DUE GIORNATE PER NON DIMENTICARE ” La Nazione Cogne e la Resistenza Valdostana” dal 6 luglio al 6 settembre (1944)

depli(1) depli2

Art. 18, Fiom: “E’ gravissimo attaccare i diritti. Per uscire dalla crisi, investimenti straordinari” | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

La questione dell’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori continua ad agitare la maggioranza. Il Nuovo centrodestra, che nei giorni scorsi aveva proposto che il tema venisse inserito nel decreto legge cosiddetto ‘Sblocca-Italia’, anche ieri, per bocca dei ministri Angelino Alfano e Maurizio Lupi, ha continuato a rilanciare l’argomento in termini perentori. “Abolizione dell’articolo 18 entro la fine di agosto”, chiede il primo. “Non è solo un totem della sinistra da abbattere ma è il segnale più importante per dire che il sistema italiano del lavoro è cambiato”, aggiunge il secondo.
Parole che innescano una replica davvero poco convincente del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. La questione lavoro “sarà affrontata con la delega che in questo momento e’ in discussione al Senato. In quest’ambito – assicura – affronteremo senza chiusure pregiudiziali le proposte che verranno messe in campo. Anticipare quella discussione a strumenti che non sono propri credo sia sbagliato. Dentro la delega ci sono vari argomenti oggetto di riflessione, in particolare le politiche attive per il lavoro. Li’ ragioneremo senza tabù ideologici ma anche senza la tentazione di piantare bandierine”.

Più decisa la reazione del segretario della Fiom Maurizio Landini, per il quale mettere mano allo Statuto dei lavoratori “sarebbe un errore gravissimo”. L’articolo 18, secondo Landini, “è l’ultimo dei problemi dell’Italia. Tra l’altro è già stato modificato (riforma Fornero, ndr) e non ha creato nessun posto di lavoro, anzi ci sono stati più licenziamenti per motivi economici”.”Se il governo – ha detto Landini ai microfoni di Sky Tg24 Hd – vuole creare lavoro, deve mettere a punto dei piani straordinari di investimento, una politica industriale degna di questo nome. Se hanno in mente di seguire un’altra strada o i cattivi consigli di Alfano, debbono sapere che è un modo per gettare benzina sul fuoco in un Paese che è già sull’orlo di una situazione di tenuta sociale molto difficile”.

“Noi abbiamo intenzione di mobilitare i lavoratori – ha aggiunto il leader dei metalmeccanici Cgil – perchè vogliamo chiedere al governo di fare davvero dei cambiamenti di politica industriale e di aprire una discussione vera con l’Europa: ci sono una serie di vincoli europei che vanno cambiati”.
Critiche a Ncd da destra arrivano da Renata Polverini, ex segretaria generale dell’Ugl e ora di Forza Italia. “Stupisce che ancora ci sia qualcuno che possa ritenere l’articolo 18 come un’inibizione alle assunzioni e un limite alla flessibilità. Il problema della disoccupazione non si può attribuire ai diritti conquistati dai lavoratori bensì a un sistema economico asfittico incapace di creare nuova offerta di lavoro”.

Gaza l’indomita, culla del nazionalismo | Fonte: Le Monde diplomatique/ilmanifesto | Autore: Alain Gresh

Pri­vato della sua forza da Dalila che gli aveva tagliato i capelli, San­sone cadde nelle mani dei fili­stei – popolo dal quale nasce il nome «Pale­stina» –, che lo acce­ca­rono. Un giorno, lo fecero venire fra loro per deri­derlo: «San­sone cercò a tastoni i due pila­stri cen­trali che reg­ge­vano l’edificio. Si puntò con­tro di essi, con la destra e con la sini­stra, urlando: ‘Muoia San­sone con tutti i fili­stei!’ e poi spinse con tutta la sua forza. L’edificio crollò, tra­vol­gendo i capi dei fili­stei e tutti gli altri. Così, San­sone uccise più per­sone con la sua morte che in tutta la sua vita». Que­sto famoso epi­so­dio rife­rito dalla Bib­bia si svolge a Gaza, capi­tale dei fili­stei, popolo nemico degli ebrei.
Gaza è stata sem­pre un cro­ce­via nelle rotte com­mer­ciali fra Europa e Asia, fra Medio­riente e Africa. La città e il ter­ri­to­rio si sono dun­que tro­vati, fin dall’antichità, al cen­tro delle riva­lità fra le potenze dell’epoca, dall’Egitto dei faraoni all’Impero bizan­tino pas­sando per Roma. Là, nel 634 della nostra era, avvenne la prima vit­to­ria accer­tata sull’Impero bizan­tino da parte degli adepti di una reli­gione ancora sco­no­sciuta, l’islam; il pro­feta Mao­metto era morto due anni prima. Gaza rimase sotto il con­trollo musul­mano fino alla prima guerra mon­diale, con alcuni inter­ludi più o meno lun­ghi: regni cro­ciati; inva­sione mon­gola; spe­di­zione di Bona­parte. «Facile da pren­dere, facile da per­dere», spiega Jean-Pierre Filiu nel suo libro Histoire de Gaza (Fayard, Parigi, 2012), il più appro­fon­dito dedi­cato a que­sto ter­ri­to­rio. Il gene­rale bri­tan­nico Edmund Allenby strappò Gaza, porta della Pale­stina, all’Impero otto­mano il 9 novem­bre 1917, apren­dosi così la strada verso Geru­sa­lemme, dove entrò l’11 dicembre.
Per Lon­dra, non si trat­tava solo di bat­tere il sul­tano, alleato della Ger­ma­nia e dell’Impero austro-ungarico, ma di assi­cu­rarsi il con­trollo di un ter­ri­to­rio stra­te­gico e garan­tire la pro­te­zione del fianco est del canale di Suez, vena giu­gu­lare dell’impero, via di comu­ni­ca­zione vitale fra il vice­re­gno delle Indie e la metro­poli. I bri­tan­nici dun­que scon­fig­gono le ambi­zioni fran­cesi in Terra santa. Nel 1922, otten­gono il man­dato della Società delle Nazioni (Sdn) per ammi­ni­strare il ter­ri­to­rio che da allora viene chia­mato «Pale­stina», e al quale Gaza appar­tiene. Hanno anche il com­pito di appli­care la «dichia­ra­zione di Bal­four», cioè aiu­tare a creare una patria nazio­nale ebraica e inco­rag­giare l’immigrazione sio­ni­sta; lo fanno con zelo fino al 1939.
Gaza e la sua regione pren­dono parte a tutti i com­bat­ti­menti dei pale­sti­nesi, musul­mani e cri­stiani, con­tro la colo­niz­za­zione sio­ni­sta e con­tro la pre­senza bri­tan­nica. Con­tri­bui­scono alla grande rivolta pale­sti­nese del 1936–1939, schiac­ciata infine dai bri­tan­nici. Una scon­fitta che priva a lungo i pale­sti­nesi di una qual­si­vo­glia dire­zione poli­tica, lasciando ai governi arabi il com­pito – se così si può dire – di difen­dere la loro causa.
Il 15 mag­gio 1948, all’indomani della pro­cla­ma­zione dello Stato di Israele, gli eser­citi arabi entrano in Pale­stina. Prima guerra, prima disfatta araba. Il ter­ri­to­rio pre­vi­sto per lo Stato di Pale­stina dal piano di spar­ti­zione votato all’Assemblea gene­rale delle Nazioni unite, il 29 novem­bre 1947, va in fran­tumi. Israele annette una parte, la Gali­lea. La Gior­da­nia assorbe la riva occi­den­tale del Gior­dano, cono­sciuta come Cisgior­da­nia. La stri­scia di Gaza – un ter­ri­to­rio di 360 chi­lo­me­tri qua­drati che com­prende le città di Gaza, Khan You­nis e Rafah – passa sotto l’amministrazione mili­tare egi­ziana; resta l’unico ter­ri­to­rio pale­sti­nese sul quale non viene eser­ci­tata alcuna sovra­nità stra­niera. Agli ottan­ta­mila abi­tanti autoc­toni si sono aggiunti oltre due­cen­to­mila rifu­giati espulsi dall’esercito israe­liano, i quali vivono mise­ra­mente e sognano solo il ritorno a casa. Que­sta mas­sic­cia pre­senza di rifu­giati e lo sta­tus par­ti­co­lare del ter­ri­to­rio faranno di Gaza uno dei cen­tri del rina­sci­mento poli­tico palestinese.
Mal­grado il con­trollo da parte del Cairo – eser­ci­tato prima dal re, poi da Gamal Abdel Nas­ser e dagli «uffi­ciali liberi» che nel 1952 hanno rove­sciato la monar­chia –, i pale­sti­nesi si orga­niz­zano in modo auto­nomo, effet­tuano azioni di guer­ri­glia con­tro Israele, mani­fe­stano con­tro ogni ten­ta­tivo di inse­diare defi­ni­ti­va­mente a Gaza i rifu­giati. Già allora, Israele com­pie pesanti rap­pre­sa­glie, nelle quali si distin­gue per la sua bru­ta­lità un gio­vane uffi­ciale ancora sco­no­sciuto: Ariel Sha­ron.
Il 28 feb­braio 1955, Sha­ron comanda un raid con­tro Gaza che fa tren­ta­cin­que morti fra i sol­dati egi­ziani (oltre a ucci­dere due civili) e otto fra gli israe­liani. Il primo marzo, su tutto il ter­ri­to­rio si ten­gono grandi mani­fe­sta­zioni di pro­te­sta con­tro la pas­si­vità egi­ziana. Que­sto pro­duce una svolta nella poli­tica estera dell’uomo forte dell’Egitto, Nas­ser. Fino ad allora con­si­de­rato da molti suoi con­cit­ta­dini piut­to­sto vicino agli Stati uniti, egli decide, in piena guerra fredda, di avvi­ci­narsi a Mosca. Men­tre si reca alla con­fe­renza di Ban­dung che, nel marzo 1955, segna la nascita del Movi­mento dei non alli­neati, Nas­ser incon­tra il mini­stro degli esteri cinese Ciu en Lai, anch’egli in pro­cinto di recarsi alla con­fe­renza; gli chiede se i sovie­tici accet­te­reb­bero di dare armi al suo paese. La rispo­sta si fa atten­dere, ma infine il 30 set­tem­bre 1955 è annun­ciato l’accordo per la con­se­gna di arma­menti ceco­slo­vac­chi. Così, l’Urss spezza il mono­po­lio occi­den­tale della ven­dita di armi al Medio­riente, ed entra in modo ecla­tante sulla scena regionale.
Inol­tre Nas­ser lascia ai pale­sti­nesi di Gaza mag­giore libertà di orga­niz­zarsi in gruppi com­bat­tenti. Il 26 luglio 1956, il rais nazio­na­lizza la com­pa­gnia del canale di Suez. Ne segue l’aggressione tri­par­tita con­tro l’Egitto da parte di Israele, Fran­cia e Gran bre­ta­gna, che si con­clude con la con­qui­sta del Sinai e della stri­scia di Gaza. Que­sta rimane sotto il con­trollo israe­liano fino al marzo 1957.
La resi­stenza clan­de­stina si orga­nizza. Il bilan­cio umano dell’occupazione è par­ti­co­lar­mente pesante, con molti mas­sa­cri di civili com­piuti dall’«esercito più etico del mondo». Ad esem­pio, a Khan You­nis, decine di per­sone ven­gono alli­neate con­tro un muro e uccise a mitra­gliate; altre sono abbat­tute a colpi di pistola. Il bilan­cio è fra due­cen­to­set­tan­ta­cin­que e cin­que­cento per­sone uccise.
Quando Israele, soprat­tutto su pres­sione sta­tu­ni­tense, libera il Sinai e Gaza, Nas­ser e il nazio­na­li­smo arabo rivo­lu­zio­na­rio sono all’apice della popo­la­rità. Nei campi di rifu­giati, la nuova gene­ra­zione pale­sti­nese in esi­lio vi vede la rispo­sta alla scon­fitta del 1948–49. Milita in orga­niz­za­zioni come il Movi­mento dei nazio­na­li­sti arabi, creato da George Abbash, nel par­tito Baath o nei vari movi­menti nasseristi.Per que­sti gio­vani, l’unità araba è la strada per la libe­ra­zione della Palestina.
Dalla loro espe­rienza a Gaza, un gruppo di uomini trarrà invece la lezione oppo­sta. Essi hanno affron­tato diret­ta­mente Israele e misu­rato come il soste­gno arabo, anche da parte di Nas­ser, sia con­di­zio­nato – del resto, alcuni di loro cono­sce­ranno anche le pri­gioni egi­ziane. Per que­sti mili­tanti, la libe­ra­zione della Pale­stina può avve­nire solo a opera degli stessi pale­sti­nesi. Nel 1959 si radu­nano intorno a Yas­ser Ara­fat, egli stesso rifu­giato a Gaza nel 1948, per fon­dare Fatah, che è l’acronimo arabo, al con­tra­rio, di «Movi­mento nazio­nale pale­sti­nese». Fra i mili­tanti gazawi della prima ora, desti­nati a gio­care un ruolo cen­trale negli anni 1970–80, vi sono Salah Kha­laf (Abu Iyad), Kha­lil el Wasir (Abu Jihad), poi diven­tato il numero due di Fatah e assas­si­nato dagli israe­liani a Tunisi nel 1988, e Kamal Adwan, assas­si­nato da un com­mando israe­liano a Bei­rut nel 1973.
Il loro gior­nale Fali­sti­nouna («La nostra Pale­stina»), pub­bli­cato a Bei­rut negli anni fra il 1959 e il 1964, pro­clama: «Tutto quello che vi chie­diamo, è che voi [i regimi arabi] cir­con­diate la Pale­stina con una cin­tura difen­siva così da cir­co­scri­vere la guerra fra noi e i sio­ni­sti». E anche: «Tutto quello che vogliamo, è che voi [i regimi arabi] togliate le mani dalla Pale­stina». In quell’epoca, all’apice dell’influenza di Nas­ser, ci vuole un certo corag­gio per dichia­rare simili eresie.

Eppure, già alla metà degli anni 1960, con il fal­li­mento del ten­ta­tivo di unione fra Egitto e Siria (1958–1961), che rivela l’impotenza dei paesi arabi di fronte al corso degli eventi, il vento comin­cia a girare. La lotta di libe­ra­zione alge­rina, che si con­clude con la vit­to­ria nel 1962, funge da modello.

Nel gen­naio 1965, Fatah lan­cia le prime azioni mili­tari con­tro Israele e vede affluire mili­tanti da altre orga­niz­za­zioni, stan­che di aspet­tare un’unità araba sem­pre più impro­ba­bile. La scon­fitta del giu­gno 1967, con la guerra dei sei giorni, con­sente a Fatah di diven­tare una forza signi­fi­ca­tiva e di assu­mere, con l’avallo di Nas­ser, il con­trollo dell’Organizzazione per la libe­ra­zione della Pale­stina (Olp). Nel feb­braio 1969, Ara­fat diventa pre­si­dente del comi­tato ese­cu­tivo dell’Olp. I pale­sti­nesi sono tor­nati a essere un grande attore nella poli­tica regio­nale, e Gaza ha con­tri­buito note­vol­mente a que­sto rinnovamento.

Che cosa suc­cede al ter­ri­to­rio in que­sto periodo? Occu­pato da Israele, vede orga­niz­zarsi una resi­stenza mili­tare che rag­gruppa una quan­tità di orga­niz­za­zioni, salvo i Fra­telli musul­mani che si rifu­giano nell’azione sociale. Il primo attacco con­tro l’esercito di occu­pa­zione si veri­fica l’11 giu­gno 1967, ovvero all’indomani del ces­sate il fuoco fir­mato dall’Egitto e dai paesi arabi con Israele. Con alti e bassi, gli attac­chi con­ti­nuano fino al 1971. Per venirne a capo, occor­rerà la bru­ta­lità dei carri armati di Sha­ron e di innu­me­re­voli ese­cu­zioni extra­giu­di­ziali. Ma, se la resi­stenza mili­tare viene schiac­ciata, le ini­zia­tive poli­ti­che si mol­ti­pli­cano, e soprat­tutto i con­tatti con la Cisgior­da­nia, molto limi­tati prima del 1967. Le éli­tes si uni­scono all’Olp, che rico­no­scono come «unico rap­pre­sen­tante del popolo palestinese».

Gli unici a rifiu­tare sono i Fra­telli musul­mani. Essi si radi­cano pro­fon­da­mente gra­zie alle loro reti sociali e alla tol­le­ranza delle auto­rità di occu­pa­zione, che vedono in loro un con­trap­peso rispetto al nemico prin­ci­pale, l’Olp. Fon­data nel 1973 dallo sceicco Ahmed Yas­sin, la mujama’ isla­miya («cen­tro isla­mico») viene lega­liz­zata dall’occupante. Ma que­sto atten­di­smo – l’ora della resi­stenza non sarebbe ancora arri­vata – suscita pro­te­ste fra i Fra­telli; agli inizi degli anni 1980 una scis­sione porta alla nascita della Jihad islamica.

Nel dicem­bre 1987, è a Gaza che scop­pia la prima Inti­fada, la «rivolta delle pie­tre». Con due con­se­guenze impor­tanti. Da una parte, i Fra­telli impri­mono una svolta signi­fi­ca­tiva alla pro­pria stra­te­gia creando il Movi­mento della resi­stenza isla­mica (Hamas), che par­te­cipa all’Intifada ma rifiuta di for­mare un fronte unico con le altre orga­niz­za­zioni. D’altra parte, l’Olp uti­lizza la rivolta per raf­for­zare la pro­pria cre­di­bi­lità e nego­ziare gli accordi di Oslo, gui­dati da Ara­fat e dal primo mini­stro israe­liano Itz­hak Rabin il 13 set­tem­bre 1993 a Washing­ton. Il 1° luglio 1994, Ara­fat apre a Gaza la sede dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese.
Il seguito è noto: fal­li­mento degli accordi; svi­luppo della colo­niz­za­zione; seconda Inti­fada (a par­tire dal set­tem­bre 2000); vit­to­ria di Hamas alle prime ele­zioni demo­cra­ti­che tenu­tesi in Pale­stina nel 2006; rifiuto dei paesi occi­den­tali di rico­no­scere il nuovo governo, e alleanza fra una fazione di Fatah e Stati uniti per porvi fine; arrivo al potere di Hamas a Gaza nel 2007; blocco israe­liano impo­sto da allora a un milione e mezzo di abitanti.

La stri­scia di Gaza, mal­grado l’evacuazione dell’esercito israe­liano nel 2005 – senza alcun coor­di­na­mento con l’Autorità nazio­nale pale­sti­nese –, con­ti­nua a essere occu­pata. Tutti i suoi accessi dal mare, dalla terra e dal cielo con­ti­nuano a dipen­dere da Israele, che vieta ai pale­sti­nesi impor­tanti por­zioni del ter­ri­to­rio (il 30% delle terre agri­cole) e il mare al di là delle sei miglia nau­ti­che (ridotte a tre a par­tire dall’inizio dell’operazione mili­tare in luglio). Gli israe­liani con­ti­nuano a gestire lo stato civile. Il blocco che man­ten­gono dal 2007 sof­foca la popo­la­zione, mal­grado le con­danne una­nimi – uni­ca­mente ver­bali, è vero – da parte della «comu­nità inter­na­zio­nale», com­presi gli Stati uniti.

Dopo il suo ritiro, Israele ha con­dotto tre ope­ra­zioni di grande por­tata con­tro i ter­ri­tori: nel dicem­bre 2008-gennaio 2009; nel novem­bre 2012; infine nel luglio 2014. Fin­ché il blocco non sarà tolto, fin­ché i pale­sti­nesi non avranno uno Stato indi­pen­dente, ogni nuovo ces­sate il fuoco sarà solo una tre­gua. Il gene­rale de Gaulle lo aveva pre­detto, in una cele­bre con­fe­renza stampa tenuta il 27 novem­bre 1967 dopo la guerra arabo-israeliana: «Non ci può essere occu­pa­zione senza oppres­sione, repres­sione, espul­sioni»; le quali pro­vo­cano «la resi­stenza [che Israele]chiama ter­ro­ri­smo».

(Tra­du­zione di Mari­nella Cor­reg­gia)

© Le Monde diplomatique/ilmanifesto

Il rais Maliki tenta il golpe ma perde la poltrona | Fonte: il manifesto | Autore: Chiara Cruciati

Il pre­si­dente ira­cheno lan­cia il guanto di sfida con­tro il pre­mier Nouri al-Maliki. Ieri dopo giorni di alta ten­sione poli­tica, il curdo Fouad Mas­soum, neo eletto pre­si­dente della repub­blica, ha nomi­nato primo mini­stro il vice pre­si­dente del par­la­mento, Hai­der al-Abadi, mem­bro di Stato di Diritto, stesso par­tito di Maliki, tor­nato dall’esilio negli Usa dopo la caduta di Sad­dam Hus­sein. Ora al-Abadi ha 30 giorni di tempo per for­mare un nuovo governo e otte­nere la fidu­cia parlamentare.

All’ex pre­mier resta la carica di coman­dante in capo delle forze mili­tari, un’eventualità che fa temere un pos­si­bile colpo di mano: men­tre al-Abdadi pro­met­teva di «pro­teg­gere il popolo ira­cheno», il “depo­sto” Maliki annun­ciava il ricorso alla corte costi­tu­zio­nale. Una ven­detta già anti­ci­pata dal ten­ta­tivo di colpo di Stato di dome­nica scorsa.
Non basta­vano le vio­lenze dell’Isil con­tro i civili e l’occupazione di un terzo del paese, le ese­cu­zioni som­ma­rie, le chiese distrutte e le moschee in mace­rie. A dare il colpo di gra­zia era stato dome­nica pro­prio Maliki, uno dei respon­sa­bili del set­ta­ri­smo che insan­guina l’Iraq da anni. Il pre­mier (o meglio, ex), in un atto di grave irre­spon­sa­bi­lità, dopo aver impe­dito con ogni mezzo la sua depo­si­zione a favore di un governo di unità nazio­nale, è stato il pro­ta­go­ni­sta di un atto che sfiora il colpo di Stato. Due giorni fa ha aper­ta­mente accu­sato il pre­si­dente Mas­soum di vio­la­zione della costituzione.

Un’accusa gra­vis­sima a cui è seguito il dispie­ga­mento di forze mili­tari e poli­ziotti fedeli al pre­mier intorno alla zona verde della capi­tale, sede for­ti­fi­cata delle amba­sciate, gli uffici mini­ste­riali e gover­na­tivi, l’abitazione del primo mini­stro e il par­la­mento. Carri armati sotto il diretto con­trollo dell’ex pre­mier hanno occu­pato in breve tempo le strade e i ponti prin­ci­pali della capi­tale, men­tre mili­ziani ini­zia­vano il pat­tu­glia­mento dei quar­tieri sciiti.

Il mas­sic­cio arrivo di forze mili­tari – che pro­se­gue ancora oggi – è comin­ciato nella serata di dome­nica, intorno alle 20.30, sini­stra anti­ci­pa­zione del discorso che di lì a poco Maliki avrebbe tenuto di fronte alle tele­ca­mere dalla tv di Stato: l’intenzione di denun­ciare il pre­si­dente Mas­soum, con­si­de­rato col­pe­vole di aver vio­lato la costi­tu­zione per non aver­gli affi­dato il terzo man­dato con­se­cu­tivo per la for­ma­zione del nuovo governo. Un atto di impea­ch­ment rivolto al par­la­mento e che scuote il già fra­gile spet­tro poli­tico iracheno.

A monte sta la riven­di­ca­zione di Maliki di vit­to­ria alle ele­zioni di fine aprile. In realtà, quelle con­sul­ta­zioni elet­to­rali si chiu­sero con risul­tati quan­to­meno incerti: Stato di Diritto non ottenne la mag­gio­ranza asso­luta, ma 92 seggi su 328. I ten­ta­tivi di alleanze con par­titi sciiti, nell’obiettivo di raci­mo­lare i 165 seggi neces­sari a gover­nare il paese, sono fal­liti lasciando l’Iraq in un gra­vis­simo stallo poli­tico che ha faci­li­tato l’avanzata dell’Isil.

Imme­diata la rea­zione della comu­nità inter­na­zio­nale, che da tempo pre­meva per un allon­ta­na­mento di Maliki: messo a sedere sulla pol­trona di pre­mier dall’occupazione Usa, è con­si­de­rato uno dei respon­sa­bili della set­ta­riz­za­zione dell’Iraq, por­tata avanti con poli­ti­che discri­mi­na­to­rie delle comu­nità sun­nita e curda, estro­messe dalla gestione del potere poli­tico ed eco­no­mico. L’inviato spe­ciale dell’Onu a Bagh­dad Mla­de­von ha denun­ciato il quasi colpo di Stato, chie­dendo alle forze mili­tari di «aste­nersi da inter­fe­renze nel pro­cesso poli­tico demo­cra­tico». Da Washing­ton il segre­ta­rio di Stato Kerry ha riba­dito il soste­gno sta­tu­ni­tense al pre­si­dente Mas­soum e chie­sto a Maliki di evi­tare una crisi poli­tica che avrebbe il solo deva­stante effetto di aggra­vare la già dram­ma­tica emer­genza umanitaria.

Sul campo con­ti­nuano i bom­bar­da­menti ame­ri­cani alle posta­zioni dell’Isil, ini­ziati venerdì a nord, a poca distanza dalla capi­tale della regione auto­noma del Kur­di­stan. Allo sgan­cia­mento di bombe, è seguito l’invio di armi diret­ta­mente ai pesh­merga, impe­gnati da due mesi nel ten­ta­tivo di argi­nare l’offensiva jiha­di­sta che ora minac­cia diret­ta­mente i con­fini curdi e i ter­ri­tori uffi­cio­sa­mente con­qui­stati da Irbil, tra cui la stra­te­gica Kirkuk.

Dalla Casa Bianca la con­ferma uffi­ciale è giunta ieri: da una set­ti­mana, secondo il Dipar­ti­mento di Stato, armi e muni­zioni sta­tu­ni­tensi stanno rag­giun­gendo il Kur­di­stan. Ma sul piano diplo­ma­tico, il pre­si­dente Obama insi­ste per la for­ma­zione di un governo di unità nazio­nale, inclu­sivo delle mino­ranze, con­di­zione ad un inter­vento più ampio da parte dell’aviazione Usa. «Riaf­fer­miamo il soste­gno ad un pro­cesso di sele­zione di un primo mini­stro che possa rap­pre­sen­tare le aspi­ra­zioni del popolo ira­cheno e creare con­senso nazio­nale», ha com­men­tato la por­ta­voce del Dipar­ti­mento di Stato, Jen Psaki.

Il mes­sag­gio per il rais Maliki è chiaro: farsi da parte. A favore dell’ex primo mini­stro c’è l’enorme potere archi­viato in otto anni, una rete clien­te­lare rami­fi­cata e il con­trollo totale delle forze armate a capo delle quali ha posto pro­pri uomini. Resta da vedere se par­la­mento e pre­si­dente riu­sci­ranno ad argi­nare tale potere.

“Il caos irakeno è funzionale alla spartizione dell’Iraq”. Intervista a Fabio Alberti Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

Fabio Alberti è stato per un lunghissimo periodo portavoce di “Un ponte per…”. E quindi conosce da vicino la realtà dell’Iraq e i molti tasselli di cui è composta. 

In Iraq siamo al caos più assoluto. Che idea ti sei fatto, e quali sviluppi potrebbero esserci?
Impossibile riuscire a fare delle previsioni. Si può, al più, ragionare su alcuni scenari. Da una parte quello a cui stiamo assistendo è la conseguenza diretta dell’invasione del 2003 da parte degli Usa, e il tipo di gestione che fu sviluppata, tutta incentrata sulla coltivazione del settarismo. Da un altro punto di vista sembra prorio all’opera la teaoria del caos costruttivo, propria di un certo pensiero liberal che quindi vede in questa fase sviluppi funzionali al proprio disegno.

Come spieghi il successo militare del fondamentalismo islamico?
Il successo militare dell’Isis non sarebbe possibile senza una alleanza con i vari raggruppamenti sunniti dell’Iraq, ovvero con quegli schieramenti che pure avevano tentato una sorta di confronto con Al Maliki e si sono visti chiudere la porta in faccia. Costoro avevano addirittura combattuto contro Al Quaeda. In quel contesto gli unici a chiedere un processo di riconciliazione furono proprio i partiti di sinistra, comunisti compresi. Di fronte all’azione di frazionamento perseguita dall’Arabia Saudita in funzione anti-Iran,gli Stati uniti hanno lasciato fare, con il risultato che oggi ci ritroviamo di fronte alla possibilità non più così remota di una spartizione dell’Iraq.

Gli Stati uniti hanno deciso di rimettersi in gioco?
Credo che il nuovo intervento degli Usa sia più dettato dalla pressione dell’opinione pubblica che per trovare una qualche via d’uscita strategica.

In questa situazione i Kurdi sembrano quelli con una maggiore stabilità.
La verità è che sono tra mille fuochi. Prima in Siria e adesso inIraq. Se non arriva presto la solidarietà internazionale la vedo dura per loro.

Cerchiamo di capire il disegno dell’Isis…
L’Isis sta lavorando a un proprio territorio di riferimento e ad assicurarsi risorse proprie. E’ un assetto pericoloso. Dall’altra parte l’alleanza con i sunniti è del tutto strumentale. E infatti bisognerà capire bene cosa potrebbe succedere in un percorso di riconciliazione nazionale basata sulla convergenza dei vari settori religiosi. Mi sembra di capire che l’Isis non possa continuare più di tanto in queste pratiche di guerra che coinvolgono le popolazioni come nel caso dei Yazidi. E’ evidente che se non ci fosse un finanziamento potente non avrebbero qeusto peso. Il fondamentalismo diventa efficace con i petrodollari.

In tutto questo, il ruolo delle Ong?
Nonostante quanto sta avvenendo le Ong stanno portando avanti i loro programmi, anche nel dare sostegno alla società civile dell’Iraq.Lo scorso ottobre c’è stato un forum e un altro incontro è previsto per novembre prossimo ad Oslo. Comunque ci sono in Iraq delle importanti battaglie per i diritti civili da portare avanti nel campo sindacale, per esempio, come in quello per la libertà di stampa e nella pubblica amministrazione, appannaggio ormai delle varie correnti religiose.

Il vostro ruolo in Iraq?
Un ponte per… sta operando da allora per rispondere all’emergenza. Abbiamo distribuito, fino ad ora, acqua, succhi di frutta, pasti ipercalorici, latte in polvere, cibo, kit igienici per accogliere chi sta fuggendo disperato. Ma la guerra non si arresta, ogni giorno ci sono nuovi bisogni. Interi quartieri della città di Erbil sono pieni di profughi, così come scuole e parchi pubblici. Stiamo sviluppando una campagna di sostegno.