Mafia, Riina intercettato: non trattai con Mancino da: antimafia duemila

mancino-nicolaAggiornam“L’agenda rossa l’hanno presa i servizi”

di Miriam Cuccu – 2 settembre 2014
L’incontro con Andreotti e il “bacio” mai dato, i rapporti con la politica e nello specifico con l’ex premier Berlusconi, di cui confida all’”amico” pugliese Alberto Lorusso ampie considerazioni. Le intercettazioni del “capo dei capi” nel carcere di Opera, dove si confidava con il mafioso della Sacra Corona Unita nell’ora d’aria, raccontano una storia vista da un inedito punto di vista: quello di chi ha preso possesso della Cupola di Cosa nostra plasmandola a sua immagine e somiglianza.

Berlusconi? “Gli davano soldi e quello costruiva”
È il 20 settembre 2013 il giorno in cui viene registrata la voce del boss corleonese, che accenna a Lorusso le ragioni dell’esponenziale crescita finanziaria di Berlusconi: “Quello costruiva, per i fatti suoi” commenta, poiché “forse erano amici, gli davano soldi, gli davano soldi, ci mettevano soldi”. E Riina aggiunge: “Dicono questo, dicono. Lui investiva lì, loro là erano…”. Riina di seguito racconta che Giovanni Brusca, insieme al cognato Leoluca Bagarella cercava un incontro con Mangano, lo stalliere di Arcore verso il quale il capo dei capi nutriva un profondo risentimento. “Se io ero fuori gli avrei detto: – a Brusca e Bagarella, ndr – disonorati che non siete voialtri pure, più disonorati di lui che ci andate a cercare a questo…”. “Giovanni Brusca – continua il boss di Corleone – era… a parlare con questo stalliere se li faceva incontrare con Berlusconi… per cinque minuti… e ha parlato con questo… questo, questo qua, amico di questo Berlusconi…”. Si trattava di Marcello Dell’Utri, oggi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. “Dell’Utri sì… forse Dell’Utri che li faceva incontrare. – conferma Riina –  Quando lui li incontrava, dice che aveva incominciato con Stefano (Bontate, ndr) prima”. Quindi si accanisce su Brusca: “Un pezzo di… non lo so, una persona che non ne capiva di queste cose. Questo Brusca era un bambino, un bambino, suo padre ci teneva, ci teneva, lui era uno spione, uno spione. Uno spione… si è rivolto a questi catanesi questo Brusca, a questi catanesi, a questi di Firenze… Gli ho detto: ma dov’è… ma che ci immischi, che ti immischi? Ha preso un proiettile, un proiettile… ma dove sei andato a trovarlo, dove li andavano a trovare, come facevano questi, questi? Questi proiettili… la Finanza che… Giovanni Brusca con questo catanese facevano, facevano, gli facevano quattro bordelli, perché poi gli facevano bordelli perché io ero carcerato’’.

“Mai trattato con Mancino”
Con Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno imputato per falsa testimonianza al processo sulla trattativa Stato-mafia, Riina rifiuta qualsiasi collegamento: “Ma che vogliono sperimentare che questo Mancino trattò con me? Loro vorrebbero così, ma se questo non è avvenuto mai!”. Riina passa poi a parlare di Massimo Ciancimino, ugualmente imputato ma anche testimone chiave nello stesso processo: “Penso che vuole i soldi” commenta il boss, riferendosi al fatto che Ciancimino parli per interesse. Il figlio di don Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, aveva in precedenza spiegato ai magistrati che lui, il padre e il colonnello Mori avevano convinto Provenzano a far arrestare Riina: “Tu, Ciancimino, sei un folle in catene!” sbotta il boss a Lorusso, perché “c’è un pentito (Balduccio Di Maggio, ndr) c’è uno che è andato con gli sbirri là con il furgone”. Eppure definisce l’amico Binnu “il re dei carabinieri”, da lui accusato di aver avuto ripetuti contatti con esponenti delle istituzioni. Riina se la prende anche con Matteo Messina Denaro, ultimo superlatitante di Cosa nostra, per aver intrattenuto rapporti con lo Stato. Il boss di Castelvetrano, a parere del “capo dei capi”, era “l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto, aveva avuto la scuola che gli avevo fatto io”, ipotizzando inoltre “che se n’è andato all’estero”. Il padrino si spinge fino a parlare dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, mai più ritrovata dopo la strage di via d’Amelio: “L’agenda rossa i servizi segreti gliel’hanno presa… Gliel’hanno presa ed è sparita”. Ma dei servizi segreti, il capo di Cosa nostra sostiene di non sapere niente.

Nuovi strali contro il fronte dell’antimafia
Riina non risparmia nemmeno il fronte dell’antimafia: della “signora di Firenze” Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione familiari vittime della strage dei Georgofili, parte civile nel processo trattativa, dice che “è accanita contro di me”. Ma gli ultimi inquietanti strali sono giunti, da parte del boss di Corleone, a don Luigi Ciotti, presidente di Libera: “Putissimu pure ammazzarlo” dice Riina a Lorusso in una delle conversazioni intercettate. Immediata la risposta del presidente Napolitano che ha inviato un messaggio di solidarietà. Non è la prima volta che ordini di morte da parte del capomafia fuoriescono dalle sbarre del carcere di Opera: in passato il pm Nino Di Matteo, che da pubblico ministero segue il processo trattativa a Palermo, è stato oggetto delle considerazioni di Riina su un attentato che si sarebbe dovuto pianificare per fargli fare “la fine del tonno”. Nei suoi confronti, però, nessuna parola di sostegno era giunta dal Presidente della Repubblica. Alessandro di Battista, esponente del M5s, scrive su Facebook a seguito delle minacce arrivate a Don Ciotti: “Perbacco, Presidente! In un colpo solo, oltre ad aver fatto il suo dovere, ci ha comunicato che ritiene plausibili le minacce di Riina. Insomma occorre prendere sul serio le parole dell’ex capo dei capi. Se sono plausibili le minacce a Don Ciotti sono plausibili le ammissioni sulla vicinanza di B. a Cosa Nostra – che Riina definisce “un vigliaccone” – e anche le minacce che sempre Riina ha rivolto più volte al giudice Di Matteo. Un capo dello Stato serio a questo punto – commenta Di Battista su Facebook – farebbe altre due telefonate: la prima al pm Di Matteo per esprimergli la stessa solidarietà espressa a Don Ciotti, la seconda al premier Renzi (e magari anche un sms alla Serracchiani), chiedendogli, gentilmente, se non sia il caso di interrompere la profonda e amorevole collaborazione con Berlusconi, un uomo che, pagando miliardi su miliardi alla mafia, ha contribuito alla sua crescita economica, strategica e organizzativa”.

L’ obiettivo è una soluzione democratica per tutto il Medio Oriente da: uiki

L’ obiettivo è una soluzione democratica per tutto il Medio Oriente

L’ obiettivo è una soluzione democratica per tutto il Medio Oriente

Negli ultimi 33 anni della lotta di liberazione kurda, il partito dei lavoratori e delle lavoratrici del Kurdistan (PKK) e il suo Presidente Abdullah Öcalan hanno dato risposte alle dinamiche sociali emergenti e si sono mossi sempre nella direzione di promuovere una società liberata. Il PKK ha sempre inteso la questione kurda come liberazione sociale, di tutti, senza nessuna discriminazione. Il testo di Öcalan Özgürlük Sosyolojis ( Sociologia della libertà)(1) è una guida per liberazione del Rojava e di tutto il Medio Oriente.

Fin nei più piccoli dettagli vengono indicati i passi che conducono alla liberazione. Attraversando la regione di Rojava, abbiamo incontrato molte persone che hanno avuto uno stretto rapporto con Abdullah Öcalan o con altre persone che hanno avuto a che fare con la storia del PKK.

Questi rapporti hanno prodotto dei cambiamenti nella società fondamentalmente feudale della regione. Particolarmente le donne hanno posto l’accento su questo fatto. Molte di loro da più di vent’anni conoscono le questioni e l’approccio dell’ideologia di liberazione della donna e cercano di tradurli in fatti concreti. Grazie agli stretti contatti con il movimento di liberazione kurdo, molti si sono uniti alla lotta del PKK e hanno combattuto nel Kurdistan del Nord. E’ sbagliato vedere il PKK unicamente come fenomeno del Kurdistan del Nord. Fanno parte di questo movimento migliaia di attivisti di Rojava.

Dopo l’arresto di Abdullah Öcalan nel 1999 e l’acutizzarsi della repressione del regime di Assad, vi è stata una fase di riorganizzazione. Nel 2004, dopo il massacro della popolazione curda di Qamişlo e la conseguente rivolta, è iniziata una fase di riorganizzazione sino alla formazione di gruppi armati di autodifesa. Poco prima era nato il partito di sinistra dell’Unità democratica (PYD), che ben presto è diventato una consistente forza politica della regione. I nuovi paradigmi del movimento di liberazione kurdo e particolarmente le idee di Abdullah Öcalan, ispirate tra l’altro dal teorico libertario Murray Bookchin, di confederalismo democratico e di autonomia democratica, sono iniziate a diventare un modello di orientamento.

Abdullah Öcalan, criticando sia la storia degli Stati sia del socialismo reale e dei movimenti di liberazione nazionali, tra cui anche il PKK, ha progettato un modello di società democratica, ecologica e non sessista in contrapposizione alle concezioni rivoluzionarie che si basano sul sovvertimento e sulla presa del potere. Öcalan ha parlato di una società etica e politica che si autoamministra democraticamente dalla base, e che si differenzia dalla consumistica società capitalistica standardizzata.
Alla luce di questo modello si sono formati in Siria i primi Consigli e Comitati ed è iniziata una radicale organizzazione su base democratica partendo dall’intera popolazione kurda. Poi, a partire dal 19 giugno del 2012, si sono liberate dal regime le città di Kobanê, Afrîn, Dêrik e tante altre località, e si è vista la forza di questa organizzazione.

Le basi militari sono state circondate e alle truppe governative è stata data la possibilità di ritirarsi. Solo a Derik vi sono stati degli scontri con alcune vittime. L’autoamministrazione ha impedito attacchi, distruzioni, atti vandalici e di vendetta come ci hanno riferito persone tra la gente di Derik.

La legittima autodifesa e la terza strada
Se osserviamo questa fase e la politica del movimento kurdo in Rojava possiamo vedere anche la trasformazione di un altro paradigma del confederalismo democratico: l’autodifesa e il primato di una soluzione delle questioni senza l’uso della violenza. Il movimento kurdo e in particolare il PYD hanno organizzato già prima della rivoluzione siriana la resistenza contro il regime di Assad. Si trattava di un mutamento democratico per impedire che ci fosse una militarizzazione del conflitto. Con lo scoppio della guerra, l´islamizzazione del conflitto e le le rivolte in Siria in un certo modo eterodirette, il movimento kurdo in Rojava ha deciso di intraprendere una terza via: né con il regime né con l’opposizione. Autodifesa si, guerra no, e sino ad oggi questa è la politica di questo movimento. Nei quartieri abitati dai sostenitori del regime, pertanto, sono tollerate ancora le unità governative e lo stesso vale per l’aeroporto. L’obiettivo è di raggiungere una soluzione democratica per tutta la Siria.

In tutta la regione di Rojava le comuni sono al centro dell’organizzazione della società

“La creazione di una piattaforma nella quale si possono esprimere – per quanto riguarda i processi decisionali – tutte le comunità religiose, le formazioni politiche sociali di ogni tipo e gli intellettuali, può essere considerata una democrazia partecipativa.”

Il confederalismo democratico mira all’autonomia della società: questo non significa che la prospettiva è quella di uno Stato che amministra la società, bensì una società politicizzata che prende le decisioni: ciò si contrappone alla modernità capitalistica attraverso una modernità democratica. Per rendere possibile questo, le comuni sono diventate il punto centrale del sistema sociale; la Comune è l’autoamministrazione della strada. Le decisioni prese in tutti i consigli del Rojava vedono la partecipazione di almeno il 40 per cento di donne nella discussione: si discute delle necessità dell’amministrazione, dell’approvvigionamento alimentare, dell´energia elettrica ma anche di problemi sociali come la violenza patriarcale, le liti tra le famiglie e in famiglia e tanto altro, e si cerca di trovare una soluzione.

Sono insediate nelle Comuni commissioni che si occupano di tutti i problemi sociali. Si tratta dell’organizzazione della difesa, della giustizia, delle infrastrutture, della gioventù fino all’economia e alla nascita di cooperative, gestite dalle Comuni. Possono essere panifici, sartorie o progetti nel campo dell’agricoltura. Commissioni all’ecologia si occupano della pulizia delle città e delle problematiche ambientali. Particolare attenzione viene posta al rafforzamento del ruolo della donna nella società, in modo da favorire una indipendenza economica delle donne.

In tutte le questioni la casa del popolo (Mala Gel) è a disposizione, sia come istituzione di appoggio sia come forma di giurisdizione di primo grado. L’idea di fondo è trovare accordi e compensazioni e indagare le cause della violazione della legge e proteggendo la persona colpita, trovare soluzioni. Ciò vale per i delitti in generale. Per quanto riguarda la violenza patriarcale che colpisce le donne, se ne occupa la casa della donna (Mala Jinan), nella quale si trova il Consiglio delle donne che rappresenta una struttura parallela del Consiglio misto (maschi e donne) della Comune.

Come noi stessi abbiamo potuto osservare, fanno parte delle Comuni persone dalle più svariate identità, principalmente arabi ed assiri. Il Mala Janin si occupa anche di problemi sociali ed è responsabile nella traduzione nei fatti degli obiettivi del movimento di liberazione della donna. Laddove è possibile si privilegia nei Consigli il principio del consenso generale. Le comuni mandano i loro rappresentanti nei consigli circoscrizionali e nei Consigli cittadini. Questa struttura si estende poi al Consiglio generale di tutta la regione di Rojava.


Autonomia democratica e Stato nazionale
E’ possibile la coesistenza dello stato nazionale con il Confederalismo democratico, nella misura in cui lo Stato non si occupa nelle questioni dell’autoamministrazione. 
Questi interventi devono sollecitare la società civile all´autodifesa..«2
Il confederalismo democratico è, dunque, una forma di auto-amminstrazione che si contrappone al modello statalista. Si tratta di un approccio di una permanente rivoluzione sociale che si rispecchi nella struttura sociale. Il superamento dello Stato nazionale è un obiettivo a lungo termine. Lo Stato sarà superato quando concretamente tutte le strutture saranno regolate in auto-organizzazione e auto-amministrazione. I confini nazionali e/o territoriali a quel punto non avranno più nessuna importanza.

L’auto-amministrazione del confederalismo democratico della società renderà superfluo lo Stato e lo Stato nazionale. Questo significa che la Comune, il Consiglio, la Comunità sono espressione del modello sociale e la Comune diventa il centro politico. La regione di Rojava ha scelto all’inizio come forma il modello cantonale svizzero con la larga autonomia delle regioni. Il cantone nasce idealmente dalla cooperazione dei Consigli politici autonomi. Laddove lo Stato nazionale si basa sull’omogeneizzazione sociale attraverso un processo di formazione identitaria, e da ciò scaturisce la sua attuazione anche con la coercizione, il confederalismo democratico è fondato sulla diversità e pluralità sociale. Una lunga traccia di sangue ha portato con sè lo Stato nazionale nel corso della storia. Esempi nella regione sono l’arabizzazione della Siria e la turchizzazione della Turchia. In Siria vivono arabi sunniti e sciiti, assiri, cristiani, caldei, kurdi yezidi, armeni, aramaici, ceceni, turcomanni e tanti altri gruppi etnici e religiosi.

Una rappresentanza di tutte queste formazioni sociali si ottiene con il sistema dei Consigli e una adeguata distribuzione. La Comune è la struttura dell’auto-amministrazione che vincola gli uni con gli altri e deve essere il centro dell’auto-amministrazione politica. Per alzare il livello organizzativo della società si organizzano corsi di formazione per i membri delle comuni che hanno come asse fondante l’autodeterminazione democratica, la liberazione della donna, la storia della Siria, la storia del Kurdistan, corsi in lingua kurda e altri aspetti sociali.
Abbiamo potuto constatare nel corso del nostro viaggio che la riuscita dipende da zona a zona. In molti settori vi sono Consigli arabi e in modo particolare gli assiri lavorano a stretto contatto con il movimento per la Società democratica (TEV-DEM). I ruoli più importanti sono ricoperti da 3 o 4 co-presidenti conformemente alle formazioni sociali nella regione.


Consiglio supremo, TEV-DEM e democrazia parlamentare.
Mentre la popolazione kurda già da decenni ha avuto a che fare con i concetti di liberazione della donna e di liberazione sociale, a riguardo vi sono naturalmente diversità nei tempi con altre etnie ed è ancora forte il desiderio di volersi organizzare nei partiti classici e non in Consigli. Questo problema crea una doppia struttura a Rojava. Da una parte va eletto un parlamento con elezioni libere sotto supervisione internazionale. Questo parlamento rappresenta una struttura parallela ai Consigli, che formerà un governo provvisorio, nel quale sono rappresentati tutti i gruppi sociali. Il sistema dei Consigli è, una sorta di parlamento parallelo. La strutturazione e la regolamentazione di questa collaborazione è attualmente oggetto di discussione.

La Comune colma la lacuna tra i Consigli del popolo e la popolazione.
Mamoste Abdulselam del TEV-DEM ci ha spiegato a Heseke il sistema delle Comuni. “Andava colmata la lacuna tra i Consigli e la popolazione. Per questa ragione abbiamo sviluppato il sistema delle Comuni. Ci sono 16 Consigli circoscrizionali. In ogni Consiglio siedono 15-30 persone. Circa 50 condomini formano una Comune”.
Ci sono 15-30 Comuni con 15-30 persone per ogni circoscrizione cittadina. Nel quartiere Mifte a Heseke ci sono 29 Comuni, il quartiere limitrofo ne ha 11. Ogni quartiere si basa su circa 20 comuni per circa 1000 persone. I 16 Consigli circoscrizionali si formano dalle Comuni. 101 persone siedono nel Consiglio cittadino di Heseke. In aggiunta vi sono 5 rappresentanti del PYD e 5 per ogni altro partito, 5 rappresentanti del Comitato delle famiglie dei caduti, 5 di Yekitiya Star, 5 rappresentanti della gioventù rivoluzionaria e 5 dei liberali. I Consigli circoscrizionali si incontrano ogni due mesi. 21 persone sono scelte come coordinatori. L’incontro di direzione avviene una volta al mese e può essere convocato anche in caso di necessità in seduta straordinaria. Almeno il 40% sono donne e almeno il 40% sono uomini. Le decisioni vengono prese con il principio del consenso. Si presta attenzione al fatto che non prenda la parola una sola persona. I co-presidenti sono su base elettiva, su proposta dei membri delle Comuni e poi votati.


L’impegno delle donne nelle Comuni
Sirin Ibrahim Ömer, una signora di 45 anni del quartiere di Hileli a Qamişlo ci ha informato, all’inizio della nostra permanenza a Rojava, dell’impegno svolto dalle donne nella Comune
.

“Siamo 60 donne attive nella Comune, una volta alla settimana facciamo formazione, leggiamo insieme libri e ne discutiamo. Due volte al mese facciamo visite ad altre donne e spieghiamo i compiti della rivoluzione. Molte di loro sono ancora influenzate dalla logica statale e non riescono a vedersi come persone che possono fare ed agire in politica. Hanno molto figli e a casa non mancano le liti. I bambini stanno per strada invece di andare a scuola. Noi ci occupiamo di questo. Abbiamo un comitato che si occupa delle famiglie che non hanno entrate economiche. Mettiamo a disposizione generi alimentari di prima necessità.

Il Comitato per la pace parla con le famiglie. Se si fa uso di violenza in famiglia, una donna può chiedere aiuto al Comitato. A Hileli viene disprezzato chi picchia la moglie, pratica oramai quasi in totale disuso. In alcuni quartieri è ancora diffusa, dove tra l’altro è normale che funzioni il televisore 24 ore su 24 con programmi turchi in lingua araba. E, questo era un grosso problema. Venendo a mancare la luce, si poteva pensare anche a qualcosa altro.

Molte donne sono obbligate a prendere marito da piccole, in modo da scoraggiare gravidanze fuori dalla coppia. Adesso, stanno capendo che l’istruzione fa bene e che possono avere una vita migliore.

Una volta alla settimana andiamo lì, raccogliamo anche piccole somme di danaro, un piccolo aiuto. Distribuiamo il giornale (Ronahi), che esce a scadenza settimanale. E’ un giornale molto economico, che tutti possono leggere. Esce in lingua araba e kurda. Adesso quando siamo insieme non facciamo più pettegolezzi come prima ma si discute degli sviluppi politici e dell’organizzazione delle donne. Conosciamo tutti nel quartiere”.

In molti quartieri ci sono le cosiddette case delle donne. Non sono case di rifugio delle donne che scappano come in Germania, ma luoghi dove le donne si incontrano, si istruiscono, discutono dei loro problemi e spesso sono offerti corsi di computer, di lingua e di cucito.


 Il compito principale delle case delle donne è combattere il sessismo sociale.
“Le donne vengono da noi, se hanno problemi. Non solamente le donne kurde, ma anche le donne arabe”, così ci dice una rappresentante della casa delle donne di Serê Kaniyê.
 Noi stessi siamo testimoni oculari di quanto affermato. Due donne arabe sono venute e chiedere aiuto. Dopo una separazione chiedono un risarcimento. “Grazie al sistema delle Comuni, conosciamo ogni singola famiglia, conosciamo la situazione economica di ogni singola famiglia e sappiamo chi picchia la mogli e i figli. Andiamo lì e parliamo con le parti in causa, sino a trovare una soluzione”. La rappresentante della casa delle donne di Serê Kaniyê fissa un appuntamento con le due donne per trovare una soluzione ai loro problemi.


La Comune – luogo dove si risolvono i problemi
La comune non è solamente un luogo di auto-organizzazione ma anche un luogo dove si affrontano e si risolvono problemi e conflitti sociali. Si tratta di problemi sociali nel quartiere, di dare una mano ai membri più poveri della Comune, della giusta distribuzione di materiale per il riscaldamento, di pane e di generi alimentari, di risolvere questioni di vicinato e dello uso della violenza verso i bambini e le donne. Quando ad esempio siamo stati a Derik in un incontro con i rappresentanti di una Comune, si stava trattando il caso di uan famiglia che aveva legato il proprio figlio. La famiglia deve essere osservata e controllata e se i maltrattamenti continuano, i bambini vengono portati in un luogo protetto.

Note:
1A. Öcalan: Democratic Confederalism, London 2011, S. 26
2 Ibd., S. 32

di Michael Knapp, Giornalista, TATORT Kurdistan / Germania

Cento anni di resistenza curda e lo stato islamico da: uiki

Cento anni di resistenza curda e lo stato islamico

Cento anni di resistenza curda e lo stato islamico

Quasi 100 anni fa, il Kurdistan è stato trasformato in una colonia internazionale dalle potenze coloniali dell’epoca, Francia e Inghilterra. Fin dall’accordo Sykes-Picot (1916) e poi il Trattato di Losanna (1923), che separava il popolo curdo sotto il dominio di quattro stati (Turchia, Iran, Iraq, Siria), il popolo kurdo è stato in guerra, in una forma o nell’altra. In migliaia si sono ribellati, hanno resistito, sono stati massacrati, impiccati, esiliati, assimilati e torturati. In breve, ai curdi non è stata data la possibilità di autodeterminarsi e non sono stati riconosciuti dal mondo come società o nazione distinta. Ciò in cui essi, e gli stati che hanno cercato di ridurli in schiavitù, sono stati catturati è la “Trappola curda”, istituita dai poteri dominanti del mondo.
Non voglio parlare di tutte le ribellioni curde o massacri perché vi sfinirei.

Di seguito verrà data un’idea della tragedia curda dei tempi moderni:

In Turchia (Kurdistan settentrionale) ci fu il massacro di Zilan (1921), il massacro di Sheikh Said (1925), il genocidio di Dersim (1938), il massacro di Maras (1978), e la ribellione del PKK (dal 1978) contro questi eventi. In totale, questi massacri hanno richiesto più di 300.000 vite.
In Iran (Kurdistan orientale), le ribellioni di Simko (1918 e 1926), di Qazi Muhammad e la breve durata della Repubblica curda di Mahabad (1946), e la rivolta del KDP-I del 1979, si sono concluse con la morte di almeno 50.000 persone e con lo sfollamento di massa.
In Iraq (Kurdistan meridionale) ci fu la ribellione di Barzani (1961-1970) e la rivolta del 1983 che si concluse con la campagna genocida “Al Anfal” (1986-1989), che costarono la vita a oltre 190.000 curdi.
In Siria (Kurdistan occidentale), centinaia di migliaia di curdi non sono stati riconosciuti dal governo come cittadini e, pertanto, non ebbero alcun diritto dal 1962 in poi. Il “cordone arabo” del 1965 sfollò coercitivamente centinaia di migliaia di curdi e insediò arabi nelle loro case, per “arabizzare” le terre curde. Dal 2004 vi è stata un’escalation costante di massacri curdi, che ha raggiunto l’apice con la guerra siriana e continua oggi nel nord della Siria (Kurdistan occidentale) mentre i curdi, ancora uccisi a centinaia, resistono contro lo Stato islamico (IS).

Perché il Kurdistan è importante

Ora i curdi affrontano un’altra alba, combattendo i terroristi internazionali nella forma dello Stato Islamico (IS). Ma perché il Kurdistan è così prezioso per le potenze regionali e internazionali, e perché la terza guerra mondiale sta avendo luogo sul suolo curdo?
Petrolio, acqua, sali minerali e importanza geostrategica sono tutti fattori rilevanti, ma in modo più significativo il Kurdistan e la regione circostante detengono gli indizi per le domande senza risposta sulla nostra civiltà.
E’ dal Kurdistan, la Mezzaluna Fertile e la Mesopotamia, che la maggior parte, se non tutte le rivoluzioni sociali, si sono sparse per il resto del mondo. Il primo problema sociale della disuguaglianza di genere e poi la disuguaglianza di classe, sono pure sorti qui.
In realtà Kurdistan, con il suo patrimonio etnico, religioso, ideologico, culturale e storico, è l’ingranaggio centrale e quindi microcosmo di tutto il Medio Oriente. In breve, chi controlla il Kurdistan controlla la regione. Questo è il motivo per cui il Kurdistan non è mai stato lasciato al dominio di una potenza e perché tutte le potenze coinvolte hanno cercato di mantenere il controllo. Da qui il motivo per cui la “trappola curda” è stata utilizzata da potenze internazionali per più di cento anni, al fine di indebolire, dividere e rendere dipendenti i curdi e i loro vicini.
Recente prova di questo è stata l’intervista di Barack Obama con il New York Times; in poche parole, egli dice al KRG e al governo iracheno: se non eseguirete le politiche degli Stati Uniti, porteremo avanti solo azioni limitate contro l’IS. Il presidente degli Stati Uniti continua a dire che il KRG deve la sua democrazia e la stabilità al sacrificio fatto dai soldati americani. Il significato sottointeso è: i curdi ce lo devono. Ciò che Obama omette è che i curdi del Kurdistan meridionale (Nord Iraq) costituiscono solo il 20% circa dei curdi e che i curdi che vivono sotto il dominio della Turchia, Iran e Siria non hanno ricevuto alcun sostegno da parte degli Stati Uniti, ma al contrario sono stati colonizzati dagli stati da loro sostenuti e dalle potenze occidentali.
L’inserimento del PKK nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea, ne è un esempio tipico, e il completo disinteresse verso la resistenza delle YPG contro l’IS e gli altri elementi regressivi in Siria è un altro. E ‘anche ironico che queste sono le due forze che hanno combattuto contro l’IS per aprire un corridoio sicuro per i rifugiati di Sinjar, salvando ad oggi oltre 50.000 vite.
La resistenza curda contro l’IS
L’IS è stato, senza dubbio, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, quando faceva parte dell’Esercito Siriano Libero, e si è formato nel vuoto creato dall’intervento imperialista. Esso continua ad essere sostenuto da Turchia, Arabia Saudita e Qatar, tutti alleati occidentali. Ma questo non significa che l’IS non abbia la propria agenda. Precedentemente noto come lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria, l’IS ha una storia di lotta di almeno dieci anni, che inizia con l’invasione americana dell’Iraq. Le sue radici ideologiche e politiche si trovano nell’interpretazione salafita dell’Islam, che è diventato sempre più politicizzato con la primavera araba, attirando giovani sunniti alienati e insoddisfatti. Inoltre lo Stato Islamico ha un desiderio genuino di diffondere l’Islam com’è stato vissuto, secondo loro, al tempo del Profeta Maometto.

Evidentemente, la loro è una lettura del Corano e della Sunnah letterale e distorta e non rappresenta la maggioranza dei musulmani in tutto il mondo. Ma questo tradizionalismo anacronistico è anche il motivo per cui pochissime organizzazioni musulmane hanno preso una posizione aperta contro l’IS e i loro massacri nella regione, e per cui l’IS è stato in grado di strisciare fuori da sotto l’ombra di Al Qaeda e Al-Nusra fino ad attirare alla sua jihad migliaia di giovani uomini, e alcune donne, provenienti da tutto il mondo.
Per oltre due anni c’è stata una resistenza silenziosa al saccheggio dello Stato Islamico nel Kurdistan occidentale (Siria settentrionale), o come ai curdi piace chiamarlo, Rojava. Le Unità di Difesa del Popolo (YPG) sono state coinvolte in una vittoriosa guerra di guerriglia, prima contro il fronte Al-Nusra e poi, dopo la loro separazione da questo gruppo, lo Stato Islamico. Le YPG non sono formate solo da curdi e hanno unità composte da arabi, turcomanni, armeni e assiri, in pratica qualsiasi gruppo che vive nel Rojava. Il silenzio della comunità internazionale su questa resistenza è comprensibile, perché non rientra nella loro grandiosa narrazione del Kurdistan e del Medio Oriente. In realtà c’è una rivoluzione in corso in Rojava, dove sono stati dichiarati tre cantoni autonomi, amministrati dalle assemblee dei popoli, dove il comunitarismo è praticato ovunque possibile, dove la rappresentanza femminile è del 60%, e dove tutte le diverse etnie e fedi trovano rappresentanza in una società democratica laica.
Il Partito dell’Unione Democratica (PYD) è la forza trainante di questa rivoluzione, ma ci sono anche altri partiti politici che partecipano all’amministrazione. La visione ideologica e paradigmatica di questo sistema, che la gente chiama “Autonomia democratica”, è stata formulata da Abdullah Ocalan, il leader curdo in carcere dal 1999 in un’isola-prigione in Turchia. Ocalan chiama questa visione “il paradigmademocratico, ecologico e dell’emancipazione di genere”, e sembra dare i suoi primi frutti in Rojava.
E’ questo sistema e la società che sta creando, che rappresentano un grande pericolo per lo status quo in Medio Oriente. I dittatori locali, i regimi repressivi e i loro cospiratori internazionali temono la democrazia radicale che si sta sviluppando in Kurdistan e diffondendo in Medio Oriente. Questa è la ragione per cui l’IS ha attaccato il Rojava senza mollare per due anni ed è anche il motivo per cui è sempre stato sconfitto. Il sistema nel Rojava ha unito le persone indipendentemente dalle differenze e dato loro la speranza di una nuova vita.
L’incursione dell’IS in Iraq e l’assedio comico di Mosul dove è stato rinvigorito con nuove armi e tecnologia militare, era solo per preparare un nuovo attacco nel Rojava al secondo anniversario della rivoluzione del luglio 2014. Il suo attacco a Sinjar e nella regione confinante il Rojava è stato anche per evitare che la rivoluzione si diffondesse ad altre parti del Kurdistan. Tuttavia l’IS sta perdendo la battaglia e i suoi attacchi stanno solo rafforzando l’unità tra curdi. Il popolo curdo sta cominciando a vedere chi è amico e chi no, dal momento che il PKK, le YPG e alcune forze peshmerga si sono unite per difendere la loro gente.
Ora, secondo i report, il califfo dell’IS Abu Bakr al-Baghdadi ha chiesto un cessate il fuoco con i curdi, dopo due settimane di massacro nel Kurdistan meridionale. Che cosa lo ha indotto a farlo? E’ stato il clamore internazionale, il bombardamento degli Stati Uniti o la nomina di un nuovo Primo Ministro iracheno, che sta presumibilmente riportando le tribù sunnite in carreggiata e fermando il loro sostegno per l’IS? O il loro compito di ripulire l’area da yazidi, cristiani, caldei, kakais e altri gruppi etnici e religiosi nel Kurdistan meridionale, è stato portato a termine?
Anche se non nello stesso modo, la storia sembra ripetersi in queste situazioni; il caos è stato creato, milioni sono stati massacrati e sfollati, le mappe sono ridisegnate secondo il capitale finanziario e, infine, un gruppo selezionato consolida il proprio potere e guadagno. L’unica speranza che la storia non si ripeta giace nel sistema del Rojava e nel rifiuto della mentalità dello stato-nazione, dei dogmi religiosi e del patriarcato.

La politica della carota e del bastone
Una delle questioni su cui spesso ci si interroga è: i curdi vogliono un intervento militare da parte delle potenze occidentali?
La risposta è un sonoro ‘No’. Perché una ragione di questa disastrosa situazione è l’intervento militare da parte delle potenze occidentali in Iraq e Siria e negli altri paesi della regione. Tuttavia possiamo vedere che è stata avviata una campagna attiva, volta a far sembrare che i curdi vogliano che Regno Unito e Stati Uniti inviino truppe in Kurdistan. Non è questo il caso. Ciò che questi poteri possono fare è utilizzare i loro rapporti diplomatici per fermare il sostegno all’IS. Impedire ai militanti IS di attraversare il confine Turchia-Siria, agli jihadisti internazionali di recarsi nella regione e colpire la loro economia, contribuirebbe a indebolirli. Inoltre, gli Stati Uniti e l’UE devono immediatamente togliere il PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche e impegnarsi con tutte le parti curde a risolvere la questione del Kurdistan e il caos in Medio Oriente in modo giusto e democratico.
Tuttavia, se le potenze internazionali pensano di poter ricolonizzare il Kurdistan, fornendo sostegno e poi chiedendo fedeltà o obbedienza, avranno penosamente sbagliato. I curdi non devono niente a nessuno e l’insistenza sul mantenimento della “trappola curda” non è un’opzione.
Se i partiti curdi riescono a unirsi, sviluppare una cultura democratica dall’interno e rimanere fedeli al ricco patrimonio del Kurdistan con tutte le sue diverse etnie, religioni e culture, allora i curdi e il Kurdistan possono essere un faro di speranza per lo sviluppo di una modernità democratica nel cuore del Medio Oriente. Altrimenti, gli imperialisti internazionali e i loro alleati regionali continueranno ad attuare la politica del bastone e della carota sui popoli del Medio Oriente, dividendo, indebolendo e sfruttando ulteriormente loro e le ricchezze in cui vivono per almeno i prossimi 100 anni.

di Memed Aksoy

Quali alternative al neoliberismo? Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Massimiliano Lepratti

Nonostante la gravissima crisi in corso il campo delle teorie critiche non riesce a offrire un orientamento che metta in crisi l’egemonia culturale del neoliberismo

Nonostante la gravissima crisi attraversata dall’Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l’egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un’ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l’Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.

Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:

il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l’assenza dell’economia politica nelle scuole superiori… – l’insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi. Keynes aveva spesso torto quando pensava che la forza delle idee fosse più forte degli interessi costituiti e gli esperimenti di psicologia sociale di Solomon Asch dimostrano invece quanto le persone tendano ad adeguarsi ai comportamenti delle maggioranze (anche quando li percepiscono come errati);

la dispersione delle teorie alternative in una grande pluralità di rivoli, molti dei quali portatori di analisi interessanti e affilate, ma poco coordinati e divisi nelle proposte. La litigiosità ideologica è tipica di chi si ponga un compito enorme come il cambiamento dell’ordine dominante (mentre chi difende i propri puri interessi materiali tende a dividersi meno sul piano delle idee), ma oggi, dato lo squilibrio di forze, si pone la necessità nella sinistra critica di un passaggio di paradigma dal mondo dell’aut/aut (per cui tutto ciò che non aderisce strettamente al mio pensiero mi è totalmente estraneo), al mondo dell’et/et in cui la valorizzazione dialogica degli elementi di somiglianza e di complementarità fra punti di vista diventi la base per un processo di costruzione cooperativa del sapere, delle teorie, delle proposte.Partendo da quest’ultimo punto ci pare di poter rintracciare fin da oggi un primo elenco di principi e di temi capaci di attrarre e rendere complementari (o dialoganti) posizioni finora molto differenziate. Ben sapendo che il primo che mette su carta un elenco di questo tipo inevitabilmente si attrae un sacco di osservazioni e di critiche, ci prendiamo il rischio e proviamo a procedere.

Sulla metodologia di analisi
A livello di principi generali con cui leggere la realtà ci pare che almeno due possano essere considerati centrali per opporsi positivamente alla lettura neoliberista:

1) il contrasto alle metodologie basate sull’individualismo economico il cui portato più recente si trova in frasi del tipo “lo Stato deve comportarsi come un buon padre di famiglia”, utilizzate abbondantemente per suggerire ricette di austerity. La differenza irriducibile tra analisi micro (riferite a singole imprese, singoli individui, singole famiglie) e analisi macro (riferite ad enti ben più complessi e interrelati quali lo Stato) è un presupposto indispensabile per qualunque teoria sociale critica;

2) La centralità del lavoro. Il lavoro è l’attività attraverso la quale gli esseri umani modificano l’ambiente per rispondere ai propri bisogni individuali e sociali (trasformando pezzi di legno grezzi in tavoli e sedie, trasformando metalli in parti di computer etc.). Poiché quasi nessun essere umano è in grado di prodursi autonomamente tutto quanto soddisfa i suoi bisogni, le persone entrano in relazione acquisendo (spesso in cambio di denaro) pezzi di lavoro altrui. Nel capitalismo questo processo ha subito un enorme potenziamento e le produzioni lavorative industriali scambiate via denaro sono diventate la base grandemente predominante della creazione di valore economico, agganciando intorno ad esse servizi sempre più sofisticati. Tutto questo per dire che il tema del lavoro non è riducibile alla sua componente sindacale in senso stretto, ma in quanto processo cooperativo di trasformazione della natura per soddisfare bisogni umani il lavoro resta pur sempre il nodo centrale di ogni progetto progressista di cambiamento socio economico.

Sui problemi della domanda e dell’offerta
Spesso gli economisti utilizzano un linguaggio apodittico e i due termini di cui si discuterà non hanno significato univoco; in questo scritto quando ci si riferisce al problema della domanda si intende la necessità di avere una domanda aggregata (ossia composta dalla somma della domanda di famiglie, imprese, Stato, acquirenti esteri) sufficiente a stimolare la produzione. Gli ambiti entro i quali è possibile dare una risposta progressista al problema della domanda potrebbero essere principalmente due:
la lotta alla diseguaglianza, non solo in quanto fattore di iniquità sociale, ma anche come produttrice di distorsioni rispetto all’efficienza economica (la diseguaglianza riduce la domanda aggregata, sfavorendo la propensione marginale al consumo). Qui i terreni di azione concreti possono essere molti: un diverso sistema fiscale, una diversa politica del mercato del lavoro etc.
la ridistribuzione sociale degli aumenti di produttività: anche laddove la produzione venisse acquistata da una domanda aggregata sufficiente il continuo aumento di produttività (frutto del progresso tecnologico) tenderebbe spontaneamente a mettere in moto effetti sociali negativi traducendosi in licenziamenti, o in puro aumento di profitti. É quindi fondamentale prospettare politiche redistributive dei guadagni di produttività, indirizzate sia verso l’aumento di reddito delle classi popolari e medie, sia verso l’aumento dei servizi sociali e culturali disponibili, sia infine verso una suddivisione equa del lavoro rimasto, attraverso politiche di riduzione di orario.

Per problema dell’offerta si intende invece principalmente il dibattito sul cosa e come produrre ed offrire (a livello di sistema industriale, agricolo etc.). Anche qui i temi da porre al dibattito possono essere almeno un paio, entrambi di grosso peso strategico:
La necessità di un indirizzo pubblico di politica economica che orienti il sistema nazionale verso una produzione industriale innovativa, capace di anticipare i bisogni/consumi futuri di imprese e famiglie.

Il contemporaneo contrasto a rendite e speculazioni. Occorre porre severi vincoli legislativi a livello europeo alle speculazioni finanziarie (che sono un effetto e una causa della crisi della produzione industriale), ed occorre scoraggiare ogni forma di monopoli/oligopoli di rendita – cosa ben diversa dai monopoli naturali.

Come forse si noterà i problemi della domanda e dell’offerta hanno spesso profili complementari (una produzione industriale innovativa tende ad offrire posti di lavoro meglio remunerati, un contrasto alla speculazione finanziaria per mezzo di tasse dissuasive tende a produrre un’entrata che può essere destinata a servizi sociali, etc.) per cui mal si giustifica l’incomunicabilità tra gli studiosi dei due campi.

Oltre il progressismo
Le proposte indicate non hanno nulla di rivoluzionario e si limitano a porre alcuni indirizzi compatibili con le migliori tradizioni del liberalismo progressista, crediamo pertanto che nessuno nel campo della sinistra critica sia contrario a priori ai suggerimenti citati, al limite il terreno di discussione/divisione si può collocare sugli ordini di priorità e sul livello di profondità degli interventi.
Il campo si fa più accidentato e conflittuale quando invece si muovono passi ulteriori verso un’economia che si distacchi più nettamente dal capitalismo. La discussione è comunque estremamente interessante e niente affatto incompatibile con le proposte citate in precedenza. Anche qui i temi da suggerire potrebbero essere molti, ma per semplicità ci limiteremo a due argomenti di discussione:
Cosa è socialmente utile produrre? La domanda è importantissima soprattutto laddove si ricordi la centralità del lavoro non solo come fonte del valore economico, ma anche come strumento necessario e insostituibile per rispondere ai bisogni collettivi. Con queste premesse il tema dell’innovazione industriale diviene più complesso: per quanto una capacità sistemica di anticipazione dei bisogni sia un valore in termini di efficienza economica, in termini sociali non è indifferente stabilire verso quali bisogni orientarla e con quali strumenti guidarla (sappiamo ad esempio che il settore militare produce abbondanti ricadute di innovazione, ma orientare prioritariamente la ricerca verso altri settori, ad esempio la tutela ambientale, non è un compito socialmente più desiderabile? E se lo è quanto di questo compito deve essere affidato allo Stato? )

Esiste il diritto effettivo di scegliersi il lavoro? Se ancora la riduzione di orario lavorativo è uno strumento di efficienza socio economica (assicura una migliore allocazione delle risorse, aumenta la domanda aggregata fornendo reddito a una quantità maggiore di persone, migliora la qualità della vita…), non sarebbe compito di una società più avanzata offrire alle persone non solo una minore quantità di lavoro obbligato, ma anche la possibilità di scegliersi un impiego soddisfacente (e se si accetta questo presupposto è difficile non discutere di reddito universale incondizionato, di riforme profonde del sistema dell’istruzione etc.)

L’invito ai lettori è quello di non concentrarsi solo sulle singole proposte, quanto nuovamente sull’invito iniziale ad un lavoro di cooperazione intellettuale che ponga le basi per un’idea complessiva di politica economica sulla quale possa valere la pena mobilitare forze sociali, politiche ed intellettuali.

Roma. Artiste, ebree e rivoluzionarie da: noidonne

Sensibilità, emancipazione e anticonformismo in quindici artiste ebree del Novecento, in mostra a Roma fino al 5 ottobre

Marta Mariani

Il percorso espositivo della Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale con la mostra “Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica” offre al visitatore l’opportunità di riflettere sull’identità femminile ebraica del Novecento, anche grazie a degli inediti facenti parte di collezioni private. La mostra temporanea, a cura di Marina Bakos, Olga Melasecchi e Federica Pirani – promossa dall’Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dalla Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia Onlus e dal Museo Ebraico di Roma – sarà visitabile in via Crispi fino al prossimo 5 ottobre. Antonietta Raphaël (pittrice e scultrice della Scuola romana di “Via Cavour”), Paola Consolo, Eva Fischer, Paola Levi Montalcini, Gabriella Oreffice, Adriana Pincherle, Silvana Weiller, così come Corinna e Olga Modigliani, Annie e Lilly Nathan, Wanda Coen Biagini, Amalia Goldmann Besso, Pierina Levi e Amelia Almagià Ambron sono proprio quelle donne ebree rivoluzionarie, dotate di eccentricità, disobbedienza e tragica grazia che l’expo vuole mettere in luce.

Veri “universi dispersi”, queste femminilità sono tutt’altro che “una serie di immagini di fanciulle o signore sobriamente abbigliate, ritratte in salotti eleganti o comunque in contesti tradizionali, che rimandano a visioni di una serena vita borghese; donne ben inserite in una società agiata che si dilettavano all’occasione con pennelli e tele” – commenta la curatrice della mostra, Marina Bakos. “Mai l’apparenza fu maggiormente foriera di equivoci come in questo caso: basterebbe una lettura più accorta delle biografie di alcune fra queste signore del secolo scorso per farci ricredere. Di dilettantismo ce ne fu molto poco o forse riguardò solamente alcune fra loro che non seppero (o non vollero) affermare una partecipazione qualificante nel mondo della creatività, preferendo un’esistenza più conforme a consuetudini tradizionali. Molte invece si dedicarono all’arte e alla cultura per vera passione e difesero con grinta una professionalità coraggiosamente conquistata per far valere la loro voce, partendo da una condizione di svantaggio, esposte a sottovalutazione, a misconoscimento e anche all’espropriazione del loro apporto intellettuale”.
Basta gettare uno sguardo scevro da pregiudizi su alcune tele esibite in questa mostra per comprendere che queste donne affrontarono l’arte e la vita da vere protagoniste, confrontandosi audacemente e perspicacemente con i miti e le favole collettive di una religione antica come l’ebraica, che scavano nell’interiorità per millenni e millenni.

In un calligramma come quello della Levi Montalcini, Monologo, si legge il solipsismo esplosivo di una sensibilità vulcanica protesa al segno-gesto, proprio mentre si scorge la complessità dell’animo femminile in tele della Raphaël come Io e i miei fantasmi, o Il Quarto Giorno della Creazione.
In Adriana Pincherle si ritrova, invece, una matassa di simbolismo francese… miracolo di una personalità tutta istinto: rapida negli atti e nei pensieri fino ad essere precipitosa.
Nelle vetrate di Eva Fischer (donna, ebrea e partigiana dopo la segregazione a Curzola) si squaderna una luce divina e un misticismo folgorante – sintomo che la Fischer non ebbe nulla di meno di uno Chagall quando si ispirò alle città di Gerusalemme, Hebron, Safe e Tiberiad
Di Pierina Levi colpisce soprattutto quel Paesaggio collinare, ventoso, intenso ma disciplinato, elettrizzante e riposante insieme come certi guazzi di Dürer, o certe impressioni di Cézanne.
L’orientalismo della Goldmann Besso, il nudo di Corinna Modigliani, le ceramiche di Olga Modigliani sono solo alcune delle più valide motivazioni che sollecitano e solleticano ad una visione attenta e appassionata della mostra.

Un Tramonto della Weiller è, già di suo, più che persuasivo; quel crepuscolo che è un trionfo di cremisi, di sanguigni e di magenta… dimostra quanta spiritualità bisogna ancora aggiungere al binomio più icastico della mostra, ovvero: emancipazione e anticonformismo femminile.

| 01 Settembre 2014

Fiat Pomigliano, da oggi di nuovo a lavoro 10 sindacalisti Fiom discriminati dall’azienda | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Da oggi dieci dei 19 operai dello stabilimento Fiat Chrysler di Pomigliano d’Arco, iscritti alla Fiom rientreranno in fabbrica a salario pieno dopo la sentenza contro la discriminazione sindacale e il conseguente accordo con il Lingotto che prevede il rientro delle tute blu dal regime dei contratti di solidarieta’.
I lavoratori torneranno nell’unica area dello stabilimento dove non sono in vigore i contratti di solidarieta’, previsti per circa 1900 operai, ovvero quella della produzione diretta della Panda. Gli altri 9 iscritti al sindacato di Landini, che nel 2012 vinsero la causa contro la Fiat per discriminazione nelle assunzioni nella ex newco Fabbrica Italia Pomigliano, saranno invece impiegati negli altri reparti dello stabilimento ma in regime di contratto di solidarieta’.

“Ma va là Fausto!”, lettera aperta di Gianni Marchetto un ex operaio sindacalista a Bertinotti Autore: gianni marchetto da: controlacrisi.org

Caro Fausto,
con te mi lega una lunga (e affettuosa) militanza nella CGIL di Torino: tu Segretario della CGIL, io prima operaio alla FIAT, poi funzionario della FIOM alla FIAT Mirafiori. Così come l’appartenenza allo steso partito: il PCI Torinese.
Ho avuto modo di sentire la tua ultima intervista dove, con molto coraggio, tu dici che come comunisti abbiamo sbagliato (quasi tutto) e dove nel contempo rivaluti il pensiero e la pratica liberale.

Parlo per me: prima di iscrivermi al PCI (nel 1966) avevo avuto modo di leggere “Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler e la “Fattoria degli animali” di George Orwell (era un opuscolo illustrato). Chi mi ha iscritto era un compagno che avevo conosciuto in FIAT (diventai suo “socio” di lavoro). Era questi un ex partigiano che insieme a pochi altri, aveva “tenuto botta” per tutti gli anni ’50 e ’60, aspettando il ’68 e ’69. Mi intrigò di più la storia e l’esperienza di questi compagni che non i libri che avevo letto: da lui accettai la mia iscrizione al PCI.

Nei primi anni ’70 mi ricordo di una polemica aspra che andavo facendo con te e altri compagni del sindacato e del PCI (quasi tutti dirigenti) sulla teorizzazione “dell’operaio massa”. Quale operaio massa? chiedevo. Io di Massa ne conosco due: Massa Attilio delle Presse e Massa Giuseppe della Carrozzeria. Era una mia polemica contro le facili (e strumentali) generalizzazioni. Chi mi dava ragione era Ivar Oddone il quale così argomentava: “l’operaio massa è un altro modo di intendere gli operai, per il padrone sono dei gorilla da addestrare per la produzione (la rabble ipothesys), per una certa sinistra sono dei gorilla da redimere per la rivoluzione, quale rivoluzione? Quella dei redentori, ovviamente!” e l’operaio? sempre gorilla rimaneva! quanta ragione aveva!
A proposito del pensiero e dell’azione dei liberali, mi viene in mente il “Manifesto del partito comunista” quello di Marx ed Engels, che è un inno alla borghesia (rivoluzionaria), ergo al pensiero che la sosteneva: il liberalesimo.

Sul finire degli anni ’70 e negli anni ’80 mi capitò di andare diverse volte nei paesi dell’Est. Per il sindacato andai in URSS per quasi un mese. E in questi viaggi ebbi la conferma che questi regimi non erano riformabili (cosa per la quale ero ormai convinto dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968) e dopo il fallimento della “Riforma Kossighin” nel 1966, nell’URSS.
Visitai parecchie aziende e con mia sorpresa (negativa) notai il compromesso che teneva in piedi la baracca: “io non rompo le balle a te, tu dai a me il tuo consenso”, un po’ alla maniera che in Italia la DC esercitava il suo consenso (specie nella pubblica amministrazione), per cui il Partito Comunista dell’URSS somigliava parecchio alla nostra Democrazia Cristiana. In fondo, in fondo il regime “comunista” stava in piedi sulla scorta di 3 P: Poca produttività, Poco salario, Pochi consumi e con tre poco chi accontentava: gli individui mediocri, quelli che si accontentano, la gente pigra. Gli individui più curiosi, i più intraprendenti erravano continuamente da un’azienda all’altra alla ricerca di posti di lavoro dove l’autoritarismo e il paternalismo fosse al minimo e dove ci fossero le occasioni di welfare aziendale migliori.
È vero, non era dappertutto così. Nelle aziende dove si producevano armamenti, c’era lì concentrato il massimo della esperienza operaia, della tecnica e del meglio della scienza. Quel tanto che i “prodotti” facevano la punta a quelli americani! e questo fin dalla nascita dell’URSS. Un bel paradosso: una società nata contro e per far finire la guerra che primeggia nella produzione di strumenti di morte!

Il nodo della “continuità”. Riporto le cose scritte nel libro di A. Minucci (La crisi generale tra economia e politica, Ed. Voland Srl) è il capitolo V° che parla del “Nodo della continuità”. Mi ha colpito nel senso di non trovare niente o quasi nello sviluppo delle rivoluzioni “socialiste” nel 20° secolo: cosa mai esisteva in quelle società che fosse in embrione il “socialismo” che poi si sarebbe instaurato? C’era in Russia? C’era in Cina? Erano completamente assenti! Anzi (ed è di questi tempi) il Partito Comunista Cinese è attualmente a capo di una modernizzazione a carattere capitalista con annesso sfruttamento dei lavoratori, di alienazione di larghe masse e tutto l’armamentario tipico della fase di costruzione del capitalismo… del tutto opposta la storia della borghesia, la quale prima di arrivare a tagliare le teste di nobili e clero (nel 1789) si era insediata in tutta la società di allora.

Veniamo a noi, in Italia. Contraddizioni: il PSI nella dottrina non era statalista, nella pratica avviò (con il primo centrosinistra) tutta una serie di nazionalizzazioni, da quella dell’energia elettrica, ad altre.
Il PCI nella dottrina era statalista, nella pratica divenne “localista”: assieme ai socialisti nei decenni dopo la Liberazione avviò un vera e propria civilizzazione nei territori dove questi avevano la maggioranza dei voti. E quasi sempre con i “bilanci in rosso”: per fare investimenti, ecc.
Negli anni ’70 specie nelle grandi fabbriche del nord, sulla scorta delle conquiste del ’68 e del ’69 in merito ai Delegati e ai Consigli di Fabbrica, si andò ad una prima sperimentazione di superamento da una parte del “leninismo” (vedi come ti “educo il pupo”) e dall’altra della sola “democrazia delle opinioni” (di marca liberale), per approdare invece alla “democrazia cognitiva” = la validazione consensuale.

Caro Fausto, non voglio tediarti oltre. Mi pare di aver messo i piedi nel piatto (così come hai fatto pure tu). A te il compito di verificare la distanza tra le tue e le mie tesi. È vero bisogna avere a mente “l’individuo” come del resto era il portato della migliore CISL degli anni ’70 (la FIM) e da cui imparammo molto tutti quanti.
Mi pare che una “ri-partenza” sia possibile se la nostra autocritica si fonda non solo sulle questioni generali (e un po’ generiche), ma se sa stare nella nostra esperienza concreta. Alcune riflessioni:

1. Nelle aziende: a) una sfida innanzi tutto a noi stessi: coniugare Maggiore Produttività a Maggiore Democrazia – b) andare oltre il “guardiano del 133 di rendimento” o superare l’esperienza dei Delegati come “bravi poliziotti” (a servizio dei lavoratori, ovviamente) e pensare alla progettazione della “carriera dell’operaio” contro la logica “dell’ascensore sociale” che lascia il lavoro così com’è agli sfigati di turno (vedi i migranti).
2. Nella società: riconoscere che esistono degli “esperti” sia tecnici che “grezzi” che sono portatori di una “mappa e di un piano”. Una volta questi erano ben presenti nelle formazioni politiche di massa (dalla DC, al PSI e maggiormente nel PCI). Senza il recupero di queste competenze, di questo saper fare diffuso credo proprio che non si va da nessuna parte.
3. Occorre andare alla produzione di un archivio di tutte le esperienze “esemplari” sia di aziende che di amministrazioni locali per poterle socializzare, per farle diventare “ordine morale per il rimanente dei cittadini” (vedi Gramsci quando dice che questa è “fare rivoluzione”: socializzare il meglio delle esperienze) e non attardarsi a “mettere continuamente il lievito sulla merda” (come ben mi diceva Emilio Pugno già nel 1970).
4. Ergo: occorre allora in ogni territori dato andare alla produzione di archivi contenenti nomi e cognomi di questi “esperti” per avere con loro un approccio positivo.
5. Domanda? C’è un soggetto politico/sindacale adatto a questa bisogna? Ovvero io vado in cerca (a 72 anni!) di soggetti che vogliano ancora rimettersi in gioco su queste questioni.