Non sono i mafiosi a volere la morte di Scarpinato da: antimafia duemila

scarpinato-lodatodi Saverio Lodato – 18 settembre 2014

Tornano sempre gli stessi “spettri”, per la semplicissima ragione che lo Stato italiano tutto è tranne che una casa di vetro. Roberto Scarpinato, procuratore generale a Palermo, viene minacciato di morte come già, prima di lui, Nino Di Matteo, Teresa Principato, Domenico Gozzo, e l’elenco si allungherebbe troppo andando indietro nel tempo. La minaccia, in questo caso, arriva per lettera anonima, il postino la deposita sulla sua scrivania, dopo aver superato sbarramenti blindati con chiavi e tessere magnetiche. Non incontra ostacoli. Non incontra semafori rossi. Non incontra “pizzardoni” che gli chiedano dove sta andando. E tutto questo, sia detto per inciso, nel palazzo “più blindato d’Italia”. Il resto è film già visto.
Nessuno sa nulla. Nessuno ha visto nulla. Nessuno sa spiegarsi il come e il perché. Indagano le scientifiche delle varie armi. Indagano la Procura di Palermo e quella di Caltanissetta. Dicono che la lettera sia dettagliatissima. Che l’anonimo scrivano conosce a meraviglia abitudini di vita, percorsi, orari e sistemazioni logistiche dell’alto magistrato. Non contento della sua esibizione, lascia intravedere di seguire in tempo reale le inchieste vecchie e quelle ancora in gestazione, con annessi contenuti, ai quali si sta dedicando il procuratore generale.  Scatta l’allarme istituzionale. I giornali e le televisioni, che ormai per principio sono svogliati rispetto al “caso – Palermo”,  azionano il solito carillon della solita “mafia” che torna a emettere le solite “sentenze di morte”.  E anche questo è film già visto.

Quello che sino al giorno prima restava segretissimo, dopo la letterina depositata sul tavolo da lavoro di Scarpinato (un po’ come se la posta che riceviamo la mattina ci venisse fatta trovare sul comò di casa nostra), ora lo è un po’ meno.
Saltano così fuori i presunti legami del generale Mario Mori con Licio Gelli e con la P.2., con il mondo dell’eversione nera, con il giornale di Mino Pecorelli, di una sua inveterata propensione alle lettere anonime. Insomma si scopre che una gola profonda, nuova di zecca, della quale ormai si conosce l’identità, ci sarebbe andata giù duro nei confronti del carabiniere per anni a capo del il-ritorno-del-principe-art-lodatoRos, il reparto “d’eccellenza” dell’ Arma. Si apprende che sono in arrivo altre carte per il processo  d’appello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, dopo che in primo grado Mori, insieme al colonnello Mauro Obinu, fu assolto dall’accusa d’aver favorito la mafia. Si profila l’eventualità della riapertura dibattimentale del processo. Insomma. Altri grattacapi per il generale Mori.
Tutto vero? Tutto falso? Noi non siamo in grado di rispondere. Materia incandescente, su questo non ci piove, che finirà al vaglio dei giudici. Perché è scontato che questi scenari finiranno diritti nel Processo sulla trattativa Stato-Mafia che è in corso a Palermo e che, per dirla con Falcone, avrà una sua durata e una sua fine. La miscela, come è facile arguire, è esplosiva quanto mefitica.
D’altra parte, quarant’anni palermitani ci hanno insegnato che quando il gioco si fa duro, arrivano le lettere anonime, le talpe, i corvi, le cimici, i computer manomessi, le informazioni rubate, i giuda, e potremmo continuare all’infinito. Rispetto al passato, c’è di nuovo che una volta al mese vengono dati in pasto all’opinione pubblica brandelli di conversazione di Totò Riina con un par suo della Sacra Corona Unità. Riina, Il Rottame Parlante, parla a reti unificate perché qualcuno ne tira maliziosamente i fili, scrivendogli copioni e battute. Cerchiamo di concludere.
Chi è entrato nella stanza di Scarpinato, facendo girare la chiave nella toppa, non è un mafioso. Non è un boss, non è un picciotto. Chi ha scritto la lettera di minacce di morte, non è un boss, non è un picciotto. Chi si occupa delle inchieste di Scarpinato, da esse sentendosi toccato e insidiato, non è un boss, non è un soldato di Cosa Nostra, non è un mammasantissima.
L’Incappucciato che può entrare, non visto, nei Sancta Sanctorum del Potere, appartiene a quello che, da un po’ di tempo in qua, mi permetto di chiamare lo Stato-Mafia, complementare, simbiotico alla Mafia-Stato.
Come faccio a saperlo? A esserne così sicuro?
Ma signori, si capisce.
Solo gli idioti non lo capiscono.
Gli altri, i funzionari in malafede, quelli che aprono le porte con le chiavi d’ordinanza, in ossequio agli “ordini romani”, non fanno una piega. E fanno finta di non capire.

saverio.lodato@virgilio.it

Ada Gobetti, un diario sulle Resistenze’ (armata, civile e privata) da:nd noidonne

Nuova edizione di Ada Gobetti “DIARIO PARTIGIANO” ( Einaudi 2014) con la postfazione della partigiana Bianca Guidetti Serra

inserito da Rosanna Marcodoppido

“Diario partigiano”, scritto dal 13 settembre del 43 al 25 aprile del 45 da Ada Gobetti ( Einaudi 2014), rappresenta senza dubbio un esempio unico di una narrazione in tempo reale relativa ad un periodo particolarmente tragico della nostra storia. Ma ciò che rende singolare questo libro è anche e soprattutto il fatto che a scrivere sia una donna impegnata nella lotta clandestina, dunque ben attenta ora per ora, minuto per minuto, a non lasciare traccia di nomi e luoghi legati alla sua attività sovversiva. Consapevole dell’importanza del momento storico ma anche dei rischi, quasi ogni giorno annota su un quaderno quello che le accade avvalendosi di un inglese criptico, quasi cifrato, difficilmente decodificabile.
Lei è Ada Prospero Gobetti Marchesini, nata a Torino nel 1902, giovanissima suffragetta di inizio secolo, insegnante di inglese, traduttrice anche dal russo e autrice di libri per l’infanzia, ma ricordata innanzitutto come autorevole esponente del primo antifascismo e della successiva lotta di Liberazione. Nel 23 aveva sposato Piero Gobetti, morto a 25 anni a Parigi in seguito alle percosse subite dai fascisti; due mesi prima era nato il figlio Paolo. Ada continuerà a mantenere aperta la sua casa alla cospirazione antifascista, soprattutto quella legata al gruppo “Giustizia e libertà”, insieme al secondo marito Ettore Marchesini; con lui e col figlio diciottenne condividerà la lotta partigiana. Anche questo dato rappresenta un elemento assai significativo che conferisce particolare densità e pregnanza umana all’esperienza resistenziale narrata e ci consegna una immagine di madre inedita, estranea alle logiche proprietarie della figura materna tradizionale. La prima edizione di “Diario partigiano”, scritto nella sua completezza due anni dopo la Liberazione, uscì nel 56 con una nota di Italo Calvino.
Fu proprio Benedetto Croce, in un’Italia finalmente liberata, a chiederle di riscrivere in forma leggibile quel diario perché, di fronte a discordanze e accentuazioni retoriche, desiderava capire meglio cosa fosse stata nella realtà l’esperienza della Resistenza. Quest’anno il libro è stato ripubblicato da Einaudi e, oltre alla nota di Calvino, ripropone dall’edizione del 1996 l’introduzione di Goffredo Fofi e una postfazione di Bianca Guidetti Serra, partigiana anche lei e organizzatrice insieme ad Ada dei Gruppi di Difesa della Donna in Piemonte. Mi è sembrata questa dell’editore una scelta molto opportuna, in un momento in cui da più parti si va ricordando nel nostro Paese il settantesimo della Resistenza con una sorta di reiterata e colpevole disattenzione sull’apporto specifico delle donne nelle sue varie forme. Ada infatti, nel restituire eventi e protagonisti della sua esperienza di partigiana, colloca la Resistenza là dove è effettivamente accaduta: nel quotidiano fluire della vita e nell’interezza delle soggettività coinvolte, della sua innanzitutto. Una passione fortemente radicata per la libertà e la giustizia, una sensibilità e una intelligenza non comuni nel leggere la realtà umana, sociale e politica, un coraggio alimentato dalla fiducia negli altri e da una certa più o meno consapevole incoscienza, la capacità di autoironia ed empatia, ma anche i timori, le incertezze, le paure di madre e di compagna, il dolore e l’orrore e, non ultimo, il corpo con la sua fragilità e le sue insospettabili risorse: tutto questo è al centro di una narrazione al di fuori di ogni retorica, avvincente, vera, insostenibile a tratti.
È così che nel suo racconto, tra pagine di diario e successive integrazioni della memoria nei vuoti temporali imposti dagli eventi, la Resistenza armata si intreccia e si alimenta con la Resistenza civile e la Resistenza privata, restituendo valore politico a gesti che sono a fondamento di una civiltà nel vivere relazioni umane basate sulla cura ad ogni costo: ad esempio ospitare gli ebrei, nascondere e rivestire i soldati italiani sbandati , portare indumenti, viveri, armi e stampa clandestina ai gruppi partigiani, dare sepoltura ai fucilati o impiccati o, semplicemente, non lasciare soli i loro corpi prima che arrivino i parenti.
Sono soprattutto le donne le protagoniste di tutte queste forme di resistenza, di lotta, di solidarietà e tante sono le presenze femminili, molte senza nome, che animano le oltre 400 pagine del libro. Ad esse si affiancano protagonisti prestigiosi dell’antifascismo, molti purtroppo caduti nella lotta, altri che ritroveremo attivamente impegnati per la costruzione della democrazia nell’Italia libera. La sincerità di una memoria, che non vuole restare ingabbiata da opportunismi o contrapposizioni ideologiche, arriva a dare parole anche alle beghe tra donne di diverse appartenenze all’interno dei Gruppi di Difesa delle Donne su cui lei sarà chiamata a trovare mediazioni, o tra le forze alleate da lei contattate nella Francia liberata, dove Francesi e Inglesi tentati da inopportune competizioni rendono più lenti i tempi dell’aiuto ai partigiani operanti nelle valli piemontesi.
E il “nemico” non viene spogliato mai del tutto della sua umanità per cui Ada si trova a considerare una vera fortuna per lei il fatto che in circostanze particolarmente pericolose non sia stata infine costretta a sparare al soldato tedesco che si è trovato davanti sulla sua strada. Uno sguardo materno, che ritroviamo spesso nel racconto di altre testimoni, è quello che la salva dal rischio di precipitare nella barbarie non di rado vissuta come inevitabile, naturale prodotto della guerra e della lotta.
Pochi giorni prima della Liberazione di Torino la sua analisi lucida e realistica della situazione le suggerisce dubbi e timori circa la capacità di realizzare il tipo di società vagheggiata nei lunghi mesi di occupazione, a fronte di interessi particolari che a suo giudizio sarebbero riemersi, vecchie abitudini che si sarebbero riaffermate e pregiudizi duri a morire.
Così scriverà nel 49 “…si trattava di combattere tra di noi e dentro noi stessi, non per distruggere soltanto, ma per chiarire, affermare, creare” e mantenere ”quella piccola fiamma di umanità solidale e fraterna che avevam visto nascere il 10 settembre e che per venti mesi ci aveva sostenuti e guidati”. Un chiaro invito il suo ad una trasformazione radicale delle coscienze come presupposto indispensabile per la costruzione di una società e una politica nuove. Quanta lungimiranza! Nella modestia che la contraddistingue esprime le sue perplessità anche di fronte alla richiesta che le viene fatta di fare la vicesindaco: sarà mai all’altezza? Accetta naturalmente. Ricorda Bianca Guidetti Serra alla fine della sua postfazione “A Torino l’insurrezione si protrasse per qualche giorno a partire dal 26 aprile. Vediamo ancora Ada, in uno dei suoi atteggiamenti caratteristici, percorrere il 28 su una bicicletta sgangherata le vie della città, infestate dai cecchini. È il nuovo vicesindaco che tenta di raggiungere il Municipio”. È questo un libro da leggere e far leggere anche nelle scuole. Quando si parla di Padri della Repubblica, non dimentichiamo mai di nominare e chiedere che vengano nominate e ricordate le Madri: Ada Prosperi Gobetti Marchesini è senza dubbio una delle tante Madri da non dimenticare.
Rosanna Marcodoppido

Rifugiati, Alex Zanotelli: è un genocidio! di Alex Zanotelli – www.ildialogo.org –

Rifugiati, Alex Zanotelli: è un genocidio!

di Alex Zanotelli – http://www.ildialogo.org

In questi ultimi 5 giorni sono morti nel Mediterraneo quasi 800 rifugiati,in prevalenza donne e bambini. Dobbiamo solo vergognarci! Se chiamiamo mostri quelli dell’ISIS, dobbiamo riconoscerci mostri per un tale “omicidio di massa”, come lo definisce l’OIM. Sono quasi tutte donne e bambini in fuga da spaventose situazioni di guerra.Il Medio Oriente è in fiamme, così come la Libia e tante nazioni dell’Africa saheliana dal Sud Sudan al Centrafrica. Milioni sono in fuga, tanti tentano la via del Mediterraneo, che ormai si è trasformato in un cimitero. E’ uno stillicidio quotidiano a cui assistiamo quasi impassibili.
Come missionari non possiamo stare in silenzio davanti a questo genocidio che avviene alle nostre porte.
Dall’inizio dell’anno i morti sono 2.500, solo 2.220 da giugno. Lo scorso anno (con la tragedia del 3 ottobre , dove hanno perso la vita 361 persone) hanno trovato la morte oltre 600 persone . Nel 2012, hanno perso la vita altre 500 persone. In questi tre anni sono 3.600 le vittime accertate. E’ un’ecatombe!
Mai avevamo visto un numero così elevato di rifugiati. L’Alto Commissario per i rifugiati ha annunciato che il 2013 è stato l’anno record con 51 milioni di rifugiati, cifre che ci ricordano i dati della II Guerra Mondiale. L’ONU ci ricorda che l’86% dei rifugiati trova asilo nei paesi del sud del mondo. L’opulenta Fortezza Europa sta invece facendo di tutto per respingere questi ‘ naufraghi dello sviluppo’. E lo facciamo con il Fortex, con la polizia di frontiera, con le barriere di Ceuta e Melilla, con il muro tra Grecia e Turchia , con il Trattato di Dublino, con le leggi razziste sia nazionali che europee.Ed ora con il Frontex Plus! Questa nuova operazione potrebbe sostituire ‘Mare Nostrum’ , che ha salvato migliaia di vite , quasi tutte in acque internazionali. Purtroppo Frontex Plus è un’operazione di controllo delle frontiere, dentro i confini di Shengen.
Ma i disperati non si arrendono: sono mossi dalla disperazione . Nulla li può fermare. Ad approfittarsene sono le organizzazioni criminali , che soprattutto in Libia ( un paese in sfacelo totale , anche per colpa nostra!), fanno lauti guadagni.
Come missionari facciamo nostre le parole del vescovo di Casablanca(Marocco) , Santiago Agrelo , inorridito per l’uccisione di 15 immigrati che hanno tentato di scavalcare il muro di Ceuta il 6 febbraio scorso.
” E’ inaccettabile che la vita di un essere umano abbia meno valore di una presunta sicurezza e impermeabilità delle frontiere di uno Stato. E’ inaccettabile che una decisione politica vada riempiendo di tombe il cammino che i poveri percorrono con la forza di una speranza. E’ inaccettabile che merci e capitali godano di più diritti dei poveri per entrare in un Paese. E’ inacettabile che si rivendichino frontiere impermeabili per i pacifici della terra e si tollerino frontiere permeabili al denaro, alla corruzione, al turismo sessuale, alla tratta delle persone, al commercio delle armi.”
Proprio per questo, come missionari, vogliamo lanciare un appello a tutte le istituzioni perché trovino una soluzione a questa tragedia.
All’ONU ,perché crei canali di ingresso legale nei vari paesi di accoglienza tramite traghetti e voli charter, che sostituiscano le carrette del mare.
Alla UE , perchéapra corridoi umanitari;realizzi programmi di reinsediamento, ammissione umanitaria e di facilitazione dei ricongiungimenti famigliari; smantelli il Fortex, vera e propria macchina da guerra contro i migranti ; abolisca il Regolamento di Dublino che impone ai migranti di fare richiesta di protezione internazionale al primo stato membro in cui fanno ingresso.
Al Governo italiano, perché prema suBruxelles per il mutuo riconoscimento delle domande d’asilo, per un monitoraggio comune ed un equo smistamento;“cambi subito la Bossi –Fini”, come ha chiesto l’arcivescovo di Agrigento , F .Montenegro; chiuda i CIE ;voti il disegno di legge sullo Ius Soli per i figli di immigrati nati in Italia; continui l’operazione Mare Nostrum che ha salvato migliaia di migranti in acque internazionali.
Alla CEI, perché parli, con più coraggio, in difesa dei profughi e dei rifugiati, e perchè apra le canoniche e i conventi vuoti ai rifugiati.
E’ la nostra passione di missionari, che hanno toccato con mano le sofferenze di tanti fratelli e sorelle, a spingerci a gridare ,con Papa Francesco, che la ‘carne di migranti è la carne di Cristo’.
Alex Zanotelli
Napoli ,16 settembre 2014

I sindacati sono pronti allo sciopero Fonte: Il Manifesto | Autore: Massimo Franchi

La reazione al Jobs Act. Camusso, Landini e Angeletti non escludono una mobilitazione generale. Bonanni attende il vertice unitarioMobi­li­ta­zione sì, ma uni­ta­ria. Pur di non rom­pere con Cisl e Uil, Susanna Camusso decide di con­ge­lare la mani­fe­sta­zione «per il lavoro» con­vo­cata per l’11 otto­bre chie­dendo nel frat­tempo a Bonanni e Ange­letti la «con­vo­ca­zione urgente delle segre­te­rie uni­ta­rie» per deci­dere assieme come rispon­dere al governo Renzi che punta a togliere l’articolo 18 già monco e a deman­sio­nare i lavoratori.

Nel docu­mento con­clu­sivo del Diret­tivo Cgil, comun­que, le mobi­li­ta­zioni già annun­ciate, quelle uni­ta­rie dei pub­blici e quella in soli­ta­rio del 25 otto­bre della Fiom, ven­gono con­si­de­rate all’interno dello stesso per­corso. Con­tro il governo Camusso è dura: «Il pre­si­dente del con­si­glio ha improv­vi­sa­mente dirot­tato un aereo, invece di affron­tare i pro­blemi su come inter­ve­nire su con­di­zione di lavoro e crisi eco­no­mica, ha messo al cen­tro l’idea di ridurre i diritti. Non si pos­sono avere lavo­ra­tori di serie A e di serie B, pur­troppo la scelta è quella di ren­dere tutti i lavo­ra­tori di serie B», ha spie­gato alla stampa a mar­gine della sua rela­zione, come tutto il Diret­tivo al solito tenuto a porte chiuse.

Alla conta dei voti, sono 4 quelli rac­colti dal docu­mento alter­na­tivo della mino­ranza ex cre­ma­schiana de «Il sin­da­cato è un’altra cosa» che chie­deva lo scio­pero gene­rale imme­diato con­tro il governo. La Fiom e la nuova area “Demo­cra­zia e lavoro” hanno deciso invece di non par­te­ci­pare al voto per­ché il docu­mento della mag­gio­ranza non pre­vede assem­blee sui luo­ghi di lavoro e un nuovo Diret­tivo per deci­dere il da farsi dopo l’incontro delle segre­te­rie unitarie.

Camusso si è comun­que lasciata aperta due porte: se con Cisl e Uil l’accordo non si tro­verà, la Cgil andrà in piazza da sola l’11 otto­bre; se il governo deci­derà di uti­liz­zare il decreto per rifor­mare lo Sta­tuto, sarà scio­pero generale.

Se le rea­zioni di Cisl e Uil sono natu­ral­mente posi­tive – Raf­faele Bonanni aveva chie­sto espres­sa­mente a Camusso di fare mar­cia indie­tro – nel par­la­men­tino Cgil le cri­ti­che alla gestione del segre­ta­rio gene­rale non man­cano. Lan­dini non affonda il tiro, forte del fatto di essere stato il primo a deci­dere e con­vo­care uno scio­pero ter­ri­to­riale e la piazza per la mani­fe­sta­zione del 25 otto­bre della Fiom, che ieri ha ricon­fer­mato nono­stante la richie­sta ini­ziale di rin­viarla da parte di Camusso.

In molti anche all’interno della mag­gio­ranza con­gres­suale non hanno capito quale fosse la stra­te­gia di Camusso: «Per­ché annun­ciare la mobi­li­ta­zione soli­ta­ria e poi tor­nare indie­tro pro­prio men­tre il governo decide di togliere tutele e dignità ai lavo­ra­tori?», sin­te­tizza più di un componente.

In un inter­vento cri­tico ma uni­ta­rio Carla Can­tone, lea­der dei pen­sio­nati dello Spi che sta por­tando avanti una pro­te­sta con Cisl e Uil man­dando milioni di car­to­line a Renzi dal titolo #non­stia­mo­se­reni per avere il bonus da 80 euro, ha sin­te­tiz­zato le remore dei più alla stra­te­gia di Susanna Camusso: «Dob­biamo costruire un grande con­senso per difen­dere le per­sone che noi rap­pre­sen­tiamo, altri­menti non si va da nes­suna parte. Il grande rischio è la caduta della nostra idea di con­fe­de­ra­lità. Non dob­biamo but­tare a mare il per­corso uni­ta­rio, lo Spi lo terrà in piedi con forza, non ci rinunciamo».

Da parte sua Bonanni non nasconde la sua con­ten­tezza: «Ho visto che Camusso ha fatto qual­che passo indie­tro dopo una fuga in avanti. Ora pos­siamo lavo­rare insieme per far sen­tire la voce dei lavo­ra­tori per­ché c’è troppo fra­stuono in Ita­lia e si dicono cose senza senso. I sin­da­cati devono muo­versi su que­stioni con­crete: eco­no­mia, tasse e pensioni».

Sulla stessa lun­ghezza d’onda è Ange­letti: «La nostra dispo­ni­bi­lità a una mobi­li­ta­zione uni­ta­ria ci sarà solo se la pro­po­sta ver­terà su cose con­crete, cir­co­scritte e pre­cise con le quali rispon­dere alle per­sone sia sul per­ché ci mobi­li­tiamo che su quali saranno i risultati».

Cgil, l’arma spuntata dell’iniziativa unitaria. Rinaldini: “Una situazione di stato confusionale” Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Ieri il Direttivo nazionale della Cgil ha dato mandato alla propria segreteria, come richiesto dal segretario generale, Susanna Camusso, nella relazione introduttiva dei lavori, ”di realizzare un confronto con le segreterie di Cisl e Uil, per verificare le disponibilità allo sviluppo di una mobilitazione unitaria su una piattaforma condivisa. Intanto, sia la Cgil che la Fiom provano a tessere un dialogo con il governo lanciando un segnale di disponibilità sul contratto “a tutele crescenti” a patto che si venga eliminata la jungla dei contratti precari. L’articolo 18 e’ solo ”uno scalpo” da portare ai falchi dell’Ue, ha detto il segretario generale della Cgil Susanna Camusso. ”Sembrava – ha detto il numero uno della Uil, Luigi Angeletti – sembrava che si volesse eliminare l’articolo 18 per decreto. Una stupidaggine in se’. Ma Renzi non l’ha fatto. Perche’ non ha la forza. E questo vale anche per la riforma della Pubblica amministrazione, che finora si e’ limitata al taglio dei permessi sindacali. Tutto sembra urgente e intanto continuiamo a perdere posti di lavoro”. Anche per la Cisl, il contratto a tutele crescenti “va bene” ma solo “a condizione che serva a far fuori tutte le truffe in cui sono incappati i giovani”.

Sergio Cofferati che nel 2002 fu il protagonista della grande iniziativa al Circo Massimo, proprio contro l’attacco all’articolo 18, dà un giudizio negativo del’emendamento del Governo. “Il testo, che prevede il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianita’ di servizio, non esplicitando il mantenimento del reintegro tra queste tutele, cancella definitivamente i contenuti dell’art.18” dice Cofferati. Che, da ex sindacalista, osserva: “il reintegro non ha alcun rapporto con l’anzianita’ di servizio. Le tutele che sono modificabili sono solo quelle del risarcimento salariale”.Sull’iniziativa della Cgil c’è il giudizio molto critico di Gianni Rinaldini, esponente di punta di Democrazia e Lavoro, la corrente di opposizione in Cgil. “In Cgil siamo in situazione di stato confusionale”, ha detto Rinaldini nel corso del suo intervento al Direttivo nazionale. Secondo Rinaldini si conferma una situazione interna bloccata, specie a seguito delle dichiarazioni di Susanna Camusso relative ad una manifestazione il 10 ottobre. “Mentre noi sappiamo che la manifestazione dei meccanici è il 25 ottobre. Dopo il congresso si rifiuta di discutere autenticamente di ciò che è successo”. “Ci si inventa la piattaforma unitaria su fisco e pensioni – ha proseguito Rinaldini – come documento su cui costruire iniziative. Gli esecutivi unitari non si sono riuniti. Non ci sono state assemblee nei luoghi di lavoro. L’attenzione si è spostata su altro. Abbiamo una totale sfasatura tra le dinamiche sociali e le rivendicazioni su fisco e pensioni. Volutamente unitarie con cisl e uil mentre su altri temi (ad es. Job act) siamo su posizioni molto diverse. Si vocifera di una piazza dei lavori indetta dalla cgil. Per il 25 ottobre è confermata l’iniziativa della fiom. Sono in discussione iniziative unitarie sul pubblico impiego e pensionati. Occorre discutere domani e fare chiarezza sul percorso che vogliamo svolgere”.

Pochi i “reintegrati”, ma l’articolo 18 è così importante Fonte: Il Manifesto | Autore: Antonio Sciotto

L’“attacco” di Renzi all’articolo 18 risale a circa due set­ti­mane fa, quando il pre­si­dente del con­si­glio ha improv­vi­sa­mente riti­rato fuori – dopo mesi di rela­tiva calma sull’argomento – il tema dei licen­zia­menti. Aveva for­nito dei numeri, piut­to­sto det­ta­gliati: «Il dibat­tito estivo sull’articolo 18 è un ever­green. I casi che ven­gono risolti sulla base dell’articolo 18 sono circa 40 mila e per l’80% fini­scono con un accordo». Aggiun­gendo infine: «Dei restanti 8 mila casi, solo 3 mila circa vedono il lavo­ra­tore per­dere. Quindi noi stiamo discu­tendo di un tema che riguarda 3 mila per­sone l’anno in un paese che ha 60 milioni di abi­tanti. Il pro­blema quindi non è l’articolo 18, non lo è per me e non lo sarà».

Magari, ver­rebbe da dire. L’articolo 18 ha invece infiam­mato la poli­tica, come sap­piamo. Ma dove ha preso il pre­mier quei dati? Cer­cando una veri­fica, abbiamo sco­perto che in effetti non esi­ste un’anagrafe, una sta­ti­stica che possa iso­lare le cause di lavoro per arti­colo 18. Per almeno due ragioni, come ci hanno spie­gato l’Agi – Avvo­cati giu­sla­vo­ri­sti ita­liani – e la Cgil.

L’avvocato Fabio Rusconi, pre­si­dente dell’Agi (asso­cia­zione che riu­ni­sce sia gli avvo­cati che difen­dono le imprese che quelli dei lavo­ra­tori, quindi pie­na­mente “bipar­ti­san”), ci ha spie­gato che «almeno fino a poco prima dell’estate non esi­steva un codice iden­ti­fi­ca­tivo per le cause di que­sto tipo, e quindi, a meno che non si sia prov­ve­duto negli ultimi due mesi, è impos­si­bile avere una sta­ti­stica». Serena Sor­ren­tino, segre­ta­ria con­fe­de­rale della Cgil, ci ha con­fer­mato che anche per il sin­da­cato è stato impos­si­bile acce­dere a una sta­ti­stica simile, «pro­prio per la man­canza di que­sto codice». E inol­tre, seconda ragione, «per­ché molti archivi sono car­ta­cei, non infor­ma­tiz­zati, quindi non si può fare una rac­colta centrale».

Ma per­ché non esi­ste un codice per que­sto tipo di cause, quando invece per esem­pio le sepa­ra­zioni e i divorzi ce l’hanno (e infatti le sta­ti­sti­che sono inse­rite sul sito del mini­stero della Giu­sti­zia)? La rispo­sta è pre­sto data: la legge For­nero, che nel 2012 ha non solo rifor­mato sostan­zial­mente l’articolo 18, ma anche pro­ces­sual­mente (isti­tuendo un nuovo rito), si è “dimen­ti­cata” di asse­gnare un codice ammi­ni­stra­tivo ad hoc per i pro­cessi di que­sto genere. E così non si può scor­po­rare nulla.

Rusconi, dell’Agi, dice comun­que che i dati for­niti dal pre­si­dente del con­si­glio sono «vero­si­mili». «E dimo­strano – aggiunge – che l’importanza del tema è più qua­li­ta­tiva, che quan­ti­ta­tiva». Va ricor­dato infatti che i lavo­ra­tori dipen­denti, in Ita­lia, sono 22,5 milioni. E la pla­tea a cui si applica, almeno teo­ri­ca­mente, l’articolo 18, è molto più ristretta: sono i dipen­denti a tempo inde­ter­mi­nato delle imprese sopra i 15 addetti, siamo cioè sugli 8–9 milioni di persone.

L’Agi, insieme all’Anm (Asso­cia­zione nazio­nale magi­strati), ha tra l’altro chie­sto al governo di abro­gare il rito pro­ces­suale della riforma For­nero, per­ché ha creato una serie di cavilli e plu­ra­lità di inter­pre­ta­zioni che allun­gano i pro­cessi, ren­den­doli quasi impos­si­bili. Tanto che la gran parte dei lavo­ra­tori – non solo per que­ste com­pli­ca­zioni, ma soprat­tutto per­ché con il nuovo arti­colo 18 si ottiene molto meno facil­mente il rein­te­gro – opta per la conciliazione.

Sor­ren­tino, della Cgil, riba­di­sce che «sarebbe utile avere un’anagrafe nazio­nale delle cause», e che il sin­da­cato ha potuto rico­struire «solo delle ten­denze, moni­to­rando i tri­bu­nali delle città prin­ci­pali». «L’unico dato certo che abbiamo, nazio­nale – spiega – ce lo ha for­nito l’Ordine degli avvo­cati, ma riguarda solo l’esito finale delle cause. Nel 2013 si sareb­bero chiuse con l’articolo 18 appli­cato per il rein­te­gro del lavo­ra­tore un numero di cause pari allo 0,032% del totale dei lavo­ra­tori dipen­denti, ovvero di 22,5 milioni». Cioè, poco più di 7 mila casi. E va detto che nelle situa­zioni moni­to­rate dal sin­da­cato (che quindi non fanno sta­ti­stica), i due terzi dei lavo­ra­tori optano per un inden­nizzo, rinun­ciando al reintegro.

Numeri, alla grossa, parec­chio vicini a quelli for­niti da Renzi: «Ma appunto – con­clude Sor­ren­tino – Se i dati sono così bassi, per­ché si afferma che que­sta tutela frena gli investimenti?».

Maxi unità da guerra Fincantieri all’Algeria di Antonio Mazzeo

 

Entro la fine dell’anno la Marina militare della Repubblica d’Algeria potrà estendere il suo raggio d’azione a tutto il bacino mediterraneo e all’Africa occidentale. Nei giorni scorsi, presso lo stabilimento Fincantieri di Muggiano (La Spezia), si è svolta la cerimonia di consegna di una grande unità da guerra anfibia, la “Kalaat Beni-Abbes” che farà da nuova ammiraglia della flotta della Marina algerina. L’imbarcazione è nata dall’evoluzione tecnologica delle unità da sbarco e supporto logistico della classe “San Giusto”, in dotazione della Marina militare italiana; ha una lunghezza di 143 metri, una larghezza di 21,5 metri e un dislocamento a pieno carico di 8.800 tonnellate. A una velocità di crociera superiore ai 20 nodi, la nuova nave ammiraglia potrà trasportare oltre 600 persone (152 membri d’equipaggio, 12 addetti al servizio volo e 430 marines), 15 carri armati o 30 tank blindati leggeri e 5 elicotteri da combattimento di medie dimensioni. La “Kalaat Beni-Abbes” dispone di un ponte di volo con due punti di atterraggio per elicotteri, a prua e a poppa, ed è attrezzata con un ospedale da 60 posti letto e diverse sale operatorie, per operare come supporto sanitario alle truppe. All’interno dell’unità è presente un bacino allagabile che può alloggiare un mezzo da sbarco di pronto intervento lungo 20 metri e pesante 30 tonnellate, su cui possono essere imbarcati 140 uomini o un carro armato pesante; altre due imbarcazioni di pari dimensioni possono viaggiare fissate sul ponte garage, ed essere movimentate attraverso un carroponte. Il sistema d’armamento, prodotto anch’esso in Italia da aziende del gruppo Finmeccanica, include i missili antiaerei a corto raggio Aster 15 (MBDA-Thales-Finmeccanica) e i cannoni OTO Melara da 25 e 76 mm. Le apparecchiature elettroniche includono il radar EMPAR prodotto da Selex ES (altra impresa italiana del gruppo Finmeccanica), il sistema di rilevamento e guerra elettronica SCLAR-H (OTO Melara) e il sistema di gestione combattimento “Athena-C” (Selex ES).

L’unità da guerra è stata commissionata nel 2011 dal Ministero della difesa algerino a Orizzonte Sistemi Navali (società controllata da Fincantieri e partecipata da Selex ES) ed è stata realizzata per un buon 90% negli stabilimenti Fincantieri di Muggiano e Riva Trigoso (Sestri Levante). Responsabile dell’integrazione dei sistemi di bordo è stata la Seastema SpA, società con sede a Genova operante nella progettazione, sviluppo e realizzazione di sistemi di automazione integrata in ambito navale, creata nell’ambito di una joint venture paritetica tra Fincantieri e la holding svizzera ABB. Oltre alla costruzione della “Kalaat Beni-Abbes”, Fincantieri ha coordinato la produzione nel cantiere navale algerino di Mers El Kebir (città del nord-ovest nei pressi di Orano) delle tre unità da sbarco minori Landing Craft Vehicle Personnel – LCVP, trasportabili dalla nave ammiraglia. Il valore della commessa è stato stimato in 400 milioni di euro circa, più il costo dei cinque elicotteri AW101 che la Marina militare algerina ha ordinato ad AgustaWestland  (Finmeccanica).

La decisione algerina di commissionare all’Italia la costruzione della grande unità da guerra è il frutto di un sapiente e spregiudicato pressing promozionale orchestrato congiuntamente dai manager di Fincantieri, dal governo italiano guidato al tempo da Romano Prodi e dai massimi vertici della Marina militare. Nel novembre del 2007, il complesso militare-politico-industriale italiano organizzò una trasferta in Algeria della nave da sbarco “San Giusto”, con a bordo assetti anfibi del Reggimento San Marco ed elicotteri da guerra antisommergibile “Sikorsky SH-3D”; in tale occasione fu organizzata, a favore degli osservatori delle forze armate algerine, una dimostrazione delle capacità anfibie dell’unità navale, degli elicotteri e dei veicoli dei marò imbarcati. A guidare la delegazione italiana ad Algeri, c’era il sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri, senatore ligure eletto nelle liste dei Democratici di sinistra-Ulivo, poi presidente Pd dell’Autorità portuale di La Spezia.

La Marina militare ha offerto il suo importante contribuito all’affaire, fornendo il supporto logistico e l’addestramento dell’equipaggio algerino. “Questo progetto ha visto la luce nell’ambito di un ampio e innovativo  programma di cooperazione italo-algerina che attribuisce, alla Marina Militare Italiana, un pieno e diretto coinvolgimento nell’addestramento del primo equipaggio”, riporta il comunicato stampa emesso dal Ministero della Difesa il 17 gennaio 2014, in occasione del varo dell’unità da sbarco, evento che era stato posticipato di un mese a causa di un incidente mortale accaduto nello stabilimento Fincantieri di Riva Trigoso a un ufficiale della società di rimorchiatori incaricata di assistere la “Kalaat Beni-Abbes”.

Dall’ottobre 2013 ad oggi, la Marina italiana ha gestito intensi cicli addestrativi a favore di 190 militari algerini. Le attività sono state svolte presso il Centro di Addestramento Aeronavale della Marina Militare (MARICENTADD) di Taranto e presso l’Ufficio Allestimento e Collaudo Nuove Navi (MARINALLES) di La Spezia. A fine novembre, l’unità da guerra algerina sarà trasferita a sud di Taranto per svolgere una prima missione in mare aperto e le esercitazioni a fuoco con i cannoni OTO Melara da 76 mm. Nel primo semestre 2015 alcuni ufficiali algerini saranno ospiti a Taranto del Centro di simulazione al combattimento della Marina militare, mentre un altro gruppo di militari algerini sarà addestrato presso la base navale di La Spezia. Nella città ligure ci si avvarrà inoltre delle strutture disponibili presso la “Fincantieri Training Academy”, un progetto nato per iniziativa della holding italiana della cantieristica e della Marina militare, destinato alla formazione del personale di bordo delle unità in via di consegna. “Il crescente impegno nell’assistenza tecnica ed addestrativa alla Marina Algerina presso l’industria nazionale si aggiunge alle attività già supportate da MARINALLES La Spezia nell’ambito delle cooperazioni internazionali (Iraq, Kenya, Russia, India, Finlandia, Emirati Arabi Uniti)”, spiega il Ministero della Difesa. “L’impegno della Marina Militare ha per molti aspetti un carattere innovativo nel mondo delle costruzioni navali, rappresentando un esempio prima unico e vincente delle sinergie che Industria e amministrazione della Difesa possono mettere a disposizione del Sistema Paese italiano. Il settore addestramento marine estere costituisce una preziosa risorsa, poiché l’aggiunta di un pacchetto addestrativo rende l’offerta di costruzioni di nuove navi molto più appetibile, accrescendo notevolmente la competitività della cantieristica nazionale”.

Le autorità militari algerine hanno fatto sapere di voler ordinare anche un’unità cacciamine ai cantieri Intermarine di Sarzana (La Spezia), affidando ancora una volta l’addestramento dell’equipaggio alla Marina italiana. Algeri si conferma un ottimo cliente anche per Finmeccanica. Oltre agli AW101 che saranno imbarcati sulla “Kalaat Beni-Abbes”, nell’agosto 2012 la Marina algerina ha ordinato ad AgustaWestland sei elicotteri Super Lynx 300 da destinare alle due fregate lanciamissili della classe “Meko A200” acquistate in Germania. I Super Lynx non saranno però prodotti in Italia, bensì a Yeovil (Gran Bretagna). Altri quattro elicotteri Super Lynx Mk 130 e sei AW101 Mk 610 Merlin sono stati consegnati alle forze armate algerine tra la fine del 2010 e l’inizio 2011. Secondo quanto pubblicato recentemente dal periodico Air Forces Monthly, le autorità algerine sarebbero intenzionate ad affidare ad AgustaWestland la produzione di un’ottantina di elicotteri AW101 e AW109 da destinare ai reparti militari, di polizia e della Gendarmeria nazionale.