Biografia non autorizzata di Luciano Violante da: micromega


Dalla prima condanna, inflitta a un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile, alle sfortunate indagini sul ‘golpe bianco’ di Edgardo Sogno, il discepolato al seguito di Ugo Pecchioli, la guerra a Giovanni Falcone, la Bicamerale e il caso Previti. Carriera e mutazioni dell’ex presidente della Camera attualmente in corsa per la Corte Costituzionale.

di Marco Palombi e Marco Travaglio, da MicroMega 7/2013

Ora che le assemblee del Pd gli riservano i gavettoni, le contestazioni, gli insulti per il «lodo» con cui vorrebbe salvare Silvio Berlusconi. Ora che i giornali vicini al Cavaliere tratteggiano, con lo stupito rossore che si deve alle belle notizie inaspettate, l’evoluzione umana e filosofica che l’ha fatto approdare sulle pensose plaghe del garantismo all’italiana. Ora che lui stesso è finalmente liberato dallo spigoloso ruolo inquisitorio che la vita e la carriera gli avevano cucito addosso, proprio sotto le belle giacche dei favoriti, e costosi, stilisti giapponesi («ma compro solo alle svendite»). Ora, si diceva, bisogna sciogliere un equivoco: non ci sono due Luciano Violante, non esiste oggi il morbido legalitario – termine che il nostro preferisce a garantista – come non esisteva prima il manettaro senza cuore. Luciano Violante è sempre uno, politico in ogni tempo e luogo, pure quand’era magistrato, un animale a sangue freddo che ha avuto sempre ben chiare davanti a sé le superiori ragioni del suo partito e della sua carriera.

Non che l’ex presidente della Camera non abbia piegato il suo animo, in questi anni, al fluire del tempo e delle cose: Violante – lasciatisi dietro i furori novecenteschi del dover essere – pare adesso abbandonarsi con piacere alla pericolosa levità del desiderio. Volendo esemplificare, è come se il processo storico di disgregazione della sinistra italiana abbia finalmente concesso all’uomo che doveva essere l’Ugo Pecchioli del Duemila di trasformarsi, non senza resipiscenze e conflitti, nell’uomo che vorrebbe essere, un Giuliano Amato all’ingrosso: s’intende, con questo, il passaggio, anche antropologico, dalle durezze politiche e personali, dai silenzi e dai segreti che furono il pane del «ministro dell’Interno del Pci», al minuetto dell’eterno potere romano, al ruolo senza tempo di genio compreso. E riverito. E pluripoltronato.

Certo, ad essere precisi, Amato ha tre pensioni e Violante solo due (e pure meno ricche: 16.600 euro contro trentamila e dispari), ma comunque pure lui s’è incistato senza problemi in quel mondo – rispettabilità, responsabilità, buone cose di ottimissimo gusto – che è il brodo primordiale, per così dire, dell’amatismo. Al nostro non manca nemmeno l’apposita associazione, «Italia decide», pensatoio ovviamente bipartisan, che lo vede alla presidenza insieme a Carlo Azeglio Ciampi, lo stesso Amato, Gianni Letta e potenti sparsi. Per il duro lavoro di concetto nella capitale, peraltro, l’ex magistrato ha pure a disposizione una casa comprata con supersconto durante la dismissione del patrimonio dell’Ina. Trattasi di una settantina di metri quadrati – più due terrazze – tra i Fori imperiali e piazza Venezia: secondo l’Espresso, fu pagata nel 2003 appena 327 mila euro, mentre il suo prezzo di mercato per il Cerved oscillava tra 663mila e 1,2 milioni di euro. Sarà stata la vista mozzafiato, forse, ad attirarlo nei delicati labirinti lessicali della poesia o magari l’ultradecennale contemplazione degli amati panorami montani che pazientemente esplora partendo dalla sua casa di Cogne: «Devo parlarvi/ della lotta che insieme/ con Dio/ è necessario/ combattere/ contro il male», mise a verbale nel suo Viaggio verso la fine del tempo. «Se questo/ che vedete/ qui/ in queste/ righe/ è/ fare poesia/ allora/ io/ sono/ Rimbaud», lo prese in giro il critico Sergio Claudio Perroni. In definitiva, il «nuovo» Violante – in periglioso viaggio verso la nomina parlamentare alla Consulta nel giugno 2014 – può sorprendere solo chi non ne conosce la storia. Per questo abbiamo deciso di metterne in fila le gesta: a futura memoria, certo, ma soprattutto per impedire sprechi di stupore, reazione rara quanto preziosa negli adulti.

The early days

«Sono nato a Dire Daua. In Etiopia. In un campo di concentramento inglese. Mio padre l’ho conosciuto quando avevo 5 anni, me lo presentarono il giorno di Pasqua del 1946. Alla stazione. Ho vissuto a Rutigliano, in provincia di Bari, infanzia e giovinezza: l’Ugi, l’Unione goliardica italiana, la carriera universitaria tra i libri di diritto penale scritti in tedesco con carattere gotico». Così s’è raccontato lui al «magazine» del Corriere della Sera. Il padre era un giornalista comunista e fu spedito in Africa dal fascismo, la madre ebrea milanese riportò il piccolo Luciano dalla famiglia del marito in attesa della sua scarcerazione e del suo ritorno. Poi gli studi all’Università di Bari, dove «fui assistente di Aldo Moro», e l’entrata in magistratura, e in Magistratura democratica, corrente di sinistra dell’Anm. Infine il trasferimento a Torino («con mia moglie, nel 1968 eravamo la prima coppia di magistrati sposati») e la prima condanna inflitta: «Un ragazzo che aveva detto piciu (fesso) a un vigile».

È nata una stella

Il nostro, comunque, non si guadagna la celebrità nazionale per gli insulti ai vigili, ma con un’inchiesta per così dire sfortunata: quella sul cosiddetto «golpe bianco» di Edgardo Sogno. Nel 1974 Violante, giudice istruttore impegnato a Torino in fumose inchieste sulle trame nere nelle valli piemontesi, fa arrestare l’ambasciatore, già partigiano monarchico e fervente anticomunista: l’accusa è di preparare un colpo di Stato assieme a Randolfo Pacciardi e altri nomi dello sbrindellato conservatorismo antifascista italiano. Risultato: proscioglimento in istruttoria. Nel 2000, comunque, lo stesso Sogno ha dato una mano a Violante – che peraltro cordialmente detestava – dichiarando che il complotto l’aveva pensato eccome, ma sarebbe scattato solo se i comunisti avessero preso il potere. Un sogno, appunto. Come che sia, il futuro presidente della Camera diventa una toga famosa e, in quegli anni, comincia a frequentare i convegni del Pci torinese: la cosa lo mette nel mirino del terrorismo rosso, ma si salva nonostante – racconteranno i pentiti – due tentativi di attentato a opera delle Br e di Prima Linea. Nel 1979 prende la tessera del Partito comunista e subito viene eletto deputato: a Montecitorio resterà quasi trent’anni.

La vasta ombra di Ugo Pecchioli

Il neodeputato, toga d’assalto con ottimi agganci in Magistratura democratica, viene preso sotto l’ala di uno dei padri del Pci torinese, Ugo Pecchioli, «il ministro ombra» dell’Interno di Berlinguer: silenzioso, sempre diffidente, funzionario di partito in purezza. All’ombra di Pecchioli, Violante lavora alla sezione Problemi dello Stato del Pci, che poi vuol dire terrorismo prima e mafia poi: lo fa, com’è suo costume, con dedizione e completa adesione alle posizioni del partito, stringendo di volta in volta utili legami per la causa. Come quello con Gianni De Gennaro, che ancora dura ed è costellato di parecchi, reciproci favori. In questa veste, sul finire degli anni Ottanta, partecipa alla guerriglia che i partiti di sinistra sferrano al pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone in testa. Andò così. Nel dicembre 1987 era finito, con la sostanziale conferma delle tesi accusatorie, il primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Nel marzo 1988 Antonino Caponnetto lascia l’incarico di giudice istruttore convinto che sarà proprio il suo allievo Falcone a succedergli. Niente da fare. Il Csm gli preferisce Antonino Meli, con maggiore anzianità ma esterno al pool. Determinante il niet delle correnti di sinistra. Spiegò Elena Paciotti di Magistratura democratica (poi presidente dell’Anm ed eurodeputata per i Ds): «Si addebita al dottor Meli di non aver mai svolto attività di giudice istruttore, ma neanche il dottor Caponnetto credo che avesse mai svolto simili attività…».

La guerra a Falcone

La mancata nomina a giudice istruttore è il primo colpo, poi segue la guerra che vedrà (anche) il Pci-Pds dichiaratamente in campo. Il partito di Achille Occhetto vede, in quel momento, la possibilità di mettere in crisi la Democrazia cristiana – e Andreotti in particolare – proprio per i suoi rapporti con la mafia: non si accontenta di pesci relativamente piccoli come Vito Ciancimino o i cugini Salvo, vuole la Balena. Il balletto comincia sui cosiddetti «omicidi eccellenti», in particolare quello di Piersanti Mattarella: un pentito, tal Giuseppe Pellegriti, comincia a sostenere col pm di Bologna Libero Mancuso che dietro l’assassinio ci sono Giulio Andreotti e Salvo Lima. Luciano Violante scrive sull’Unità (agosto 1989): «Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che sinora ha nascosto gli assassini di Palermo». A quel punto Falcone va a interrogare Pellegriti, scopre che il tizio mente o parla per sentito dire, e lo incrimina seduta stante per calunnia. Violante, che all’epoca parla poco, alla Pecchioli, sostiene che Falcone è stato «precipitoso». Leoluca Orlando, meno prudente, accusa in sostanza il magistrato di aver nascosto le prove contro Andreotti e altri politici mafiosi. La delusione per il colpo mancato sul divo Giulio diventa rabbia nel febbraio 1991, quando Falcone chiude le indagini sui delitti eccellenti: Mattarella, Michele Reina e Pio La Torre. Ci sono accuse alle collusioni democristiane certo, ma pesanti sono pure i rilievi per il Pci. Il Corriere della Sera titola: «L’antimafia accusa i comunisti». Coro di proteste sdegnate del neonato Pds. È sostanzialmente l’ultimo atto di Giovanni Falcone in procura: nel 1991 il magistrato decide di accettare la proposta del guardasigilli Claudio Martelli e va a dirigere gli Affari penali al ministero (governo Andreotti), mentre il Csm lo processa sulla base di un esposto di Orlando e altri esponenti di La Rete, e il Pds lo definisce «andreottian-martelliano». Qui arriva l’apoteosi. Tra le altre cose, da via Arenula il magistrato palermitano propone la creazione della procura nazionale antimafia, poi chiamata Direzione (Dna). Ma il primo progetto ne fa una figura troppo dipendente dal governo e viene bocciato da decine di colleghi, Borsellino in testa. La legge viene cambiata. A questo punto il fronte del no si muove compatto per impedire a Falcone di diventarne il direttore. Mette a verbale l’Unità: «Non può, troppo legato al ministro Martelli: non è più indipendente». Pds, La Rete, Rifondazione comunista sono schierate come un sol uomo contro il «governativo» Falcone e pure contro Borsellino, anche se lui non è andato a lavorare al ministero. Luciano Violante sostiene che lui caldeggiò la nomina di Falcone, ma poi fece come diceva il partito, che aveva le sue ragioni: «Era direttore al ministero», spiegò nel 1995, «e quindi il passaggio alla superprocura sembrava un’anomalia, mentre quello da un’ufficio giudiziario all’altro, come per il concorrente [Agostino Cordova], era più semplice». La guerra finisce per morte del reo, poi santificato.

Presidente dell’Antimafia e padre del ‘terzo livello’

Nel 1992 Luciano Violante ha finalmente la poltrona di prima fila che sognava: presidente della commissione d’Inchiesta sulla mafia. È da quella poltrona che Tommaso Buscetta rivela per la prima volta, dopo essersi rifiutato di farlo negli anni Ottanta con Falcone perché «non ci sono le condizioni politiche», notizie sui rapporti tra mafia e politica, il cosiddetto «terzo livello» (soprattutto Andreotti). Dal caso Moro all’omicidio Calvi, da dalla Chiesa a Mattarella, don Masino racconta dettagli assai imbarazzanti per il potere italiano. Ne scaturisce, tra l’altro, una relazione finale della commissione assai dura con il divo Giulio: «Risultano certi i collegamenti di Salvo Lima con uomini di Cosa Nostra. Egli era il massimo esponente in Sicilia della corrente democristiana che fa capo ad Andreotti. Sull’eventuale responsabilità politica del senatore, dovrà pronunciarsi il parlamento». Andreotti commenterà quel testo – negativamente – solo molti anni dopo, ma per la Dc ormai Luciano Violante è «il piccolo, gnomico Višinskij» (l’accusatore nelle purghe staliniane), come l’ha ribattezzato Francesco Cossiga nel 1991. «Il mio giudizio su Andreotti ha sempre riguardato la responsabilità politica, non quella penale», dirà il nostro alla morte del Divo: «E sulle sue responsabilità politiche nei rapporti fra mafia siciliana e Dc, confermo quello che ho sempre sostenuto». Qualche tempo prima, dopo la sentenza di Palermo (prescrizione per il «reato commesso» di associazione per delinquere con la mafia fino alla primavera del 1980, assoluzione con formula dubitativa per il periodo successivo) aveva detto addirittura di avere sconsigliato a Caselli di procedere penalmente contro di lui. Parole in curiosa consonanza con quelle lasciate trapelare sulla Repubblica da De Gennaro che, da vicecapo della Polizia, andò personalmente a dire all’imputato senatore a vita: le prove non ci sono, lei verrà assolto (previsione sbagliata). Il che spiega il raffreddamento dei rapporti fra il duo Violante-De Gennaro e Gian Carlo Caselli.

1992-2009: la strana memoria di Violante

Presbite di memoria, Violante impiega 17 anni per ricordare un fatterello del 1992. Nell’estate del 2009, in curiosa coincidenza con le rivelazioni del Corriere della Sera sugli interrogatori di Massimo Ciancimino, gli torna improvvisamente in mente che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, il colonnello Mario Mori, allora vicecapo del Ros, gli propose più volte di incontrare privatamente l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, intermediario della trattativa fra i carabinieri e il duo Riina-Provenzano. Secondo il figlio Massimo, don Vito cercava una «copertura politica totale» alla trattativa: da Mancino per il governo e da Violante per la sinistra. Violante, dopo 17 anni, si precipita dai magistrati di Palermo a spiegare di aver rifiutato il faccia a faccia, di aver proposto un’audizione in commissione Antimafia (peraltro mai fissata, nonostante le pubbliche insistenze di don Vito) e di aver chiesto a Mori se avesse informato la procura. Il carabiniere gli rispose che no, non l’aveva fatto perché «è cosa politica». E lui pace, niente, ci mette una pietra sopra e si dimentica di avvisarla lui, la procura. Eppure nel gennaio 1993 andò a dirigerla il suo (allora) «amico» Caselli, che interrogò pure Vito Ciancimino proprio sui suoi rapporti coi carabinieri. Niente. Poi, nel 2009, una pacca sulla fronte e via a Palermo a raccontare tutto. È appena il caso di ricordare che la legge sui pentiti che impedisce le rivelazioni «a rate» (sei mesi per parlare e poi basta) fu approvata nel 2001, proprio mentre Luciano Violante e Nicola Mancino presiedevano le Camere. I politici possono ricordare a rate, i mafiosi no.

La guerra al mafioso Berlusconi

La «discesa in campo» del Cavaliere vede un Violante scatenato contro «il mafioso di Arcore» (copyright: Umberto Bossi). Il debutto, va detto, non è dei migliori. Nel pieno della campagna elettorale per le politiche del 1994, sulla Stampa esce un pezzo di Augusto Minzolini intitolato «Quel che so di Dell’Utri»: sono frasi carpite all’allora presidente dell’Antimafia in cui si anticipa un avviso di garanzia dalla Sicilia per il sodale di Silvio Berlusconi. Il giorno dopo si scatena il putiferio, Violante smentisce, querela, ma ormai è bruciato: deve dimettersi dall’Antimafia («me lo chiese Occhetto»), mentre i popolari lo scherniscono («lavora nello staff elettorale di Berlusconi»). Il colpo d’immagine è tale che Violante rischia la trombatura nel suo collegio rosso di Torino: ma provvidenzialmente un paio di amici del cuore si affrettano a informare i giornali che una voce dal carcere ha preannunciato un’autobomba mafiosa contro di lui. La notizia, vera ma vecchiotta, esce sulle prime pagine il 26 marzo. L’indomani Violante è rieletto.

Lui comunque quella storia se la lega al dito e definisce Forza Italia, vincitrice delle elezioni, «un manipolo di piduisti e del peggio del vecchio regime». Quanto a Berlusconi, «con la chiamata alle armi contro il comunismo ripete la parola d’ordine del fascismo e del nazismo quando morivano nei lager i comunisti, i socialisti e gli ebrei. E con questa parola d’ordine la mafia uccideva i sindacalisti. È una chiamata alla mafia quella che Berlusconi ha fatto a Roma». Parole che oggi paiono pronunciate da un altro. Ma che Violante ripeterà con qualche variazione sul tema ancora nel 2006: «D’altro canto Vittorio Mangano era lo stalliere mafioso del premier», scandì da un palco a Genova, «c’è un giro di mafia vicino a Berlusconi». Peccato che lui stesso non sia sempre stato così intransigente con le sue frequentazioni: nella campagna elettorale del 1996, quand’era candidato in Sicilia, si fece accompagnare e organizzare i comizi nelle Madonie dai fratelli Potestio, imprenditori vicini al Pci-Pds finiti sotto inchiesta per concorso esterno (Piero Grasso definì uno di loro, Stefano, «mafio-imprenditore»).

Come che sia, in quel 1994 l’ex magistrato passava per il capo del «partito dei giudici». Lo pensava pure Totò Riina: «C’è uno strumento politico, ed è il Partito comunista: ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive i libri…», ringhiò dalla gabbia di uno dei suoi processi.

Mani Pulite: come si cambia

Anche se nel 1993 aveva messo le mani avanti («nessuna società tollera a lungo un governo dei giudici»), Violante per anni rimase comunque un difensore dell’inchiesta di Milano sulla corruzione. Ancora durante il governo Dini difese la procura dalla voglia del governo di inviare gli ispettori e corteggiava Antonio Di Pietro per farlo candidare col Pds. Il centro-destra lo accusò – sulla scorta di alcune calunnie raccolte dalla procura di Brescia – di aver contrattato al telefono coi magistrati di Milano la consegna del famoso «invito a comparire» per Berlusconi del 1994. Nel 1995, di fronte a un documento di protesta dei magistrati per la «riforma della custodia cautelare» (che in realtà riformava il codice in lungo e in largo), fu l’unico nel Pds a definire «legittimo che dei magistrati esprimano un parere tecnico». Per poi aggiungere: «Il partito dei giudici non esiste, esiste invece quello degli imputati eccellenti, capeggiato da Craxi e composto da un pezzo di classe politica abituata all’impunità». Poi, però, di fronte alla cosiddetta Tangentopoli 2 di La Spezia, quella di Lorenzo Necci e Pacini Battaglia, che smaschera le lobby e le logge retrostanti il primo inciucio della Seconda Repubblica (il governissimo Maccanico del gennaio ‘96, concordato da D’Alema e Berlusconi e fatto naufragare da Prodi e Fini), cambia registro. Siamo nell’ottobre 1996 e Violante è appena diventato presidente della Camera: «Ci sono magistrati pericolosi, che hanno costruito la loro carriera sul consenso popolare».

Con la Bicamerale finisce il Novecento

Il clima è cambiato. Nell’aprile 1996 l’Ulivo ha vinto le elezioni, Romano Prodi va a palazzo Chigi e Luciano Violante a presiedere Montecitorio: nel suo discorso inaugurale chiede comprensione per le ragioni dei «ragazzi di Salò», quasi un gesto di omaggio al suo maestro Pecchioli, che aveva simbolicamente guidato la delegazione del Pds al congresso di scioglimento dell’Msi a Fiuggi. Le durezze d’acciaio del Novecento sono alle spalle. E d’altronde anche il «gran partito» di Gramsci e Togliatti non esiste più: quel che resta è un ceto politico il cui scopo è perpetuarsi. La soluzione è semplice. Berlusconi da una parte, gli ex Pci dall’altra: ci si può combattere, insultare, ma simul stabunt simul cadent, direbbe Previti. La cultura dell’appeasement trova anche un suo spazio istituzionale: è la Bicamerale di Massimo D’Alema, dove Silvio Berlusconi viene acclamato statista e padre costituente, insomma resuscitato. Il Cavaliere, però, ha i suoi problemi giudiziari e vanno risolti. «Nel 1999, al termine delle riforme istituzionali, si porrà la questione dell’amnistia», dice conciliante Luciano Violante al Foglio nel dicembre 1997. Il 22 febbraio 1998, poi, Gherardo Colombo fa esplodere una bomba mediatica: «La Bicamerale è figlia del ricatto», dice al Corriere della Sera. Con Tangentopoli, sostiene il magistrato, «s’è scoperta soltanto la punta dell’iceberg della corruzione, mentre il resto è rimasto sommerso e su questo sommerso si sono costruiti ricatti incrociati così inquietanti da indurre la politica tutta, senza distinzioni di colori, a bloccare la magistratura prima che vi affondi ancora le mani». Cori sdegnati dal parlamento. Luciano Violante e il suo omologo in Senato Mancino insorgono in un inedito e drammatico comunicato congiunto: «Non è ammissibile travolgere l’intero lavoro della Bicamerale con la delegittimazione in blocco del parlamento, accusandolo senza appello di connivenze e di oscuri compromessi». Ci penserà poi Berlusconi, ottenuta la riabilitazione, a travolgere il lavoro della Bicamerale.

Il caso Previti e la presa della Camera

Durante la presidenza Violante scoppia anche il caso di Cesare Previti. Il gip di Milano, Alessandro Rossato, nel settembre 1997 ne chiede l’arresto per il caso Imi-Sir. Montecitorio ci pensa qualche mese, poi boccia la richiesta con la motivazione che le prove sono troppe, non possono più essere inquinate. Quando inizia il processo, siamo nel 1999, il deputato assenteista Previti si trasforma in una sorta di stakanovista dell’Aula. Il gup chiede a Violante: sicuro che tutti questi impegni parlamentari siano giustificati? Risposta: certo. D’altronde il nostro ha altro a cui pensare. Da tempo cerca di cacciare l’allora segretario generale di Montecitorio, Mauro Zampini, ma quello resiste: una guerra lunga che si risolve – siamo nell’ottobre 1999 – quando anche il capogruppo di Forza Italia Elio Vito appoggia la richiesta di Violante. Zampini se ne va e al vertice della Camera arriva Ugo Zampetti che ancora, felicemente, vi regna. Sistemata la grana amministrativa, torna in auge la questione Previti: il processo Imi-Sir è entrato nel vivo e Cesarone chiede alla presidenza della Camera di ricorrere alla Consulta contro il tribunale di Milano per garantire che il lavoro parlamentare, di qualunque tipo, è «legittimo impedimento» ad essere presente in udienza. Il 10 maggio 2000 Violante accoglie la richiesta di Previti e ricorre alla Consulta, ma solo per le udienze che si sono tenute nei giorni di votazione. Con un corollario, però: il ricorso di Montecitorio chiede addirittura di annullare «tutti gli atti consequenziali» alle ordinanze contestate, compresi i rinvii a giudizio. Il processo, in sostanza, doveva ricominciare da capo. La Corte costituzionale, però, lascerà al tribunale il compito di decidere come sanare quelle udienze nulle, e il processo andrà avanti senza contraccolpi fino a condanna definitiva. Il buon Cesare, in ogni caso, resterà sempre grato a Violante dell’impegno e in seguito pure della sua assenza nel voto decisivo del 2005 sulla legge ex Cirielli «Salva-Previti» (che passerà il vaglio di costituzionalità solo grazie a una quarantina di desaparecidos nel centro-sinistra, lui compreso).

È il terzo millennio: liberi tutti

Luciano Violante, il duro, quello che difficilmente cambia idea, durante la campagna elettorale per le politiche 2001, in un convegno alla Camera, invoca la «pacificazione» con Tangentopoli e rilancia l’idea cara a Craxi e a Forza Italia della commissione d’Inchiesta su Mani Pulite «per favorire il rilancio del confronto civile». Alla fine la figlia Stefania gli consegna «le carte dell’archivio privato di Craxi», dove – scherzi del destino – c’è anche un dossier su di lui. Nel 2007 infine, in un libro, il nostro rompe definitivamente gli indugi definendo il fu Bettino «capro espiatorio». Sono anni di passaggio, in cui il personaggio del vecchio Violante inquisitore ogni tanto rispunta in scena, ma siamo ai residui di una personalità in smobilitazione: subito dopo la sconfitta elettorale del 2001, ormai soltanto capogruppo diessino alla Camera, il nostro si stupiva che «con le elezioni del 13 maggio ci ritroviamo un parlamento con il più alto numero di imputati eletti. Questa indifferenza della politica all’etica pubblica è il massimo di delegittimazione dell’intervento giudiziario». A settembre, però, già se la riprendeva coi giudici e sulla Stampa denunciava «gli eccessi giustizialisti» di Mani Pulite: «Qualche magistrato si è sentito troppo protagonista, qualche grande processo forse non andava fatto. C’è stata una fase in cui c’è stato un di più di giustizialismo»; nel 2002 la definì senz’altro «campagna giacobina». Tanto lavoro però, almeno inizialmente, non serve a niente.

L’ingratitudine, il patto svelato
e le pieghe del dialetto piemontese

Un pezzo dell’inner circle di Berlusconi ancora non si fida del «piccolo Višinskij»: è tanto vero che il povero Violante finisce nella lista segreta dei «nemici» del governo stilata da Pio Pompa, bizzarro analista dei servizi in quota Niccolò Pollari. Quanta ingratitudine, deve essersi detto l’ex magistrato. Forse lo stesso pensiero che s’è affacciato alla sua mente nella sua performance più famosa: la rivelazione del patto col Cavaliere durante un discorso alla Camera nel febbraio 2002. Dopo un intervento del deputato di An, Gianfranco Anedda, che accusava il centro-sinistra di voler distruggere Mediaset, Violante sbotta: «La invito a consultare Berlusconi, perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, ma nel 1994, quando c’è stato il cambio di governo – che non gli sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Gianni Letta». Niente da fare. Quei cattivi del centro-destra sono talmente malfidati che nel 2005 – sebbene Previti tenti di convincere il Cavaliere («ti puoi fidare») – gli impediscono pure di sedere sulla poltrona che ancor oggi vagheggia, quella di giudice costituzionale.

Molto meglio, allora, spendersi per gli amici. Quando, per dire, Piero Fassino viene beccato a congratularsi con il presidente di Unipol Giovanni Consorte per l’acquisto di Bnl («allora, abbiamo una banca?»), Violante la butta sulla dialettologia: «Quando mia figlia si è sposata, poco tempo fa, ha detto: “Abbiamo un bel marito?”. Ecco, si tratta di un modo di dire di noi piemontesi». Siamo nel 2005, lo stesso anno in cui il nostro, allora capogruppo dei Ds, incontra il capo della Popolare di Lodi Gianpiero Fiorani: «Abbiamo parlato della legge sul risparmio», dice a Radio radicale. «Stava facendo campagna a favore di Antonio Fazio», spiega Bruno Tabacci, grande nemico dell’allora governatore di Bankitalia. Anche per i non piemontesi, però, Violante trova il modo di darsi da fare. Quando, nel 2006, un giudice chiede di utilizzare le intercettazioni di Vincenzo De Luca (sindaco Ds di Salerno e deputato) indagato per una vicenda di appalti, la Camera dice no. L’unico diessino a votare a favore in Giunta è l’ex magistrato Giovanni Kessler e il nostro lo prende subito di petto: «Tu oggi hai votato contro un compagno! Come ti sei permesso?». Il tapino sostiene di aver semplicemente votato secondo coscienza. Non sarà ricandidato, al contrario di Vladimiro Crisafulli, beccato a conversare amabilmente con un mafioso. Qualcuno protesta, ma Violante – garantista, anzi legalitario – chiarisce che è giusto così, perché l’inchiesta penale è stata archiviata. Con tanti saluti alla responsabilità politica e morale.

L’Unione: gli ultimi fuochi in parlamento

Dopo le elezioni del 2006 Violante trova una nuova poltrona di prestigio: presidente della commissione Affari costituzionali. È da quello scranno che fa in modo di cambiare nome: diventa Bozza Violante, quando sforna un progetto di riforme istituzionali che prevedono tra l’altro il premierato, la sfiducia individuale, il Senato federale e altre cose su cui tutte le forze politiche si dicono d’accordo senza mai votarle. Già che c’è, peraltro, Violante propone pure di sottrarre al Csm la funzione disciplinare sui magistrati: meglio un organo esterno nominato in maggioranza dai partiti, un plotone d’esecuzione politico. Nel 2007 trova pure il modo di dare una nuova testimonianza di quanto gli stia a cuore il destino di Mediaset. Il Cavaliere pare interessato all’acquisto di Telecom e, invece di interrogarsi sul conflitto di interessi o la creazione di un cartello dominante nel mercato delle telecomunicazioni, Violante e i Ds danno il via libera: «C’è un Berlusconi imprenditore e un Berlusconi uomo politico: se, come imprenditore, investe le sue risorse in un settore di importanza strategica per il nostro paese, non ci trovo niente di male». Confalonieri se la ride: «Ora pure il centro-sinistra fa il tifo per noi». È lo stesso periodo in cui scoppia il caso Clementina Forleo: il gip che chiede al parlamento di utilizzare le telefonate di alcuni politici, tra cui D’Alema e Fassino, a Giovanni Consorte. Il nostro perde il lume della ragione: «Prima di votare sull’autorizzazione», scandisce Violante, «la Giunta e poi l’Aula dovrebbero mettere nero su bianco la mancanza di lealtà da parte dei giudici di Milano e sottolineare l’abuso commesso dalla Forleo: un abuso che il parlamento ha il dovere di segnalare». Con tanti saluti alla separazione dei poteri fra politica e magistratura.

Gli ultimi anni: riserva della Repubblica

Dal 2008 Violante è fuori dal parlamento e allora gira, scrive, organizza convegni e fa il saggio. È il capo del dipartimento Riforme del Pd, a cui ha generosamente messo a disposizione la sua Bozza. Nel 2009 pubblica Magistrati, un pensoso tomo con cui abbraccia definitivamente senza pentimenti o rigurgiti del passato il personaggio del Violante garantista, anzi legalitario. Un pamphlet contro le toghe troppo e male politicizzate: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono», spiega Francis Bacon nella citazione iniziale. Da allora è un florilegio di amenità rubricate sotto la categoria della pacificazione nazionale, o della saggezza, o del garantismo anzi meglio legalitarismo. Al Giornale: «La vera separazione delle carriere deve essere quella tra magistrati e giornalisti, tra i quali a volte ci sono rapporti incestuosi». Le intercettazioni del caso Ruby? Al Corriere della Sera: «Cose del genere avvengono solo in Italia e in alcuni paesi del Centro e Sudamerica». È il 2011 e Violante prova di nuovo a farsi eleggere alla Consulta dal parlamento. Stavolta in accoppiata con Gaetano Pecorella, già avvocato di Berlusconi. Si spende Ignazio La Russa: «Posso testimoniare che Violante, da presidente della Camera, ha dato dimostrazione di una grande capacità di rinunciare alle sue idee sforzandosi di capire quelle degli altri». Si spende il guardasigilli Angelino Alfano: «Non spetta a me promuovere la nomina, certo lui ha recentemente espresso posizioni non distanti dalle nostre». Pure stavolta, però, non se ne fa niente.

Da Bozza a Lodo Violante

Ora Luciano Violante, per via del suo secondo nome, Bozza Violante, è anche entrato a far parte dei saggi scelti da Giorgio Napolitano per dettare al parlamento le riforme costituzionali e d’altro genere di cui pare che l’Italia necessiti. Il Quirinale si sdebita così delle appassionate difese regalate da Violante all’uomo del Colle nelle settimane infuocate delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino e per il suo incredibile conflitto di attribuzioni contro la procura di Palermo, rea di averle ascoltate e di non averle distrutte all’insaputa degli avvocati (cioè di non aver violato il codice di procedura penale e la Costituzione). In quei giorni, oltre a dare ragione ai colpi di mano del presidente, il nostro attacca a testa bassa i pm siciliani e addirittura i presunti mandanti di un immaginario complotto anti-Napolitano: «Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del suo giornale sono un blocco politico-mediatico che gioca sul disagio popolare», «aggredisce il Quirinale» ai «fini della conquista del potere» e «usa una parte del mondo giudiziario come una clava per realizzare un progetto distruttivo» e «abbattere i pilastri istituzionali»: «un serio problema democratico» che minaccia «la tenuta economica dell’Italia». Addirittura.

Concluso il bel lavoro con gli altri nove saggi presidenziali – che non dimenticano di chiedere il bavaglio sulle intercettazioni e altre cosette che tanto piacciono al Cavaliere in tema di giustizia – il nostro entra pure nel sinedrio dei 35 saggi nominati dal governo Letta per riscrivere la seconda parte della Costituzione. Poi assume anche un terzo nome: Lodo Violante. Si tratta della scappatoia offerta a Berlusconi per non decadere da senatore sulla base della legge Severino. Il nostro interviene al salvamento da par suo: «Ho detto soltanto che il Pd deve garantire anche a lui il diritto di difendersi davanti alla Giunta», minimizza lui dopo che parecchi elettori e iscritti del suo partito gli hanno fatto notare, per così dire, la loro contrarietà. A parte il fatto che Berlusconi s’è difeso nella Giunta per le elezioni in tutte le forme regolamentari, in realtà il Lodo Violante dice una cosa in più: chiediamo alla Corte costituzionale se la legge Severino sia applicabile o meno. No? Va bene pure la Corte europea. «Il Pd stava correndo il rischio del giacobinismo. Per questo ho parlato», offre il petto al fuoco sulla Repubblica. Non si tratta solo di applicare una legge? Macché: «L’idea di annientare l’avversario è tipica della politica debole, quella che non ha la forza di confrontarsi con gli oppositori. Abbiamo rischiato di farci prendere dallo sbrigativismo: è condannato, espelliamolo». Il fatto è, se è concesso essere un po’ maligni, che a giugno prossimo si liberano due posti alla Consulta e quello attualmente occupato dal neopresidente Gaetano Silvestri spetterebbe al centro-sinistra: per essere eletti, però, serve la maggioranza qualificata delle Camere e dunque, con questo parlamento, pure del Pdl. Arrivati alla Corte, poi, con quella maggioranza, nulla vieta di sognare un altro voto simile, un’altra poltrona, più prestigiosa, sull’altro lato di via del Quirinale. Solo che se questo è lo schema, Giuliano Amato al solito è già piazzato meglio: alla Consulta c’è già e, a giugno prossimo, ne sarà pure presidente. Mai sottovalutare l’importanza di essere Amato.

(18 settembre 2014)

Scozia, l’indipendenza è ancora un sogno. Al referendum si afferma il “No”Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

La Scozia ha scelto di rimanere nel Regno Unito. Il referendum sull’indipendenza ha visto affermarsi il no con uno scarto di poco più del 4%. A Glasgow, la piu’ grande citta’ scozzese e la piu’ grande circoscrizione elettorale in questo referendum, ha scelto invece per il ‘Si” all’indipendenza, che e’ passato con il 53,5% dei voti (194.779 su 364.664 voti validi). Ad Edimburgo, invece, ha vinto il “No”. Altissima l’affluenza, che si aggira intorno all’84%.

Il primo ministro scozzese, Alex Salmond, ha riconosciuto la sconfitta nel referendum per l’indipendenza della Scozia ma ha anche rilevato che e’ stato lanciato “un messaggio forte” all’indirizzo di Londra: “Ora pero’ – ha aggiunto – dobbiamo andare avanti uniti”. “Abbiamo visto paura e preoccupazione, abbiamo visto che dal governo britannico nessuno si sarebbe aspettato, sono stati mossi da quello che vedevano. Oggi non dobbiamo guardare a quello che non abbiamo, ma dobbiamo andare avanti come una sola nazione”. Il leader dello Scottish National Party ha aggiunto che il popolo della Scozia “non si e’ lasciato spaventare” dall’establishment, andando a votare in massa al referendum di ieri.

Articolo 18, un valore per tutti Fonte: Il Manifesto | Autore: Guglielmo Ragozzino

L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato con­si­de­rato per molti anni come il sim­bolo della giu­sti­zia sociale, in fab­brica e fuori. «Il capo gua­da­gna 10 o 100 volte più di me, può fare gli orari e le vacanze che vuole, assu­mere chi gli sta a cuore, però una volta che io sono lì, al lavoro, non può man­darmi via. Il posto di lavoro è anche mio. C’è un giu­dice (a Ber­lino) che, nel caso, me lo darà indietro».La giu­sti­zia sociale così espressa – lo abbiamo detto e ripe­tuto – era fatta pro­pria da tutti i lavo­ra­tori dipen­denti, del set­tore pub­blico e di quello pri­vato, dai lavo­ra­tori auto­nomi e dai senza lavoro. I dipen­denti pub­blici come gli inse­gnanti, com­presi le gio­vani mae­stre pre­ca­rie, oppure scrit­tori e avvo­cati par­te­ci­pa­rono alla grande mani­fe­sta­zione del Circo Mas­simo il 23 marzo 2002, fatta dalla Cgil di Ser­gio Cof­fe­rati, senza badare al fatto che l’articolo in que­stione non li riguar­dava. Era una cosa giu­sta, per tutti, era indi­vi­si­bile come la giu­sti­zia. Era un valore per tutti; si doveva impe­dire che fosse can­cel­lato o stravolto.

È ben noto che gli avver­sari dell’articolo 18, più o meno nello stesso periodo, si erano avvolti nel man­tello della libertà. «La fab­brica è mia e quel certo sin­da­ca­li­sta non lo sop­porto pro­prio. Fa per­fino del sabo­tag­gio» Non erano solo Mar­chionne e i suoi pre­cur­sori a pen­sarla così. Non pochi pen­sa­vano che la libertà di licen­ziare fosse una delle libertà demo­cra­ti­che pre­scritte dfa un qual­che emen­da­mento della Costi­tu­zione del Capi­tale. Il Capi­tale era tirato per i capelli in que­sta discus­sione. Si argo­men­tava che nes­suno avrebbe rischiato inve­sti­menti in Ita­lia alla pre­senza di que­sto abo­mi­nio oltre­tutto pro­tetto da un’alleanza ince­stuosa tra giu­dici e ope­rai. Si fecero per­fino dei par­titi poli­tici nuovi – o rivol­tati come una vec­chia giacca – per soste­nere poli­ti­ca­mente que­sti valori.

I testi che pub­bli­chiamo in que­sto spe­ciale met­tono però in luce lo scarto tra pen­siero eco­no­mico e ideo­lo­gia padro­nale. Per mostrare buona volontà l’estrema sini­stra di cui essi si ser­vono è John May­nard Key­nes, lasciando da parte altri autori più riso­luti che forse avreb­bero cau­sato qual­che tem­pe­sta ideologica.

Altre leggi hanno modi­fi­cato la legge 300 che a sua volta (in par­ti­co­lare l’articolo 18) era il com­ple­ta­mento della legge 604 del 16 luglio 1966. I lavo­ra­tori dipen­denti con con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato si sono nel frat­tempo ridotti di numero e in una vera trat­ta­tiva sin­da­cale sarebbe stato pos­si­bile tro­vare un com­pro­messo accet­ta­bile tra egua­glianza e libertà, tenendo conto del valore sim­bo­lico e del rap­porto di forze. Forse si sarebbe potuto seguire una via dif­fi­cile e ope­rosa: prima discu­tere di tutto il resto e poi della even­tuale riscrit­tura di que­sto o di quell’articolo di legge. Ecco però che viene di nuovo fatto sal­tare tutto. Una parte della Con­fin­du­stria, spal­leg­giata da per­so­naggi della poli­tica e dell’accademia, con nomi che è inu­tile o dan­noso ripe­tere, vuole stra­vin­cere, vuole l’umiliazione di chi la pensa diver­sa­mente, di chi crede dav­vero che gli uomini siano uguali tra loro.

Mat­teo Renzi, pover’uomo, man­cando di un’idea per­so­nale, si accoda. Ripete quello che gli hanno detto. Attacca i soste­ni­tori dell’art.18 come fau­tori dell’apar­theid tra lavo­ra­tori di serie A e di serie B. Si fa rispon­dere da Ste­fano Fas­sina che, senza difese sin­da­cali e poli­ti­che, fini­ranno tutti in serie C.

Articolo 18, un valore per tutti Fonte: Il Manifesto | Autore: Guglielmo Ragozzino

L’articolo 18 della legge 300/1970 è stato con­si­de­rato per molti anni come il sim­bolo della giu­sti­zia sociale, in fab­brica e fuori. «Il capo gua­da­gna 10 o 100 volte più di me, può fare gli orari e le vacanze che vuole, assu­mere chi gli sta a cuore, però una volta che io sono lì, al lavoro, non può man­darmi via. Il posto di lavoro è anche mio. C’è un giu­dice (a Ber­lino) che, nel caso, me lo darà indietro».La giu­sti­zia sociale così espressa – lo abbiamo detto e ripe­tuto – era fatta pro­pria da tutti i lavo­ra­tori dipen­denti, del set­tore pub­blico e di quello pri­vato, dai lavo­ra­tori auto­nomi e dai senza lavoro. I dipen­denti pub­blici come gli inse­gnanti, com­presi le gio­vani mae­stre pre­ca­rie, oppure scrit­tori e avvo­cati par­te­ci­pa­rono alla grande mani­fe­sta­zione del Circo Mas­simo il 23 marzo 2002, fatta dalla Cgil di Ser­gio Cof­fe­rati, senza badare al fatto che l’articolo in que­stione non li riguar­dava. Era una cosa giu­sta, per tutti, era indi­vi­si­bile come la giu­sti­zia. Era un valore per tutti; si doveva impe­dire che fosse can­cel­lato o stravolto.

È ben noto che gli avver­sari dell’articolo 18, più o meno nello stesso periodo, si erano avvolti nel man­tello della libertà. «La fab­brica è mia e quel certo sin­da­ca­li­sta non lo sop­porto pro­prio. Fa per­fino del sabo­tag­gio» Non erano solo Mar­chionne e i suoi pre­cur­sori a pen­sarla così. Non pochi pen­sa­vano che la libertà di licen­ziare fosse una delle libertà demo­cra­ti­che pre­scritte dfa un qual­che emen­da­mento della Costi­tu­zione del Capi­tale. Il Capi­tale era tirato per i capelli in que­sta discus­sione. Si argo­men­tava che nes­suno avrebbe rischiato inve­sti­menti in Ita­lia alla pre­senza di que­sto abo­mi­nio oltre­tutto pro­tetto da un’alleanza ince­stuosa tra giu­dici e ope­rai. Si fecero per­fino dei par­titi poli­tici nuovi – o rivol­tati come una vec­chia giacca – per soste­nere poli­ti­ca­mente que­sti valori.

I testi che pub­bli­chiamo in que­sto spe­ciale met­tono però in luce lo scarto tra pen­siero eco­no­mico e ideo­lo­gia padro­nale. Per mostrare buona volontà l’estrema sini­stra di cui essi si ser­vono è John May­nard Key­nes, lasciando da parte altri autori più riso­luti che forse avreb­bero cau­sato qual­che tem­pe­sta ideologica.

Altre leggi hanno modi­fi­cato la legge 300 che a sua volta (in par­ti­co­lare l’articolo 18) era il com­ple­ta­mento della legge 604 del 16 luglio 1966. I lavo­ra­tori dipen­denti con con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato si sono nel frat­tempo ridotti di numero e in una vera trat­ta­tiva sin­da­cale sarebbe stato pos­si­bile tro­vare un com­pro­messo accet­ta­bile tra egua­glianza e libertà, tenendo conto del valore sim­bo­lico e del rap­porto di forze. Forse si sarebbe potuto seguire una via dif­fi­cile e ope­rosa: prima discu­tere di tutto il resto e poi della even­tuale riscrit­tura di que­sto o di quell’articolo di legge. Ecco però che viene di nuovo fatto sal­tare tutto. Una parte della Con­fin­du­stria, spal­leg­giata da per­so­naggi della poli­tica e dell’accademia, con nomi che è inu­tile o dan­noso ripe­tere, vuole stra­vin­cere, vuole l’umiliazione di chi la pensa diver­sa­mente, di chi crede dav­vero che gli uomini siano uguali tra loro.

Mat­teo Renzi, pover’uomo, man­cando di un’idea per­so­nale, si accoda. Ripete quello che gli hanno detto. Attacca i soste­ni­tori dell’art.18 come fau­tori dell’apar­theid tra lavo­ra­tori di serie A e di serie B. Si fa rispon­dere da Ste­fano Fas­sina che, senza difese sin­da­cali e poli­ti­che, fini­ranno tutti in serie C.

Licenziamenti illegittimi, condannato dirigente del Pd | Fonte: Il Manifesto | Autore: Mauro Ravarino

Licen­ziati ille­git­ti­ma­mente e sot­to­pa­gati. La Corte d’Appello di Torino, sezione lavoro, con­danna la coo­pe­ra­tiva mul­ti­ser­vizi Rear, pre­sie­duta da Mauro Laus, impren­di­tore e nome di spicco del Pd tori­nese, attuale pre­si­dente del Con­si­glio regio­nale del Pie­monte, al risar­ci­mento di due lavo­ra­tori ingiu­sta­mente estro­messi dalla società. Entrambi per insu­bor­di­na­zione.
La Rear è un gigante sotto la Mole, ha appalti in musei e par­te­ci­pate e si occupa pre­fe­ri­bil­mente di vigi­lanza e acco­glienza. La vicenda sul pre­sunto sfrut­ta­mento dei suoi lavo­ra­tori esplose a fine 2012, quando il regi­sta Ken Loach rifiutò di rice­vere il Gran Pre­mio Torino pro­mosso dal Torino film festi­val. Motivo: al Museo nazio­nale del cinema, a cui fa capo il Tff, alcuni ser­vizi sono ester­na­liz­zati e le per­sone sot­to­pa­gate. Cin­que euro lordi all’ora con l’applicazione dello svan­tag­gioso con­tratto Unci (Unione nazio­nale coo­pe­ra­tive ita­liane). E come se non bastasse, un clima pesante fatto di pres­sioni e, appunto, licen­zia­menti.
Tutto ini­ziò nell’estate del 2011 dopo le pro­te­ste interne per il taglio del 10% di sti­pen­dio. Una delle lavo­ra­trici, suc­ces­si­va­mente licen­ziate, si oppose alla ridu­zione del 10% della retri­bu­zione men­sile lorda. Nel ricorso, dopo l’estromissione, la donna, in ser­vi­zio al Museo del cinema, aveva, infatti, evi­den­ziato il diritto costi­tu­zio­nale a una retri­bu­zione equa e suf­fi­ciente. Non con­sen­tito, invece, dal con­tratto Unci. La sen­tenza d’appello, così, si esprime: «Pare dun­que cor­retta la deci­sione del primo giu­dice che, acco­gliendo la pro­spet­ta­zione della ricor­rente, ha rico­no­sciuto il diritto della stessa ad avere appli­cato il trat­ta­mento eco­no­mico pre­vi­sto dal con­tratto nazio­nale delle Confcooperative/Cgil-Cisl-Uil, essendo il con­tratto sti­pu­lato dalle orga­niz­za­zioni dato­riali e sin­da­cali com­pa­ra­ti­va­mente più rap­pre­sen­ta­tive a livello nazio­nale nella cate­go­ria».
I giu­dici hanno con­si­de­rato ille­git­timo il licen­zia­mento per giu­sta causa inti­mato alla lavo­ra­trice, per l’evidente spro­por­zione della san­zione adot­tata. La Corte d’Appello ha ride­ter­mi­nato in 8 men­si­lità della retri­bu­zione glo­bale il risar­ci­mento dovuto all’ex dipen­dente della coo­pe­ra­tiva.
Un altro caso di licen­zia­mento ille­git­timo, estro­messo per «insu­bor­di­na­zione», ha riguar­dato un lavo­ra­tore della Rear in ser­vi­zio alla Pina­co­teca Alber­tina. Anche in que­sto caso prima della cac­ciata, ci fu un cam­bio di man­sione. La pre­sunta aggres­sione a un supe­riore è, invece in sede legale, stata ridi­men­sio­nata «a una discus­sione ani­mata». Il licen­zia­mento ha vio­lato il prin­ci­pio di pro­por­zio­na­lità tra il fatto con­te­stato e la san­zione. Ecco, per­ché è ille­git­timo.
Allo stesso tempo, la Corte ha con­si­de­rato legit­tima la richie­sta del lavo­ra­tore di avere il rico­no­sci­mento eco­no­mico pre­vi­sto dal con­tratto con­fe­de­rale, con cui doveva essere inqua­drato, come anche accla­rato da una cir­co­lare dif­fusa nel 2012 dal mini­stero del Lavoro. La Corte di Torino, respin­gendo il ricorso prin­ci­pale di Rear, ha ride­ter­mi­nato in 10 men­si­lità il risar­ci­mento dovuto al lavo­ra­tore e 101 mila euro l’ammontare delle dif­fe­renze retri­bu­tive a lui spet­tanti.
Sala­rio non legit­timo, quindi. Aveva ragione Ken Loach quando disse: «Accet­tare il pre­mio e limi­tarmi a qual­che com­mento cri­tico sarebbe un com­por­ta­mento debole e ipo­crita. Non pos­siamo dire una cosa sullo schermo e poi tra­dirla con le nostre azioni. Per que­sto motivo, sep­pure con grande tri­stezza, mi trovo costretto a rifiu­tare il pre­mio». La vicenda è diven­tata lo scorso anno un film docu­men­ta­rio «Dear Mr. Ken Loach», con pro­ta­go­ni­sta, tra gli altri, Fede­rico Altieri, il lavo­ra­tore che si era più espo­sto, con l’aiuto dell’Usb, con­tro lo sfrut­ta­mento. Anche il suo licen­zia­mento era stato con­si­de­rato illegittimo.

I numeri – Articolo 18: vale per il 2,4% delle imprese e 6,5 milioni di lavoratori Fonte: Il Manifesto

I dati della Cgia. La tutela ha una copertura limitata, ma un alto valore simbolico e politico. Gli artigiani di Mestre: “Più che accendere il conflitto sociale, il governo crei occupazione con investimenti e sostegno ai redditi”Sono poche le aziende sot­to­po­ste alla disci­plina all’articolo 18, ma oltre la metà dei lavo­ra­tori dipen­denti ita­liani del set­tore pri­vato sono tute­lati da que­sto isti­tuto. I numeri ela­bo­rati dalla Cgia di Mestre dicono che l’articolo 18 si applica al 2,4% delle aziende e al 57,6% dei lavo­ra­tori dipen­denti ita­liani occu­pati nel set­tore pri­vato dell’industria e dei servizi.

In ter­mini asso­luti, su poco meno di 4.426.000 imprese pre­senti in Ita­lia, solo 105.500 circa hanno più di 15 addetti. Per quanto riguarda i lavo­ra­tori, invece, la Cgia ricorda che dalla tota­lità degli addetti pre­senti in Ita­lia (pari a poco più di 22 milioni di unità) devono essere sot­tratti i lavo­ra­tori auto­nomi, quelli del pub­blico impiego, i dipen­denti dell’agricoltura e tutti quelli con un con­tratto a tempo deter­mi­nato che, per legge, non sono coperti da que­sta norma.

Per­tanto, su oltre 11,3 milioni di ope­rai e impie­gati pre­senti nel nostro Paese, quasi 6.507.000 lavo­rano alle dipen­denze di aziende con più di 15 dipen­denti, soglia oltre la quale si applica appunto l’articolo 18.

«In una situa­zione eco­no­mica così dif­fi­cile – dice il segre­ta­rio della Cgia Giu­seppe Bor­to­lussi – la deci­sione di modi­fi­care l’articolo 18 darebbe luogo a un duro scon­tro con le parti sociali. Per creare occu­pa­zione, biso­gna agire sulla domanda: rilan­ciare gli inve­sti­menti e i con­sumi interni, com­bat­tere la deflazione».

Romano e Lucarelli: Riforme strutturali: sul lavoro torna sempre la vecchia ricetta Fonte: Il Manifesto | Autore: Stefano Lucarelli, Roberto Romano

Le con­di­zioni occu­pa­zio­nali in Ita­lia e in Europa sono dram­ma­ti­che. Sono sem­pre di più gli eco­no­mi­sti che rico­no­scono come la crisi eco­no­mica sia una crisi da domanda. Molti sosten­gono la neces­sità di riforme strutturali.

L’aggettivo «strut­tu­rale» può far pen­sare che tali riforme siano per gover­nare i movi­menti nel tempo delle gran­dezze eco­no­mi­che in rela­zione alla varia­zione nel tempo delle loro com­po­nenti. Agire sulla strut­tura eco­no­mica pre­sup­pone una qual­che forma di pro­gram­ma­zione della produzione.

Tut­ta­via le riforme strut­tu­rali di cui si parla sono ripro­po­si­zioni della vec­chia ricetta secondo cui la ridu­zione delle rigi­dità del mer­cato del lavoro si tra­dur­rebbe in un incre­mento dell’occupazione. La let­tera fir­mata da Tri­chet e Dra­ghi inviata al Governo Ita­liano nel 2011 sug­ge­ri­sce «di rifor­mare ulte­rior­mente il sistema di con­trat­ta­zione sala­riale col­let­tiva, per­met­tendo accordi al livello d’impresa in modo da rita­gliare i salari e le con­di­zioni di lavoro alle esi­genze spe­ci­fi­che delle aziende e ren­dendo que­sti accordi più rile­vanti rispetto ad altri livelli di nego­zia­zione», e di rea­liz­zare una «accu­rata revi­sione delle norme che rego­lano l’assunzione e il licen­zia­mento dei dipen­denti, sta­bi­lendo un sistema di assi­cu­ra­zione dalla disoc­cu­pa­zione e un insieme di poli­ti­che attive per il mer­cato del lavoro che siano in grado di faci­li­tare la rial­lo­ca­zione delle risorse verso le aziende e verso i set­tori più competitivi».

Si dovrebbe per­tanto agire sull’offerta di lavoro per ren­derla più con­ve­niente per i datori di lavoro. Siamo di fronte ad una variante della teo­ria orto­dossa cri­ti­cata da Key­nes, valida solo sotto ipo­tesi restrit­tive, quindi limi­tata ad un caso par­ti­co­lare. La teo­ria gene­rale dell’occupazione di Key­nes si basa invece sull’idea che «il volume dell’occupazione dipende dall’ammontare del ricavo che gli impren­di­tori pre­ve­dono di otte­nere dalla pro­du­zione corrispondente».

La domanda di lavoro da parte delle imprese è ciò che deter­mina prin­ci­pal­mente l’occupazione. Da qui pro­viene l’idea che sia neces­sa­rio un inter­vento pub­blico per col­mare il vuoto di domanda che con ogni pro­ba­bi­lità il set­tore pri­vato pro­durrà. Eppure, ricor­dava Caffè, l’insegnamento di Key­nes «non si riduce a un ricet­ta­rio di poli­ti­che valide per tutti i tempi; ma tende al supe­ra­mento di osti­lità pre­con­cette nei con­fronti dell’intervento pub­blico nella vita eco­no­mica, il cui com­pito inte­gra­tore delle forze di mer­cato in tanto risul­terà valido, in quanto sarà in grado di adat­tarsi alle mute­voli cir­co­stanze sto­ri­che». Di que­sto neces­sa­rio adat­ta­mento Key­nes era con­sa­pe­vole: «non sol­tanto la pro­pen­sione mar­gi­nale al con­sumo è più debole, in una col­let­ti­vità ricca, ma, sic­come il capi­tale già accu­mu­lato è mag­giore, vi saranno pos­si­bi­lità meno attraenti di inve­sti­menti ulteriori».

Il sostengo della domanda effet­tiva attra­verso un inter­vento pub­blico indi­scri­mi­nato (l’aumento della spesa dello Stato) non basta, poi­ché l’evoluzione del sistema eco­no­mico fa mutare qua­li­ta­ti­va­mente con­sumi ed inve­sti­menti, cioè le com­po­nenti prin­ci­pali della domanda. Sia la ridu­zione che la cre­scita del red­dito con­du­cono a un cam­bia­mento nella strut­tura pro­dut­tiva e soprat­tutto nell’investimento. Ciò ha con­se­guenze sulla distri­bu­zione dei red­diti e in par­ti­co­lare sul livello dei salari e sui livelli di pro­te­zione del lavoro (seb­bene esi­stano feed­back che dipen­dono dalla capa­cità che i lavo­ra­tori hanno di gestire il pro­cesso produttivo).

Il modo in cui cam­bia la spe­cia­liz­za­zione pro­dut­tiva conta molto. Come inse­gna Sylos Labini «in un’analisi dina­mica, lo svi­luppo eco­no­mico è da riguar­dare, non sem­pli­ce­mente come un aumento siste­ma­tico del pro­dotto nazio­nale con­ce­pito come aggre­gato a com­po­si­zione data ma, neces­sa­ria­mente, come un pro­cesso di muta­mento strut­tu­rale, che influi­sce sulla com­po­si­zione della pro­du­zione e dell’occupazione e che deter­mina cam­bia­menti nelle forme di mer­cato, nella distri­bu­zione del red­dito e nel sistema dei prezzi».

Le inno­va­zioni non influen­zano in modo uni­forme il sistema eco­no­mico. Non basta dun­que un soste­gno indi­scri­mi­nato tanto ai con­sumi quanto agli inve­sti­menti; occorre invece gover­nare il loro cam­bia­mento. Le impli­ca­zioni sulla domanda di lavoro sono enormi: per con­tra­stare la scarsa domanda di lavoro dob­biamo stu­diare in quali set­tori si loca­lizza il flusso delle inno­va­zioni, per­ché non riguar­derà tutte le atti­vità pro­dut­tive. La domanda effet­tiva e quindi la domanda di lavoro si con­cen­trano spe­cial­mente nei set­tori pro­dut­tivi più inno­va­tivi. Occorre anche con­si­de­rare che al cre­scere del red­dito non si con­suma di più, ma si con­su­mano beni diversi che spin­gono le imprese a pro­gram­mare nuovi inve­sti­menti per inter­cet­tare la nuova domanda. Que­sto è vero anche quando l’innovazione viene impor­tata da un altro sistema eco­no­mico: ciò che però verrà a deter­mi­narsi in que­sto caso sarà una dipen­denza tec­no­lo­gica dall’estero.

</CW>Occuparsi di lavoro non signi­fica quindi limi­tarsi alle poli­ti­che del lavoro; occorre una pro­spet­tiva di poli­tica eco­no­mica in cui coor­di­nare diverse poli­ti­che pub­bli­che per gover­nare il cam­bia­mento (dal cre­dito, alla ricerca e svi­luppo, dalle stra­te­gie indu­striali, al sociale). Ciò emerge dagli inse­gna­menti di un altro mae­stro dell’economia poli­tica for­ma­tosi tra gli allievi di Key­nes, Pasi­netti: «se il sistema eco­no­mico è in grado di por­tare avanti con suc­cesso una redi­stri­bu­zione set­to­riale dell’occupazione da set­tori in declino verso set­tori in espan­sione, il pro­filo del pro­gresso tec­nico, del red­dito, anche del fat­tore lavoro, ten­derà a essere vir­tuoso nel lungo periodo».

Acqua pubblica, il movimento riparte dall’assemblea di Genova di sabato prossimo Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

La battaglia per l’acqua pubblica riparte sabato prossimo con l’Assemblea macro-regionale (Valle D’Aosta, Lombardia, Liguria, Piemonte, Toscana) del movimento per l’acqua che si terrà a Genova. Servirà ad avviare un confronto, anche insieme ad altre realtà che si battono per i beni comuni, su quali proposte, strumenti e iniziative mettere in campo che siano in grado di rispondere efficacemente “alla sfida che ci si pone davanti, per impedire la vendita di ciò che a tutte e tutti appartiene e costruire le basi per un altro modello sociale, fondato sulla riappropriazione sociale dei beni comuni e sulla gestione partecipativa degli stessi”. “Nel corso degli ultimi mesi è sempre più evidente come il Governo attuale, in perfetta sintonia con i governi precedenti, stia perseguendo la mercificazione dei beni comuni – spiega Pino Cosentino, del coordinamento dei Movimenti per l’Acqua – La battaglia per il diritto all’acqua, che il Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua porta avanti da quasi 10 anni, si inserisce esattamente in questo contesto”.

Solo venerdì è stato pubblicato il testo del cosiddetto decreto “Sblocca Italia”. Ci sono voluti quasi 15 giorni prima che venisse alla luce essendo stato licenziato nel Consiglio dei Ministri del 29 Agosto scorso. Un lungo travaglio che, però, non è servito per migliorarne il contenuto.
Anzi si tratta di un provvedimento che segnala un deciso cambio di fase nelle politiche governative costruendo un piano complessivo di aggressione ai beni comuni tramite il rilancio delle grandi opere, misure per favorire la dismissione del patrimonio pubblico, l’incenerimento dei rifiuti, nuove perforazioni per la ricerca di idrocarburi e la costruzione di gasdotti, oltre a semplificare e deregolamentare le bonifiche. Ma ciò che, come Forum dei Movimenti per l’Acqua, “c’interessa maggiormente evidenziare è la gravità di quelle norme che, celandosi dietro la foglia di fico della mitigazione del dissesto idrogeologico (Capo III, art. 7), mirano di fatto alla privatizzazione del servizio idrico”. Infatti, con questo decreto si modifica profondamente la disciplina riguardante la gestione del bene acqua arrivando ad imporre un unico gestore in ciascun ambito territoriale e individuando, sostanzialmente, nelle grandi aziende e multiutilities, di cui diverse già quotate in borsa, i poli aggregativi. “Ciò si configura di fatto come un’operazione lobbistica, estranea agli interessi collettivi e che allontana le decisioni dal controllo democratico. Oggi, invece, serve una gestione dell’acqua, dei rifiuti, del TPL, dell’energia, prossima ai cittadini e alle amministrazioni locali, per garantirne la trasparenza e la partecipazione nella gestione dei servizi”.

Art. 18,la Fiom anticipa la manifestazione a sabato 18 ottobre. Landini: “Reintegra con soldi follia pura” Autore: fabrizio salvatorida :controlacrisi.org

La Fiom anticipa la manifestazione nazionale di una settimana, dal 25 al 18 ottobre, sempre di sabato. Un’accelerazione in risposta alla decisioni che, secondo il sindacato, impatterebbero sull’articolo 18. Le modalita’ della mobilitazione, che si svolgera’ a Roma, verranno definite a breve. Resta il pacchetto di 8 ore di sciopero.“Siamo di fronte a proposte del Governo che cancellano interi articoli dello Statuto dei lavoratori, provocando il peggioramento dei diritti, delle tutele e della dignità di tutte le persone nei luoghi di lavoro. Se i provvedimenti dell’Esecutivo diventeranno legge, si renderanno possibili i licenziamenti per giusta causa, il demansionamento dei lavoratori e il loro controllo a distanza.”, si legge nel comunicato stampa che sposta la data dell’iniziativa.

“Lo Statuto dei lavoratori va esteso perché è l’applicazione dei principi della nostra Costituzione.” L’Assemblea nazionale delle delegate e dei delegati Fiom-Cgil – che si terrà il 26 e 27 settembre a Cervia – deciderà in dettaglio le modalità della manifestazione. “Definirà, inoltre, le proposte per la difesa e la qualificazione del nostro sistema industriale e manifatturiero. Proposte che saranno sostenute con la mobilitazione e sottoposte al Governo ed al Paese per chiedere le riforme necessarie – anche nel rapporto con l’Europa – al fine di far ripartire una nuova crescita ed una vera e stabile occupazione.”

”Sull’art. 18 Renzi deve dimostrare quanto e’ ‘figo’ all’Europa. Forse qualcuno gli ha fatto credere che in cambio puo’ sforare dello 0,1 o 0,3%, e Draghi gli dara’ qualcosa”, ha detto il segretario Fiom Maurizio Landini, parlando a Ancona ai delegati Rsu della cancellazione della reintegra dopo un ingiusto licenziamento.  ”Cancellare la reintegra in caso di licenziamento ingiusto, sostituendola con un po’ di soldi – ha aggiunto Landini – e’ una follia pura ed e’ contro i principi della nostra Costituzione. Lo Statuto dei lavoratori ha significato far entrare la Costituzione nelle fabbriche: perche’ il lavoro e’ un diritto e uno deve avere la dignita’ di poterlo fare, senza essere licenziato per le idee che ha, o perche’ fa il sindacalista, o per il sesso che ha ecc”.
”Dire che in Europa l’art. 18 non c’e’ e’ un’altra sciocchezza” secondo Landini. ”La cosa vera e’ che il Governo sta cedendo ad un ricatto” e continua a ”non affrontare il vero problema del Paese. Non e’ che le imprese non assumono perche’ c’e’ l’art. 18: non assumono perche’ non hanno da lavorare, e di questo si dovrebbe preoccupare il Governo”.