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DUE GIORNATE PER NON DIMENTICARE ” La Nazione Cogne e la Resistenza Valdostana” dal 6 luglio al 6 settembre (1944)
Gaza l’indomita, culla del nazionalismo | Fonte: Le Monde diplomatique/ilmanifesto | Autore: Alain Gresh
Privato della sua forza da Dalila che gli aveva tagliato i capelli, Sansone cadde nelle mani dei filistei – popolo dal quale nasce il nome «Palestina» –, che lo accecarono. Un giorno, lo fecero venire fra loro per deriderlo: «Sansone cercò a tastoni i due pilastri centrali che reggevano l’edificio. Si puntò contro di essi, con la destra e con la sinistra, urlando: ‘Muoia Sansone con tutti i filistei!’ e poi spinse con tutta la sua forza. L’edificio crollò, travolgendo i capi dei filistei e tutti gli altri. Così, Sansone uccise più persone con la sua morte che in tutta la sua vita». Questo famoso episodio riferito dalla Bibbia si svolge a Gaza, capitale dei filistei, popolo nemico degli ebrei.
Gaza è stata sempre un crocevia nelle rotte commerciali fra Europa e Asia, fra Medioriente e Africa. La città e il territorio si sono dunque trovati, fin dall’antichità, al centro delle rivalità fra le potenze dell’epoca, dall’Egitto dei faraoni all’Impero bizantino passando per Roma. Là, nel 634 della nostra era, avvenne la prima vittoria accertata sull’Impero bizantino da parte degli adepti di una religione ancora sconosciuta, l’islam; il profeta Maometto era morto due anni prima. Gaza rimase sotto il controllo musulmano fino alla prima guerra mondiale, con alcuni interludi più o meno lunghi: regni crociati; invasione mongola; spedizione di Bonaparte. «Facile da prendere, facile da perdere», spiega Jean-Pierre Filiu nel suo libro Histoire de Gaza (Fayard, Parigi, 2012), il più approfondito dedicato a questo territorio. Il generale britannico Edmund Allenby strappò Gaza, porta della Palestina, all’Impero ottomano il 9 novembre 1917, aprendosi così la strada verso Gerusalemme, dove entrò l’11 dicembre.
Per Londra, non si trattava solo di battere il sultano, alleato della Germania e dell’Impero austro-ungarico, ma di assicurarsi il controllo di un territorio strategico e garantire la protezione del fianco est del canale di Suez, vena giugulare dell’impero, via di comunicazione vitale fra il viceregno delle Indie e la metropoli. I britannici dunque sconfiggono le ambizioni francesi in Terra santa. Nel 1922, ottengono il mandato della Società delle Nazioni (Sdn) per amministrare il territorio che da allora viene chiamato «Palestina», e al quale Gaza appartiene. Hanno anche il compito di applicare la «dichiarazione di Balfour», cioè aiutare a creare una patria nazionale ebraica e incoraggiare l’immigrazione sionista; lo fanno con zelo fino al 1939.
Gaza e la sua regione prendono parte a tutti i combattimenti dei palestinesi, musulmani e cristiani, contro la colonizzazione sionista e contro la presenza britannica. Contribuiscono alla grande rivolta palestinese del 1936–1939, schiacciata infine dai britannici. Una sconfitta che priva a lungo i palestinesi di una qualsivoglia direzione politica, lasciando ai governi arabi il compito – se così si può dire – di difendere la loro causa.
Il 15 maggio 1948, all’indomani della proclamazione dello Stato di Israele, gli eserciti arabi entrano in Palestina. Prima guerra, prima disfatta araba. Il territorio previsto per lo Stato di Palestina dal piano di spartizione votato all’Assemblea generale delle Nazioni unite, il 29 novembre 1947, va in frantumi. Israele annette una parte, la Galilea. La Giordania assorbe la riva occidentale del Giordano, conosciuta come Cisgiordania. La striscia di Gaza – un territorio di 360 chilometri quadrati che comprende le città di Gaza, Khan Younis e Rafah – passa sotto l’amministrazione militare egiziana; resta l’unico territorio palestinese sul quale non viene esercitata alcuna sovranità straniera. Agli ottantamila abitanti autoctoni si sono aggiunti oltre duecentomila rifugiati espulsi dall’esercito israeliano, i quali vivono miseramente e sognano solo il ritorno a casa. Questa massiccia presenza di rifugiati e lo status particolare del territorio faranno di Gaza uno dei centri del rinascimento politico palestinese.
Malgrado il controllo da parte del Cairo – esercitato prima dal re, poi da Gamal Abdel Nasser e dagli «ufficiali liberi» che nel 1952 hanno rovesciato la monarchia –, i palestinesi si organizzano in modo autonomo, effettuano azioni di guerriglia contro Israele, manifestano contro ogni tentativo di insediare definitivamente a Gaza i rifugiati. Già allora, Israele compie pesanti rappresaglie, nelle quali si distingue per la sua brutalità un giovane ufficiale ancora sconosciuto: Ariel Sharon.
Il 28 febbraio 1955, Sharon comanda un raid contro Gaza che fa trentacinque morti fra i soldati egiziani (oltre a uccidere due civili) e otto fra gli israeliani. Il primo marzo, su tutto il territorio si tengono grandi manifestazioni di protesta contro la passività egiziana. Questo produce una svolta nella politica estera dell’uomo forte dell’Egitto, Nasser. Fino ad allora considerato da molti suoi concittadini piuttosto vicino agli Stati uniti, egli decide, in piena guerra fredda, di avvicinarsi a Mosca. Mentre si reca alla conferenza di Bandung che, nel marzo 1955, segna la nascita del Movimento dei non allineati, Nasser incontra il ministro degli esteri cinese Ciu en Lai, anch’egli in procinto di recarsi alla conferenza; gli chiede se i sovietici accetterebbero di dare armi al suo paese. La risposta si fa attendere, ma infine il 30 settembre 1955 è annunciato l’accordo per la consegna di armamenti cecoslovacchi. Così, l’Urss spezza il monopolio occidentale della vendita di armi al Medioriente, ed entra in modo eclatante sulla scena regionale.
Inoltre Nasser lascia ai palestinesi di Gaza maggiore libertà di organizzarsi in gruppi combattenti. Il 26 luglio 1956, il rais nazionalizza la compagnia del canale di Suez. Ne segue l’aggressione tripartita contro l’Egitto da parte di Israele, Francia e Gran bretagna, che si conclude con la conquista del Sinai e della striscia di Gaza. Questa rimane sotto il controllo israeliano fino al marzo 1957.
La resistenza clandestina si organizza. Il bilancio umano dell’occupazione è particolarmente pesante, con molti massacri di civili compiuti dall’«esercito più etico del mondo». Ad esempio, a Khan Younis, decine di persone vengono allineate contro un muro e uccise a mitragliate; altre sono abbattute a colpi di pistola. Il bilancio è fra duecentosettantacinque e cinquecento persone uccise.
Quando Israele, soprattutto su pressione statunitense, libera il Sinai e Gaza, Nasser e il nazionalismo arabo rivoluzionario sono all’apice della popolarità. Nei campi di rifugiati, la nuova generazione palestinese in esilio vi vede la risposta alla sconfitta del 1948–49. Milita in organizzazioni come il Movimento dei nazionalisti arabi, creato da George Abbash, nel partito Baath o nei vari movimenti nasseristi.Per questi giovani, l’unità araba è la strada per la liberazione della Palestina.
Dalla loro esperienza a Gaza, un gruppo di uomini trarrà invece la lezione opposta. Essi hanno affrontato direttamente Israele e misurato come il sostegno arabo, anche da parte di Nasser, sia condizionato – del resto, alcuni di loro conosceranno anche le prigioni egiziane. Per questi militanti, la liberazione della Palestina può avvenire solo a opera degli stessi palestinesi. Nel 1959 si radunano intorno a Yasser Arafat, egli stesso rifugiato a Gaza nel 1948, per fondare Fatah, che è l’acronimo arabo, al contrario, di «Movimento nazionale palestinese». Fra i militanti gazawi della prima ora, destinati a giocare un ruolo centrale negli anni 1970–80, vi sono Salah Khalaf (Abu Iyad), Khalil el Wasir (Abu Jihad), poi diventato il numero due di Fatah e assassinato dagli israeliani a Tunisi nel 1988, e Kamal Adwan, assassinato da un commando israeliano a Beirut nel 1973.
Il loro giornale Falistinouna («La nostra Palestina»), pubblicato a Beirut negli anni fra il 1959 e il 1964, proclama: «Tutto quello che vi chiediamo, è che voi [i regimi arabi] circondiate la Palestina con una cintura difensiva così da circoscrivere la guerra fra noi e i sionisti». E anche: «Tutto quello che vogliamo, è che voi [i regimi arabi] togliate le mani dalla Palestina». In quell’epoca, all’apice dell’influenza di Nasser, ci vuole un certo coraggio per dichiarare simili eresie.
Eppure, già alla metà degli anni 1960, con il fallimento del tentativo di unione fra Egitto e Siria (1958–1961), che rivela l’impotenza dei paesi arabi di fronte al corso degli eventi, il vento comincia a girare. La lotta di liberazione algerina, che si conclude con la vittoria nel 1962, funge da modello.
Nel gennaio 1965, Fatah lancia le prime azioni militari contro Israele e vede affluire militanti da altre organizzazioni, stanche di aspettare un’unità araba sempre più improbabile. La sconfitta del giugno 1967, con la guerra dei sei giorni, consente a Fatah di diventare una forza significativa e di assumere, con l’avallo di Nasser, il controllo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Nel febbraio 1969, Arafat diventa presidente del comitato esecutivo dell’Olp. I palestinesi sono tornati a essere un grande attore nella politica regionale, e Gaza ha contribuito notevolmente a questo rinnovamento.
Che cosa succede al territorio in questo periodo? Occupato da Israele, vede organizzarsi una resistenza militare che raggruppa una quantità di organizzazioni, salvo i Fratelli musulmani che si rifugiano nell’azione sociale. Il primo attacco contro l’esercito di occupazione si verifica l’11 giugno 1967, ovvero all’indomani del cessate il fuoco firmato dall’Egitto e dai paesi arabi con Israele. Con alti e bassi, gli attacchi continuano fino al 1971. Per venirne a capo, occorrerà la brutalità dei carri armati di Sharon e di innumerevoli esecuzioni extragiudiziali. Ma, se la resistenza militare viene schiacciata, le iniziative politiche si moltiplicano, e soprattutto i contatti con la Cisgiordania, molto limitati prima del 1967. Le élites si uniscono all’Olp, che riconoscono come «unico rappresentante del popolo palestinese».
Gli unici a rifiutare sono i Fratelli musulmani. Essi si radicano profondamente grazie alle loro reti sociali e alla tolleranza delle autorità di occupazione, che vedono in loro un contrappeso rispetto al nemico principale, l’Olp. Fondata nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yassin, la mujama’ islamiya («centro islamico») viene legalizzata dall’occupante. Ma questo attendismo – l’ora della resistenza non sarebbe ancora arrivata – suscita proteste fra i Fratelli; agli inizi degli anni 1980 una scissione porta alla nascita della Jihad islamica.
Nel dicembre 1987, è a Gaza che scoppia la prima Intifada, la «rivolta delle pietre». Con due conseguenze importanti. Da una parte, i Fratelli imprimono una svolta significativa alla propria strategia creando il Movimento della resistenza islamica (Hamas), che partecipa all’Intifada ma rifiuta di formare un fronte unico con le altre organizzazioni. D’altra parte, l’Olp utilizza la rivolta per rafforzare la propria credibilità e negoziare gli accordi di Oslo, guidati da Arafat e dal primo ministro israeliano Itzhak Rabin il 13 settembre 1993 a Washington. Il 1° luglio 1994, Arafat apre a Gaza la sede dell’Autorità nazionale palestinese.
Il seguito è noto: fallimento degli accordi; sviluppo della colonizzazione; seconda Intifada (a partire dal settembre 2000); vittoria di Hamas alle prime elezioni democratiche tenutesi in Palestina nel 2006; rifiuto dei paesi occidentali di riconoscere il nuovo governo, e alleanza fra una fazione di Fatah e Stati uniti per porvi fine; arrivo al potere di Hamas a Gaza nel 2007; blocco israeliano imposto da allora a un milione e mezzo di abitanti.
La striscia di Gaza, malgrado l’evacuazione dell’esercito israeliano nel 2005 – senza alcun coordinamento con l’Autorità nazionale palestinese –, continua a essere occupata. Tutti i suoi accessi dal mare, dalla terra e dal cielo continuano a dipendere da Israele, che vieta ai palestinesi importanti porzioni del territorio (il 30% delle terre agricole) e il mare al di là delle sei miglia nautiche (ridotte a tre a partire dall’inizio dell’operazione militare in luglio). Gli israeliani continuano a gestire lo stato civile. Il blocco che mantengono dal 2007 soffoca la popolazione, malgrado le condanne unanimi – unicamente verbali, è vero – da parte della «comunità internazionale», compresi gli Stati uniti.
Dopo il suo ritiro, Israele ha condotto tre operazioni di grande portata contro i territori: nel dicembre 2008-gennaio 2009; nel novembre 2012; infine nel luglio 2014. Finché il blocco non sarà tolto, finché i palestinesi non avranno uno Stato indipendente, ogni nuovo cessate il fuoco sarà solo una tregua. Il generale de Gaulle lo aveva predetto, in una celebre conferenza stampa tenuta il 27 novembre 1967 dopo la guerra arabo-israeliana: «Non ci può essere occupazione senza oppressione, repressione, espulsioni»; le quali provocano «la resistenza [che Israele]chiama terrorismo».
(Traduzione di Marinella Correggia)
© Le Monde diplomatique/ilmanifesto
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Il rais Maliki tenta il golpe ma perde la poltrona | Fonte: il manifesto | Autore: Chiara Cruciati
Il presidente iracheno lancia il guanto di sfida contro il premier Nouri al-Maliki. Ieri dopo giorni di alta tensione politica, il curdo Fouad Massoum, neo eletto presidente della repubblica, ha nominato primo ministro il vice presidente del parlamento, Haider al-Abadi, membro di Stato di Diritto, stesso partito di Maliki, tornato dall’esilio negli Usa dopo la caduta di Saddam Hussein. Ora al-Abadi ha 30 giorni di tempo per formare un nuovo governo e ottenere la fiducia parlamentare.
All’ex premier resta la carica di comandante in capo delle forze militari, un’eventualità che fa temere un possibile colpo di mano: mentre al-Abdadi prometteva di «proteggere il popolo iracheno», il “deposto” Maliki annunciava il ricorso alla corte costituzionale. Una vendetta già anticipata dal tentativo di colpo di Stato di domenica scorsa.
Non bastavano le violenze dell’Isil contro i civili e l’occupazione di un terzo del paese, le esecuzioni sommarie, le chiese distrutte e le moschee in macerie. A dare il colpo di grazia era stato domenica proprio Maliki, uno dei responsabili del settarismo che insanguina l’Iraq da anni. Il premier (o meglio, ex), in un atto di grave irresponsabilità, dopo aver impedito con ogni mezzo la sua deposizione a favore di un governo di unità nazionale, è stato il protagonista di un atto che sfiora il colpo di Stato. Due giorni fa ha apertamente accusato il presidente Massoum di violazione della costituzione.
Un’accusa gravissima a cui è seguito il dispiegamento di forze militari e poliziotti fedeli al premier intorno alla zona verde della capitale, sede fortificata delle ambasciate, gli uffici ministeriali e governativi, l’abitazione del primo ministro e il parlamento. Carri armati sotto il diretto controllo dell’ex premier hanno occupato in breve tempo le strade e i ponti principali della capitale, mentre miliziani iniziavano il pattugliamento dei quartieri sciiti.
Il massiccio arrivo di forze militari – che prosegue ancora oggi – è cominciato nella serata di domenica, intorno alle 20.30, sinistra anticipazione del discorso che di lì a poco Maliki avrebbe tenuto di fronte alle telecamere dalla tv di Stato: l’intenzione di denunciare il presidente Massoum, considerato colpevole di aver violato la costituzione per non avergli affidato il terzo mandato consecutivo per la formazione del nuovo governo. Un atto di impeachment rivolto al parlamento e che scuote il già fragile spettro politico iracheno.
A monte sta la rivendicazione di Maliki di vittoria alle elezioni di fine aprile. In realtà, quelle consultazioni elettorali si chiusero con risultati quantomeno incerti: Stato di Diritto non ottenne la maggioranza assoluta, ma 92 seggi su 328. I tentativi di alleanze con partiti sciiti, nell’obiettivo di racimolare i 165 seggi necessari a governare il paese, sono falliti lasciando l’Iraq in un gravissimo stallo politico che ha facilitato l’avanzata dell’Isil.
Immediata la reazione della comunità internazionale, che da tempo premeva per un allontanamento di Maliki: messo a sedere sulla poltrona di premier dall’occupazione Usa, è considerato uno dei responsabili della settarizzazione dell’Iraq, portata avanti con politiche discriminatorie delle comunità sunnita e curda, estromesse dalla gestione del potere politico ed economico. L’inviato speciale dell’Onu a Baghdad Mladevon ha denunciato il quasi colpo di Stato, chiedendo alle forze militari di «astenersi da interferenze nel processo politico democratico». Da Washington il segretario di Stato Kerry ha ribadito il sostegno statunitense al presidente Massoum e chiesto a Maliki di evitare una crisi politica che avrebbe il solo devastante effetto di aggravare la già drammatica emergenza umanitaria.
Sul campo continuano i bombardamenti americani alle postazioni dell’Isil, iniziati venerdì a nord, a poca distanza dalla capitale della regione autonoma del Kurdistan. Allo sganciamento di bombe, è seguito l’invio di armi direttamente ai peshmerga, impegnati da due mesi nel tentativo di arginare l’offensiva jihadista che ora minaccia direttamente i confini curdi e i territori ufficiosamente conquistati da Irbil, tra cui la strategica Kirkuk.
Dalla Casa Bianca la conferma ufficiale è giunta ieri: da una settimana, secondo il Dipartimento di Stato, armi e munizioni statunitensi stanno raggiungendo il Kurdistan. Ma sul piano diplomatico, il presidente Obama insiste per la formazione di un governo di unità nazionale, inclusivo delle minoranze, condizione ad un intervento più ampio da parte dell’aviazione Usa. «Riaffermiamo il sostegno ad un processo di selezione di un primo ministro che possa rappresentare le aspirazioni del popolo iracheno e creare consenso nazionale», ha commentato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki.
Il messaggio per il rais Maliki è chiaro: farsi da parte. A favore dell’ex primo ministro c’è l’enorme potere archiviato in otto anni, una rete clientelare ramificata e il controllo totale delle forze armate a capo delle quali ha posto propri uomini. Resta da vedere se parlamento e presidente riusciranno ad arginare tale potere.
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“Il caos irakeno è funzionale alla spartizione dell’Iraq”. Intervista a Fabio Alberti Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

In Iraq siamo al caos più assoluto. Che idea ti sei fatto, e quali sviluppi potrebbero esserci?
Impossibile riuscire a fare delle previsioni. Si può, al più, ragionare su alcuni scenari. Da una parte quello a cui stiamo assistendo è la conseguenza diretta dell’invasione del 2003 da parte degli Usa, e il tipo di gestione che fu sviluppata, tutta incentrata sulla coltivazione del settarismo. Da un altro punto di vista sembra prorio all’opera la teaoria del caos costruttivo, propria di un certo pensiero liberal che quindi vede in questa fase sviluppi funzionali al proprio disegno.
Come spieghi il successo militare del fondamentalismo islamico?
Il successo militare dell’Isis non sarebbe possibile senza una alleanza con i vari raggruppamenti sunniti dell’Iraq, ovvero con quegli schieramenti che pure avevano tentato una sorta di confronto con Al Maliki e si sono visti chiudere la porta in faccia. Costoro avevano addirittura combattuto contro Al Quaeda. In quel contesto gli unici a chiedere un processo di riconciliazione furono proprio i partiti di sinistra, comunisti compresi. Di fronte all’azione di frazionamento perseguita dall’Arabia Saudita in funzione anti-Iran,gli Stati uniti hanno lasciato fare, con il risultato che oggi ci ritroviamo di fronte alla possibilità non più così remota di una spartizione dell’Iraq.
Gli Stati uniti hanno deciso di rimettersi in gioco?
Credo che il nuovo intervento degli Usa sia più dettato dalla pressione dell’opinione pubblica che per trovare una qualche via d’uscita strategica.
In questa situazione i Kurdi sembrano quelli con una maggiore stabilità.
La verità è che sono tra mille fuochi. Prima in Siria e adesso inIraq. Se non arriva presto la solidarietà internazionale la vedo dura per loro.
Cerchiamo di capire il disegno dell’Isis…
L’Isis sta lavorando a un proprio territorio di riferimento e ad assicurarsi risorse proprie. E’ un assetto pericoloso. Dall’altra parte l’alleanza con i sunniti è del tutto strumentale. E infatti bisognerà capire bene cosa potrebbe succedere in un percorso di riconciliazione nazionale basata sulla convergenza dei vari settori religiosi. Mi sembra di capire che l’Isis non possa continuare più di tanto in queste pratiche di guerra che coinvolgono le popolazioni come nel caso dei Yazidi. E’ evidente che se non ci fosse un finanziamento potente non avrebbero qeusto peso. Il fondamentalismo diventa efficace con i petrodollari.
In tutto questo, il ruolo delle Ong?
Nonostante quanto sta avvenendo le Ong stanno portando avanti i loro programmi, anche nel dare sostegno alla società civile dell’Iraq.Lo scorso ottobre c’è stato un forum e un altro incontro è previsto per novembre prossimo ad Oslo. Comunque ci sono in Iraq delle importanti battaglie per i diritti civili da portare avanti nel campo sindacale, per esempio, come in quello per la libertà di stampa e nella pubblica amministrazione, appannaggio ormai delle varie correnti religiose.
Il vostro ruolo in Iraq?
Un ponte per… sta operando da allora per rispondere all’emergenza. Abbiamo distribuito, fino ad ora, acqua, succhi di frutta, pasti ipercalorici, latte in polvere, cibo, kit igienici per accogliere chi sta fuggendo disperato. Ma la guerra non si arresta, ogni giorno ci sono nuovi bisogni. Interi quartieri della città di Erbil sono pieni di profughi, così come scuole e parchi pubblici. Stiamo sviluppando una campagna di sostegno.
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