Salvador Allende, ultimo discorso

Iblis, sentenza di Appello Cristaudo condannato a 5 anni da: livesiciliacatania

di

In primo grado era stato assolto, pesantissima l’accusa: concorso in associazione mafi

CATANIA- La Corte d’Appello di Catania ha condannato l’ex onorevole Giovanni Cristaudo a 5 anni per concorso in associazione mafiosa. In primo grado era stato assolto, ma in Appello è stata ribaltata la sentenza. “Sono sorpreso -spiega Cristaudo a LivesiciliaCatania- anche perché in primo grado ero stato assolto”. Non si sbottona il legale di Cristaudo, Carmelo Peluso: “Attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza, che va in senso opposto a quella di primo grado”.

Condannato anche l’ingegnere Mariano Incarbone: l’accusa aveva chiesto 7 anni, ma la Corte lo ha condannato a 5 anni.

Tutte le condanne: Alfio Aiello (9 anni 8 mesi), Francesco Arcidiacono (8 anni), Giovanni Barbagallo (6 anni), Antonio Bergamo (6 anni), Bernardo Cammarata (8 anni e 8 mesi), Rocco Caniglia (13 anni e 4 mesi), Alfio Castro (pentito 6 anni e 8 mesi), Franco Costanzo (11 anni e 4 mesi), Giovani Cristaudo (5 anni ), Alfonso Fiammetta (9 anni e 6 mesi), Francesco Ilardi (5 anni), Mariano Incarbone (5 anni), Graziano Lo Votrico (5 anni), Francesco Marsiglione (11 anni e 4 mesi), Michele Marsiglione (5 anni), Girolamo Marsiglione (5 anni), Felice Naselli (assoluzione e trasmissione degli atti al Pm), Liborio Oieni (5 anni), Rosario Ragusa ( 6 anni), Antonino Sangiorgi (5 anni e 4 mesi), Agatino Santagati (1 anno e 4 mesi), Antonino Sorbera (6 anni), Alfio Stiro (1 anno e 4 mesi), Agatino Verdone (assolto).

Benvenuti nel Donbass. Il reportage Autore: Dante Comani* da: controlacrisi.org

 Tutti gli anni nel giorno della vittoria a Donesk viene organizzata una parata militare. Nessuna prova di muscoli ma solo una sfilata, molto partecipata, di reduci ma anche semplici cittadini, studenti, lavoratori che ogni 9 maggio si danno l’appuntamento per una commemorazione ancora molto sentita. In quell’occasione dal museo della memoria della città, un luogo che ricorda il prezzo che i sovietici pagarono per liberare se stessi e l’Europa dal nazismo, viene rispolverato un carro armato T34 parcheggiato per il resto dell’anno all’ingresso del museo. Questo cimelio, ancora funzionante, percorre poche centinaia di metri lungo le vie principali della città subito seguito dai reduci, sempre meno, e da figuranti con le divise storiche dell’armata rossa. Questo gigante d’acciaio tra sbuffi, rumori assordanti e una coltre nera di fumo riesce sempre a garantirsi il suo quarto d’ora di celebrità, ma quello che fu un mezzo temibile che mise in crisi gli invincibili panzer con la croce di ferro di Guderian ormai riesce tutt’al più a impressionare i tanti bambini presenti alla parata. Se oggi vi capita di passare per Donesk, una città di un milione e mezzo di abitanti, quotidianamente bombardata dall’ esercito ucraino e con interi quartieri ormai ridotti ad un cumulo di macerie, vi potrà capitare di incontrare lungo una delle principali arterie che collegano la città assediata, proprio quel T34 che, a 70 anni dalla sua ultima missione, è stato costretto, suo malgrado, a tornare in servizio. Perché a Donesk, come a Lugansk, come a Sloviansk, e nelle altre città dell’Ucraina orientale sembra di essere tornati alla grande guerra patriottica. Non solo per i forti sentimenti antifascisti della totalità della popolazione del Donbass, che hanno trasformato questa guerra in un conflitto contro il male assoluto ma soprattutto perché i mezzi e le armi in mano ai ribelli sembrano usciti da un set cinematografico sulla seconda guerra mondiale. Non passa giorno, è vero, senza che i media occidentali non tirino fuori scoop, foto satellitari, dossier dei servizi di mezzo mondo, che provano il passaggio di corazzati, mezzi ad alta tecnologia e forze speciali dalla Russia. Di tutto questo naturalmente non viene fornita nessuna prova documentata eccezion fatta per qualche foto satellitare che ci mostra, rigorosamente dall’alto, dei rettangolini scuri che, solerti analisti dell’alleanza atlantica, ci dicono essere i micidiali aiuti militari inviati da Putin. Eppure un osservatore imparziale o semplicemente più attento, basandosi unicamente sulle numerose immagini provenienti dalle tv di mezzo mondo, non faticherebbe ad accorgersi che le milizie popolari sembrano più la classica armata di straccioni che quella temibile macchina da guerra che si vuole far credere. Un’armata efficiente, sia chiaro, ma con uomini in mimetica e scarpe da ginnastica, adolescenti imberbi con moschetti del 1940, mezzi improbabili adibiti a trasporto truppe, pezzi d’artiglieria antidiluviani. Insomma non bisogna essere usciti dall’accademia di West Point per capire che le tante elucubrazioni su un intervento mascherato di Mosca sono solo fantasie utili a chi fa il gioco della Nato. Facciamo a capirci. I militari russi presenti nel Donbass sono migliaia. Ma chi pensa che questi uomini siano li su incarico di Putin fa nella migliore delle ipotesi un torto alla realtà. Lo zar Putin sta trasformando la Russia e la sta preparando alle sfide geopolitiche che la attendono nei prossimi anni. Ma su questo, per ora, non vogliamo entrare. Quello che ci interessa è che l’esercito è una di quelle istituzione che è stata maggiormente interessata da questa riorganizzazione. Decina di migliaia di militari dell’armata rossa tra i quaranta e i 60 anni sono stati negli ultimi anni messi in congedo forzato per fare spazio alle nuove leve uscite dalle accademie miliari. In gran parte veterani dell’Afghanistan, della Cecenia, dell’Ossezia, una intera generazione di combattenti si è ritrovata relegata ad un angolo con i saluti di Putin. Il conflitto in Ucraina ha rappresentato per questi uomini una nuova ragione di vita su di un livello però totalmente nuovo e cioè sulla difesa di una identità non banalmente etnica ma di valori. Migliaia di loro, infatti, hanno fatto propria la nuova bandiera della Novorossiya che qualche sciocco ritiene scandalosamente simile a quella confederata della guerra civile americana. In realtà questa bandiera è la fusione di due antiche bandiere rivoluzionarie, quella completamente rossa dei bolscevichi del 1917 e quella con la croce di s.andrea blu su sfondo bianco issata sull’incrociatore Aurora che con i suoi colpi diede il via alla presa del palazzo d’inverno. Una simbologia forte, chiara ed estremamente partigiana che non lascia spazio a dubbi di sorta. Sotto quella bandiera sono accorsi Russi, Uzbeki, Mongoli, kazaki tutti a combattere il nemico giurato di sempre. Per molti osservatori sono mercenari, ma si fa veramente fatica ad immaginare un mercenario senza stipendio, perché di questo si tratta. Il Donbass militarmente è diviso in 6 zone autonome l’una dall’altra. Ogni zona comprende diverse città e ha un suo comando della milizia. A questa spetta la difesa e la gestione delle migliaia di profughi che cercano riparo oltre confine. A spiegarci questo è Andrey C., del comando del distaccamento di Lugansk, che ci accoglie con indosso una inequivocabile tshirt con l’immagine del “Che”, in una stanza con le finestre in frantumi situata in quella che una volta era la sede del comune. Da lui, scopriamo che le repubbliche popolari che si sono costituite negli ultimi mesi nelle tre principali città del Donbass sono amministrate da “consigli” di cittadini, che, quello che rimane del comparto minerario, colpito chirurgicamente dall’esercito di Kiev, è autogestito anch’esso da consigli dei lavoratori che versano parte delle rimesse ottenute alla milizia e che a questa, oltre ai compiti di difesa viene demandata la questione degli approvvigionamenti e la non facile gestione dei flussi delle centinaia di migliaia di profughi che cercano rifugio in Russia. In realtà non c’è una grossa differenza tra questi organismi visto che tutti possono partecipare all’una come all’altra. Uomini e donne, di ogni età, li vedi effettivamente correre per le vie semi deserte abbigliati con uniformi variopinte,le caratteristiche magliette a righe orizzontali bianconere della marina, le mimetiche dell’esercito ucraino e russo saccheggiate nelle caserme occupate, le divise blu della polizia della città passata coi ribelli. Un popolo in armi. Andrey ci dice che l’esercito ucraino continua a bombardare le città perché non ha il coraggio e la forza per entrare. “Questo non significa che siamo al riparo, anzi forse in termini di vite sarebbe meglio uno scontro diretto fuori dai centri abitati ma purtroppo non siamo noi a deciderlo. Ci accusano di farci scudo con i civili ma qui ognuno ha fatto la sua scelta”.
Quasi duecentomila profughi hanno potuto attraversare il confine russo grazie ad un corridoio che è stato reso sicuro, armi alla mano, proprio dalla milizia con costi umani elevatissimi.
“Abbiamo chiesto aiuto alla comunità internazionale, alle Nazioni unite, alla croce rossa internazionale, affinchè garantissero loro un corridoio umanitario ma l’esodo dei civili verso il confine russo è stato oggetto di sistematici attacchi dell’aviazione e dell’artiglieria di kiev. Un esercito che si accanisce in questa maniera contro i propri connazionali credo che non si sia mai visto in queste proporzioni. “
Chi è rimasto, è rimasto per combattere. Come Vassiliy, un professore di letteratura delle scuole superiori, comanda una batteria composta da quattro ml 20, cannoni che sparano proiettili da 122mm. Armi temibili nel 1943, un pò meno oggi. La sua compagnia è composta da circa 40 persone e tra queste ci sono 8 suoi alunni. Questi, tutti 16 enni, ci dicono che il fascismo è l’ebola del mondo ma nella Novorossiya hanno trovato la cura e ridono mostrandoci orgogliosi i loro moschetti moisin nagant del 1941.
Uno di loro ci dice che vinceranno la guerra, perché i russi non cominciano mai le guerre, le vincono e basta.
“Putin sta giocando una partita a scacchi con l’occidente.” Si fa serio un altro. “Per un po di tempo noi siamo stati addirittura i pedoni ma si sa che il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Alla fine a forza di giocare tra diplomazie qui abbiamo fatto i soviet e questo di certo non è andato giù a nessuno”.
“Dobbiamo molto alla Russia sia chiaro, anzi dobbiamo molto ai russi. Sono i nostri fratelli. Ma noi non vogliamo annetterci alla Russia. Noi siamo la Novorossiya che vi piaccia o no.”
Pavel C., maggiore siberiano dell’armata rossa è probabilmente l’unico militare vero del gruppo.” Qui ho ritrovato un motivo per combattere, nuovi compagni, non puoi non sentirti parte di qualcosa più grande di te. Io sono cresciuto e sono stato formato nel mito della lotta vittoriosa al fascismo e oggi può apparire incredibile ma sembra di essere ritornati indietro di 70 anni. “
Il professor Vassily riprende la parola e ci dice che non è d’accordo con quanti paragonano il Donbass alla Spagna repubblicana.
“ Innanzitutto non abbiamo le brigate internazionali e neanche un minimo di solidarietà . Tutto il mondo è contro di noi. Siamo noi i cattivi. Così cattivi che ci siamo portati la guerra in casa nostra, così dispotici che prendiamo le decisioni votando, così nostalgici che innalziamo al cielo con orgoglio bandiere ritenute bandite. Ma voi che fareste?Un giorno ci siamo svegliati e ci hanno detto che non potevamo più parlare russo, che gli amministratori che avevamo eletto dovevano essere sostituiti, che i contratti di lavoro andavano rivisti, le nostre miniere vendute all’estero, la nostra storia e i nostri simboli cancellati e abbattuti. Addirittura ai reduci di guerra sono state tolte le pensioni perché colpevoli di aver lottato dalla parte sbagliata. Vi sembrerà incredibile ma anche in quel frangente non abbiamo detto niente. Ma poi c’è stata Odessa. Un massacro.E da quel momento abbiamo finito di essere Ucraini, per sempre”.

La realtà è molto complessa. Per qualcuno non è così. Analisti d’accatto, giornalisti prezzolati, freelance
( più lance che free), blogger tuttologhi, sono categorie antropologiche che hanno sempre la soluzione sotto controllo, una capacità assoluta di interpretare e decodificare la storia e a volte anche la geografia. Per noi non è così, rimaniamo pieni di dubbi, di incertezze, soprattutto quando ci si trova di fronte a fatti epocali, che si percepisce influenzeranno quello che sarà il mondo nel prossimo futuro. Negli ultimi anni ne abbiamo lette e sentite di cotte e di crude ma, per nostra natura, abbiamo sempre preferito discutere e studiare senza contribuire a quella immane produzione di carta, non sempre elettronica, documenti, dossier, memorandum, che avevano la pretesa di spiegarci dove stava andando a finire questo mondo. Dalle primavere arabe all’Iraq, dalla Siria alla Palestina passando per i perenni conflitti centrafricani è stato detto e scritto tutto ed il contrario di tutto, un relativismo esasperato che ha giustificato e resa leggittima qualunque posizione anche la più falsa e ignobile. Proprio come sta accadendo per il conflitto in Ucraina.
Noi ci siamo stati. Abbiamo visto e vissuto seppur per poco tempo la realtà drammatica di una guerra uguale a tante altre e abbiamo potuto misurare una partecipazione popolare senza precedenti nell’europa del secondo dopoguerra. Ma il Donbass non è la Siria, né Gaza e non è neanche la repubblica spagnola del ’36. Il Donbass è il Donbass. Anzi, per meglio dire, il Donbass è Novorossiya. Questo è uno punti fermi insieme a pochi altri: la natura profondamente antifascista del movimento nel Donbass, la novità dell’autogoverno di città con milioni di abitanti ed il tiepido e sempre più imbarazzato appoggio della Russia a queste esperienze. Nell’Ucraina orientale si sta sperimentando qualcosa di nuovo, sotto le ceneri di una storia che sembrava definitivamente consumata riemergono le fiamme di simboli e pratiche dimenticati. Un popolo che si fa protagonista, circondato da forze preponderanti, schiacciato dalla forza della propaganda, oltraggiato e vilipeso anche e soprattutto da chi, in ogni parte del mondo, è sempre pronto a misurare il livello di radicalismo e a giudicare la bontà delle parole d’ordine altrui. Questo scarno resoconto è per quei compagni, per fortuna non pochi, che fin dall’inizio hanno saputo leggere la reale portata della crisi ucraina, le sue possibile ripercussioni e soprattutto la vera natura dei movimenti del Donbass. Non basteranno centomila cornacchie urlanti dai loro siti a scalfire il nostro giudizio su quanto visto e su quanto ci aspettavamo di vedere. Lasciamo a loro il dibattito su mercenari e contractors russi, rossobrunismo, imperialismo russo, oligarchi, gas, zarismo. Per fortuna sono inutili come le loro tesi.

A Stakanov una città a pochi chilometri dal confine russo, una statua di Lenin, come di consueto,si erge nella piazza centrale. Sul basamento grigio di cemento armato moltissimi studenti delle elementari, nelle settimane iniziali della crisi, avevano attaccato i loro disegni colorati. Alcuni di essi sono sopravvissuti alle intemperie e agli sconvolgimenti delle settimane successive. Su uno di questi, un Lenin sorridente e gigantesco, schiaccia un carro armato, su un altro afferra un missile con le mani salvando le case sottostanti ed i loro occupanti, su un altro ancora dei miliziani fanno la guardia alla sua statua circondata di bambini. E sono poco più che bambini anche i tre miliziani che fanno realmente la guardia alla statua del padre della patria. Nel 2014 c’è ancora gente disposta a questo. Ma chi glielo fa fare? La risposta è su uno striscione bianco di una decina di metri proprio alla sinistra di Lenin: “ESLI PADAT’, TO VMESTE”, recita.
Se cadrai, cadremo insieme.
Benvenuti nel Donbass

*Dante Comani e
un gruppo di compagni di ritorno da Donesk

Renzi: “Lo ammetto, la crescita sarà zero”Fonte: Il Manifesto | Autore: Antonio Sciotto

Il premier a “Porta a Porta”. La nuova legge di stabilità prevederà meno tasse sul lavoro, ma non ci sono soldi per estendere la platea degli 80 euro. Nessun intervento sulle pensioniAPorta a Porta, alla ripresa uffi­ciale delle ospi­tate tv, Mat­teo Renzi deve ammet­tere che non tutto è andato come da pre­vi­sioni: il tempo dei fuo­chi arti­fi­ciali, di moda quando si inse­diò a Palazzo Chigi, è bello che andato. Male il Pil, che quest’anno cre­scerà «intorno allo zero». Ed è con­fer­mato che sugli 80 euro non c’è trippa per gatti, o meglio per pen­sio­nati, inca­pienti e par­tite Iva, che non vedranno l’agognato allar­ga­mento della pla­tea: «Non sono ancora in con­di­zione di farlo». Ma l’invito agli ita­liani è di «smet­terla di cedere alla cul­tura del pia­gni­steo». Il pre­si­dente del con­si­glio, insomma, chiede ancora credito.

Ecco dun­que le pre­vi­sioni sul Pil: quest’anno, spiega il pre­mier a Bruno Vespa, sarà «intorno allo zero e non è suf­fi­ciente per ripar­tire: i dati nel 2014 non saranno entu­sia­smanti». L’Italia, ha spie­gato Renzi, ha perso posi­zioni in que­sti anni: –2,4% nel 2012, –1,9% nel 2013, ora intorno allo zero. «Abbiamo ral­len­tato la caduta».

«Potrebbe avere qual­che miglio­ra­mento il rap­porto del debito sul pil, dal 137% al 135%. Ma sulla cre­scita non cam­bierà sostan­zial­mente niente», ha con­cluso Renzi.

Quanto alla nuova legge di sta­bi­lità, il pre­si­dente del con­si­glio ha annun­ciato che «avremo un’ulteriore ridu­zione del costo del lavoro. Che finan­zie­remo con la ridu­zione della spesa». Il governo sta valu­tando sia un taglio dell’Irap che un inter­vento sui contributi.

Ma ci sarà anche la con­ferma, per chi li ha già avuti, degli 80 euro: «È chiaro che c’è un sen­ti­mento di sfi­du­cia – ha osser­vato Renzi com­men­tando il fatto che gli ita­liani ancora non li hanno spesi – ma noi siamo in grado di assi­cu­rare che per quella pla­tea sono garan­titi. Poi si dovrebbe allar­gare la pla­tea, ma non sono ancora in con­di­zione di farlo». Le risorse, secondo il pre­mier, si potranno otte­nere «recu­pe­rando 20 miliardi con la spen­ding review. Soldi che potremmo usare anche per altro: abbas­sa­mento delle tasse o inve­sti­menti in set­tori strategici».

E se si nomina la spen­ding review, viene subito in mente lo scon­tro, poi in qual­che modo ricom­po­sto, con il com­mis­sa­rio Clau­dio Cot­ta­relli. Renzi nega che ci sia stata una rot­tura, anche se con­ferma che in pra­tica Cot­ta­relli lascerà dopo la legge di sta­bi­lità: «Ha chie­sto tre mesi fa di poter andare a Washing­ton al Fondo mone­ta­rio anche per motivi di fami­glia. Io gli ho detto: “Però la legge di sta­bi­lità la fai con noi”. Poi io sono dell’idea che la spen­ding la fai comun­que, con o senza Cottarelli».

Sul nodo delle pen­sioni, il pre­mier ammette una diver­genza con il com­mis­sa­rio alla revi­sione della spesa. «Nel primo piano che Cot­ta­relli pre­sentò voleva tas­sare le pen­sioni sopra i 2 mila euro e gli ho detto di no– spiega Renzi – Non è che dai i soldi a quelli che pren­dono meno di 1.500 euro e li vai a pren­dere a chi prende 2 mila. Pen­sione d’oro non è 2–3 mila euro al mese, poi è chiaro che se c’è la pen­sione da 90 mila euro al mese inter­vieni. Sarebbe un grave errore susci­tare il panico tra i pen­sio­nati per recu­pe­rare 100 milioni».

Almeno su que­sto fronte, forse i sin­da­cati saranno tran­quil­liz­zati. Restano però, come sap­piamo, i nodi del con­tratto degli sta­tali, e lo scio­pero annun­ciato dalle forze di poli­zia. «È ille­gale, va con­tro la legge – dichiara duro il pre­si­dente del con­si­glio – I loro sin­da­ca­li­sti si sono com­por­tati in maniera inde­co­rosa». Renzi ammette poi che i soldi per sbloc­care i salari «già pos­sono essere tro­vati», ma aggiunge: «I sin­da­ca­li­sti si riman­gino tutto quello che hanno detto per rispetto ai loro col­le­ghi e poi si ragiona».

Infine, il Pd. «Non ci penso nem­meno un nano­se­condo» a lasciare la segre­te­ria, dice Renzi. Domani la dire­zione del par­tito, venerdì la nuova segre­te­ria. L’invito alla mino­ranza è di riman­dare tutte le sfide al 2017, al pros­simo congresso.

FGC: “Buona scuola”, governo Renzi infiocchetta l’ennesimo colpo alla scuola pubblica da: www.resistenze.org

Fronte della Gioventù Comunista | gioventucomunista.it

08/09/2014

Ancora una volta si confermano le nostre previsioni sull’indirizzo politico del Governo Renzi. Il documento “La buona scuola” pubblicato lo scorso 3 settembre incarna appieno l’essenza di questo Governo: mascherare con toni da televendita le politiche di totale subalternità ai progetti imposti dal sistema economico, proseguendo dritto sui binari dello smantellamento di tutti i diritti sociali. I proclami contenuti nelle 136 pagine di testo, che delineano le linee-guida della futura riforma della scuola, costruiscono un castello di carte che cade al primo soffio di vento.

Secondo Paolo Spena, Responsabile Scuola e Università del FGC: «il primo dato fondamentale non è ciò di cui si parla quanto invece ciò di cui non si parla. Caro libri in crescita, contributi scolastici ormai obbligatori per le famiglie e sempre più cari, aumento del costo dei trasporti e borse di studio erogate sempre più raramente non rientrano nell’agenda del Governo, che conferma il pieno disinteresse di questo sistema nel garantire a tutti il libero accesso all’istruzione. Gli interventi sull’edilizia scolastica sono una goccia nel mare, come ogni misura di questo tipo che si misuri in milioni e non in miliardi».

Per quanto riguarda le misure proposte, afferma Spena, non c’è da stare sereni: «Inaccettabile l’idea di autonomia scolastica delineata dal Governo. Si nega che valutare le scuole porti alla competizione fra gli istituti per accaparrarsi i finanziamenti, ma di fatto è così. Il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) è gestito dall’INVALSI, che impone criteri di valutazione delle scuole del tutto antiscientifici e dannosi per la didattica. Mentre le scuole private continuano a ricevere soldi dal Governo, non si ha vergogna di affermare che i soldi pubblici non bastano e che la scuola pubblica ha “bisogno” di investimenti da parte di privati e imprese, che vengono abilmente mascherati chiamandoli “investimenti collettivi”. Tutti noi dovremmo chiederci: una scuola pubblica che dipende economicamente da un investitore privato cosa sarà disposta a fare pur di non perdere i suoi finanziamenti?»

«Particolare attenzione da parte nostra merita il piano sull’Alternanza Scuola-Lavoro (ASL) per i tecnici e professionali.» – continua il FGC – «La scuola viene ripensata come un’entità del tutto succube agli interessi delle aziende private, gli insegnamenti come un qualcosa da adattare continuamente alle richieste del mercato. Si va ben oltre lo sfruttamento selvaggio del lavoro in stage che abbiamo conosciuto in questi anni: il governo non ha pudore quando parla di “formazione congiunta” e afferma che le stesse aziende private dovrebbero “concorrere” con le scuole nella formazione dei giovani.»

Inconsistenti secondo il FGC le promesse di assunzione per i precari, e decisa contrarietà alla proposta di introdurre gli scatti in base al merito: «Gli insegnanti italiani ad ora sono fra i meno pagati d’Europa, e la soluzione che propone il Governo è quella di allestire una lotta fratricida fra gli insegnanti per accaparrarsi le poche briciole che vengono concesse. Aumentare gli stipendi in base al “merito” significa portare nella scuola un clima di competizione che dovrebbe invece esserle del tutto estraneo; il sistema dei crediti proposto come alternativa all’anzianità elimina qualsiasi cooperazione fra gli insegnanti, dei quali ormai si parla come se fossero liberi professionisti in concorrenza fra loro. Nella promessa di assumere 150.000 precari c’è molta propaganda e poca concretezza, e viene accennata l’intenzione di abbandonare a sé stessi tutti i precari che – certo non per loro colpa – hanno punteggi molto bassi.»

Giunge infine dal Fronte della Gioventù Comunista un appello rivolto a tutte le categorie del mondo della scuola, interessate dal progetto di riforma: «Il Governo assesta l’ultimo colpo alla scuola pubblica, per ricondurla interamente all’interno delle logiche del mercato e della competizione per il profitto imposte da questo sistema. Studenti e insegnanti sono entrambi colpiti da queste misure, che il Governo infiocchetta con belle parole per celarne la reale portata. Chi in questi giorni ha sostenuto che le proteste annunciate per l’autunno sono già fallite in partenza si accorgerà di aver preso una grossa cantonata. Mai come adesso è necessario costituire un fronte ampio di opposizione unendo le rivendicazioni di studenti, insegnanti di ruolo e precari, personale ATA. Ogni scuola sarà una barricata contro le politiche imposte da questo sistema e dall’Unione Europea.»

Antifascisti di serie A e antifascisti di serie B da: contropiano.org

Azione Antifascista Internazionale | contropiano.org

06/09/2014

Fallito il quarto, disperato tentativo dell’esercito ucraino di spezzare in due il fronte di Nuovarussia, le milizie popolari hanno lanciato una controffensiva riconquistando terreno a danno di un esercito regolare ormai alla canna del gas, afflitto da perdite enormi di uomini e mezzi e spesso, senza neanche più carburante per gli automezzi. Nel frattempo, le milizie rafforzano il proprio status bellico trasformandosi ufficialmente in vero e proprio esercito popolare. In questa fondamentale press conference, il presidente Zakharchenko ricorda agli inviati della stampa occidentale -fin dall’inizio del conflitto e senza vergogna alcuna, organo di propaganda del Maidan – le ragioni profonde della sollevazione di massa del Donbass contro il ritorno del fascismo.

Internazionalismo, condanna dello sciovinismo, richiamo ai valori sovietici di pace, lavoro e progresso e ancora, rimando all’89 francese e alla triade metastorica di libertà, eguaglianza, solidarietà.

Parole che dovrebbero essere ascoltate molto bene dai quei sinistri “massimalisti” italiani che da mesi non perdono occasione per gettare fango sulle repubbliche popolari di Nuovarussia, considerando l’antifascismo in armi degli internazionalisti e dei patrioti del Donbass “di serie B” poiché non confacente ai criteri da loro stabiliti per conferire arbitrariamente patenti di legittimità sul fenomeno.

Con la non trascurabile differenza che, mentre i così malamente detti “filorussi” sono alla testa di un movimento di massa e popolare, questi occidentali puristi, critici e detentori della verità assoluta capeggiano al massimo qualche sparuta setta antifascista che spesso, attraverso un’attività politica tutta autoreferenziale che lambisce il fanatismo, con il richiamo a mille “ismi” che i più neanche comprendono, finisce addirittura per nuocere alla causa.

Questi autentici russofobi nonché sedicenti “libertari”, da giorni si riempono la bocca col nome di Alexander Dughin -il massimo maitre a penser vivente del cosiddetto nazionalbolscevismo- cercando di accreditare l’idea secondo la quale la resistenza del Donbass sarebbe caduta sotto l’influenza ideologica sua e del suo movimento.

Tuttavia, bastano le parole del filmato a smentire una simile forzatura, il nazionalbolscevismo di Dughin, infatti, ha la sua premessa teorica e metodologica fondante nella negazione e rovesciamento dei valori egualitari della rivoluzione francese dell’89. Al contrario, in tutte le sue pubbliche esternazioni, il presidente Zakharchenko non manca mai di rimarcare quali postulati fondanti della lotta antifascista del Donbass tanto i principi progressivi della rivoluzione sovietica che di quella francese. Il cosiddetto nazionalbolscevismo, invece, fin dalle sue primigenie manifestazioni, nella Germania weimariana e per bocca dei suoi maggiori teorici, ha sempre avversato, in nome di un costrutto sociale fortemente autoritario, i valori “illuministi” del luglio francese. Illuminante, a tal proposito, il pensiero del nazionalbolscevico Ernst Niekisch un anticipatore di Pol Pot nonché fautore di un socialismo avversario della modernità, dell’industria e del progresso nel nome di una società che egli auspicava fondata su una casta di contadini-guerrieri. Proprio a Niekisch e al suo –intimamente contraddittorio- movimento di resistenza al nazismo, conosciuto come Wiederstand (resistenza) appunto, si rifanno alcune componenti russofone del Donbass e si veda in proposito il caso del reggimento Varyag (https://www.facebook.com/Varyag.Batallion) che della Wiederstand tedesca riprende aspirazioni e simbologia a cominciare dall’acquila con gladio, falce e martello. Questa citazione si rende doverosa al fine di tracciare un quadro non semplicistico e manicheo della complessa situazione determinatasi nel Donbass dove, a fianco delle sicuramente maggioritarie componenti classiste e genericamente, socialcomuniste, si possono rintracciare, soprattutto nell’ambito militare, organizzazioni nazionalbolsceviche, panslaviste e perfino neozariste tutte accomunate nella lotta contro i nazisti di Kiev. Tuttavia, un conto è, giustamente, fare i conti con la complessità del reale, che inevitabilmente reca elementi di contraddittorietà e segna uno scarto da quelli che sono i nostri desiderata, un altro è mistificare il piano della verità storica mortificando, proprio come fa certa Sinistra occidentale (che, per inciso e a titolo d’esempio nulla dice sui fondamentalisti islamici di Hamas) la resistenza antifascista in armi e di massa nel Donbass, poiché non immediatamente assimilabile a quella che essa reputa la sua giusta visione dell’antifascismo e della lotta politica.

Proprio in questi giorni, l’estrema Destra europea, tradizionalmente maestra nell’assimilare a sé tutto ciò che possa risultare tatticamente utile in spregio a qualsiasi principio di coerenza, cerca di operare un riposizionamento sulla questione ucraina cercando di slegarsi dai camerati ucraini di Svoboda e Settore destro, ormai una zattera alla deriva, quindi, esattamente ora, è necessario che gli antifascisti occidentali facciano cessare inutili e sterili polemiche per dare tutto l’appoggio possibile ai nostri fratelli e compagni di Nuovarussia in modo che eventuali zone d’ombra (a partire dai cosiddetti nazionalbolscevichi) nell’esperienza del Donbass vadano a diratarsi. La storia ci ricorda, infatti, come spesso sia stata l’assenza politica dell’antifascismo e della Sinistra a fare le maggiori fortune del campo nemico. Dove c’è un’assenza, di contro ed inevitabilmente, si verifica una presenza. L’esempio italiano nel primo dopoguerra, in riferimento al movimento dei reduci, ci fornisce, in tal senso, un monito difficilmente eludibile. Fu l’atteggiamento supponente e sdegnoso degli allora strateghi del movimento operaio a gettare nelle braccia del fascismo decine di migliaia di potenziali militanti rivoluzionari. Nella Russia pre rivoluzionaria la ben diversa strategia leninista consentì ai bolscevichi di conquistare alla causa rivoluzionaria la stragrande maggioranza dei militari con i risultati che tutti conosciamo.

Nella loro opera di mistificazione della lotta di Nuovarussia, i sinistri denigratori possono contare sul sostegno di diverse testate giornalistiche -o aspiranti tali- on line e di “movimento” (per non infierire non faccio nomi) le quali non paghe di aver appoggiato la “sovversione reazionaria di massa” del Maidan, così come precedentemente i ribelli salafiti in Libia e Siria, le “femministe” al soldo di Soros “Pussy riot” e “Femen” ecc. ecc. non solo non hanno mai accennato ad un giusto processo di autocritica ma fin dall’inizio hanno concentrato il proprio fuoco di fila contro le repubbliche popolari, arrivando a suffragare, pur di addensare l’ombra del rossobrunismo sugli antifascisti del Donbass, le menzogne del portale Human right center di Kiev ( una creatura telematica della Cia costituita ad hoc per delegittimare, attraverso la pratica goebbelsiana della menzogna reiterata e sistematica, la lotta degli antifascisti ucraini).

Non è superfluo ricordare, inoltre, di come nei primi giorni del Maidan diversi pseudo-giornalisti della “Sinistra radicale” abbiano esortato i propri lettori a solidarizzare con una protesta, già allora chiaramente a maggioranza fascistoide, scambiando le bandiere rosso-nere dei seguaci del collaborazionista dei nazisti Stephan Bandera per quelle dell’anarco-sindacalismo! Ancora una volta, grossolanamente, sono state prese lucciole per lanterne…

Un simile, preoccupante deficit di analisi ha potuto verificarsi poiché, nel tentativo di ridefinire il proprio profilo e renderlo all’altezza dei tempi, la Sinistra “radicale” occidentale, da oltre un ventennio, ha progressivamente abbandonato il metro della lotta di classe, sbrigativamente accantonato come ciarpame novecentesco, finendo per introiettare, in parte, il punto di vista del nemico su una presunta “fine della storia”. Il tema “politicamente corretto” dei diritti umani si è imposto come nuovo elemento dirimente nell’analisi, mentre discipline come la geopolitica (che, invece, sarebbe molto utile utilizzare come complemento all’analisi di classe) sono state, con superficiale errore, tacciate di “fascismo”. In questo senso, forse, proprio l’esperienza di Nuovarussia e la rinascita di un forte movimento di classe ad est potranno rivelarsi utili per la costruzione anche nell’Europa occidentale di una nuova Sinistra che chiuda definitivamente i conti con quanto accaduto dalle nostre parti all’epoca del crollo del muro di Berlino.

Kosovo: a Vitina distrutto il Monumento in memoria della lotta di liberazione dal nazifascismo. da: www.resistenze.org

A cura di Enrico Vigna [Versione PDF con immagini]

luglio 2014

Un monumento che era stato costruito in onore dei partigiani Serbi e Albanesi che combatterono contro l’occupazione nazifascista è stato distrutto nel centro del paese di Vitina da estremisti albanesi. L’atto vandalico è avvenuto sotto gli occhi della polizia kosovara, alcuni membri della quale hanno, infatti tranquillamente osservato la distruzione del Memoriale, senza minimamente intervenire.  In questo video si può vedere i liberatori del Kosovo al lavoro: http://www.youtube.com/watch?v=eKFykgP_r88

Non essendo stato l’obiettivo attaccato per motivi “etnici”, in quanto era dedicato alla memoria di serbi e albanesi, chiarisce ancora meglio la situazione di violenza, di sopruso e di aggressività presenti nella realtà del Kosovo “liberato”. Ma soprattutto fa capire quali sono i valori  e le radici storiche a cui si rifanno le forze secessioniste.

La memoria dei partigiani antifascisti del Kosovo, quasi ormai annientata.

Il patrimonio e la memoria storica e culturale del Kosovo, fino al 2000  conservato nelle tradizioni della ex Jugoslavia, viene oggi sistematicamente rimosso e spesso distrutto, dai “nuovi” governanti della provincia serba.

Agim Gerguri, direttore dell’Istituto per la Protezione dei Monumenti in Kosovo, membro del consiglio di governo, ha dichiarato che nessun monumento legato alle vicende della Seconda guerra mondiale è sulla lista dei monumenti che lo “Stato” del Kosova protegge.

Un altro monumento jugoslavo sulla ex piazza ” Fratellanza e Unità” a Pristina, sarà sostituito da un monumento al comandante UCK ucciso, Adem Jashari.

La sistematica e pianificata opera di distruzione dei Monumenti e Memoriali che ricordano il sacrificio dei combattenti serbi, albanesi e delle altre minoranze del Kosovo Methoija, contro il nazifascismo nella Seconda Guerra mondiale, può dare un idea  della reatà vergognosa che esiste oggi in quella provincia, possono essere utili alcuni elementi di storia, che fanno capire da dove vengono le forze terroriste dell’UCK, i cui capi sono oggi ministri e politici vezzeggiati e protetti dall’occidente, e quali sono i loro maestri nella storia.

“…Quando la Germania invase la Jugoslavia nel 1941, il popolo kosovaro fu liberato dai tedeschi. Tutti i territori albanesi di questo stato, come il Kosova, la Macedonia occidentale e le regioni di confine del Montenegro furono riunificate con l’Albania propriamente detta. Furono ristabilite le scuole in lingua albanese, l’amministrazione del governo, la stampa e la radio solamente albanesi… (Da: http://www.klpm.org, uno dei siti UCK).

Il progetto nazi fascista della ” Grande Albania ”

Il Kosovo Metohija con la protezione di Hitler e Mussolini, divenne il cuore del progetto della Grande Albania; il nazifascismo permise loro la realizzazione dell’ideologia della Grande Albania, teorizzata fin dal 1878 dalla Lega di Prizren, che prevedeva l’unificazione delle aree albanesi situate nei Balcani, dal Kosovo Metohija, alla Macedonia occidentale, dal Montenegro meridionale alla Grecia settentrionale.

Dopo che la Germania ebbe invaso ed occupato la Jugoslavia nella primavera 1941, il grosso dell’attuale Kosovo-Metohija fu posto sotto il controllo del governo collaborazionista italo-albanese ed annesso all’Albania, occupata dall’Italia.

Il movimento nazionalista albanese kosovaro legato alla Grande Albania, pianificò l’assassinio dei civili serbi del Kosovo e si appropriò delle loro terre e case. Molte donne serbe del Kosovo furono sistematicamente violentate; così come sacerdoti ortodossi  del Kosovo arrestati, torturati e uccisi. Chiese ortodosse e monasteri serbi furono attaccati e distrutti. Monumenti della cultura serba, cimiteri e tombe furono profanati e demolite.

La prima milizia kosovara locale di circa 1000 uomini, fu la “Vulnetari”, più che altro con compiti di polizia locale.

Poi il movimento nazionalista per la Grande Albania formò nel Kosovo le forze militari del Balli Kombétari (Unione Nazionale, i Balisti,  Partito Nazista Albanese), il Comitato albanesi del Kosovo ( esuli e rifugiati all’estero), e il 17 aprile 1944 la SS-Divisione Skanderbeg  la (21° “Waffen-Gebirgsdivision SS” ) composta da 11.400 effettivi, due terzi dei cui membri erano kosovari albanesi musulmani.

La Divisione Skanderbeg aveva capi tedeschi e ufficiali e truppa kosovaro-albanesi, In generale, la politica tedesca era quella di organizzare unità militari volontarie fra i simpatizzanti nazisti dei paesi occupati. Fra tutte le nazioni occupate, solo i serbi, i greci e i polacchi rifiutarono di formare unità volontarie naziste. Piuttosto che unirsi ai nazisti, come avevano fatto molti albanesi del Kosovo, i serbi organizzarono la più grande resistenza antinazista in Europa, dopo quella sovietica. Sia i partigiani comunisti, la grande maggioranza, che i monarchici cetnici, di cui molte migliaia si incorporarono poi nell’AVNOJ, erano principalmente serbi, e combatterono i tedeschi e i loro alleati locali in tutta la Jugoslavia. I tedeschi reclutarono gli uomini della divisione Skanderbeg per combattere questi gruppi di resistenza, ma gli albanesi della Skanderbeg non avevano interesse ad affrontare soldati; essi volevano principalmente terrorizzare i civili serbi, zingari ed ebrei locali. Molti di questi albanesi kosovari avevano prestato servizio in precedenza nelle divisioni SS bosniaco-musulmane e croate, note per i loro massacri di civili. La prima operazione della divisione Skanderbeg  nota come “Einsatztruppen” fu un’incursione contro gli ebrei, e la seconda fu lo sterminio del villaggio serbo di Velika, dove più di 400 serbi furono uccisi.

Estremisti kosovari albanesi musulmani giocarono un ruolo attivo anche nella persecuzione degli ebrei. Infatti kosovari albanesi incorporati come truppe delle SS naziste, partecipavano normalmente al rastrellamento degli ebrei del Kosovo che furono poi uccisi a Bergen Belsen. Si è stimato che 550 ebrei vivessero in Kosovo al momento dell’invasione nazista; 210 di essi, ossia il 38 per cento, furono uccisi.

“…La popolazione serba in Kosovo deve essere cacciata il prima possibile. I coloni serbi vanno ammazzati…”. Così si esprimeva il leader fascista albanese Mustafa Kruja, nel giugno 1942.

Mentre un altro capo albanese-kosovaro, Ferat-Bej Draga diceva: “…E’ arrivato il momento di sterminare i serbi. Non rimarrà alcun serbo sotto il sole del Kosovo…”.

Sotto l’ occupazione tedesca dal 1943, il terrore fu continuato dal famigerato Kosova Regiment ( Reggimento Kosova ), devastando le zone da Pec a Prizren e Djakovica, e in tutto il Kosovo e Metohija. Gli storici hanno stimato una cifra tra i 30.000 e 40.000 Serbi uccisi in Kosovo. Oltre ad un numero sconosciuto di morti nei Campi di lavoro nazisti a Pristina e Mitrovica o uccisi dalle rappresaglie tedesche contro le azioni dei partigiani. Ed in circa 100.000 gli espulsi.

La pulizia etnica e l’esodo dei Serbi di quegli anni fu superato soltanto nel 1999, dopo la fine dei bombardamenti NATO, che costrinse oltre 230.000 serbi, rom, gorani, albanesi jugoslavisti, ebrei, ashkali e di altre minoranze alla fuga.

Tutto ciò fu possibile, soprattutto grazie alla leadership politica e militare della “Seconda Lega di Prizren”, costituita il 16 settembre 1943 da Xhafer Deva, un albanese kosovaro, in continuità ideale con la Lega di Prizren, fondata a fine ottocento, in questa cittadina del Kosovo Methoija, che anche oggi in questi 15 anni di occupazione NATO, è stata una delle roccaforti dei terroristi dell’UCK, terrorizzando, assassinando i serbi del posto ( un dato su tutti: dei 20.000 serbi che vivevano lì fino al 2000, oggi ne restano meno di dieci), radendo anche al suolo l’antico monastero ortodosso.

Nell’estate del 1999, quando i Tedeschi sono entrati a Prizren per la prima volta dopo la II Guerra mondiale, un corrispondente della NBC ha riportato: “…L’altra sera ero a cena con una gentile famiglia di kosovari musulmani, quando il discorso e’ caduto sulle truppe NATO tedesche che entravano in città per farne il quartier generale del loro distretto di peacekeeping, il capofamiglia, un uomo abbastanza anziano da ricordare l’ultima volta che le truppe germaniche erano entrate a Prizren, disse che si sentivano tutti al sicuro ora. ‘I soldati tedeschi sono eccellenti’, egli disse. Poi aggiunse: “Lo so ben io, ero uno di loro”. Allora ha sollevato il braccio in un saluto nazista, ha detto ‘heil’ e si e’ messo a ridere tutto contento…” .  (NBC, 18 giugno 1999)

Persino le autorità italiane in Kosovo parvero alquanto spiazzate dal terrore contro i serbi, e occasionalmente intervennero per prevenire attacchi albanesi, per lo meno nelle aree urbane. Cosi’ scrive lo storico serbo jugoslavo Smilja Avramov: “…Le truppe italiane furono dislocate nelle città del Kosovo e agivano come forza contenitrice…”. Carlo Umiltà un ausiliario civile del Comando delle forze di occupazione italiane, descrisse diversi episodi in cui le truppe italiane aprirono il fuoco sugli albanesi per evitare massacri di serbi. A causa della scarsità di forze e dell’alleanza de facto fra albanesi e forze dell’Asse, questi tentativi di contenimento costituirono ben poca cosa. Tuttavia, gli occupanti italiani riferirono il loro disgusto per le azioni degli albanesi alle autorità di Roma. L’esercito italiano riferì che gli albanesi “stavano dando la caccia ai serbi”, e che “…la minoranza serba viveva in condizioni veramente miserevoli, continuamente perseguitata dalla brutalità degli albanesi che alimentano l’odio razziale…“. Carlo Umiltà ha descritto alcune delle atrocità nelle sue memorie e osserva che “…gli albanesi stanno sterminando gli slavi…”. Al diplomatico italiano si aggiungono le parole di Hermann Neubacher, il rappresentante del Terzo Reich per l’Europa sud-orientale: “…Gli schipetari avevano fretta di espellere il maggior numero possibile di Serbi dal paese…“.

I tedeschi si arresero nel 1945, ma i resti dei gruppi nazisti e fascisti kosovaro-albanesi continuarono a combattere il governo jugoslavo ancora per sei anni, fino al 1951, e vi fu ancora una grande ribellione durata dal 1945 al 1948 nella valle della Drenica sotto il comando di Shabhan Paluzha.

Corsi e ricorsi della storia, è proprio in questa valle, che e’ stata l’epicentro del reclutamento UCK nel ’98-’99, che sono avvenuti gli scontri più duri tra l’Esercito Jugoslavo e i terroristi dell’UCK.

Ciò che è avvenuto in Kosovo durante la Seconda Guerra Mondiale fu un processo massificato  e pianificato di persecuzioni che potrebbe essere definito come genocidio. Le ricostruzioni relative alla seconda guerra mondiale hanno molto occultato il ruolo degli estremisti albanesi del Kosovo nell’eccidio contro i serbi del Kosovo e il contributo dei kosovari albanesi all’Olocausto. Ma il passato nazifascista del Kosovo rimane una storia documentata e agli atti della storia.

Ed è in queste radici e patrimonio che lo stesso UCK e la sua dirigenza hanno fondato il processo di secessione del Kosovo di oggi.

A cura di Enrico Vigna per KOSOVO NOTIZIE,

Forum Belgrado Italia  –   Luglio 2014