“Da Gaza a Niscemi, resistenza”. I No Muos sfilano in migliaia intorno alla base Usa | Autore: fabrizio salvatori da. controlacrisi.org

Alcune migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione No Muos che oggi pomeriggio si è svolta nella contrada Ulmo nei pressi di Niscemi. Sindaci e amministratori di una decina di comuni, cittadini, ragazzi dei centri sociali, lavoratori, hanno sfilato per raggiungere i cancelli della base americana di trasmissione Muos, il sistema satellitare di telecomunicazioni ad altissima frequenza, e chiederne la chiusura.
In tre delle 46 antenne del presidio statunitense ci sono ancora, arrampicati ai tralicci, i sette attivisti “No Muos” che dalla mezzanotte di giorno 6 manifestano il loro dissenso alla presenza degli americani a Niscemi. Massiccio lo schieramento di forze dell’ordine con un elicottero della polizia che ha sorvolato per tutto il tempo la zona.

Lungo il corteo di oggi, tra bandiere e cartelli, numerosi gli striscioni di solidarieta’ con il popolo palestinese. In uno si legge : da Niscemi a Gaza, Resistenza (Al Murawam). Tra le varie associazioni scese in piazza, presente anche il comitato “Mamme no Muos”. ”Siamo a fianco dei pacifisti che anche oggi, manifestando contro il Muos, dicono ‘no’ alla guerra e dimostrano che non è vero che se se vuole la pace bisogna preparare la guerra”, afferma il sindaco di Palermo e presidente di AnciSicilia, Leoluca Orlando.
In testa al corteo, intanto, in un secchio, sono stati bruciati i provvedimenti della magistratura di divieto di dimora emessi nei confronti di 29 attivisti indagati resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale.
“Questi divieti di dimora e in generale tutti questi provvedimenti repressivi – affermano – altro non sono che divieti di vivere e difendere la nostra terra esposta a enormi e gravi rischi ai danni dell’ambiente e della salute”. “Il movimento ha dimostrato ancora una volta che non teme – sostengono – la repressione e che lottera’ sempre e in maniera compatta con la stessa caparbieta’ per il diritto all’autodeterminazione della popolazione autoctona e a vivere una vita dignitosa nella propria terra senza il pericolo di incorrere a danni irreparabili per la salute”.

Ma la battaglia contro il Muos si è spostata anche all’europarlamento, il pentastellato Ignazio Corrao, infatti, sbarcato a Bruxelles da Palermo ha presentato un’interrogazione per far luce sull’inquinamento della falda acquifera di contrada Polo (una di quelle che rifornisce il comprensorio niscemese), nei pressi della base americana. ”Il Muos? Se lo mettano davanti alla Casa Bianca, noi non lo vogliamo”, dichiara Corrao. Le analisi effettuate, infatti, testimonierebbero la presenza di idrocarburi pesanti ben oltre i limiti di legge, che poco si sposano con una riserva naturale come quella della sughereta. Le attività della base Usa potrebbero giocare un ruolo rilevante in questo senso? E’ quello che mira a scoprire l’interrogazione, che alla Commissione europea chiede se è a conoscenza di questi fatti e, in caso affermativo, quali azioni intende avviare per salvaguardare la salute e i diritti del cittadini.
”La gravità della situazione – dice Corrao – sarebbe confermata da un comunicato ufficiale della base di Sigonella che nel 2012 vietava al personale militare che presta servizio a Niscemi di bere l’acqua dai rubinetti per la presenza di inaccettabili livelli di bromato, classificato dall’organizzazione mondiale della sanità come possibile cancerogeno per l’uomo. Non si può fare finta di nulla – conclude l’europarlamentare – di fronte a pericoli che sono ben più che teorici, specie ora che si avvicina l’attivazione del temuto mega impianto radar. C’erano già le antenne e una intensa attività della base a turbare le notti della gente, ora pure il Muos. Queste parabol le portino oltreoceano. Noi non siamo una colonia americana”.

Cobas chiama il dissenso Cgil: “Costruiamo iniziative comuni su pensioni e orario?”. Intervista a Federico Giusti | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Federico Giusti, Cobas pubblico impiego, sono partite le assemblee di cgil cisl uil per approvare la piattaforma su fisco e previdenza: qual è la vostra posizione?
Innanzitutto le piattaforme si costruiscono non a tavolino ma a partire dai luoghi di lavoro e dalla società, l’esatto contrario di quanto sta accadendo. Le assemblee in agosto poi la dicono lunga sull’obiettivo della campagna che non vuole un coinvolgimento diretto e attivo della forza lavoro, dei giovani e disoccupati ma una sorta di via libera ad una trattativa al ribasso visto che il Governo Renzi non sta trovando opposizione da parte di Cgil Cisl Uil nonostante vada devastando la pubblica amministrazione e il welfare.Dall’interno della Cgil si fanno sentire voci critiche verso la propria segreteria generale, per essersi trovata d’accordo con Cisl e Uil su quella piattaforma e senza una una decisione democratica nei vari settori della Cgil stessa; noi vorremmo partire da queste considerazioni con una domanda: ve la sentite di contruire iniziative comuni sui contenuti e sulle pratiche di opposizione, oppure la stessa Rete 28 aprile si limita ad un dissenso formale che non va oltre le parole?.

Ma la critica si estende anche al contenuto della piattaforma?
E ci mancherebbe altro, del resto la posizione di Sergio Bellavita su Alitalia è pienamente condivisibile anche laddove critica Usb per avere sottoscritto una parte di questo infame accordo. Sul tema del fisco, la richiesta di ridurne il peso su stipendi e pensioni, di per sé condivisibile, non affronta il tema della lotta all’ingiustizia fiscale, per colpire come si dovrebbe patrimoni alti e medio-alti, rendite e profitti. Questo punto è dirimente, non una questione di principio ma il solo strumento per far arrivare risorse nelle casse statali per impedire la demolizione dello stato sociale (sanità, istruzione, assistenza ai cittadini senza lavoro perché colpiti dalla crisi in atto).

Sul tema delle pensioni -continua ancora la critica interna alla Cgil- non si chiede la cancellazione della legge Fornero, ma soltanto parziali correzioni degli elementi di maggiore ingiustizia, tra cui la questione dei cosiddetti “esodati” (lavoratori licenziati e spediti in mobilità in attesa di una pensione, poi mai arrivata). All’indomani della sortita governativa che minaccia un ulteriore aumento dell’età necessaria per andare in pensione, nulla la piattaforma Cgil-Cisl-Uil dice a questo proposito. Come pensiamo di costruire nuovi posti di lavoro se si va in pensione alle soglie dei 70 anni vuoi per le riforme previdenziali, vuoi perchè dopo anni di precariato hai assegni previdenziali da fame, calcolati con il sistema contributivo che andrebbe seriamente rimesso in discussione, al pari del meccanismo che ha eliminato ogni automatico adeguamento del potere di acquisto di salari e pensioni al costo della vita. Pensiamo ad un lavoratore dipendente da quasi sei anni senza contratto: quanto ha perso il potere di acquisto in termini reali? Centinaia di euro all’anno, migliaia, soldi che non saranno piu’ restituiti neppure in infima parte.

Hanno fuso nel frattempo alcuni fondi previdenziali integrativi (sirio e perseo, per esempio)…
Non c’è un euro e i lavoratori non si fanno piu’ abbindolare dalla sirena dei fondi previdenziali. Nell’ultimo anno non abbiamo piu’ visto i sindacalisti distaccati se non per promuovere i fondi previdenziali, la conseguenza è che tutti plaudono ai tagli dei permessi sindacali non capendo la posta in gioco. Un impiegato che sta per andare in pensione in un Comune a 64 anni di età e oltre 41 di contributi ci diceva: ” basta con i sindacalisti di mestiere che vengono a fare i piazzisti dei fondi previdenziali, se poi gli levano i permessi non vengano a piangere da noi”. Come dargli torto? Chi andrà a spiegare a questo lavoratore con quasi 40 anni di tessera Cgil che la Riforma della Pa lo colpisce direttamente come lavoratore e cittadino attaccando il lavoro e il welare?

Pericoloso, per tornare ala piattaforma, che sia riproposto il meccanismo del silenzio/assenso per destinare il proprio TFR ai fondi pensionistici della previdenza complementare. Il che vuol dire che, per non volere aderire a questa fregatura (dal 2007, anno di lancio in grande stile di questi fondi, l’investimento fatto da non pochi lavoratori che vi hanno aderito ha causato loro perdite notevoli di interessi rispetto a quelli maturati dal TFR lasciato in azienda), occorre che tu lo dichiari formalmente per iscritto, perché il silenzio, magari dovuto a dimenticanza, viene considerato adesione!

Quali sono allora le vostre proposte?
Come Cobas, mentre diciamo che siamo d’accordo con queste critiche provenienti dal seno della Cgil, vorremmo aggiungere che nella piattaforma non c’è alcun riferimento al peggioramento, introdotto dal decreto-legge del ministro del lavoro Poletti, ai contratti a termine e all’apprendistato; e neppure si dice qualcosa contro il nuovo attacco al Contratto Nazionale da parte dell’Associazione principale dei padroni, la Confindustria; e non si dice niente nemmeno rispetto a dichiarazioni forcaiole provenienti dall’interno del governo, tese ad abolire totalmente l’articolo 18, quello che conserva, anche se minima, una tutela rispetto ai licenziamenti illegittimi. Insomma, ogni rivendicazione contro il padronato resta tabù.

E meno che mai si affronta la questione del sostegno economico per disoccupati e precari. Quindi andiamo a proporre a chi è critico dentro la Cgil di costruire insieme nei luoghi di lavoro posizioni condivise e una pratica conseguente. Allo stato attuale manca proprio a una vertenza che risponda adeguatamente ai bisogni dei lavoratori, dei disoccupati, degli inoccupati, dei pensionati, dei precari, degli apprendisti.

Una vertenza che apra seriamente una stagione di riconquista dei diritti, quindi ripartiamo dalle posizioni comuni e soprattutto non lasciamo che attorno a queste assemblee si costruisca un consenso a posizioni , quelle di cgil cisl uil, che sono ormai la stampella su cui si sorregge il Governo.

In vista del prossimo autunno dovremmo costruire una piattaforma alternativa sugli stessi temi, non limitarci ad un mero dissenso. Ma chi se la sente di andare oltre gli steccati e ragionare a tutto campo?

Il silenzio sull’apartheid a Gaza | Fonte: Il Manifesto | Autore: Tommaso Di Francesco

Le fami­glie erano tor­nate nelle loro case senza tro­varle, i bam­bini gio­ca­vano vicino ai fune­rali dei loro coe­ta­nei, i pesca­tori get­ta­vano reti senza spe­ranza. 72 ore senza bom­bar­da­menti israe­liani, ma dal Cairo non pote­vano arri­vare né l’estensione della tre­gua né la pace. Per­ché i pale­sti­nesi sono soli. Per i governi euro­pei, che i ter­ri­tori pale­sti­nesi restino occu­pati è un fatto mar­gi­nale. Il governo ita­liano dell’ex scout Renzi che ha taciuto su tutti mas­sa­cri di que­sti giorni, è impe­gnato in uno sforzo di diplo­ma­zia par­roc­chiale: invia alla gente di Gaza, pen­sate, 30 ton­nel­late di aiuti. Gli aiuti ser­vono e quel che resta della sini­stra deve rac­co­glierli, a par­tire dai medi­ci­nali e soste­nendo le orga­niz­za­zioni uma­ni­ta­rie pale­sti­nesi. Ma per favore basta ele­mo­sina e com­pli­cità. Per­ché l’Italia tace sul Trat­tato mili­tare in vigore con Israele e non fa come la Spa­gna che, sim­bo­li­ca­mente, ha fer­mato per un mese l’import-export di armi con Israele.

Si è pre­fe­rito dimen­ti­care che la tre­gua annun­ciata di fatto era uni­la­te­rale e che Israele andava al Cairo solo per det­tare con­di­zioni: zona smi­li­ta­riz­zata, e di più, tutta Gaza smi­li­ta­riz­zata, fine dei tun­nel e dei razzi, verso l’esclusione di Hamas dal governo della Stri­scia, come dichiara il mini­stro israe­liano Tzipi Livni. I 29 giorni di «Mar­gine pro­tet­tivo», con la strage di quasi due­mila pale­sti­nesi uccisi, in mag­gio­ranza civili e tanti bam­bini, di otto­mila feriti tra cui molti gra­vis­simi e senza cure ade­guate, di cen­ti­naia di migliaia di senza casa con l’odio che è stato semi­nato, non hanno certo aperto nuovi spi­ra­gli alla crisi.

Che non è il «con­flitto israelo-palestinese» come scri­vono i gior­na­li­sti embed­ded — ma nem­meno il gior­na­li­smo che abbiamo cono­sciuto esi­ste più? -, come se fos­sero due parti eguali, due stati legit­timi e due eser­citi di eguale forza. No. In gioco c’è la que­stione, ormai, ine­lu­di­bile dei diritti del popolo palestinese.

A meno che non si voglia appro­fit­tare della per­ver­sione colo­niale dei tanti governi israe­liani, non solo di Neta­nyahu: una guerra breve ogni due-tre anni con un deserto chia­mato pace, quel tanto da met­tere la que­stione dei diritti del popolo pale­sti­nese in sor­dina, sullo sfondo, gra­zie alle distru­zioni e alle fal­si­fi­ca­zioni che allon­ta­nano la con­sa­pe­vo­lezza di un misfatto: il blocco di Gaza. Che deve essere tolto, e que­sto obiet­tivo non dovrebbe essere solo di Hamas ma del mondo intero. Che dovrebbe ricor­dare che il blocco è stato impo­sto da Israele — invece di rispon­dere alla neces­sità di un cor­ri­doio di col­le­ga­mento tra Gaza e Cisgior­da­nia occu­pata in vista della nascita dello Stato di Pale­stina — per argi­nare l’emergenza rap­pre­sen­tata da Hamas, che nel 2006 vinse le ele­zioni pale­sti­nesi non solo a Gaza ma in tutta la Cisgior­da­nia, affer­man­dosi in alter­na­tiva alla nuova lea­der­ship di Al Fatah emersa dopo l’umiliazione di Ara­fat chiuso dai carri armati israe­liani a Ramal­lah nel 2002 e la sua ucci­sione nel 2004. Una lea­der­ship giu­di­cata dagli stessi pale­sti­nesi cor­rotta e con­ta­mi­nata dal legame con le intel­li­gence occi­den­tali, quella Usa in pri­mis, impe­gnate a con­trol­lare e ad infil­trare ogni scelta auto­noma dell’Autorità nazio­nale pale­sti­nese e a repri­mere ogni dis­senso e radi­ca­lità. Qual­cuno ricorda le moda­lità dell’arresto dell’unico vero lea­der del popolo pale­sti­nese, Mar­wan Bar­ghouti? La rot­tura tra Hamas e Fatah fu anche vio­lenta a Gaza City e vice­versa a Ramal­lah. Ma dopo sei anni, e soprat­tutto di fronte all’inasprirsi dell’occupazione mili­tare israe­liana, delle colo­nie, del Muro che sarà rad­dop­piato, della rapina delle acque e della distru­zione dell’agricoltura pale­sti­nese, della ridu­zione della West Bank in una grande pri­gione di cemento, ecco che è tor­nata l’unità tra i pale­sti­nesi di Gaza e di Cisgior­da­nia. Ecco il vero «razzo Qas­sam» che Neta­nyahu non può sopportare.

Certo Hamas ha le sue respon­sa­bi­lità. I razzi che lan­cia non sono nem­meno la guerra asim­me­trica di una guer­ri­glia armata: sono un niente con­tro­pro­du­cente, un regalo a Neta­nyahu. E van­tare «vit­to­ria» come fanno le Bri­gate Ezze­din al Qas­san sem­bra un tri­ste deli­rio d’impotenza. Ma tra le mace­rie emer­gono alcune novità e una verità. In que­sti giorni — men­tre, nono­stante le distru­zioni della guerra, sem­bra cre­scere anche in Cisgior­da­nia il con­senso per Hamas e in calo quello da Al Fatah — l’Anp chiede alla Corte dell’Aja le moda­lità per ade­rire al Tri­bu­nale penale inter­na­zio­nale dell’Onu e incri­mi­nare così il governo israe­liano. Se è inge­nuo pen­sare che l’iter andrà dav­vero avanti, non va dimen­ti­cato che la richie­sta di ade­rire alle Agen­zie dell’Onu resta l’ultima occa­sione per la cre­di­bi­lità di Abu Mazen e l’ultima vera pos­si­bi­lità pale­sti­nese; men­tre cre­sce la soli­da­rietà inter-palestinese con un pezzo del pro­prio popolo che vive nell’altra pri­gione di Gaza, dove se resta il blocco – e i vali­chi con l’Egitto chiusi dal gol­pi­sta Sisi -, sarà ine­vi­ta­bile e giu­sto sca­vare altri tun­nel per vivere e far entrare beni di prima neces­sità. E la verità, amara, è che se Hamas smet­tesse subito di lan­ciare i razzi, la con­di­zione pale­sti­nese reste­rebbe sem­pre la stessa: un popolo esi­liato in tutto il Medio Oriente, abi­tante dei campi pro­fu­ghi nella sua stessa terra, chiuso da Muri di recin­zione e posti di blocco, invaso da una ragna­tela di colo­nie d’occupazione e inse­dia­menti che hanno can­cel­lato la con­ti­nuità ter­ri­to­riale dello Stato di Pale­stina, che rubano occa­sioni di vita e lavoro, diviso in due ter­ri­tori, uno alla mercé della guerra breve con­ti­nua, l’altro sem­pli­ce­mente colo­niz­zato e zit­tito. E senza alcuna pro­spet­tiva di inte­gra­zione con il nemico occu­pante, se non lo sta­tus perenne di occu­pato.
<CW-5>Jimmy Car­ter, l’ex pre­si­dente ame­ri­cano che ora chiede all’Occidente di rico­no­scere Hamas, ha tito­lato «Apar­theid» il suo bel libro sulla con­di­zione pale­sti­nese. Obama pur­troppo, a quanto pare, non l’ha nem­meno sfogliato