “difesa della patria”.

Essi rigettavano i mezzi di lotta rivoluzionaria contro la guerra e si limitavano a progetti pacifisti di “pressione sul governo al fine di concludere la pace”. I rappresentanti di questa opposizione parteciparono alle conferenze internazionali degli internazionalisti, che si tennero nel 1915 e nel 1916 a Zimmerwald e Kiental, sostenendo la maggioranza centrista.
Anche nei sindacati l’opposizione antimilitarista era diretta da elementi centristi, disposti a conciliarsi con la politica riformistica di Jouhaux e degli altri leaders di destra della Confederazione Generale del Lavoro.

Gradualmente però si formarono gruppi di internazionalisti conseguenti e nel 1916 sorse il “Comitato per il ristabilimento dei legami internazionali”, che riuniva vari rappresentanti della minoranza del partito socialista e dei sindacati. In questo comitato si distinse in breve un gruppo di sinistra. V. I. Lenin, che si trovava allora in Svizzera, stabilì un collegamento con i socialisti francesi di sinistra e li aiutò con i suoi consigli. I bolscevichi che vivevano in Francia misero al corrente gli internazionalisti francesi dei propri punti di vista e della propria tattica.

I socialisti francesi di sinistra non riuscirono comunque a prendere una posizione coerentemente rivoluzionaria, né si risolsero al completo distacco dai centristi, non sapendo liberarsi dalla ristrettezza settaria nel proprio lavoro e non potendo quindi dirigere il movimento delle masse che si sollevavano in lotta contro la guerra imperialista.

La Russia

La Russia zarista non era preparata alla guerra mondiale. Già all’inizio della guerra per armare i mobilitati mancavano circa 400 mila fucili e nell’ottobre 1914 ne mancavano due volte di più. Ma ancora dopo due anni nelle armate operanti vi erano centinaia di migliaia di soldati non armati. Le mitragliatrici scarseggiavano. Le scorte di proiettili furono presto esaurite e il loro consumo fu limitato a piccoli contingenti. Catastrofica era la situazione per l’artiglieria, particolarmente per la scarsità di proiettili.

Le possibilità produttive dell’industria russa erano estremamente limitate. La sua riorganizzazione sul piano militare veniva condotta in modo irresoluto ed assai lentamente, a seguito dell’arretratezza tecnico-economica del paese e dell’inerzia dell’apparato burocratico statale.

Soltanto le serie difficoltà economiche e gli insuccessi militari obbligarono il governo zarista ad accingersi, sull’esempio degli altri paesi, alla mobilitazione dell’industria. In aiuto dell’apparato statale abitualmente funzionante vennero creati organi interministeriali per la regolamentazione dell’intera attività economica, legata alla guerra.

Particolare importanza ebbe il “Comitato speciale per la difesa” formato nel 1915 con il compito di supervisionare l’attività di tutte le imprese industriali statali e private, che rifornivano l’esercito e la flotta di materiali di equipaggiamento, di coordinare l’organizzazione dei nuovi stabilimenti, ripartire le commesse e controllare la loco esecuzione.
Altri “comitati speciali” si occupavano dell’elaborazione e del coordinamento dei provvedimenti per gli alimentari, il combustibile, i trasporti; ad essi venne concesso il diritto di ripartire le ordinazioni, di stabilire i prezzi-limite e di effettuare requisizioni.
In ognuna di queste organizzazioni, oltre ai funzionari zaristi, entravano anche rappresentanti della Duma, del Consiglio di stato e delle organizzazioni dei proprietari e della borghesia.

Nello stesso anno 1915 furono fondati comitati per l’industria di guerra. Nella composizione del comitato centrale e di quelli locali entrarono i grandi industriali, i rappresentanti delle banche e lo strato superiore dell’intellighenzia tecnica della borghesia. Questi comitati chiamarono al servizio delle necessità del fronte circa milletrecento imprese industriali medie e piccole e crearono centoventi propri stabilimenti ed officine.

Le organizzazioni panrusse della borghesia e dei proprietari fondiari imborghesiti, “l’Unione degli zemstvo” e “l’Unione delle città”, sorte già al principio della guerra, si riunirono nell'”Unione degli zemstvo e delle città” (Semgor). Assieme al servizio ospedaliero, il Semgor prese nelle proprie mani anche la mobilitazione per le necessità della guerra della piccola industria e dell’industria domestica.

La grossa borghesia, che era rappresentata nei comitati speciali e che occupava posizioni dominanti nei comitati per l’industria di guerra, li utilizzava per rafforzare le sue posizioni economiche e politiche. Fra i singoli raggruppamenti capitalisti si svolgeva un’accanita lotta per ottenere le commesse più redditizie, per l’acquisto delle materie prime deficitarie, del combustibile e per i mezzi di trasporto.

Le unioni monopolistiche ottenevano comunemente le commesse all’insaputa dei comitati per l’industria di guerra, utilizzando direttamente i propri legami nel “Comitato speciale per la difesa” e nel governo. Le commesse venivano prese in molti casi indipendentemente dalla possibilità di farvi fronte, data che davano diritto a grossi sussidi governativi. Le ordinazioni affidate al Semgor furono eseguite solo per il 60% e quelle affidate ai comitati per l’industria di guerra per non più del 50%.

L’economia di guerra della Russia aveva, in misura ancora maggiore degli altri paesi capitalisti, un carattere unilaterale. La crescita della produzione militare, di per sé insufficiente, avvenne a spese dello smantellamento dei settori dell’economia di pace e della distruzione di settori produttivi essenziali. I grossi stabilimenti metallurgici e meccanici aumentavano solo la produzione meglio pagata: quella delle munizioni.

Nello stesso tempo si ridusse la fusione dei metalli (ferro, acciaio, ghisa). Nel 1916 su 151 altiforni ne erano in funzione 36. La vecchia attrezzatura si logorava rapidamente e non si faceva nulla per sostituirla. La Russia era carente di combustibile, particolarmente nei grossi centri della produzione industriale, Pietrogrado e Mosca.

Nell’ottobre del 1915 l’industria di Pietrogrado ricevette soltanto la metà del combustibile che le era necessario e quella moscovita ancor meno. La carenza di combustibile paralizzava i trasporti ed era aumentata a sua volta dallo sfacelo nei trasporti.

Lo scarso sviluppo della rete ferroviaria, l’insufficienza e l’usura del materiale rotabile condussero a sistematiche interruzioni sia dei trasporti militari che di quelli civili, gia assai limitati. Nei nodi ferroviari si formavano colossali ingorghi di merci. Anche i legami economici fra le singole regioni del paese ne ricevettero danno.

La riduzione della produzione in diversi rami dell’industria era aggravata dalla perdita dei governatorati occidentali, occupati dal nemico. L’evacuazione delle imprese dalla Polonia e dalle regioni baltiche avvenne in modo non organizzato. Per la mancanza nelle retrovie dei locali necessari e della base energetica, solo alcune delle imprese evacuate ripresero il lavoro nelle nuove sedi.

Negli anni di guerra venne accelerato lo sviluppo del capitalismo monopolistico russo e la sua trasformazione in capitalismo statale monopolistico. Si ampliarono le vecchie unioni monopolistiche e ne sorsero di nuove meglio organizzate: trusts e consorzi, che controllavano molte società per azioni ed imprese di diversi rami dell’industria. Crebbe notevolmente la potenza delle banche.

Nella composizione dell’oligarchia finanziaria un posto di rilievo venne occupato dai grossi fabbricanti tessili delle regioni centrali, dai commercianti del Volga eccetera, che acquistarono e fondarono imprese nell’industria pesante a si trasformarono in affaristi bancari (Vtorev, Stachejev, Rjabušinskij).

La guerra e la militarizzazione dell’economia assicuravano alla borghesia ingenti profitti. In alcune imprese i profitti si elevarono a più del 100 e 200%.

La situazione del proletariato peggiorò nettamente. La giornata lavorativa venne prolungata in quasi tutti i rami dell’industria e inoltre venne introdotto su grandissima scala il lavoro straordinario. Alla grave insufficienza di forza-lavoro qualificata maschile fu sopperito dagli imprenditori con il largo impiego del lavoro delle donne, dei fanciulli a dei vecchi. L’intensificazione del lavoro ed il crescente carovita portavano all’esaurimento fisico degli operai.

La mobilitazione per l’esercito della popolazione maschile capace di lavorare ed il flusso delle forze operaie verso la città ebbero un effetto funesto sull’economia dei proprietari fondiari ed ancor maggiore sull’economia dei contadini. Nella maggioranza dei governatorati non meno di un terzo ed in alcuni casi fino alla metà delle aziende contadine rimasero senza lavoratori maschi. Questo portò ad una repentina depressione dell’economia agricola, alla riduzione della superficie seminata e della produzione agricola.

Alla fine del 1916 la crisi alimentare assunse dimensioni catastrofiche. Nelle grandi città migliaia di persone facevano la fila per il pane e la carne. Sulle porte delle panetterie moscovite sempre piùdi frequente apparivano i cartelli: “Oggi non c’è pane e non ce ne sarà”. Pietrogrado alla fine del gennaio 1917 era alle soglie della fame; c’erano scorte di farina per 10 giorni, di grassi per tre, mentre la carne mancava assolutamente.

I tentativi del governo zarista di regolamentare la distribuzione dei generi alimentari, l’istituzione del comitato speciale per gli alimentari, per gli ammassi statali e per le requisizioni ed alla fine l’introduzione nel dicembre del 1916 dell’ammasso obbligatorio del grano, non ebbero successo. Conseguenze di questi provvedimenti furono la diffusione del mercato nero, la crescita della speculazione, l’arricchimento dei kulaki, dei proprietari fondiari, dei mercanti e delle banche.

La burocrazia zarista apparve incapace di assicurare lo stretto necessario non soltanto alla popolazione cittadina, ma neppure all’esercito al fronte. Dall’inizio della guerra all’aprile del 1916 la razione di carne dei soldati fu ridotta di tre volte e in seguito fu ancora diminuita.

La guerra provocò il dissesto delle finanze statali. Le spese totali della Russia nella guerra raggiunsero la somma colossale di 41,4 miliardi di rubli (pari a 15-16 miliardi di rubli d’anteguerra). Dall’inizio della guerra vennero introdotte nuove tasse e vennero aumentate le vecchie.

Per la copertura delle spese militari il governo ricorse all’emissione intensificata di moneta cartacea, sospendendo preventivamente la sua libera convertibilità in oro. La più importante fonte del finanziamento accanto all’inflazione furono i prestiti interni ed esteri. Il debito statale aumentò da 8,8 miliardi di rubli nel 1913 sino a 50 miliardi nel 1917.

La dipendenza della Russia zarista dai creditori stranieri assunse sempre più un carattere di dipendenza servile. Gli alleati erano interessati al rafforzamento di questa dipendenza, sia per restringere le pretese territoriali dello zarismo sia per allargare le passibilità della loro penetrazione nell’economia russa post-bellica.

L’Inghilterra e la Francia mettevano a disposizione della Russia armi, munizioni, equipaggiamento con un forte sovrapprezzo sul costo delle commesse e inoltre consegnavano le forniture incomplete e fuori tempo. La Russia pagava questo “aiuto” con enormi sacrifici materiali ed umani. Lloyd George dopo la guerra riconobbe apertamente che gli alleati avrebbero potuto armare l’esercito russo e salvarlo dalla sconfitta del 1915, ma che non lo fecero per considerazioni egoistiche. Il governo inglese, che aveva il controllo di gran parte delle commesse russe, chiedeva che la Russia, come garanzia di pagamento delle stesse, trasferisse le proprie riserve d’oro a Londra, ottenendo che vi fossero trasferiti più di 140 milioni di rubli d’oro.

I mezzi di trasporto per gli armamenti venivano forniti dagli alleati in cambio di forniture di grano, olio, legname, alcool ed altre importanti materie prime strategiche delle quali la stessa Russia aveva estrema necessità. Il governo francese chiese in cambio delle armi l’invio di 400 mila soldati russi. Nel 1916 il governo zarista iniziò l’invio di truppe russe in Francia e sul fronte di Salonicco.

Si rafforzò notevolmente anche la dipendenza della Russia dall’imperialismo americano. Il governo zarista collocò negli Stati Uniti d’America ordinativi per armamenti ed equipaggiamento per la somma totale di 1 miliardo e 237 milioni di rubli. Le importazioni americane in Russia aumentarono di 17 volte in confronto al periodo dell’anteguerra. Già nel 1916 gli Stati Uniti occupavano il primo posto nel commercio estero della Russia, avendo soppiantato l’Inghilterra e la Francia. La Camera di Commercio russo-americana di Mosca e le sue filiali nelle province svolgevano propaganda per attirare maggiori capitali americani in Russia.

Lo zarismo, particolarmente dopo la sconfitta del 1915, si era adattato a soddisfare le richieste degli alleati più pesanti ed umilianti per la Russia, rendendo sempre più grave la minaccia della perdita dell’indipendenza economica ed in prospettiva anche della perdita dell’indipendenza politica del paese.

La crisi militare ed economica si trasformava in crisi generale sociale-politica. La guerra aveva creato condizioni eccezionalmente difficili per il movimento operaio. I militanti rivoluzionari erano minacciati dai tribunali militari delle più dure punizioni; i sopravvissuti allo sfasciamento dei sindacati dovevano lavorare illegalmente, i deputati operai della IV Duma e molte personalità dirigenti del partito bolscevico languivano in esilio.

Ma anche in queste difficili circostanze i bolscevichi proseguivano instancabilmente la lotta per la realizzazione del programma d’azione internazionalista e conseguentemente rivoluzionario, che gia nei primi giorni della guerra era stato fissato da V. I. Lenin. I bolscevichi s’impegnarono attivamente a sfruttare l’indebolimento dello zarismo per preparare la nuova rivoluzione.

Il comitato di Pietrogrado del partito bolscevico fu frequentemente scompaginato nel corso della guerra, ma ogni volta la sua attività veniva rapidamente ristabilita, mentre aumentava la sua influenza politica e cresceva il numero dei membri dell’organizzazione. I proclami del comitato venivano diffusi per tutto il paese ed al fronte. Un grande ruolo aveva il lavoro politico dei bolscevichi tra le donne lavoratrici.

La borghesia, con il concorso dei menscevichi e dei social-rivoluzionari, cercava di attirare i rappresentanti degli operai nei comitati per l’industria di guerra, sperando di elevare in tal modo la produttività del lavoro negli stabilimenti e nelle fabbriche e sottoporre alla propria influenza le masse operaie.

I bolscevichi smascherarono questi cedimenti e invitarono i lavoratori a boicottare i comitati. La loro lotta ebbe successo e di 239 comitati per l’industria di guerra soltanto 36 riuscirono a formare i gruppi operai. Crebbe rapidamente anche il movimento di scioperi tra gli operai. Nell’agosto-dicembre 1914 si verificarono settantotto scioperi, nel 1915 più di mille e nel 1916 più di millecinquecento. Il numero degli scioperanti fu per questi stessi periodi rispettivamente di 34 mila, 540 mila e di oltre un milione.
Di anno in anno aumentava l’importanza degli scioperi politici; anche quelli per il carovita e le difficoltà alimentari assunsero colore politico.

Il governo ricorse alle repressioni, che si intensificarono particolarmente dalla metà del 1915. A Kostroma e Ivanovo-Voznesensk la polizia e l’esercito spararono sugli scioperanti. All’avanguardia marciavano gli operai di Pietrogrado. Con uno sciopero di massa fu ricordata da centomila operai di Pietrogrado, nel 1916, la giornata commemorativa delle vittime della “domenica di sangue”. Gli operai, con le bandiere rosse ed al canto degli inni rivoluzionari, scesero nelle strade. Nei quartiere di Vyborg si tennero dimostrazioni comuni di operai e di soldati sotto la parole d’ordine di “Abbasso la guerra!”.

Si rafforzò anche il movimento rivoluzionario contadino. Il ministro degli interni, ricapitolando i rapporti di polizia di diversi governatorati, affermava: “La campagna respira l’atmosfera del 1905”. Più di una volta il governo era ricorso alla forza per soffocare le agitazioni contadine.

I bolscevichi svolsero un grande lavoro nell’esercito. Essi creavano cellule nei reparti militari, diffondevano manifestini contro la guerra, invitavano i soldati a voltare le baionette contro i loro nemici autentici, i proprietari fondiari ed i capitalisti. Le lettere da casa assieme ai racconti dei soldati che rientravano in permesso, sullo sfacelo economico e sulla posizione miserabile delle loro famiglie, sulle agitazioni per mancanza di viveri e sugli scioperi in massa degli operai, esercitavano un influsso rivoluzionario sull’esercito. Dalla spontanea aspirazione alla pace che si esprimeva nell’aumento del fenomeno della diserzione, i soldati passarono gradualmente alla comprensione della necessità di farla finita con la guerra per la via rivoluzionaria.

Sui fronti, nel 1916, divennero più frequenti i casi di aperto rifiuto dei soldati di andare in combattimento. Nella flotta del Baltico su molte navi svolgevano attività le cellule bolsceviche, che si raggruppavano nel “Comitato Superiore di marina del Partito Operaio Socialdemocratico Russo”, strettamente legato con il comitato del partito di Pietroburgo.

Nell’autunno del 1915, sulla torpediniera “Pobeditel”, avvenne uno scontro di marinai ed operai addetti alle riparazioni con gli ufficiali. Il 19 ottobre, sulla nave di linea “Gangut ” scoppiò una rivolta. Il “Gangut” fu circondato da torpediniere e sottomarini, mentre sulla nave avvenivano arresti in massa. I marinai dell’incrociatore “Rjurik”, che si erano rifiutati di scortare i marinai arrestati sul “Gangut”, furono deferiti al tribunale militare.

All’appello dei bolscevichi, gli operai di Pietrogrado risposero alla rappresaglia che si preparava contro i marinai con uno sciopero di protesta che salvò i marinai rivoluzionari dalla pena di morte. Nel legame fra le azioni rivoluzionarie degli operai ed il movimento nell’esercito e nella flotta trovò la sua espressione l’alleanza che andava rafforzandosi fra il proletariato e i contadini.

Nell’ottobre 1916 a Pietrogrado, durante gli scioperi di protesta contro la guerra imperialista ed il carovita, due reggimenti di fanteria si rifiutarono di sparare sugli operai e voltarono le armi contro i poliziotti. Il comitato pietroburghese del partito bolscevico invitò gli operai a cercare con perseveranza l’alleanza con i soldati per l'”ultimo assalto” contro lo zarismo.

Della situazione rivoluzionaria che andava maturando rapidamente sono testimonianza le insurrezioni per la liberazione nazionale dei popoli oppressi dalla Russia zarista.

La più grande di esse fu, negli anni della guerra, l’insurrezione spontanea nell’Asia centrale e nel Kazachstan. Larghe masse di kazachi, uzbeki, kirghisi e tagiki si levarono in lotta contro l’oppressione coloniale e la politica di massiccia confisca delle terre che lo zarismo conduceva intensamente dal tempo della riforma agraria di Stolypin, e contro le tasse di guerra e le requisizioni. In questo movimento c’era una forte corrente sociale, perché i poveri combattevano contro le forme di sfruttamento servile da parte dei feudatari locali e degli usurai.

Il decreto dello zar sulla mobilitazione delle popolazioni non russe per il servizio militare di retrovia, annunciato nel pieno dei lavori agricoli nel giugno del 1916, fu l’ultima spinta all’azione armata aperta. Gli insorti saccheggiarono gli edifici governativi, distrussero le liste di mobilitazione, demolirono i collegamenti telegrafici e le linee ferroviarie.

Un’ampiezza particolarmente rilevante ebbe l’insurrezione nella regione di Turgai nel Kazachstan, dove i reparti degli insorti erano comandati da Amangeldy Imanov, rappresentante dei nomadi poveri (più tardi egli entrò nelle file del partito bolscevico). Con l’aiuto dei tribunali militari campali, delle forche e di numerosi reparti punitivi, lo zarismo tentò di reprimere il movimento di liberazione nazionale, ma non riuscì a soffocarlo completamente.

Sempre più manifesta era la dissoluzione del sistema monarchico. Uno dei più, chiari sintomi fu il cosiddetto “affare Rasputin”.
Avventurieri ed ogni specie di oscuri individui si raggrupparono attorno a Grjgorij Rasputin, contadino di Tobolsk, il quale recitava abilmente il ruolo di “veggente” riuscendo a porre sotto la sua influenza la zarina e per suo tramite anche Nicola II, acquistando così un enorme potere.
Da Rasputin e dalla sua cricca dipendevano le nomine a importanti incarichi, a lui dovettero la propria carriera molti ministri, e con il suo aiuto diversi affaristi ricevettero autorizzazioni all’apertura di imprese speculative.

Il disgregamento dell’apparato statale si manifestava anche nell’avvicendamento dei ministri: in due anni di guerra mutarono quattro presidenti del consiglio dei ministri, sei ministri degli interni, quattro ministri della guerra, tre ministri degli esteri.

La borghesia ed i proprietari fondiari si convincevano sempre più, dell’incapacità del governo zarista non solo a condurre una guerra vittoriosa, ma a imbrigliare il crescente movimento rivoluzionario del paese. Attorno alla parola d’ordine di un “ministero di fiducia”, ed in seguito sot-to quella di un “ministero responsabile”, si unirono i gruppi parlamentari borghesi latifondisti della Duma e del Consiglio di stato: gli ottobristi, i cadetti, i progressisti eccetera, che il 9 agosto 1915 raggiunsero un accordo che gettava le basi del cosiddetto “blocco progressista”.
Il suo programma era inteso ad evitare la rivoluzione e conservare la monarchia, a suddividere il potere fra i proprietari fondiari e la borghesia ed a prolungare la guerra fino alla vittoria.

La minaccia della rivoluzione spingeva ad opporsi allo zarismo anche una parte notevole della corte e influenti circoli di destra, che chiedevano l’allontanamento delle influenze irresponsabili (ci si riferiva all’affare Rasputin) e la creazione di un governo che trovasse un linguaggio comune con la Duma rimanendo “responsabile” soltanto davanti al monarca. Nonostante quest’opposizione monarchica fosse limitata, lo stesso fatto della rinuncia all’autocrazia, accettata non soltanto dalla borghesia ma anche dai latifondisti, testimoniava della profonda crisi di vertice e del crollo del sistema del 3 giugno.

La cricca zarista aveva abbozzato un proprio piano di lotta contro la rivoluzione e l’opposinone borghese. Esso prevedeva nuove repressioni contro il movimento operaio e le manifestazioni contro la guerra, il rafforzamento dell’apparato militare-poliziesco, l’ampliamento delle sue funzioni all’interno del paese, compreso anche il campo economico e lo scioglimento delle organizzazioni borghesi e della Duma.

La conclusione di una pace separata con la Germania avrebbe dovuto slegare le mani allo zarismo. Nell’autunno del 1916 si rinnovarono, dopo un primo sondaggio attuato nel 1915, i tentativi di stabilire contatti con la diplomazia tedesca. Poco dopo il governo limitò l’attività del Semgor, mentre preparava lo scioglimento della Duma e nuove elezioni.

I circoli della grande borghesia, che si erano convinti della impossibilità di intendersi “pacificamente” con lo zarismo, si proposero, mediante un rivolgimento di corte, di sostituire lo zar inetto e, senza cessare la guerra, di soffocare la rivoluzione che stava maturando: essi volevano insediare sul trono al posto di Nicola II il suo figliolo di pochi anni Alessio e porre come reggente il fratello delle zar, Michele.

I dirigenti politici dei circoli borghesi entrarono in negoziati con un gruppo di generali, che avevano promesso il loro appoggio al complotto con l’intervento di alcuni reparti militari. La borghesia russa era spinta ad azioni decise dagli imperialisti anglo-francesi, che si preoccupavano, nel caso della conclusione di una pace separata da parte dello zar, di trovarsi da soli contro la Germania.

I rappresentanti diplomatici degli alleati presero parte diretta al complotto che si stava preparando. Alla fine del 1916 il principe F. F. Jusupov, il principe Dimitrij PavloviÄ assieme ad uno dei più reazionari deputati della Duma, PuriškeviÄ, uccisero Rasputin, nella speranza che lo zar rinsavisse. La rivoluzione scoppiata nel febbraio 1917 prevenne sia il complotto borghese-latifondista, sia il rovesciamento di governo che si stava preparando da parte dello zarismo.

L’Italia

Grazie alle grosse commesse militari ed agli abbondanti sussidi di guerra, in Italia, negli anni della guerra, si erano andate sviluppando l’industria meccanica, chimica ed idroelettrica ed era aumentata di varie volte la produzione dell’industria automobilistica. Cresceva rapidamente la concentrazione della produzione industriale accompagnata a un sensibile rafforzamento della potenza dei più grossi monopoli: l’Ansaldo, nei cui stabilimenti alla fine dalla guerra lavoravano 110 mila operai, il trust metallurgico Ilva, FIAT, eccetera.

Come in molti altri paesi belligeranti, questo processo presentava in Italia un carattere anomalo e unilaterale. Contemporaneamente all’allargamento della produzione militare si ridussero nettamente i rami dell’industria leggera e in generale la produzione per scopi civili. Si rafforzava invece la dipendenza dell’Italia, povera di materie prime e di combustibili, dalle importazioni straniere e la penetrazione del capitale straniero, particolarmente americano. L’agricoltura italiana entrò negli anni di guerra in una fase di depressione.

La mobilitazione militare privò nel 1917 la campagna della meta della popolazione adulta, le superfici seminate ed i raccolti si ridussero. Nel paese si faceva sentire un’acuta insufficienza di grano, di carne, di legumi e di zucchero. Per l’ulteriore produzione ai fini bellici si accentuò ancor più lo sviluppo unilaterale dell’industria del nord, aggravando il problema secolare del sud italiano e le contraddizioni fra le città e la campagna, povera e asservita dalle sopravvivenze semifeudali.

La guerra portò al rafforzamento dello stato d’animo antimilitarista e rivoluzionario nella classe operaia italiana e fra i contadini e in parte della media borghesia. Alcuni gruppi monopolistici ed in primo luogo quelli legati alla metallurgia e all’industria meccanica avevane insistito per la partecipazione alla guerra, mentre numerosi gruppi della borghesia erano interessati al mantenimento di rapporti economici con le potenze centrali e invitavano a conservare la neutralità.

I partigiani dell’intervento dell’Italia in guerra (“interventisti”), svilupparono una rumorosa campagna di agitazione e propaganda, presentando la partecipazione alla guerra come un mezzo per realizzare le aspirazioni nazionali del popolo italiano, come la prosecuzione della lotta per il ricongiungimento di Trento e Trieste all’Italia e per la libertà e la democrazia. Un gruppo di social-sciovinisti, con alla testa Mussolini, fondò con i denari ottenuti dallo Stato Maggiore francese, un chiassoso giornale favorevole all’Intesa (“Il Popolo d’Italia”).

Dall’inizio della guerra il governo ottenne poteri straordinari per le questioni del lavoro. Gli scioperi furono proibiti, i conflitti di lavoro venivano esaminati da commissioni con la partecipazione dei comandi militari, nelle fabbriche che producevano per la guerra venne introdotto un regime da caserma.

A seguito delle difficoltà dei trasporti marittimi peggiorò la distribuzione dei generi alimentari anche nei grossi centri industriali. Le tessere per i prodotti alimentari furono introdotte con grande ritardo e solo in alcune città. Nei quartieri operai, già nel 1916, incominciava la fame.

Tra il popolo italiano cresceva l’odio per la sanguinosa carneficina che mieteva vittime fra le masse lavoratrici. Nel corso del primo anno di guerra si verificarono scioperi e dimostrazioni di strada in Lombardia, Piemonte, Sicilia e Calabria.

Il gruppo di Mussolini venne espulso dal partito socialista, ma la direzione del partito rimase su posizioni centriste, basate sulla formula “non aderire e non sabotare” (cioè non sostenere la guerra, ma neppure lottare contro di essa).

Nell’esercito si notava un peggioramento della disciplina. Dal gennaio 1916 al luglio 1917 il solo tribunale militare di Roma celebrò 10 mila processi di militari accusati di simulazione e di autolesionismo per evitare il servizio militare. Nelle regioni montane dell’Italia, con l’aiuto della popolazione, si nascondevano migliaia di soldati disertori.

Impauriti dai fermenti rivoluzionari e dalle sconfitte al fronte, il re e il comando supremo diedero l’avvio a sondaggi presso l’avversario per concludere una pace separata. Nel Parlamento e nei circoli politici della borghesia divennero più attivi i rappresentanti dell’opposizione, seguaci di Giolitti. Nel paese maturava una profonda crisi politica.

Gli Stati uniti d’America

La borghesia americana sfruttava con grande energia, al fine del proprio arricchimento, la guerra scoppiata in Europa. Dalla fine del 1914 l’industria degli Stati Uniti, ormai legata all’assegnazione delle commesse dei paesi belligeranti, conobbe un nuovo slancio.

La produzione di manufatti industriali aumentava di mese in mese. La produzione di acciaio nel 1916 era salita dell’80% rispetto al 1914. Si sviluppò particolarmente l’industria chimica occupata nella produzione di materiali esplosivi. Nel 1915-1916 gli stabilimenti Du Pont produssero mensilmente circa 13.600 t. di materiale esplosivo contro le 226 del 1913.
Le forniture militari apportarono ai capitalisti americani enormi profitti: 48 dei più grandi trusts ottennero nel 1916 quasi 965 milioni di dollari di profitto, 660 milioni di dollari in più del profitto degli ultimi tre anni prima della guerra.

Progressivamente le riserve auree si spostavano dall’Europa all’America. I finanzieri americani poterono riscattare una notevole parte dei titoli appartenenti alle banche europee investiti negli Stati Uniti ed anche offrire crediti ai paesi belligeranti, in primo luogo agli stati dell’Intesa. Fino all’aprile 1917 i paesi dell’Intesa ricevettero dagli Stati Uniti d’America circa due miliardi di dollari, la Germania 20 milioni.

I più influenti gruppi del capitale finanziario consideravano il rapido rafforzamento della Germania come una seria minaccia. Negli USA c’erano anche gruppi monopolistici che tentavano di difendere la liberta di commercio con la Germania e chiedevano al presidente che protestasse contro il blocco inglese, minacciando perfino la presentazione al Congresso di una legge sull’embargo degli armamenti. Ma Wilson si appoggiava a monopoli potenti come la Morgan e la Du Pont, i cui interessi erano strettamente legati con i paesi dell’Intesa.

Nell’estate e nell’autunno 1917 Wilson introdusse delle misure per la regolamentazione della vita economica. Vennero creati uffici per l’alimentazione, per i combustibili, per l’amministrazione ferroviaria eccetera, alla cui testa erano rappresentanti dei più grossi monopoli, con lo scopo di convertire l’economia di pace in economia di guerra. La “regolamentazione economica” testimonia in maniera evidente che anche negli USA stava sorgendo il capitalismo monopolistico di stato.

La questione dell’atteggiamento degli USA verso la guerra europea inasprì le contraddizioni della politica interna del paese. I circoli interessati alla guerra rafforzavano la propaganda militarista, utilizzando largamente per questo scopo la stampa borghese, la Chiesa, le scuole superiori. Per la conservazione della neutralità agivano innumerevoli associazioni pacifiste, cui appartenevano rappresentanti delle più diverse classi e professioni.

Contro la guerra imperialista si pronunciarono molte unioni professionali ed organizzazioni di farmers, che pubblicavano risoluzioni di condanna della guerra in Europa e dell’aumento degli armamenti negli USA. Una posizione particolarmente chiara in rapporto alla guerra imperialista fu presa dall’organizzazione degli “Operai industriali del mondo” (IWW), i cui membri partecipavano attivamente a meetings e manifestazioni contro l’imperialismo e pubblicavano manifesti antimilitaristi.

Nel luglio 1916 la IWW organizzò a San Francisco un comizio di protesta contro l’intervento degli USA alla guerra. Qualche giorno dopo nella città venne organizzata una parata militare, durante la quale un provocatore sconosciuto lancio una bomba. Le autorità accusarono dell’atto terroristico i dirigenti della IWW, Tom Mooney e Warren Billings. Sebbene fosse innocente, Mooney venne condannato alla pena di morte, commutata in seguito nella reclusione a vita.

Fra i socialisti americani, sotto l’influsso della guerra europea incominciò a profilarsi una spaccatura. L’ala sinistra del partito socialista, il cui leader riconosciuto era Eugene Debs, condannò la guerra come imperialista e capeggiò una vivace agitazione antimilitarista, affermando che per la classe operaia era possibile partecipare soltanto alla lotta di classe contro i capitalisti. Questa frazione del partito socialista formò nel 1915 la “Lega della propaganda socialista”, attorno alla quale si riunirono gli elementi di sinistra del movimento.
I capi di destra del partito socialista (Hillquit, Berger ed altri) avanzarono proposte pacifiste, ma i loro interventi servirono soltanto ad impedire agli operai la comprensione del vero carattere della guerra e della politica delle classi dominanti.

Un appoggio diretto alla politica del governo fu dato dalla direzione della Federazione Americana del Lavoro (AFL) con alla testa il suo leader S. Gompers, che in una conferenza del marzo 1917 presentò assieme ai socialisti di destra una risoluzione di sostegno della politica del governo, nei caso d’intervento nella guerra. Ma questa posizione della direzione non rifletteva i punti di vista dei semplici membri dei sindacati e tanto meno il punto di vista degli operai non organizzati.

Nel 1915 e particolarmente nei 1916 aumentò negli USA il numero degli scioperi nelle più diverse imprese: circa 5 mila scioperi con 2 milioni di partecipanti. Gli scioperanti chiedevano la giornata lavorativa di otto ore e l’aumento delle retribuzioni.

Il governo dovette fare i conti con la situazione politica che si era formata nei paese e prepararsi all’entrata in guerra con grande cautela. La prima crisi nei rapporti americano-germanici avvenne nell’estate del 1915, dopo che un sottomarino tedesco aveva affondato il transatlantico “Lusitania” sul quale erano periti 128 americani. Il presidente Wilson inviò a Berlino una protesta compilata con aspre espressioni. La perdita del “Lusitania” e successivamente dei piroscafi “Arabic” e “Sussex”, sui quali si trovavano pure degli americani, arroventò l’atmosfera. Wilson colse il momento adatto per dare inizio al rafforzamento dell’esercito e della flotta.

Nel dicembre 1915 egli propose un esteso programma militare, che prevedeva nuovi stanziamenti per l’esercito e la costruzione di numerose navi da guerra. Dopo una discussione durata alcuni mesi, il Congresso, nell’agosto 1916, approvò una legge per la concessione di mezzi finanziari per l’esercito, sulla cui base gli Stati Uniti si accinsero ad un ulteriore armamento. Al fine di una migliore preparazione alla guerra venne formato un “Consiglio della difesa nazionale”. Alla commissione consultiva creata alle sue dipendenze e chiamata a dirigere la conversione dell’industria di pace in industria bellica, partecipavano i rappresentanti dei monopoli; anche Gompers fece parte della commissione.

La “preparazione alla difesa” fu dichiarata dovere di ogni cittadino americano. Per la mobilitazione dell’opinione pubblica il 14 giugno 1916 a Washington venne effettuato un corteo con alla testa il presidente Wilson. L’ex-presidente Roosevelt organizzò i primi campi militari per la gioventù. Questa campagna avveniva mentre era in corso una vivace lotta elettorale (nel novembre 1916 dovevano essere effettuate le normali elezioni presidenziali).

Considerando il fatto che tra le masse c’era uno stato d’animo fortemente antimilitarista, la direzione del partito democratico avanzò la candidatura di Wilson sotto la parola d’ordine: “Egli ci salverà dalla guerra!”.
Wilson venne eletto per la seconda volta presidente e riprese subito energicamente la politica di militarizzazione, benché come nel passato mascherasse le sue azioni con parole sulla difesa della patria e sulla “pace”.

I mutamenti nella situazione internazionale alla fine del 1916, connessi alla svolta che allora si profilava nella guerra verso una pace imperialistica, destavano nei circoli dirigenti degli USA la preoccupazione che essi avrebbero potuto giungere in ritardo nella lotta per la spartizione del mondo. L’interesse economico della borghesia americana alla vittoria dell’Intesa rafforzava la sua aspirazione ad accelerare l’intervento degli Stati Uniti nella guerra mondiale.

Di fronte al popolo però Wilson voleva conservare l’atteggiamento dell’uomo al quale la guerra viene imposta contro il suo desiderio. Il governo tedesco, che aveva dichiarato dal 1° febbraio 1917 la guerra sottomarina senza limitazioni, favorì il suo proposito: il 2 febbraio il governo degli Stati Uniti ruppe i rapporti diplomatici cola la Germania. Un grosso errore della diplomazia tedesca aiutò a sua volta Wilson. Il 16 gennaio 1917 il segretario di stato agli esteri della Germania, Zimmermann, incaricò l’ambasciatore tedesco nel Messico di proporre al governo messicano un’alleanza per un attacco in comune contro gli Stati Uniti.

Il servizio di spionaggio inglese decifrò questo telegramma e la pubblicazione del testo, a Washington, alla fine di febbraio, riscaldò gli umori bellicistici nei paese. L’ultima spinta venne dall’abbattimento dello zarismo in Russia, ritenuto dai circoli governativi degli Stati Uniti come il preludio dell’uscita della Russia dalla guerra.

La dichiarazione di guerra alla Germania avvenne il 6 aprile 1917 e Wilson la presenterà come un’imposizione dell’opinione pubblica del paese. Anche alcuni ministri, che non si erano prestati al gioco, dicevano nella primavera del 1917 che, se il presidente non si fosse deciso ad agire immediatamente, sia nel gabinetto che nei circoli ufficiali si sarebbe verificato uno scontro gravissimo. In realtà, tutto era stato ponderato in anticipo da Wilson, dal suo consigliere House e dal segretario di stato Lansing.

L’imperialismo americano entrava in guerra per il rafforzamento e l’ampliamento delle sue posizioni nell’Estremo Oriente e per ottenere un’influenza finanziaria ed economica nei paesi europei. Approfittando del fatto che durante la guerra si erano indebolite le posizioni dell’imperialismo inglese e tedesco nell’America latina, i monopoli americani intensificarono la propria espansione in questa parte del mondo. La penetrazione del capitale americano nei paesi latino-americani avveniva nella forma di prestiti, d’investimenti nell’industria estrattiva e nell’economia agricola e con la subordinazione del loro commercio estero.

I maggiori monopoli americani investirono enormi capitali nelle zone petrolifere del Venezuela e della Colombia. Il trust Guggenheim e l’ “Anaconda-Corporation” divennero i padroni delle miniere di rame del Cile e del Perù e presero nelle proprie mani i più ricchi giacimenti di stagno della Bolivia, dove avevano spadroneggiato i capitalisti inglesi. Nella costruzione delle ferrovie dei paesi dell’America latina dominava il capitale inglese, ma gli affaristi americani svilupparono anche qui una grande attività.

A questo scopo gli USA attuarono anche aperti interventi: nel luglio 1915 truppe americane occupavano la capitale di Haiti, Port-au-Prince ed altre città del paese. Il presidente Velbrun-Guillaume venne assassinato e, su pressione degli occupanti americani, venne “eletto” Sudré Dartiguenave, che aveva accettato tutte le richieste degli Stati Uniti. L’autentico padrone di Haiti divenne l’americana “National City Bank”. Il popolo di Haiti non si rassegnò al dominio degli imperialisti americani e proseguì coraggiosamente la lotta per la libertà e l’indipendenza nazionale.

Nella repubblica dominicana già prima della guerra spadroneggiava la “San Domingo Improovement Co.” finanziata dal gruppo Kuhn e Loebec. Nella primavera del 1916, quando il ministro della guerra dominicano Arias abbatté il governo dell’uomo di fiducia americano Jimenez, gli USA iniziarono l’intervento aperto. La repubblica dominicana venne privata degli ultimi resti di sovranità e si trasformò di fatto in una colonia americana.

Altro aperto intervento gli USA perpetrarono contro Cuba nel febbraio 1917, poco dopo la rivolta scoppiata contro il governo reazionario del presidente Menocal, sbarcando sull’isola truppe per assicurare il seggio presidenziale al dittatore cubano.

Ugual sorte toccò al Nicaragua. Nell’agosto 1914 venne concluso, e nel febbraio del 1916 fu ratificato, un accordo secondo il quale gli USA ottenevano il diritto di costruire un canale attraverso il Nicaragua e di creare nel golfo di Fonseca e nelle isole del Grande e Piccolo Corn delle basi militari marittime. Per la “difesa degli interessi americani” rimasero sul territorio del Nicaragua truppe di occupazione americane.

In questi stessi anni gli Stati Uniti effettuarono un intervento militare nel Messico, dove Il governo di Wilson cercava di soffocare la rivoluzione per trasformare il paese in una colonia dei monopoli americani.

Continua…

 

Contro le stragi del mare. Un appello a Papa Francesco : Visti della Santa Sede per far entrare profughi in Europa: appello a papa Francesco contro le stragi nel Mediterraneo di Fabrizio Gatti – da gatti.blogautore.espresso.repubblica.it

 Rilanciamo l’appello che chiede al Papa un atto concreto contro le stragi in mare e di aprire attraverso la nunziatura apostolica la possibilità per i profughi di fare domanda di asilo in Europa. L’appello lanciato ieri dal Blog di Fabrizio Gatti in queste ore sta facendo il giro della rete. Qui il testo dell’articolo

Visti della Santa Sede per far entrare profughi in Europa: appello a papa Francesco contro le stragi nel Mediterraneo
di Fabrizio Gatti – da gatti.blogautore.espresso.repubblica.it

Documenti per l’ingresso legale rilasciati in Medio Oriente e in Africa dalle nunziature apostoliche, gli uffici diplomatici del pontefice. Una volta raggiunto il Vaticano, i rifugiati potrebbero poi chiedere asilo alle ambasciate degli Stati europei. Contro le stragi in mare e la mafia degli scafisti, la proposta non solo simbolica di un avvocato di Genova e di due imprenditori di Lampedusa che il blog Undercover lancia in rete
I visti della Santa Sede potrebbero salvare migliaia di profughi in fuga verso l’Europa. È l’appello lanciato a papa Francesco perché si faccia concretamente qualcosa contro i naufragi e le stragi in mare: più di 700 morti annegati negli ultimi giorni (tra cui oltre 100 bambini), 2.500 dall’inizio del 2014, quasi 3.200 negli ultimi undici mesi. Di fronte all’immobilismo dei governi dell’Unione Europea, il pontefice potrebbe sostenere un’alternativa umana alla mafia dei trafficanti ponendosi al centro dell’azione diplomatica. Durante la sua visita a Lampedusa, l’8 luglio 2013, papa Francesco aveva detto tra gli applausi: «Ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare».
Le nunziature apostoliche, cioè le missioni diplomatiche che rappresentano la Santa Sede nel mondo, potrebbero fare ciò che le ambasciate degli Stati europei negano: rilasciare visti di ingresso perché le famiglie, i bambini, le donne, gli uomini possano raggiungere l’Europa su mezzi di trasporto legali e sicuri, invece di essere costretti a pagare gli scafisti e morire a migliaia sui barconi.
Se l’Unione Europea avesse aperto vie legali, ad esempio per i profughi siriani, eritrei, somali, non ci sarebbero stati morti e non ci sarebbe nemmeno stata la necessità di finanziare costose operazioni di soccorso come «Mare nostrum». Ancora oggi, però, undici mesi dopo le stragi dell’ottobre 2013 lungo la rotta per Lampedusa, gli Stati europei rifiutano l’apertura di corridoi umanitari. Piuttosto finanziano attraverso l’Ue e l’agenzia Frontex operazioni di respingimento in mare e via terra, come avviene in Grecia e in Bulgaria.

L’aereo costa quattro volte meno dei trafficanti
Di fronte al silenzio degli Stati laici, Alessandra Ballerini, avvocato di Genova, e gli imprenditori di Lampedusa, Paola La Rosa, anche lei avvocato, e Carmelo Gatani, lanciano il loro appello a papa Francesco. Le nunziature apostoliche svolgono anche la funzione di rappresentanza diplomatica. Gli accordi già in vigore con i Paesi Ue permetterebbero ai profughi di raggiungere la Santa Sede via nave, via terra o attraverso l’aeroporto di Fiumicino o Ciampino. Un volo Alitalia da Beirut a Roma costa 311 euro, ma l’imbarco è vietato ai passeggeri non europei senza visto. Il prezzo della traversata dalla Libia o dall’Egitto verso l’Italia parte invece da 1.600 dollari, quasi 1.300 euro.
«Comprendiamo perfettamente», spiegano Alessandra Ballerini e Paola La Rosa nella loro email inviata al blog Undercover, «che la volontà politica degli Stati europei non vada in questa direzione. Di tutti gli Stati, tranne uno: la Santa Sede, che potrebbe aprire una nuova strada a migliaia di persone ma, soprattutto, dimostrare all’Europa che si può e si deve realizzare un corridoio umanitario per impedire che le persone soffrano e muoiano per affermare il loro diritto all’asilo. Il tutto applicando semplicemente le norme di diritto internazionale già vigenti. La Santa Sede, tra l’altro, è soggetto che aderisce alla Convenzione di Ginevra del 1951».

I 178 stati rappresentati nella Santa Sede
Da un lato si potrebbe permettere alle persone di chiedere asilo alla Santa Sede rivolgendosi direttamente ai nunzi apostolici presso i Paesi di transito: «In questo caso l’iniziativa dovrebbe avere più che altro un valore simbolico, perché comprendiamo che un piccolo Stato non potrebbe far fronte a tutte le richieste che potrebbero venire presentate, ma rappresenterebbe un esempio che gli altri Stati non potrebbero ignorare. Dall’altro, se si permettesse alle persone di arrivare fisicamente in Vaticano, con un visto temporaneo, queste potrebbero poi presentare richiesta d’asilo in altri Paesi, rivolgendosi alle ambasciate che hanno sede in Vaticano».
Nella Santa Sede sono rappresentati 178 Paesi. Un corridoio umanitario garantito dai governi permetterebbe a quanti vogliono fare richiesta di asilo di presentarsi direttamente nelle ambasciate dei Paesi europei (nello stesso Stato dal quale intendono fuggire o nei Paesi confinanti con quello da cui fuggono), senza dover intraprendere un viaggio assurdo e spesso mortale. L’unico viaggio al momento percorribile, quello dei barconi, per mettersi in salvo in l’Europa.

La Turchia è collusa con l’ISIS? Mistero sul sorprendente rilascio di 49 diplomatici turchi Autore: PATRICK COCKBURN

Turchia accusata di collusione con ISIS per contrastare curdi siriani e Assad dopo il rilascio a sorpresa di 49 ostaggi. Con il presidente Erdogan che rifiuta di spiegare perché ISIS ha deciso di rilasciare 49 diplomatici del paese, i sospetti crescono sulla relazione torbida di Ankara con il sedicente califfato.

Il mistero circonda il rilascio a sorpresa di 49 diplomatici turchi e dei loro familiari tenuti prigionieri per tre mesi dall’ Isis. Il governo turco nega qualsiasi accordo con i sequestratori, rendendo poco chiaro il motivo per cui l’Isis, noto per la sua crudeltà e ferocia, dovrebbe consegnare i suoi prigionieri turchi di Sabato senza contropartita.

Salutata ad Ankara come un trionfo per la Turchia, la liberazione dei diplomatici sequestrati quando Mosul è caduta in mano al l’Isis il 10 giugno solleva nuovi interrogativi sul rapporto tra il governo turco e l’Isis. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan dice che il rilascio è il risultato di una operazione segreta dell’intelligence turca che deve rimanere un segreto.

Ha aggiunto la Domenica che “ci sono cose di cui non possiamo parlare. Guidare lo stato non è come gestire un negozio di alimentari. Dobbiamo proteggere le nostre questioni sensibili; se non ci sarebbe un prezzo da pagare “. La Turchia nega che un riscatto sia stato pagato o che siano state fatte promesse all’Isis.

La liberazione degli ostaggi arriva nello stesso momento in cui 70.000 curdi siriani sono fuggiti attraverso il confine con la Turchia per sfuggire un’offensiva dell’Isis contro l’enclave di Kobani, nota anche come Ayn al-Arab, che ha visto la presa di molti villaggi.

L’assalto a Kobani sta energizzando i curdi in tutta la regione con 3.000 combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), con base nelle montagne irachene di Qandil segnalati per stare passando dall’Iraq in Siria in direzione di Kobani.

Le forze di sicurezza turche hanno chiuso il confine per un periodo di tempo domenica dopo scontri tra loro e i rifugiati. Hanno sparato gas lacrimogeni e acqua dopo l’aver fermato i curdi che portano aiuti a Kobani secondo un resoconto, oppure perché le pietre sono state lanciate contro di loro in quanto hanno spinto indietro la folla di curiosi curdi, secondo un’altra. La maggior parte di quelli che passano il confine sono donne, bambini e anziani, con gli uomini in età di leva che rimangono indietro per combattere.

Molti kurdi stanno esprimendo amarezza nei confronti del governo turco, sostenendo che è in collusione con l’Isis per distruggere le enclavi indipendenti dei kurdi siriani, che ammontano a 2,5 milioni, lungo il confine con la Turchia. L’agenzia di stampa pro-curdi Amed chiede “se l’Isis [è] l’ala paramilitare del progetto del neo-Ottomanesimo della Turchia in Medio Oriente?” Il governo turco nega con veemenza ogni collaborazione con Isis.

Tuttavia, le strane circostanze sia della cattura dei 49 turchi che la loro liberazione mostrano che Ankara ha un rapporto diverso e più intimo con l’Isis rispetto agli altri paesi. I siti turchi pro-Isis dicono che i turchi sono stati rilasciati su ordine diretto del “califfo” Abu Bakr al_Baghdadi. Erano stati trasferiti a Raqqa, il quartier generale siriano dell’ Isis, da Mosul, e sia gli uomini che le donne erano ben vestiti e sembravano aver subito pochi danni dalla loro prigionia. Questo è in netto contrasto con il trattamento di Alan Henning, il tassista britannico sequestrato mentre portava aiuti alla Siria, e dei giornalisti che sono stati ritualmente assassinati da Isis.

Una serie di fattori non del tutto tornano: nel momento in cui i diplomatici e le loro famiglie sono stati sequestrati nel mese di giugno è stato riferito che avevano chiesto a Ankara se potevano lasciare Mosul, ma la loro richiesta fu respinta. E ‘stato poi riportato da un giornale filo-governativo, che al console generale a Mosul, Ozturk Yilmaz, era stato detto da Ankara di lasciare, ma non l’aveva fatto. Ex diplomatici turchi dicono che la disobbedienza alle istruzioni del suo governo da un inviato di alto livello su una materia così grave è inconcepibile.

I critici di Erdogan e del suo primo ministro Ahmet Davutoglu dicono che fin dalla prima rivolta contro il presidente Bashar al-Assad nel 2011 hanno fatto una serie di errori di valutazione circa gli sviluppi in Siria e di come la Turchia dovrebbe rispondere loro.

Non essendo riusciti a convincere Bashar al-Assad a fare cambiamenti, loro davano per scontato che sarebbe stato rovesciato dai ribelli. Hanno fatto pochi sforzi per distinguere i ribelli jihadisti che attraversano le 560 miglia del lungo confine siro-turco da tutti gli altri. Circa 12.000 jihadisti stranieri, molti destinati a diventare attentatori suicidi, sono entrati in Siria e Iraq dalla Turchia. Solo alla fine del 2013, sotto la pressione degli Stati Uniti, la Turchia ha cominciato ad aumentare la sicurezza delle frontiere rendendo più difficile per i jihadisti stranieri o turchi il passaggio, anche se è ancora possibile. Una agenzia di stampa curda riferisce che tre membri di ISIS, due dal Belgio e uno dalla Francia, sono stati arrestati dalla milizia curda siriana nel fine settimana mentre entravano in Siria dalla Turchia.

Gli ostaggi non avevano idea che stavano per essere liberati fino a quando hanno ricevuto una telefonata da Mr Davutoglu. Anche se trattati meglio degli altri ostaggi, erano ancora tenuti sotto pressione, costretti a guardare i video di altri prigionieri che venivano decapitati “per rompere il loro morale”, secondo il signor Yilmaz. Egli ha detto che ISIS non tortura le persone anche se minacciava di farlo: “L’unica cosa che fanno è ucciderle.”

Il governo turco può non star collaborando con Isis, in questo momento, ma ISIS ha beneficiato dell’ atteggiamento tollerante della Turchia verso i movimenti jihadisti. Come altri governi anti-Assad, Ankara ha sostenuto che c’è una differenza tra i ribelli “moderati” dell’ Esercito Siriano Libero e i movimenti del tipo al-Qaeda- che non esiste realmente sul terreno all’interno della Siria.

 

Patrick Cockburn è autore del libro The Jihadis Return: ISIS and the New Sunni Uprising.

Fonte: THE INDEPENDENT http://www.independent.co.uk/news/world/middle-east/turkey-accused-of-colluding-with-isis-to-oppose-syrian-kurds-and-assad-following-surprise-release-of-49-hostages-9747394.html

Processo Cucchi, il Pg: «Condannare gli agenti» Fonte: il manifesto | Autore: Eleonora Martini

«Tutti col­pe­voli, com­presi poli­ziotti peni­ten­ziari e infer­mieri». Quasi un colpo di scena, la richie­sta del pro­cu­ra­tore gene­rale Mario Remus alla I Corte d’Assise d’Appello di Roma che ieri ha ria­perto il pro­cesso per la morte di Ste­fano Cuc­chi. Un ribal­ta­mento della sen­tenza di primo grado che il 5 giu­gno scorso ha con­dan­nato per omi­ci­dio col­poso solo cin­que medici dell’ospedale Per­tini – dove il gio­vane tos­si­co­di­pen­dente romano morì nell’ottobre 2009, sei giorni dopo essere stato arre­stato e rin­chiuso nel car­cere di Regina Coeli – pro­scio­gliendo invece tutti gli altri impu­tati. Per­ché, come motivò la III Corte d’Assise di Roma, Ste­fano Cuc­chi venne sì pestato, come dimo­strano le lesioni ver­te­brali sul corpo del gio­vane, ma «plau­si­bil­mente» dai cara­bi­nieri che lo ave­vano in custo­dia durante il suo arre­sto e non dagli agenti della penitenziaria.

E invece il Pg Remus sostiene che Cuc­chi fu pic­chiato dopo l’udienza di con­va­lida del suo arre­sto, con­tra­ria­mente a quanto ipo­tiz­zato dalla stessa accusa durante il primo grado di giu­di­zio. «Final­mente non ci sen­tiamo soli in un’aula di tri­bu­nale, per la prima volta non ho sen­tito insul­tare mio fra­tello», è stata le rea­zione a caldo di Ila­ria Cucchi.

«C’è la prova che Ste­fano non avesse segni di aggres­sione vio­lenta prima di arri­vare in udienza», ha detto il pro­cu­ra­tore gene­rale con­fer­mando quanto ipo­tiz­zato anche dalla fami­glia della vit­tima. L’aggressione «volon­ta­ria e inten­zio­nale», secondo l’accusa, da parte «degli agenti della Poli­zia peni­ten­zia­ria che lo ave­vano in custo­dia», è «avve­nuta dopo l’udienza di con­va­lida dell’arresto e prima della sua tra­du­zione in car­cere». E infatti, Cuc­chi «in udienza ha bat­ti­bec­cato, si è alzato più volte, ha scal­ciato un banco. Certo non avrebbe potuto farlo se fosse stato fratturato».Di qui la richie­sta di 2 anni di reclu­sione per lesioni per­so­nali aggra­vate per i poli­ziotti peni­ten­ziari Meni­chini, San­tan­to­nio e Dome­nici, assolti in primo grado.

Ma secondo Remus anche gli infer­mieri del Per­tini, al pari dei medici, for­ni­rono all’uomo cure ina­de­guate, con una «tra­scu­ra­tezza» che «appare ingiu­sti­fi­ca­bile»: «Cuc­chi — ha accu­sato il Pg – entra in stato di deten­zione in con­di­zioni cli­ni­che già pre­ca­rie, ema­ciato, con poca massa musco­lare; era un paziente fisi­ca­mente dif­fi­cile che richie­deva cure par­ti­co­lari e non ordi­na­rie». Per­ciò, ha aggiunto, «le con­dotte con­te­state agli infer­mieri dei quali si chiede ora la con­danna sono acco­mu­na­bili a quelle dei medici, anche se per entrambi non ci fu una deli­be­rata volontà di non curare Cuc­chi». La richie­sta del Pg è di con­dan­nare per omi­ci­dio col­poso medici e infer­mieri, con 3 anni di reclu­sione per il pri­ma­rio, Fierro; 2 anni cia­scuno per i medici Corbi, Bruno, De Mar­chis Pre­ite e Di Carlo; un anno per gli infer­mieri, assolti in primo grado, Flauto, Mar­telli e Pepe; e la con­ferma di 8 mesi di car­cere per falso al medico Caponetti.

«Con­di­vido ogni parola di cri­tica espressa dal Pg – ha com­men­tato l’avvocato Fabio Anselmo, legale della fami­glia Cuc­chi – Sono rima­sto col­pito dall’efficacia del suo inter­vento. Ritengo che ci abbia aperto le porte per il rico­no­sci­mento della nostra tesi dell’omicidio preterintenzionale».

Di tutt’altro avviso ovvia­mente i difen­sori dei poli­ziotti peni­ten­ziari: «L’assunto accu­sa­to­rio soste­nuto finora è com­ple­ta­mente caduto – ha sot­to­li­neato Diego Peru­gini, avvo­cato di uno degli agenti – Il Pg non ci ha detto chi avrebbe pic­chiato Ste­fano tra i cara­bi­nieri che lo hanno por­tato nelle celle e gli agenti, e sulla base di quale testi­mo­nianza può soste­nere ciò che ha detto nella sua relazione».

Ma è ancora una volta Ila­ria Cuc­chi ad alzare lo sguardo al pro­blema gene­rale: «Il pro­cu­ra­tore gene­rale in udienza ha esor­dito descri­vendo un vero e pro­prio pestag­gio di Stato e una grave com­pro­mis­sione e nega­zione dei diritti umani in danno di mio fra­tello – scrive in una nota – Dedico que­ste parole al sena­tore Gio­va­nardi e al signor Capece che mi attac­cano siste­ma­ti­ca­mente, ed al mini­stro della Giu­sti­zia che prenda prov­ve­di­menti. Affin­ché si possa avere un sin­cero momento di rifles­sione sui ter­ri­bili fatti che hanno por­tato a morte Ste­fano. Penso anche alla tanto auspi­cata appro­va­zione della legge sulla tor­tura che il nostro Paese con­ti­nua a rifiu­tarsi di adot­tare a dispetto dei moniti che ci ven­gono rivolti dall’Onu».

Arrestato a Roma Nunzio D’Erme e un altro compagno del centro sociale Spartaco Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

E’ stato arrestato a Roma il compagno Nunzio D’Erme, una delle figure più conosciute e stimate della sinistra antagonista del nostro paese, ex consigliere comunale al Campidoglio e protagonista dei movimenti sociali nella capitale. Assieme a lui è stato condotto in carcere anche Marco Bucci, un attivista del Centro Sociale Spartaco.
Dalle prime notizie risulta che Nunzio D’Erme è stato portato in carcere con l’accusa di aver partecipato, alcuni anni fa, ad alcuni scontri con i fascisti nel quartiere di Cinecittà nel corso di una conferenza sulla diversità duramente contestata dai militanti di destra.
Sulla vicenda c’è una presa di posizione di Paolo Ferrero e Giovanni Russo Spena. “Si tratta di un provvedimento delirante – dichiarano i due esponenti politici – in quanto la colpa di D’Erme è nei fatti quella di aver difeso una assemblea aggredita da militanti di Militia Christi. L’arresto di D’Erme è l’ennesimo episodio di repressione nei confronti di leader dei movimenti di lotta, come dimostrano le decine di processi in corso sulla lotta per la casa e contro la TAV in Val di Susa. In un contesto in cui i drammi sociali sono sempre maggiori, una parte della magistratura non trova di meglio che perseguitare chi si oppone alla drammatica situazione sociale in cui viviamo. Non è la funzione che la Costituzione  affida alla magistratura”.

Usa, il riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace Fonte: il manifesto | Autore: Manlio Dinucci

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Cin­que anni fa, nell’ottobre 2009, il pre­si­dente Barack Obama fu insi­gnito del Pre­mio Nobel per la Pace in base alla «sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, e al lavoro da lui svolto in tal senso, che ha poten­te­mente sti­mo­lato il disarmo». Moti­va­zione che appare ancora più grot­te­sca alla luce di quanto docu­menta oggi un ampio ser­vi­zio del New York Times : «L’amministrazione Obama sta inve­stendo decine di miliardi di dol­lari nella moder­niz­za­zione e rico­stru­zione dell’arsenale nucleare e degli impianti nucleari statunitensi».

A tale scopo è stato appena rea­liz­zato a Kan­sas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pen­ta­gono, dove migliaia di addetti, dotati di futu­ri­sti­che tec­no­lo­gie, «moder­niz­zano» le armi nucleari, testan­dole con avan­zati sistemi che non richie­dono esplo­sioni sot­ter­ra­nee. L’impianto di Kan­sas City fa parte di un «com­plesso nazio­nale in espan­sione per la fab­bri­ca­zione di testate nucleari», com­po­sto da otto mag­giori impianti e labo­ra­tori con un per­so­nale di oltre 40mila spe­cia­li­sti. A Los Ala­mos (New Mexico) è ini­ziata la costru­zione di un nuovo grande impianto per la pro­du­zione di plu­to­nio per le testate nucleari, a Oak Ridge (Ten­nes­see) se ne sta rea­liz­zando un altro per pro­durre ura­nio arric­chito ad uso mili­tare. I lavori sono stati però ral­len­tati dal fatto che il costo del pro­getto di Los Ala­mos è lie­vi­tato in dieci anni da 660 milioni a 5,8 miliardi di dol­lari, quello di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi.
L’amministrazione Obama ha pre­sen­tato com­ples­si­va­mente 57 pro­getti di upgrade di impianti nucleari mili­tari, 21 dei quali sono stati appro­vati dall’Ufficio gover­na­tivo di con­ta­bi­lità, men­tre 36 sono in attesa di appro­va­zione. Il costo sti­mato è allo stato attuale di 355 miliardi di dol­lari in dieci anni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Al costo degli impianti si aggiunge quello dei nuovi vet­tori nucleari.

Il piano pre­sen­tato dall’amministrazione Obama al Pen­ta­gono pre­vede la costru­zione di 12 nuovi sot­to­ma­rini da attacco nucleare (cia­scuno in grado di lan­ciare, con 24 mis­sili bali­stici, fino a 200 testate nucleari su altret­tanti obiet­tivi), altri 100 bom­bar­dieri stra­te­gici (cia­scuno armato di circa 20 mis­sili o bombe nucleari) e 400 mis­sili bali­stici inter­con­ti­nen­tali con base a terra (cia­scuno con una testata nucleare di grande potenza, ma sem­pre arma­bile di testate mul­ti­ple indipendenti).

Viene così avviato dall’amministrazione Obama un nuovo pro­gramma di arma­mento nucleare che, secondo un recente stu­dio del Mon­te­rey Insti­tute, verrà a costare (al valore attuale del dol­laro) circa 1000 miliardi di dol­lari, cul­mi­nando come spesa nel periodo 2024–2029. Essa si inse­ri­sce nella spesa mili­tare gene­rale degli Stati uniti, com­po­sta dal bilan­cio del Pen­ta­gono (640 miliardi di dol­lari nel 2013), cui si aggiun­gono altre voci di carat­tere mili­tare (la spesa per le armi nucleari, ad esem­pio, è iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento dell’Energia), por­tando il totale a quasi 1000 miliardi di dol­lari annui, cor­ri­spon­denti nel bilan­cio fede­rale a circa un dol­laro su quat­tro speso a scopo militare.

L’accelerazione della corsa agli arma­menti nucleari, impressa dall’amministrazione Obama, vani­fica di fatto i limi­tati passi sulla via del disarmo sta­bi­liti col nuovo trat­tato Start, fir­mato a Praga da Stati uniti e Rus­sia nel 2010 (v. il mani­fe­sto del 1° aprile 2010). Sia la Rus­sia che la Cina acce­le­re­ranno il poten­zia­mento delle loro forze nucleari, attuando con­tro­mi­sure per neu­tra­liz­zare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno rea­liz­zando per acqui­sire la capa­cità di lan­ciare un first strike nucleare e non essere col­piti dalla rappresaglia.

Viene coin­volta diret­ta­mente nel pro­cesso di «ammo­der­na­mento» delle forze nucleari Usa anche l’Italia: le 70–90 bombe nucleari sta­tu­ni­tensi B-61, stoc­cate ad Aviano e Ghedi-Torre, ven­gono tra­sfor­mate da bombe a caduta libera in bombe «intel­li­genti» a guida di pre­ci­sione, cia­scuna con una potenza di 50 kilo­ton (circa il qua­dru­plo della bomba di Hiro­shima), par­ti­co­lar­mente adatte ai nuovi cac­cia Usa F-35 che l’Italia si è impe­gnata ad acqui­stare. Ma di tutto que­sto, nei talk show, non si parla.

Lettera dei Giuristi democratici a Napolitiano:”Chiarisca le contraddizioni dell’emendamento del Governo sull’articolo 18″ Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

L’Associazione Nazionale Giuristi Democratici scrive a Giorgio Napolitano chidendogli una parola di verità sulla controversa questione dell’Articolo 18. Sarà o no cancellato dal Governo? L’interrogativo è più che mai lecito visto che sul delicato passaggio esistono al momento due versioni, quella del deputato Maurizio Sacconi e quella della relatrice dell’emendamento di palazzo Chigi, la sottosegretaria Bellanova: il primo dce di sì e la seconda di no.  «Oggi il vero tema del confronto è tra chi vuole tenere oscura la riforma, dichiarandosi pronto ad attuarla “violentemente” in spregio agli articoli 76 e 77 della Costituzione e chi invece chiede che le riforme avvengano nel rispetto della legalità repubblicana e non certo nello scontro tra presunti innovatori da una parte e corporativismi e conservatorismi dall’altra».
I Giuristi Democratici, nella lettera, ricordano che l’onorevole Renzi, a fronte dell’intenzione di molti parlamentari (anche afferenti alla stessa maggioranza) di meglio chiarire nel percorso in aula i termini della delega, ha dichiarato che o il testo verrà lasciato invariato dalle Camere, oppure procederà in sede di decretazione d’urgenza.
Al riguardo i Giuristi democratici hanno voluto ricordare come «l’art. 76 della Carta impone come “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, limite all’evidenza violato da un testo che consente al relatore dell’emendamento e al relatore del DDL di affermare lo stesso giorno che la delega assegnata al Governo abbia contenuti diametralmente opposti. E l’art. 77 consente al Governo di emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria solo “in casi straordinari di necessità e d’urgenza”, che non possono certo essere rappresentati dall’intenzione delle Camere di espletare in modo non solo formale la propria funzione legislativa». I Giuristi Democratici hanno quindi invitato il Presidente Napolitano a pronunciarsi non già sul merito del provvedimento ma «sul doveroso rispetto da parte delle Camere del disposto dell’art. 76 e sul doveroso rispetto da parte del Governo delle prerogative del Parlamento ai sensi dell’art. 77», affermando che «solo così sarà possibile riportare il dibattito dalle interviste giornalistiche e dai conciliaboli segreti nella sua sede propria —ovverosia nelle aule del Senato e della Camera— al fine di consentire a tutti i cittadini di poter valutare in trasparenza le proposte in campo, rendere chiare le mediazioni politiche e rispettare la sovranità del popolo fondata sulla insuperabile distinzione tra funzione legislativa e funzione esecutiva». La lettera si conclude affermando come «questo è oggi il vero tema del confronto e non certo lo scontro tra presunti innovatori da una parte e “corporativismi e conservatorismi” dall’altra che pure Lei ha stigmatizzato con ciò però contribuendo — di certo involontariamente— a rendere più oscuro il problema e più lontana la sua soluzione nel rispetto del testo costituzionale» come sembrano attestare «le prime dichiarazioni successive dell’On. Renzi in ordine all’intenzione di attuare le riforme “violentemente”, dimenticando come le riforme del lavoro in questo paese hanno purtroppo già visto talvolta scatenarsi la violenza omicida, così nuovamente ed irresponsabilmente evocata». Per questi motivi, l’Associazione dei Giuristi Democratici ha chiesto al Presidente «un breve incontro quale gesto di attenzione, non certo nei confronti della nostra associazione, ma della legalità repubblicana rispetto alla quale siamo certi Lei condividerà con noi la considerazione in ordine alla gravità dell’attacco a cui è esposta».