Lettera aperta Al Signor Sindaco di Ragalna e.p.c. Ai Consiglieri Comunali

anpi

Abbiamo appreso dal quotidiano locale che un gruppo di necrofili, la fondazione Alleanza Nazionale, si propone di dedicare a Giorgio Almirante le vie dei comuni pedemontani dell’Etna, scelta sciagurata in se, ma ancora più insensata se si riflette come molti di questi comuni, da Pedara, a Mascalucia, a Castiglione hanno conosciuto, primi in Italia, la barbarie dei nazisti in fuga, quei nazisti che saranno gli alleati ed il modello del sunnominato. In ogni caso le cronache asseriscono che una tale impresa gode del patrocinio di alcuni, innominati, comuni etnei. Certamente del comune di Ragalna il cui stemma comunale affianca il lodo di Alleanza Nazionale ed il volto del glorificando sulla pubblicità, in prima pagina, del dorso Catania de “La Sicilia”.
L’ANPI Provinciale ha manifestato la sua critica ed il suo sdegno in un comunicato che le alleghiamo, ma occorre, in assenza di ogni risposta, chiedere quali siano le ragioni di questo patrocinio. Lei, forse, saprà che il suo comune, come ogni altro, rappresenta una articolazione della Repubblica la cui costituzione vieta, nelle sue disposizioni finali, la ricostruzione del partito fascista e punisce, con le sue leggi, l’apologia del fascismo, Almirante, sia nella clandestinità che in forme palesi e/o occulte, a questo a lavorato, e allora come siamo arrivati ad una pubblica apologia del fascismo da parte di un comune, qualcuno, a sua insaputa, si è impadronito dello stemma comunale? E’ se si, chi ha compiuto un tale arrogante reato? Ovvero Lei lo ha concesso, per amicizia, complicità, sudditanza, servilismo verso una potente famiglia ( La Russa) che a Ragalna usa villeggiare?
Nell’uno e nell’altro caso occorre che Lei a tanto offesa ponga rimedio. Nel primo caso, (a sua insaputa) dichiarando falsa l’attribuzione di un patrocinio mai concesso e denunciando alla magistratura l’avvenuta usurpazione, nell’altro, chiedendo pubblicamente scusa ai cittadini e alla Repubblica, resta soltanto un particolare: chi ha pagato l’inserzione pubblicitaria su “La Sicilia” ? Se fosse stata l’amministrazione comunale, distogliendo fondi pubblici per fini privati, al di là di eventuali reati, Lei dovrebbe, assieme alle scuse, rifondere personalmente il danno provocato alle già misere finanze comunali.
Attendiamo una sua cortese ed urgente risposta.

Catania 3/9/2014

L’ANPI Provinciale Catania

Riina sul generale dalla Chiesa: “Gli svuotarono cassaforte” da: antimafia duemila

riina-dalla-chiesa-seppiadi AMDuemila – 2 settembre 2014

Palermo. Alla vigilia dell’anniversario dell’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa torna il mistero della cassaforte. “Questo dalla Chiesa ci sono andati a trovarlo e gli hanno aperto la cassaforte e gli hanno tolto la chiave. I documenti dalla cassaforte e glieli hanno fottuti”. A parlare è il boss Totò Riina che, intercettato dal carcere di Opera, racconta al compagno di ora d’aria, Alberto Lorusso, di quando venne svuotato il forziere di villa Pajno, la residenza palermitana del generale. “Minchia il figlio faceva … il folle. Perché dice c’erano cose scritte”, continua Totò Riina nella conversazione intercettata il 29 agosto del 2013 e finita agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia. “Ma pure a dalla Chiesa gli hanno portato i documenti dalla cassaforte?”, chiede Lorusso al boss. “Sì, sì – risponde il capo dei capi – Loro quando fu di questo … di dalla Chiesa … gliel’hanno fatta, minchia, gliel’hanno aperta, gliel’hanno aperta la cassaforte … tutte cose gli hanno preso”.
Poi accenna alla cassaforte del suo ultimo covo “Li tenevo in testa” dice a Lorusso, sostenendo che nella sua cassaforte non ci fossero documenti.

Fonte ANSA

Abbassato il livello protezione ad Antonio Ingroia da: antimafia duemila

ingroia-antonio-big7E intanto Riina parla anche di lui a Lorusso

di Aaron Pettinari – 2 settembre 2014
“Cosa nostra non dimentica. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante”. A dire queste parole altri non era che Giovanni Falcone, nel maggio 1992, nella sua ultima intervista per l’ inserto napoletano di cultura di Repubblica. “Corleone non dimentica” lo ha ricordato poco meno di un anno fa anche anche Totò Riina, parlando al suo compagno di passeggiate Alberto Lorusso. Allora si riferiva al sostituto procuratore di Palermo Antonino Di Matteo ma nella lista dei “nemici” di Cosa nostra figurano anche altri nomi di magistrati che hanno condotto o conducono ancora oggi importanti inchieste in prima linea. In questo elenco figura anche l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, oggi avvocato e leader del movimento Azione civile. Cosa nostra non dimentica ma forse lo Stato sì tanto che ad Ingroia è stato abbassato il livello di protezione passando dal secondo al terzo livello. Ciò significa che diminuirà il numero di agenti che avranno il compito di scortarlo durante i suoi spostamenti.

E dell’ex pm ha anche parlato recentemente il Capo dei capi, Totò Riina che, sempre dal carcere Opera di Milano in merito alle inchieste e riferendosi ad Ingroia diceva: “Loro lo sanno che Berlusconi non è colluso con la mafia”.
Non è ancora stata resa nota la motivazione per cui si è deciso di adottare questo nuovo livello ma se si considerano le minacce ricevute in passato ecco che la decisione può apparire quantomeno discutibile. Nel febbraio 2013 una lettera minatoria anonima era stata spedita presso la sede del partito dei Comunisti italiani. “Ingroia comunista di merda ritirati (si era sotto elezioni, ndr) o ti facciamo fare la fine di Falcone e Borsellino. 1000 kg di Tnt-T4 sono pronti…”.
Oggi Ingroia non è più magistrato ma la sua battaglia affinché venga scoperta la verità sulle stragi non si è esaurita anche se si è spostata in altri campi.
“Se non avremo condizioni diverse rispetto al modo di essere del nostro Stato avremo sempre silenzi ed omertà – aveva ribadito quest’estate al convegno organizzato dalla nostra testata a 22 anni dalla strage di via D’Amelio – Verità e democrazia camminano assieme e se è vero, come è vero, che siamo un Paese senza verità, ciò vuol dire che siamo un Paese senza democrazia. E il cambiamento parte dalla società civile dobbiamo sostenere questi magistrati ma non basta il tifo e il sostegno. In quell’aula bunker in cui si celebra il processo trattativa le gabbie sono vuote perché molti dei veri colpevoli di quelle strati non ci sono in quell’aula. E se non ci sono è perché sono all’esterno dell’aula bunker a circondare quel luogo, quei magistrati quei pm e quei giudici. Sono i membri di quella parte di Stato colpevole che non vuole il processo. Perché se è vero che non abbiamo uno Stato complice ma assassino è ovvio che questo pretende la propria impunità e la propria improcessabilità. E quel processo non si potrà mai ottenere veramente finché non cambia lo Stato”.

“Il lavoro cambierà totalmente” Fonte: Il Manifesto | Autore: Antonio Sciotto

Articolo 18. Renzi accelera sulla riscrittura dello Statuto, ma non rivela i progetti sulla giusta causa. Sacconi (Ncd) preme per abolire la storica tutela, Angeletti (Uil) apre alla riforma: «Con Monti lo abbiamo già modificato»«Alla fine dei Mille giorni il diritto del lavoro sarà total­mente tra­sfor­mato e l’Italia sarà un Paese sem­plice, in cui inve­stire o non inve­stire». Una pro­messa, quella del pre­mier ieri in con­fe­renza stampa, indi­riz­zata non solo al pub­blico ita­liano (ormai sem­pre più impa­ziente per una ripresa che non arriva), ma soprat­tutto all’Europa, alla Ue e alla Bce: con Angela Mer­kel e con gli altri part­ner dell’Unione, con Fran­co­forte, Mat­teo Renzi dovrà con­fron­tarsi nelle pros­sime set­ti­mane, da lea­der del seme­stre euro­peo. Ma per chie­dere più «fles­si­bi­lità» sui conti, dovrà por­tare sul tavolo le famose «riforme» più volte invo­cate: quindi sulla delega del Jobs Act si dovrà acce­le­rare, prima degli stessi 1000 giorni.

Per Renzi, che vor­rebbe pas­sare alla sto­ria come il poli­tico che “sblocca” l’Italia, appunto euro­peiz­zan­dola, il faro da seguire non può che essere quello della “capo­classe”: «Dob­biamo ren­dere il nostro mer­cato del lavoro come quello tede­sco. La Ger­ma­nia è un modello in par­ti­co­lare su que­sto – ha spie­gato ieri – Quando ci ren­de­remo conto che un impren­di­tore non può morire di pastoie buro­cra­ti­che per assu­mere una per­sona, l’Italia sarà final­mente un paese normale».

Il pre­si­dente del con­si­glio con­ferma quindi di voler rifor­mare in modo pro­fondo lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori, e in quello che non sarà solo un maquil­lage rischia di finire male, quindi, anche l’articolo 18. Ma per il momento il pre­mier con­ti­nua a glis­sare, insi­stendo con la for­mula che «non è quello il pro­blema»: «Il dibat­tito estivo sull’articolo 18 è un ever­green», ha detto con una bat­tuta, rispon­dendo ai giornalisti.

«In Ita­lia i casi che ven­gono risolti con l’articolo 18 sono circa 40 mila – ha pro­se­guito Renzi – e per l’80% fini­scono con un accordo. Dei restanti 8000, solo 3000 circa vedono il lavo­ra­tore per­dere. Quindi noi stiamo discu­tendo di un tema che riguarda 3000 per­sone l’anno in un paese che ha 60 milioni di abi­tanti. Il pro­blema non è l’articolo 18, non lo è per me e non lo sarà».

Eppure le pres­sioni per modi­fi­care l’articolo 18 sono forti. Ieri Mau­ri­zio Sac­coni, cam­pione della bat­ta­glia per conto dell’Ncd, ha chie­sto una cor­re­zione alla delega che pre­sto verrà discussa in Par­la­mento (e pro­prio dalla Com­mis­sione Lavoro del Senato, che lui stesso pre­siede): «Il pre­si­dente del con­si­glio rico­no­sce la neces­sità di riscri­vere lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori, cri­te­rio che non è oggi com­preso nella legge delega e che dovrà quindi essere intro­dotto», nota l’ex mini­stro del Lavoro.

L’Ncd mira a «pro­durre un nuovo Testo Unico il cui con­te­nuto fon­da­men­tale è la disci­plina del con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato. La rego­la­zione del recesso non inte­ressa solo i pochi casi di con­ten­zioso, ma tutti i datori di lavoro che hanno più di 15 dipen­denti e i mol­tis­simi disoc­cu­pati per­ché influenza la pro­pen­sione ad assumere».

Apre alle riforme la Uil, con Luigi Ange­letti: «Per noi è una cosa pos­si­bile – ha spie­gato – Fac­cio osser­vare che anche con il governo Monti abbiamo, in qual­che modo, modi­fi­cato l’articolo 18. I sin­da­cati sono dei rifor­mi­sti per definizione».

Una «solu­zione» per rifor­mare l’articolo 18, toglien­dolo a una cor­posa fetta di lavo­ra­tori ma senza abo­lirlo del tutto, la offre Con­fimi Impresa (Con­fe­de­ra­zione Indu­stria mani­fat­tu­riera ita­liana e dell’impresa pri­vata): «No all’abolizione dell’articolo 18, sì invece allo spo­sta­mento della soglia della sua appli­ca­zione dai 15 addetti attuali ai 35 – dice il pre­si­dente Paolo Agnelli – Que­sta modi­fica por­te­rebbe alla fine delle paure della cre­scita per le pic­cole e medie imprese sotto i 15 dipen­denti; alla fine dei motivi di nani­smo di molte imprese; a eli­mi­nare l’uso fasullo dei co.co.pro; alla dimi­nu­zione del lavoro nero per gli ecce­denti le 15 unità, al ter­mine dell’utilizzo delle false par­tite Iva».

Dal fronte del Pd, il pre­si­dente della Com­mis­sione Lavoro Cesare Damiano (che a sua volta affron­terà que­sto nodo nell’iter del ddl delega in Par­la­mento), cerca di spo­stare il dibat­tito dall’articolo 18 ai tanti con­tratti pre­ca­riz­zanti: «Gli ultimi dati Isfol danno ragione alla scom­messa che come Pd abbiamo fatto insieme al mini­stro Poletti: far aumen­tare le assun­zioni con l’apprendistato e il tempo deter­mi­nato senza can­ni­ba­liz­zare il tempo inde­ter­mi­nato. Nel secondo tri­me­stre 2014, il tempo deter­mi­nato regi­stra un +3,9%, l’apprendistato un +16,1% e il tempo inde­ter­mi­nato un +1,4%. Chie­de­remo al governo, nella delega, di disbo­scare la giun­gla delle moda­lità di impiego frutto della pas­sata sta­gione di deregolazione».

Droni, marò e parà italiani contro pirati e shabab somali di Antonio Mazzeo

Nuova e pericolosa escalation militare italiana in Corno d’Africa. Secondo quanto pubblicato dalla rivista specializzata Analisi difesa, meno di un mese fa due velivoli-spia a pilotaggio remoto del 32° Stormo dell’Aeronautica militare, di stanza ad Amendola (Foggia), sarebbero stati schierati a Gibuti nell’ambito della missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”. I velivoli però opererebbero presumibilmente anche a favore delle forze governative somale in lotta contro le milizie di Al Shabab. I droni italiani sarebbero del modello Predator A “Plus”, utilizzati dall’Aeronautica nello scacchiere di guerra afgano, in Libia e nel Mediterraneo contro le imbarcazioni dei migranti. Realizzati dalla società statunitense General Atomics, i Predator possono volare a una velocità di crociera di 160 Km/h, con un’autonomia di 24 ore e sino a 926 km di distanza dalla base di partenza; sono dotati di sofisticati radar e sensori elettro-ottici che consentono ampi interventi di ricognizione, sorveglianza e “acquisizione obiettivi”. A Gibuti i due velivoli opererebbero attualmente dallo scalo aereo di Chabelley, località a sei miglia e mezzo di distanza a sud ovest della capitale. Dal settembre 2013 da Chabelley operano pure cinque droni killer Predator “MQ-1 Reaper” delle forze amate Usa, impiegati per i bombardamenti in Yemen e Somalia. “A differenza dei velivoli statunitensi quelli italiani continuano a operare disarmati dal momento che Washington non ha ancora autorizzato la cessione dei kit di armamento all’Aeronautica militare”, scrive Analisi difesa. Dei Predator tricolori, uno solo sarebbe stato assegnato all’Operazione “Atalanta” per raccogliere immagini e dati sulle imbarcazioni dei “pirati” diretti a intercettare e abbordare i mercantili in transito in acque somale. “Il secondo Predator viene mantenuto in riserva per rimpiazzare il drone gemello o forse per compiti diversi da quello antipirateria”, spiega la rivista militare. “Oltre a guidare la missione Atalanta in Corno d’africa, l’Italia detiene infatti anche il comando della missione di addestramento EUTM Somalia che a Mogadiscio addestra e offre consulenza alle forze dell’esercito somalo. Non si può escludere che uno dei  Predator italiani possa venire impiegato per fornire informazioni sui movimenti militari dei miliziani qaedisti Shebab”.

EUTM Somalia (European Union Training Mission to contribute to the training of Somali National Security Forces) venne lanciata nel 2010 dall’Unione europea; oggi è condotta in stretto collegamento con il Comando militare statunitense per il continente africano (US AFRICOM) ed AMISOM, la missione dell’Unione africana che vede schierati in Somalia più di 17.000 uomini di Uganda, Kenya, Burundi, Sierra Leone e Nigeria. Ad EUTM Somalia partecipano militari di dieci Paesi (Italia, Germania, Svezia, Ungheria, Spagna, Belgio, Finlandia, Olanda e Portogallo e Serbia); l’Italia fornisce circa il 50% del personale (78 unità), tra cui il comandante e il vicecomandante della missione, i paracadutisti del 186° reggimento della Brigata “Folgore” e gli addestratori dell’Esercito e dell’Arma dei Carabinieri. I programmi gestiti a Mogadiscio dagli istruttori della missione EUTM Somalia e dai consiglieri militari statunitensi puntano in particolare all’addestramento dei militari somali in attività anti-insurrezione e anti-terrorismo e al “combattimento in ambiente urbano”. Nell’arco del 2014 è previsto complessivamente l’addestramento di 1.850 militari. Altri 32 istruttori dell’Arma dei Carabinieri, affiancati da un team dell’Unione Africana composto da militari di Ghana e Nigeria, operano da febbraio presso l’Accademia di Gibuti per “formare” la polizia locale. Sempre a Gibuti, in pieno deserto, è operativa una base logistica italiana di 5 ettari, utilizzata dai distaccamenti di Fucilieri di Marina in transito per gli imbarchi sui mercantili con compiti di scorta antipirateria e dai reparti dell’Esercito diretti a Mogadiscio. Realizzata dal 6° Reggimento Genio pionieri di Roma, l’infrastruttura è stata inaugurata ufficialmente il 27 ottobre 2013 alla presenza del capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli. “Questo avamposto è la prima vera base logistica operativa permanente delle forze armate italiane fuori dai confini nazionali e sorge in un’area destinata ad essere più importante e strategica di Suez e di Gibilterra”, ha dichiarato Binelli Mantelli. Il mantenimento della base costa ai contribuenti italiani non meno di tre milioni di euro l’anno ed è presidiata attualmente da un plotone del 3° reggimento dei Bersaglieri.

La durata della missione dei droni dell’Aeronautica militare a Gibuti non è nota ma di certo si estenderà per i prossimi sei mesi, periodo in cui la flotta navale dell’’Operazione “Atalanta” sarà sotto il comando italiano. Approvata nel dicembre 2008 dal Consiglio dell’Unione europea per contrastare la pirateria somala nel Mar Rosso, nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, la missione navale vede attualmente la presenza del cacciatorpediniere lanciamissili “Andrea Doria” (nave ammiraglia con 208 unità), quattro fregate (una olandese, due spagnole e una tedesca), una rifornitrice di squadra tedesca e uno staff formato da 34 ufficiali e sottufficiali appartenenti a 12 differenti nazioni (Belgio, Croazia, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Olanda, Portogallo, Romania, Serbia e Spagna). Le operazioni antipirateria della Marina militare italiana sono state finanziate quest’anno con 50 milioni di euro. Un impegno oneroso che non è giustificato dal reale pericolo rappresentato oggi dalla pirateria in Corno d’Africa. Secondo i dati diffusi dall’International Maritime Bureau, nei primi 6 mesi del 2014 gli assalti o le rapine armate ai danni di navi mercantili sono stati 116, contro i 138 registrati nello stesso periodo del 2013. Dieci soli, però, sono stati imputati ai pirati somali.

Ai costi delle missioni anti-pirateria si aggiungono i 25 milioni di euro per la partecipazione italiana ad EUTM Somalia e alle altre iniziative dell’Unione europea per la “Regional maritime capacity building” in Corno d’Africa e nell’Oceano indiano, per il funzionamento della base militare a Gibuti e per l’impiego di personale militare in attività di addestramento delle forze di polizia somale. Nell’ambito dell’accordo sottoscritto tra le forze amate italiane e quelle di Gibuti, è stata prevista inoltre la consegna a titolo gratuito al paese africano di 6 blindati 4×4 “Puma” e di una decina di obici semoventi M-109L da 155 millimetri prodotti da Oto Melara, dismessi in Italia dopo l’acquisto dei nuovi semoventi Pzh-2000. I mezzi da guerra hanno fatto la loro comparsa nelle strade di Gibuti lo scorso 27 giugno, giorno in cui ricorreva l’indipendenza del piccolo Stato africano. Sempre a fine giugno a Mogadiscio, il comando del team italiano operativo in Somalia ha donato al locale Ministero della difesa tre veicoli minivan per consentire una “migliore mobilità” ai militari somali impiegati nel conflitto che impera da tempi immemorabili nell’ex colonia italiana.