Le novità sulla morte di Borsellino da: antimafia duemila

tranfaglia-nicola-web10di Nicola Tranfaglia – 7 agosto 2014

Nelle conversazioni che Salvatore Riina, più noto nella lingua dei mafiosi siciliani come il capo dei capi, ha scambiato con uno dei capi della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso, nel carcere Opera di Milano, alcuni aspetti della strage di via D’Amelio (compiuto nel luglio 1992 a Palermo e che ha condotto alla morte del magistrato palermitano e di uomini e donne della sua scorta) emergono con maggiore chiarezza e servono a capire meglio la forza di Cosa Nostra e le sue sicure alleanze nell’Italia di quegli anni.

Innanzi tutto l’associazione mafiosa siciliana sapeva esattamente come e quando poteva colpire a morte Paolo Borsellino. Ormai le rivelazioni di Riina sono state trascritte dagli uomini della Direzione Nazionale Antimafia e fanno parte dei materiali inclusi nei fascicoli del processo in corso a Palermo sulla trattativa tra mafia e Stato. L’appuntamento, secondo quello che aveva detto il magistrato, era previsto intorno alle cinque del pomeriggio davanti all’appartamento di Maria Lepanto, madre del magistrato. E i due erano stati intercettati telefonicamente dai mafiosi tanto che questi ultimi avevano deciso di imbottire la centoventisei parcheggiata in via D’Amelio con un altro sacco di esplosivo.
Riina di Borsellino dice: “Era un portentoso magistrato come Giovanni Falcone. Avevano fatto carriera insieme. L’ho cercato per una vita a Marsala (dove Borsellino aveva fatto il procuratore della repubblica,ndr) ma non l’ho mai trovato.” Il collaborante di giustizia Spatuzza, arrivato dopo i primi due processi (e, dopo anni, la rivelazione di Scarantino come falso pentito messo in mezzo per depistare le indagini) ha rivelato che nel garage dove era stata attrezzata la 126 con la bomba per l’attentato c’era una persona che non faceva di sicuro parte di Cosa Nostra.
Ma né le rivelazioni di Riina, che potranno anche seguire a quelle già fatte – se continuerà lo scambio incominciato con il pugliese Alberto Lorusso – né quelle – successive – di Spatuzza rispondono alla domanda di fondo, che ancora resta senza nessuna risposta: una risposta che dovrebbe essere duplice e che riguarda i perché  di quell’assassinio e tutti i mandanti che ebbero interesse ad eliminare, dopo la strage di Capaci, anche Paolo Borsellino e le persone della scorta che doveva proteggerlo. Le risposte, almeno per ora, restano ancora  ipotetiche e senza una precisa, o definitiva, risposta.
Sul perché di quell’assassinio, il tempo che è passato, quel che è successo nei decenni successivi, tutto  induce a far pensare che la strage rispose innanzitutto all’obbiettivo di completare l’opera iniziata vicino all’aeroporto di Palermo e impedire all’amico di Giovanni Falcone di proseguire l’opera di repressione e di indagine approfondita del fenomeno mafioso. Ma, subito viene da chiedere, perché  subito dopo  Capaci e proprio allora?
E qui i documenti, già depositati nel processo di Palermo, e che chi scrive ha potuto consultare, inducono a pensare che fosse allora in pieno svolgimento il confronto aperto tra le richieste presentate nel papello  dai capimafia siciliani guidati ancora da Riina (che sarebbe stato arrestato, qualcuno ricorderà, nel gennaio del 1993) e i ministri Scotti e Conso del governo di allora. E che Borsellino – per le cose dette in pubblico come in privato – fosse il magistrato indiziato come il maggior oppositore di quella trattativa. E’ ancora più difficile capire quali fossero le persone o le forze interessate a compiere o, meglio a far compiere, il sanguinoso attentato ma qui il campo delle ipotesi necessariamente si allarga quanto – per citare un autore che ebbi la fortuna, di conoscere e frequentare come il filosofo del diritto Norberto Bobbio – a quello che potremmo definire come “il campo delle associazioni segrete, o meglio ancora invisibili”. Cioè al riparo da sguardi indiscreti, che hanno albergato nel nostro Paese e con ogni probabilità ancora vi albergano e vi prosperano.

Stop F35, stavolta fermiamoli davvero! Fonte: sbilanciamoci | Autore: Giulio Marcon

Questa settimana sarebbe (stata) in calendario alla camera la nuova mozione per la cancellazione del programma F35. Probabilmente slitterà a settembre, a causa dell’ingorgo di misure da convertire in legge prima della chiusura estiva del parlamento.
Vale la pena riassumere la vicenda degli ultimi mesi. Nel giugno del 2013 il parlamento approva la mozione della maggioranza di governo (e respinge quella di Sel, M5S e dissidenti del Pd) che chiede la sospensione temporanea di nuovi acquisti di F35 e un’indagine conoscitiva per verificare se questi aerei servano o meno. Per fare quest’indagine si riunisce la commissione difesa e dopo un anno (7 maggio 2014), la commissione ci dice che servono ulteriori approfondimenti (quindi si continua con la sospensione) e che però sarebbe auspicabile una revisione del programma fino ad ipotizzare il dimezzamento del finanziamento. Nel frattempo il governo, contravvenendo alla mozione della sua maggioranza, continua a fare contratti per nuovi F35 (nel mese di settembre 2013 e a marzo del 2014) e la ministra Pinotti e Napolitano si mettono di traverso: non bisogna ridurre gli stanziamenti per i sistemi d’arma e gli F35 vanno salvaguardati. Pinotti continua a giocare la carta del rinvio: prima di decidere sugli F35, dice, bisogna aspettare (il 2015 se tutto va bene) il Libro Bianco della Difesa che dovrebbe dirci cosa devono fare le nostre Forze Armate e con quali armi.
Nel frattempo il programma F35 va avanti, avendo contratti già firmati fino al 2016. Faremo sei aerei (o otto, non si sa, il parlamento ancora non ha potuto visionare i contratti). Secondo la Difesa ad oggi abbiamo contrattualizzato la produzione di 130 ali (ciò per cui è stato allestito lo stabilimento di Cameri, oltre che per fare – forse – la manutenzione degli aerei) che impiegano 340 addetti (altroché i 10mila promessi), di cui 180 “in trasferta” dallo stabilimento Alenia di Caselle. Ritorno occupazionale, dunque: modestissimo.
Tutto questo mentre i cacciabombardieri continuano a crescere vertiginosamente nei costi (la Corte dei Conti americana l’ha denunciato ripetutamente) e hanno problemi tecnici gravi: devono atterrare ad ogni temporale, il software non funziona e la sua ultimazione è in ritardo di un anno. Il casco fa vedere doppio al pilota e i prototipi a decollo verticale quando si alzano in volo squagliano l’asfalto. E sono pesantissimi: non possono sopportare uno spillo in più di carico oltre quello previsto.
Ma al di là dei problemi tecnici e dei costi (14 miliardi che potrebbero essere usati per creare lavoro e non è una questione di poco conto), c’è da fare anche un’altra considerazione: sono aerei d’attacco, con caratteristiche stealth, servono a fare la guerra e possono trasportare piccoli ordigni nucleari, che abbiamo nelle basi di Aviano e Ghedi. Ecco perché l’Italia non li deve avere: vedasi all’articolo 11 della Costituzione.
Il Pd e la maggioranza si barcamenano. La maggioranza dei parlamentari Pd non li vorrebbe, ma è sottoposta al ricatto delle gerarchie militari (e della ministra Pinotti), di Napolitano e degli americani. Vedremo come si comporterà a settembre quando verrà discussa la mozione e speriamo che ci sia una grande mobilitazione (per info: http://www.disarmo.org e http://www.sbilanciamoci.org) come quella di giugno del 2013, che faccia cambiare idea al partito del premier. In realtà Renzi poco più di un anno fa disse che non capiva che dovevamo farci con questi F35. Dopo un anno ancora non l’ha capito. O fa finta.

La caporetto economica di Renzi. Realfonzo: «Non si cresce tagliando la spesa» | Fonte: Il Manifesto | Autore: Roberto Ciccarelli

Intervista. L’economista sostiene il referendum “Stop austerità”: “Ulteriori tagli cancellerebbero diritti sociali e ridurrebbero ancora la domanda. E ciò metterebbe in ulteriore difficoltà le imprese, che già soffrono per l’assenza di politiche industriali”Siamo in reces­sione. Nel primo seme­stre del 2014 il pil si è ridotto dello 0,3% e a fine anno il governo rischia di far lie­vi­tare il rap­porto deficit/pil oltre il 3%.

Pro­fes­sore Ric­cardo Real­fonzo, ordi­na­rio di eco­no­mia all’università di Bene­vento, dopo appena 200 giorni, siamo alla capo­retto eco­no­mica di Renzi?
Il punto è che l’impianto com­ples­sivo del Docu­mento di Eco­no­mia e Finanza del mini­stro Padoan si è posto in con­ti­nuità con il pas­sato. E oggi risulta ancora più evi­dente che io e altri ave­vamo ragione nel chie­dere una discon­ti­nuità, una azione espan­siva che rilan­ciasse l’intervento pub­blico in chiave anti-crisi, andando oltre i vin­coli euro­pei sul defi­cit. E dire che lo stesso Renzi aveva attac­cato i vin­coli euro­pei a ini­zio anno, defi­nen­doli “supe­rati” e sot­to­li­neando la neces­sità di pro­porre una svolta key­ne­siana. Poi però Padoan ci ha pre­sen­tato la solita vec­chia ricetta: rispetto dei vin­coli euro­pei e tagli alla spesa pub­blica come stru­mento per risa­nare i conti. E così ci tro­viamo sem­pre di fronte agli stessi risul­tati cui assi­stiamo dallo scop­pio della crisi del 2007. Le poli­ti­che che pun­tano a gene­rare avanzi pri­mari, cioè eccessi del pre­lievo fiscale sulla spesa pub­blica, accen­tuano la reces­sione e la disoc­cu­pa­zione, finendo per peg­gio­rare anche i conti dello Stato. È sem­pre più urgente cam­biare le poli­ti­che economiche.

L’Ue nic­chia sul rin­vio del pareg­gio di bilan­cio al 2016, il governo nega la mano­vra cor­ret­tiva in autunno. L’unica solu­zione è una sas­sata da 30 miliardi in autunno. Chi sarà col­pito?
Una mano­vra con nuovi tagli alla spesa sarebbe una iat­tura, appro­fon­di­rebbe ancora la crisi. La spesa pub­blica ita­liana, pur avendo al suo interno intol­le­ra­bili pri­vi­legi e gravi sac­che di spreco, è già infe­riore ai valori medi euro­pei. In par­ti­co­lare, la spesa sani­ta­ria, per l’istruzione, per il soste­gno ai red­diti dei cit­ta­dini meno abbienti. Ulte­riori tagli can­cel­le­reb­bero diritti sociali e ridur­reb­bero ancora la domanda. E ciò met­te­rebbe in ulte­riore dif­fi­coltà le imprese, che già sof­frono per l’assenza di poli­ti­che indu­striali. Non si torna a cre­scere con­ti­nuando a tagliare.

Le «riforme» chie­ste dall’Europa ser­vono a curare la reces­sione?
Le riforme utili riguar­dano la rior­ga­niz­za­zione della mac­china sta­tale e la con­se­guente riqua­li­fi­ca­zione della spesa pub­blica. Se, invece, il rife­ri­mento fosse a ulte­riori libe­ra­liz­za­zioni del mer­cato del lavoro, allora cadremmo in nuovi errori. Molti studi che esa­mi­nano gli effetti della ridu­zione del grado di pro­te­zione del lavoro sull’occupazione dimo­strano che que­ste libe­ra­liz­za­zioni non ridu­cono la disoc­cu­pa­zione e non aumen­tano la com­pe­ti­ti­vità delle imprese.

La Bce chiede all’Italia «aggiu­sta­menti strut­tu­rali»…
Piut­to­sto che dare indi­ca­zioni ai governi, le auto­rità mone­ta­rie dovreb­bero disporsi a ope­rare come la Fed sta­tu­ni­tense: soprat­tutto in reces­sione, sarebbe neces­sa­rio che finan­zias­sero diret­ta­mente la spesa pub­blica. Pur­troppo, in Europa pre­vale un modello di banca cen­trale di tipo tede­sco e la Bce si guarda bene dal soste­nere le poli­ti­che anti­ci­cli­che dei governi.

Que­ste poli­ti­che acco­mo­danti non creano deva­stanti bolle finan­zia­rie?
È un rischio che può essere evi­tato con poli­ti­che mone­ta­rie coor­di­nate con le poli­ti­che fiscali. Ma restiamo ai fatti: oggi gli Usa hanno un Pil che è circa 9 punti più alto rispetto allo scop­pio della crisi del 2007, men­tre nell’Eurozona siamo ancora due punti sotto.

Si può uscire dal para­digma dell’«austerità espan­siva» per cui ser­vono ancora misure fiscali restrit­tive per otte­nere la cre­scita?
Certo, come stanno facendo gli USA e il Giap­pone. La dif­fi­coltà con­si­ste nel fatto che i dogmi dell’austerità sono radi­cati nelle tec­no­cra­zie euro­pee e in par­ti­co­lare tra i ban­chieri cen­trali. E i popoli di Europa sino a oggi hanno finito col subire la volontà di sog­getti e isti­tu­zioni in defi­cit di legit­ti­ma­zione democratica.

Lei è tra i pro­mo­tori del refe­ren­dum stop auste­rità. In che modo con­tri­bui­rebbe a miglio­rare que­sta situa­zione così cupa?
Il suc­cesso del refe­ren­dum potrebbe essere deci­sivo, anche per quei governi che vogliono dav­vero pro­vare a cam­biare. Sarebbe una forte e demo­cra­tica spinta dal basso per lasciarci alle spalle le poli­ti­che di auste­rità in Ita­lia e in Europa. È giunta l’ora che i popoli euro­pei fac­ciano sen­tire la loro voce, con­tro poli­ti­che che hanno pro­dotto nell’Eurozona, dal 2007 ad oggi, circa 8 milioni di disoccupati.

Alfonso Gianni: Il «populismo finanziario» del premier si scontra con la realtà economica del paese | Fonte: Il Manifesto | Autore: Alfonso Gianni

Tutti aspet­ta­vano che l’Istat par­lasse. I più con moti­vato ter­rore, qual­cuno col­ti­vando ancora qual­che irra­gio­ne­vole spe­ranza. E il responso uffi­ciale è giunto. L’economia ita­liana è in reces­sione. Lo è tec­ni­ca­mente. Anche il secondo tri­me­stre si è chiuso in nega­tivo: –0,2%, peg­gio delle già grame previsioni.

È il peg­giore secondo tri­me­stre dal 2000, quindi da prima dell’inizio della crisi. Le pre­vi­sioni sono che su base annua que­sti valori ci por­te­ranno come minimo a un – 0,3%, se non meno. E non si tratta di anda­menti con­giun­tu­rali, ma strut­tu­rali visti i dati del calo della pro­du­zione industriale.

Si può discu­tere all’infinito se gli ita­liani, quelli che l’hanno avuto, si sono o no accorti del bonus degli 80 euro, il famoso coni­glio tratto dal cap­pello che ha per­messo a Renzi di fare il pieno alle recenti ele­zioni euro­pee. Quello che è certo è che l’economia non ne ha tratto alcun van­tag­gio. Le ragioni pos­sono essere mol­te­plici ma cer­ta­mente dovrebbe essere noto per­sino a un pre­si­dente del Con­si­glio, mal­grado sia evi­den­te­mente a digiuno dei fon­da­men­tali, che quando non c’è fidu­cia sull’andamento con­creto dell’economia le per­sone e le fami­glie a basso red­dito non sono inclini a spen­dere anche se gli metti qual­che sol­dino di più nelle tasche. Al mas­simo coprono debiti pre­ce­den­te­mente con­tratti o cer­cano di rispar­miare qual­che cosa in vista di tempi ancora peg­giori. Que­sto è il motivo per cui le asso­cia­zioni dei com­mer­cianti non hanno regi­strato aumenti sen­si­bili del volume delle vendite.

Se poi si volesse appro­fon­dire, baste­rebbe ascol­tare cosa dicono ulti­ma­mente gli stessi eco­no­mi­sti del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale, che hanno rico­no­sciuto che il mol­ti­pli­ca­tore dello svi­luppo di un aumento della spesa sociale andato a buon fine è molto più alto di quello pro­vo­cato da una ridu­zione delle tasse. Pen­sare di con­trarre la spesa sociale e di dimi­nuire con­tem­po­ra­nea­mente le tasse pro­duce logi­che reces­sive in campo eco­no­mico, oltre che ingiu­sti­zie sociali. Infatti i pen­sio­nati e quelli a par­tita Iva sono rima­sti esclusi dal bonus ren­ziano, ma subi­scono al pari degli altri la ridu­zione com­ples­siva della spesa sociale e la decur­ta­zione dei ser­vizi, che peg­gio­rerà, tra le altre cose, una volta com­ple­tata la famosa spen­ding review.

La nega­zione del diritto al pen­sio­na­mento di chi tra gli inse­gnanti ha rag­giunto la famosa «quota 96», deri­vante dalla somma dell’età ana­gra­fica e di quella con­tri­bu­tiva, non è solo un inci­dente di per­corso, un con­tra­sto tra la volontà poli­tica del governo e le fer­ree leggi del bilan­cio tute­late dalla buro­cra­zia del Mini­stero del Tesoro (in osse­quio, del resto, ai vin­coli deri­vanti dai trat­tati euro­pei e da quelli costi­tu­zio­nali voluti dalla attuale mag­gio­ranza ai tempi di Monti), ma una delle sem­pre più fre­quenti mani­fe­sta­zioni del disin­te­grarsi del castello di pro­messe – di quel «popu­li­smo finan­zia­rio» come lo ha defi­nito Marco Bascetta sul Mani­fe­sto – con cui Renzi aveva saputo costruire un esteso quanto rapido con­senso sociale.
Ma c’è di più. Il mini­stro Morando esclude la neces­sità di una mano­vra cor­ret­tiva in autunno. Eppure Renzi stesso parla di recu­pe­rare quanto prima almeno 8 miliardi. In realtà fonti più atten­di­bili da tempo ave­vano cal­co­lato l’esigenza di una mano­vra esat­ta­mente di entità dop­pia, pari a 16 miliardi. Dif­fi­cile che il governo possa sot­trar­visi, visto l’andamento disa­stroso dell’economia e la con­se­guente dimi­nu­zione delle entrate fiscali. Qual­cuno dovrà pure scontentare.

Non solo, ma con l’entrata in pieno vigore, dal 2015, degli obbli­ghi della ridu­zione for­zata del debito – nel frat­tempo cre­sciuto con le poli­ti­che di auste­rità – con­te­nuto nel fami­ge­rato fiscal com­pact, la situa­zione eco­no­mica e le con­di­zioni di vita per milioni di per­sone diven­te­ranno ancora più inso­ste­ni­bili. Sarà più dif­fi­cile per Renzi affer­mare che avere fatto la «riforma del Senato» è una straor­di­na­ria prova di capa­cità di governo con un’economia che viag­gia in nega­tivo, una disoc­cu­pa­zione che cre­sce assieme ad una pre­ca­rietà che il decreto Poletti ha tra­sfor­mato in norma e con­di­zione gene­rale. Per­sino la Cgil si è decisa a muo­vere un passo, denun­ciando sep­pure in ritardo presso gli organi della Ue le nuove norme gover­na­tive sul lavoro, in palese con­tra­sto con la stessa disci­plina euro­pea tut­tora in vigore.

Renzi può anche tra­stul­larsi con bat­tute da bar, come quella che la ripresa eco­no­mica è come que­sta estate: stenta a venire, ma poi verrà. Ma le sue parole sono sem­pre più rapi­da­mente e ine­qui­vo­ca­bil­mente smen­tite dai dati e dalle per­ce­zioni delle per­sone. Che l’uomo abbia diverse risorse e che non vada sot­to­va­lu­tato è cosa vera – e qual­cuno lo ha impa­rato a pro­prie spese -, ma che la sua cre­di­bi­lità cominci pre­co­ce­mente a venire erosa dalla durezza dei fatti è cosa altret­tanto certa.

Sap­piamo dall’esperienza però, che un’alternativa non nasce solo dalla rovina dei vec­chi regimi o sistemi di governo. Ci vuole un pen­siero e una forza che trac­cino una strada diversa ed abbiano il corag­gio di farlo evi­tando di restare pri­gio­nieri ogni volta nel pre­sunto rea­li­smo della politica.

Se L’altra Europa per Tsi­pras ha otte­nuto un pic­colo ma con­creto risul­tato è per­ché ha capo­volto tale logica. Ritor­nare indie­tro – magari con la scusa delle ele­zioni regio­nali alle porte – sarebbe dav­vero imperdonabile.