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ANPI news n. 124
Su questo numero di ANPInews (in allegato):
APPUNTAMENTI
►“Costituzione, riforme e democrazia“: il 19 giugno a Palermo convegno promosso dall’ANPI Sicilia e dall’Associazione Giuristi democratici. Interverranno, tra gli altri, il Sostituto Procuratore di Palermo, Antonino Di Matteo e il Presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia
►“Antifascismo ieri, oggi e domani“: dal 19 al 22 giugno, a Bologna, prima Festa provinciale dell’ANPI
ARGOMENTI
Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia:
►Alla gravissima vicenda dell’Expo, su cui mi sono già intrattenuto in precedenza, considerandola quasi l’apice di una situazione insostenibile, si è aggiunta quella di Venezia e dintorni, che non solo non è meno grave, ma conferma che dovunque si metta mano ad un’opera di notevole impegno anche economico, la corruzione è una componente normale e pressoché “inevitabile”(…)
► Il 2 giugno, a Modena, si è celebrata la Festa della Repubblica e della Costituzione, con una riuscitissima manifestazione, che ha visto non solo una forte presenza di cittadine e cittadini, ma anche una ritrovata unità d’azione tra le Associazioni più rappresentative e impegnate sui temi della Costituzione e delle riforme. Mentre ne prendevamo atto con piacere e soddisfazione, anche perché questa manifestazione seguiva, a poca distanza di tempo, quella organizzata dall’ANPI all’Eliseo di Roma il 29 aprile, ugualmente riuscita e unitaria, abbiamo dovuto rilevare l’enorme silenzio stampa che è calato in modo diffuso su quasi tutti gli organi di informazione(…)
► Il Pontefice ha compiuto un atto di coraggio e di speranza, riunendo nella sua sede, per una preghiera comune, esponenti di Israele e della Palestina e rappresentanti di religioni diverse, E’ stato un atto altamente e simbolicamente positivo, il massimo che possa fare un Papa di buona volontà, che sa che il suo fondamento principale sta nella pace, nell’amore, nelle convivenza pacifica(…)
►La situazione in Ucraina è sempre più complessa e pericolosa per la libertà dei popoli e per la pace. Alle originarie aspirazioni (del tutto comprensibili) di una parte rilevante del popolo ucraino, di avvicinarsi all’Europa e, se possibile, divenirne parte, si sono aggiunte, da un lato, le aspirazioni populiste (e talvolta di tipo nazista) di movimenti e partiti che pensano a tutto fuorché alla libertà ed all’autonomia dei popoli, e dall’altro alcuni moti popolari di “simpatia” per la vicina Russia, fomentati e utilizzati, in varie forme, da chi aspira a ricostituire, se non proprio un grande impero russo, una potenza in grado non tanto di difendersi, quanto e soprattutto di far valere la propria forza a livello mondiale(…)
► Una notizia positiva: la vicenda di Ostra, su cui mi ero intrattenuto in un numero precedente della news (il progetto di un “cippo” dedicato ai fascisti caduti, proprio in una strada intitolata ai “Partigiani” e in una zona in cui settant’anni fa ci furono brutali e violenti rastrellamenti da parte dei fascisti, con torture, fucilazioni e deportazioni di partigiani), si è risolta positivamente(…)
► La vicenda degli sbarchi sulle coste italiane di donne, uomini e bambini in fuga da Paesi in guerra, da carestie, disagi, difficoltà perfino di sopravvivenza, ha ormai assunto un andamento biblico. Ottocento persone che arrivano contemporaneamente a Palermo, con dieci bare, sono un fatto sconvolgente; ma non è un’eccezione, purtroppo, in questo periodo(…)
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Iraq, l’offensiva dell’Isis cambia le alleanze nello scacchiere mediorientale Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Tuttavia l’Iran, che nei giorni scorsi attraverso il suo presidente Hassan Rohani si era detto pronto ad aiutare Baghdad nel “combattere il terrorismo”, anche attraverso una cooperazione con gli Usa, è comunque ostile a “qualsiasi intervento militare straniero in Iraq”. Dopo che gli Stati Uniti hanno dispiegato una loro portaerei nel Golfo, anche la Lega Araba si mostra prudente. Durante una riunione al Cairo, di cui ha riferito l’agenzia egiziana Mena, i rappresentanti permanenti dell’organizzazione hanno espresso il rifiuto di immischiarsi nelle questioni interne dell’Iraq e hanno auspicato la realizzazione di un’intesa nazionale per risolvere la crisi.
Intanto Tony Blair, primo ministro britannico ai tempi dell’invasione anglo-americana che porto’ al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, respinge le critiche – prima di tutto quelle della Russia – di chi ritiene che le origini del caos odierno vadano ricercate in quell’intervento. “L’invasione dell’Iraq del 2003 non e’ da biasimare per l’insurrezione violenta che ormai attanaglia il Paese”, scrive sul suo sito Blair. La violenza, aggiunge, e’ invece la conseguenza “prevedibile e maligna” dell’inazione in Siria.
Anche se l’esercito iracheno ha annunciato una sorta di controffensiva, l’Isis controlla ormai, dopo la recente conquista di Mosul in Iraq, un’area piu’ grande della Giordania, che si estende da est di Aleppo a ovest di Baghdad e dove vivono circa 6 milioni di persone. Comandati da Abu Bakr al Baghdadi, famoso per la sua crudelta’ e ferocia, hanno fatto il grande balzo dopo aver annunciato, nell’aprile del 2013, l’espansione in Siria e conquistato il controllo lo scorso anno della citta’ siriana di Raqqa, punto strategico da cui hanno potuto sfruttare i vicini pozzi petroliferi e accumulare ingenti risorse nel ‘business’ dei rapimenti di siriani e sopratutto stranieri. E’ li’ che, fra l’altro, e’ stato sequestrato il gesuita Paolo Dall’Oglio. Con il passaggio in Siria, il gruppo ha anche cambiato nome: da Isi, ovvero lo Stato islamico dell’Iraq, la sigla e’ divenuta Isis, aggiungendo una ‘s’ che sta per ‘Sham’, ovvero ‘Levante’ o ‘Grande Siria’, ed ottenendo fondi dai paesi del Golfo nemici di Assad, tra cui il Qatar e il Kuwait. I jihadisti dell’Isis contano – secondo esperti citati dell’Economist – su circa 6 mila combattenti in Iraq e su un numero variabile tra i 3 mila e i 5 mila in Siria, inclusi circa 3 mila stranieri: si parla di un migliaio di ceceni e di cinquecento o piu’ europei, provenienti per lo piu’ dalla Francia e dalla Gran Bretagna.
Piuttosto che combattere semplicemente come un frangia di Al Qaida, come facevano prima del 2011, i guerriglieri dell’Isis hanno deciso di controllare il territorio, imponendo non solo il loro codice morale, ma anche le tasse alla popolazione locale. In altre parole hanno creato una bozza di Stato islamico, un ‘califfato’ nei loro disegni, a cavallo tra la Siria e l’Iraq, approfittando della guerra civile siriana e del conflitto etnico iracheno.
Con l’aiuto degli ex sostenitori di Saddam Hussein e con i fondi e gli aiuti accumulati nella siriana Raqqa, e’ cosi’ partita l’offensiva verso Baghdad di questi giorni, con la spettacolare conquista di Mosul, la seconda citta’ piu’ popolosa dell’Iraq. A Mosul – riferiscono fonti citate dall’Economist – i jihadisti dell’Isis non si sono limitati agli eccidi e alle atrocita’ da loro stessi documentati sul web, ma si sono impossessati di enormi arsenali di armi americane, di 6 elicotteri Black Hawks e di circa 500 miliardi di dinari (430 milioni di dollari) in denaro contante.
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Marx? Non era un opinion maker | Fonte: il manifesto | Autore: Benedetto Vecchi
Tempi presenti. Le dieci tesi di Terry Eagleton in difesa del filosofo tedesco pubblicate dalla casa editrice Armando. Un brillante pamphlet pubblicato per contrastare una riabilitazione che in Europa tende a neutralizzare la portata politica della sua opera
Terry Eagleton è un sofisticato e iroso intellettuale di spicco della «nuova sinistra» inglese. Di origine irlandese e docente di letteratura comparata, è una firma che compare spesso sui giornali al di là della Manica. Ogni suo articolo scatena polemiche a non finire. L’ultima, in termini di virulenza, lo ha visto incrociare la penna con Martin Amis sull’«occidentalismo», cioè sulla rivendicata, da parte dello scrittore inglese, superiorità dei sistemi politici occidentali — garanti dei diritti civili individuali — rispetto a quelli dei paesi terzi. In quell’occasione Eagleton non esitò ad accusare Amis, da sempre vicino al «New Labour» di Tony Blair, di razzismo. Scoccarono scintille e la polemica dilagò per mesi sulla stampa inglese. Ma questa attitudine alla polemica è complementare alla sua capacità di scrivere saggi critici sulla storia della letteratura inglese, sulla filosofia novecentesca e sul marxismo. In Italia, sono stati tradotti Figure del dissenso, Ideologia, Il senso della vita e L’idea di cultura e un suo intervento critico sul noto libro di Jacques Derrida Spettri di Marx.
Una scoperta sospetta
Quasi a riprendere il filo rosso di quel testo, Eagleton ha mandato in libreria un pamphlet dal titolo Why Marx Was Right, finalmente tradotto da Armando con il titolo Perché Marx aveva ragione (pp. 239, euro 19). L’anno della pubblicazione del volume è il 2011 e l’autore interveniva nel pieno di di una riabilitazione dell’opera dell’autore del Capitale che periodicamente occupa il centro della scena nella discussione pubblica.
Sono infatti anni che riviste, giornali quotidiani, intellettuali conservatori non fanno che elogiare la critica al capitalismo di Marx alla luce della crisi che dal 2007 ha messo in ginocchio Stati Uniti e Europa.
L’opera marxiana è così riabilitata, nonostante il fallimento del socialismo reale, per la sua capacità di prevedere le crisi, mentre Marx è elevato al rango di uno studioso che tutti i capitalisti dovrebbero leggere per evitare di ripercorrere gli errori che hanno portato all’attuale crisi. È contro questa riabilitazione che Eagleton si scaglia, per sottrarre Marx a una vulgata che neutralizza la sua critica dell’economia politica.
Prendendo a modello un famoso testo dedicato a Feuerbach, il libro è costruito partendo da dieci «tesi» diffuse negli ambienti conservatori per confutarle. Al microscopio sono passati tutti i luoghi comuni che circolano attorno a Marx: il determinismo economico; l’egualitarismo nemico della «vera» natura umana; una filosofia della storia che considera come inevitabile il socialismo; l’inevitabile fine del marxismo perché lo sviluppo
capitalistico ha dissolto come neve al sole la classe operaia; la tendenza dei partiti che si rifanno a Marx a edificare società tiranniche; la nefasta utopia di una società di liberi e eguali; la tendenza a ridurre la realtà all’economia; il gretto materialismo che cancella la spiritualità; la spiegazione del divenire delle società a partire dalla lotta di classe; l’apologia della violenza come levatrice della storia; la statolatria dei marxisti; l’indifferenza dei marxisti per i nuovi movimenti sociali.
Eagleton ha gioco facile per ribattere punto su punto. Per fare questo, mette tra parentesi il marxismo consolidato, evidenziando invece la problematicità che caratterizza i testi del filosofo di Treviri. E tuttavia la sua è un’arringa difensiva che non fa che confermare proprio quel marxismo consolidato dal quale invita a prendere congedo. Sia ben chiaro, gli scritti di Marx sono attraversati da un’attitudine antidogmatica che lo ha portato a «correggere» alcune tesi iniziali, nella prospettiva di dare fondamento scientifico alla sua critica dell’economia politica. Assegnare alla lotta di classe la centralità che merita non ha, infatti, mai significato per Marx che altri «fattori» non svolgano un ruolo fondamentale nello sviluppo individuale.
Quel che ha sempre tenuto a sottolineare è che la divisione in classe della società e la condanna a vivere nel «regno della necessità» esercitano un evidente condizionamento nella vita dei singoli. Sta forse in questo lo svelamento della frase «è l’essere sociale a determinare la sua coscienza». Niente determinismo, dunque, ma un’indicazione di ricerca sui molti sentieri aperti da un’«opera aperta», a partire dal nodo inerente la formazione delle soggettività collettive e di come la produzione culturale, nella sua autonomia, svolga un ruolo nel vivere in società. E nel definire le gerarchie sociali. Dunque nessun determinismo economico. Tutto ciò per dire che il problema non è tanto la difesa dell’opera marxiana, bensì la definizione di un progetto di ricerca e di elaborazione che, partendo proprio dai nodi problematici, si ponga l’obiettivo di colmare lacune, aporie, contraddizioni.
Un gioco interpretativo
Le argomentazioni di Eagleton in difesa di Marx perdono forza nella sovrapposizione che egli compie tra la sua opera e il marxismo reale, cioè quell’articolata biblioteca di interpretazioni che per tutto il Novecento ha riempito scaffali di saggi e libri. Soltanto che il marxismo non è un ordine del discorso unitario, ma è segnato da letture e interpretazioni differenti, spesso confliggenti l’una con l’altra. In altri termini, Eagleton compie un cortocircuito tra la storia politica del marxismo e l’opera di Marx. Operazione legittima, sia chiaro, ma solo se esplicitata fino in fondo, elemento che è invece assente in questo pamphlet.
Il libro di Eagleton si propone però di sottrarre Marx a una lettura «pacificata», memore di quella undicesima tesi su Feuerbach che invitava a cambiare il mondo dopo averlo interpretato.
Per lo studioso inglese, infatti, Marx è soprattutto un militante. La sua prassi teorica è stata sempre finalizzata a «abolire lo stato di cose presenti». Resta però da fornire una risposta alla domanda: perché il pensiero dominante lo riabilita? Perché lo ha ridotto a una specie di profeta o, tutt’al più, a un brillante pensatore da usare più o meno come si può usare un qualsiasi altro studioso della società. È questa neutralizzazione della portata «politica» l’oggetto polemico dello studioso irlandese. Più che prendersela con i conservatori, sotto traccia, gli spettri da combattere sono le tesi di intellettuali come Jacques Derrida laddove invitavano a studiare Marx, lasciandone da parte la dimensione «politica»; oppure l’opinion maker Jacques Attali, che ha scritto una biografia del filosofo di Treviri descritto come un promettente storico dell’economia. Oppure a quella riduzione di Marx a classico della filosofia, con i suoi testi allineati in un ipotetico scaffale che segue quello di Hegel. Insomma, un filosofo da consegnare alla storia e nulla più. Il libro di Eagleton è un antidoto a tutto ciò. È questo il suo più grande merito.
il Manifesto 8.1.2014
info sul libro: http://www.armando.it/schedalibro/22782/Perch–Marx-aveva-ragione
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Mineo, Chiti e la democrazia Fonte: sbilanciamoci | Autore: Guglielmo Ragozzino

Il senatore Mineo dal canto suo ha svolto intensa attività professionale proprio nella Rai, come giornalista, nella parte più attaccata alla tradizione pubblica della società, quella soprannominata Telekabul da altri operatori giornalistici e da politici di orientamento diverso. Di conseguenza è certamente contrario a vendere parti della Rai, che considera un bene pubblico. D’altro canto il senatore Mineo, come del resto il senatore Vannino Chiti, e una dozzina di altri, ritiene che un Senato depotenziato e anzi composto da personalità non elettive rappresenti uno scadimento irreparabile per la tenuta stessa della democrazia italiana.
Il voto e in genere l’opposizione di Mineo e Chiti contribuiscono a rallentare il Pd che detesta i ritardi e quindi considera perdite di tempo ogni discussione. La discussione corrisponde a un veto sulla base di un ragionamento di questo genere: il tempo è scarso; o si fa tutto subito o non si fa più niente; quindi se si vuole fare, si deve fare subito; se si vuole fare subito, non si può che mettere in un canto la discussione, chiamandola dissenso e quindi veto . Da questa collana di sillogismi, veri o falsi che siano, poco importa – anzi importa moltissimo se non si deve perdere tempo – deriva una piccola frase “conta il voto, non il veto” che si rifà chiaramente al 40,8% delle elezioni europee e al ruolo di parlamentare nominati e non eletti dei due dissidenti che non ottengono neppure il diritto di parola o di replica alla direzione (o assemblea o come si chiama) del loro partito.
C’è qualche democratico (si può usare ancora questa parola o ne cercheremo un’altra?) che osserva l’esistenza di un diritto costituzionale ad esercitare le funzioni di parlamentare “senza vincolo di mandato”. Di solito si parla così, ma chi parla così esclude di fatto dal discorso la prima parte dell’articolo 67 che pure è uno dei tre o quattro più brevi dell’intera Costituzione. L’articolo dice: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ogni membro del Parlamento “rappresenta la Nazione”, anche i senatori quindi, e in quanto rappresenta la Nazione non ha più vincoli con il suo partito o con i suoi particolari elettori. Alcuni personaggi minori, uomini o donne, a capo del Pd insistono sull’elemento che un parlamentare nominato (come tutti in questa fase), di elettori con i quali esercitare il proprio diritto a superare il vincolo di mandato, non ne ha affatto; quindi non esiste l’elettore e neppure l’eletto, non esiste il vincolo, esiste solo il partito, al quale assicurare fedeltà. Partito che deve essere aiutato in tutti i modi nel momento in cui per affermarsi deve fare in fretta. L’unica cosa che conta – dicono le seconde linee del Pd – è sapere che il dissenso è ammesso e nessuno viene espulso. Basta che non ci faccia perdere tempo. Inoltre le Commissioni parlamentari sono altra cosa; è il partito che nomina e può quindi revocare i propri rappresentanti. Solo che questo non è vero. La Costituzione all’art. 72 spiega che “le commissioni, anche permanenti, (sono) composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”. Non si parla di fedeltà al partito, anzi si prevede che una minoranza qualificata possa chiedere che il provvedimento in esame torni all’assemblea plenaria. Si ammette insomma – si capisce tra le righe – che il divieto di vincolo di mandato valga anche in commissione. Insomma cacciata dalla porta, la democrazia si ripresenta alla finestra, perfino in parlamento. Perfino in Senato.
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Fuori dal ghetto? Fonte: campagneinlotta | Autore: campagneinlotta.org

Una storia che si ripete, quella che sta andando in scena in queste settimane, e che si snoda attorno all’ormai celebre Grand Ghetto di Rignano Garganico (FG) – una baraccopoli sorta alla fine degli anni Novanta e abitata prevalentemente da lavoratori agricoli di origine africana, attualmente sotto minaccia di sgombero. Anzi, di ‘svuotamento’, secondo gli equilibrismi linguistici delle istituzioni pugliesi che, dopo anni di quasi totale silenzio, si stanno attivando con un progetto dal nome e dai contenuti anch’essi piuttosto funambolici: ‘Capo Free, Ghetto Off’.
Lo scandalo scatenato oltralpe da un documentario dell’emittente France2, che denunciava il grave sfruttamento che si cela dietro iversi prodotti agroalimentari commercializzati da alcune catene di supermercati francesi, ha senz’altro sortito qualche effetto. E lo stesso si può dire dei servizi di un altro gigante mediatico come la BBC e delle iniziative di boicottaggio avvenute in Norvegia e Gran Bretagna. La domanda potrebbe dunque farsi strada tra i più cinici: alle istituzioni sta davvero a cuore combattere lo sfruttamento, oppure il loro obiettivo principale è quello di salvaguardare l’immagine della regione e delle imprese locali nel mondo?
Stando alle dichiarazioni della giunta regionale, quello da poco approvato è un piano di azione sperimentale per un’accoglienza dignitosa e il lavoro regolare dei migranti in agricoltura che prevede, tra l’altro, l’allestimento di ben cinque tendopoli della Protezione civile entro il primo luglio, per un totale di 1250 posti disponibili fino al 30 settembre. I fondi (circa un milione e trecentomila euro, a giudicare dalla delibera dello scorso 2 aprile – che però non dà indicazioni molto chiare a riguardo) saranno probabilmente stornati da quelli precedentemente utilizzati per la fornitura di acqua e bagni chimici e per il presidio sanitario di Emergency (in questi anni, una volta alla settimana, un solo poliambulatorio mobile ha fornito cure di base a un insediamento in continua espansione, che nel picco della stagione ospita fino a 1500 persone). A quanto sembra, solo tre dei cinque siti sono stati finora individuati: l’area servizi dell’ex-aeroporto militare di Amendola; un sito in località Vulgano; il terreno adiacente all’albergo diffuso che si trova nel comune di San Severo. Eppure, finora, non c’è l’ombra di una tenda.
L’albergo diffuso, appunto. Un precedente esperimento del governo regionale a marchio SEL, del 2006: progetto sperimentale di prima accoglienza per cittadini stranieri immigrati impiegati come lavoratori agricoli stagionali nelle zone degli ambiti territoriali di Foggia, San Severo e Cerignola. Una specie di campo di lavoro, in regime di apartheid, nel nulla della campagna: regole ferree, ospiti vietati (a meno che non si tratti del coniuge), orari di ingresso e uscita, retta giornaliera di 5 euro, solo immigrati regolari. L’esperimento non ha funzionato. Gli alberghi diffusi sono rimasti semideserti. Che cosa è cambiato da allora?
Da qualche settimana è attiva una task force incaricata di rendere operativa la decisione della regione. Lo scorso mese l’assessore alle Politiche giovanili, Trasparenza e Legalità, Guglielmo Minervini, si è personalmente recato al Grand Ghetto per comunicare agli abitanti la decisione del governo regionale. L’accoglienza, com’è facile immaginare, non è stata delle più calorose.
Nel ghetto l’atmosfera è tutt’altro che serena. C’è chi è arrivato da poco in Italia, magari espulso dalle strutture di ‘accoglienza’ che sono state messe in piedi per far fronte alla cosiddetta Emergenza Nord Africa del 2011. C’è chi ha perso il lavoro e quindi la casa. C’è chi non si può più permettere di vivere in città, soprattutto al Nord. C’è chi nel ghetto ci abita da decenni, stagionalmente o non. E c’è anchechi, servendosi degli intricati meccanismi dell’economia informale che inevitabilmente si è sviluppata in un posto tanto isolato, ricava guadagni dall’erogazione di servizi di ristorazione, trasporto, sesso a pagamento, intermediazione di manodopera. Inutile dire che costoro non sono contenti di perdere la propria fonte di sostentamento e i propri legami locali. Né hanno perso l’occasione di far sentire la propria voce e di esporre il proprio punto di vista – tramite petizioni, sui media, in prefettura.
Una baraccopoli lontana chilometri da ogni centro abitato non è certo un luogo dove si vive piacevolmente, e se qualcuno lucra su questa situazione non c’è proprio di che stupirsi. Certo i loro guadagni sono il frutto di un perverso e complesso meccanismo di sfruttamento e di frammentazione sociale. La dinamica dello sfruttamento rilancia se stessa lungo tutta la filiera: al vertice sta lo strapotere della grande distribuzione organizzata (GDO) e cioè di poche aziende leader (in definitiva sono sette) che operano in regime di oligopolio. Non solo fissano quantità e prezzi dei prodotti loro necessari, ma, a produzione già iniziata ed in base alle esigenze del momento, decidono di cambiare le carte in tavola. L’enorme offerta di prodotti, a cui le aziende della GDO possono attingere, consente loro di tenere sotto scacco le imprese fornitrici, che a loro volta si rifanno sui produttori. Il gioco al ribasso applicato sui prezzi ricade inevitabilmente sull’ultimo anello della catena, i lavoratori. La filiera è in realtà ben più complessa e caratterizzata da un’elevata frammentazione delle fasi produttive che rende estremamente difficile – in una struttura a scatole cinesi – identificare i responsabili. Allo stesso tempo i produttori si trincerano dietro il fatto di subire i dettami della GDO per giustificare paghe infime (fino a 2,70 euro l’ora), l’impiego di manodopera irregolare ed il ricorso ai caporali che rappresentano l’ultima articolazione, perfettamente funzionale e integrata, della filiera.
Adesso come in passato le istituzioni pugliesi – e non solo loro – inseguono lo spettro del caporalato – criminalizzato con una legge del 2011. E minimizzano le responsabilità di chi se ne serve per profitto e lo usa come strumento di controllo di una manodopera resa docile dal bisogno e da un diffuso clima di intimidazione (a cui ovviamente contribuiscono le attuali leggi sull’immigrazione).
Ma nemmeno quelli che accettano paghe da fame, quelli che lavorano spesso a cottimo, saltuariamente e senza alcuna garanzia, quelli che spendono i loro soldi nel ghetto per pagare servizi di cui non possono fare a meno sembrano tutti convinti che andarsene sia un bene. Soprattutto se l’alternativa è una tendopoli, anch’essa in mezzo al nulla. Sono spaventati e confusi, si chiedono come faranno a trovare nuovi ingaggi o come potranno raggiungere i campi dove lavorano con la speranza di guadagnare abbastanza per iniziare altrove.
Dall’altra parte del progetto regionale di attivare un sistema di trasporti si sa poco. La delibera parla di un’operazione, anch’essa ‘sperimentale’,per l’inclusione sociale, per l’inserimento lavorativo e il trasporto dei lavoratori, con lo scopo di garantire accoglienza temporanea presso le aziende agricole e la mobilità dei lavoratori stagionali, per impedire il controllo dei caporali.
Il modello scelto dalla Regione Puglia ricorda pericolosamente quello di un altro fallimentare ‘esperimento’. Alla rivolta di Rosarno del gennaio 2010 il governo centrale rispose proprio con l’allestimento di una tendopoli, sbandierata sui media come esempio di dignitosa accoglienza dei lavoratori stagionali. La tendopoli si trasformò in baraccopoli. Venne smantellata e sostituita con una nuova tendopoli. Oggi la seconda tendopoli è un altro ghetto dove nemmeno luce e acqua sono garantite. E vicino alle tende sono risorte le baracche. Che cosa fa pensare agli amministratori pugliesi che nella loro regione le cose andranno diversamente? Non è che da un ghetto ne nasceranno cinque?
Sembra che in Italia si sia ormai consolidata la prassi di utilizzare dispendiose soluzioni emergenziali (le tendopoli usate per l’accoglienza dei lavoratori stagionali sono identiche a quelle usate per far fronte a disastri ambientali come il terremoto dell’Aquila o dell’Emilia) in situazioni nient’affatto contingenti ma strutturali, qual è appunto quella del lavoro agricolo stagionale. La mobilitazione del complesso militare-umanitario, che per qualcuno costituisce una potente macchina da soldi, non avviene solo nelle zone di raccolta del Sud Italia. Basti pensare a Saluzzo (CN), dove già dall’anno scorso, ma solo per la stagione di raccolta, sono a disposizione dei lavoratori regolarmente assunti diversi campi container, in cui vigono regole del tutto simili a quelle degli alberghi diffusi. Quest’anno ha visto la luce una nuova tendopoli, gestita dalla Caritas e pensata come alternativa alla baraccopoli formatasi nel corso degli anni al Foro Boario. Ma in fin dei conti dove sta la differenza tra un ghetto e una tendopoli? Non sono forse entrambe zone di contenimento di una forza lavoro in eccesso, utilizzata alla bisogna e scaricata quando non serve più? E le nuove tendopoli serviranno davvero ai lavoratori che vivono nei vari ghetti della Capitanata, e che peraltro non sembrano particolarmente propensi a trasferirvisi? Non saranno piuttosto la dimora di coloro che continuano ad arrivare in Italia dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum (anch’essa militare-umanitaria)?
Il settore agroindustriale è da anni un laboratorio politico e sociale dove si sperimentano condizioni lavorative e di vita tra le più dure e degradanti: lavoro irregolare, cottimo (che nella provincia di Lecce è stato addirittura regolarizzato grazie alla Cgil), emarginazione socio-abitativa, esclusione sistematica dei lavoratori, quasi tutti stranieri, dai servizi di assistenza (sanitaria, legale ecc.). Le istituzioni, insieme al terzo settore, sembrano convinte di poter cambiare le cose appiattendo il dibattito pubblico sulla questione abitativa (declinata in termini di decoro o di emergenza sanitaria). È l’ennesimo tentativo di spostare l’asse del discorso sulla questione umanitaria e di marginalizzare il tema lavorativo. Come se lo sfruttamento dei lavoratori fosse conseguenza di un certo modo di abitare e non viceversa. Come se il vero problema fosse il Grand Ghetto di Rignano. Come se quell’insediamento abusivo, che in realtà è solo il più famoso di una lunga serie, fosse l’unico nella provincia di Foggia e in Italia. Come se eliminarlo fosse sufficiente per abbattere un sistema di sfruttamento che regge l’intero comparto agricolo italiano.
La Regione Puglia, si obietterà, promette misure per l’eliminazione del caporalato e l’emersione del lavoro irregolare: liste di prenotazione per l’assunzione diretta da parte delle aziende, incentivi a chi assume regolarmente per almeno 21 giorni, marchi di eticità. Tutte cose che vengono proposte come soluzioni innovative, ma che in realtà esistono, sulla carta, già dl 2006. La stessa domanda di prima si ripresenta quasi identica: nel modo di vedere dell’amministrazione Vendola, che cosa farebbe sì che soluzioni rivelatesi fallimentari inizino per incanto ad avere effetti positivi contro lo sfruttamento? E perché premiare i datori di lavoro che mettono i loro dipendenti in regola? Nell’attuazione di politiche neo-liberali neanche troppo mascherate, la lunga e oscura filiera dello sfruttamento non viene mai messa in discussione.
Ciò che sta succedendo intorno e nel ghetto di Rignano Garganico è emblematico di ciò che è già accaduto e accade altrove. Si tratta infatti di un tentativo, per quanto maldestro, di una messa a sistema dell’organizzazione del lavoro agricolo e dei flussi migratori rispetto alle esigenze dei grandi capitali. Le tendopoli e i campi-container, in quest’ottica, sono veicoli ideali per la massimizzazione del profitto. Là i lavoratori stranieri vanno a formare una manodopera a bassissimo costo, sia in termini produttivi che riproduttivi, e sulle loro spalle si lucra anche quando non producono, attraverso i dispositivi umanitari. È assolutamente necessario e doveroso condannare e opporsi a operazioni come quella ideata dal governo pugliese, un’operazione che non affronta il problema e avvalla in modo pericoloso pratiche e politiche che producono ulteriore marginalizzazione, sfruttamento e criminalizzazione.
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