Nicolosi: Scuola di formazione all’impegno sociale epolitico

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ANPI news n. 124

Su questo numero di ANPInews (in allegato):

 

 

APPUNTAMENTI

 

 

Costituzione, riforme e democrazia“: il 19 giugno a Palermo convegno promosso dall’ANPI Sicilia e dall’Associazione Giuristi democratici. Interverranno, tra gli altri, il Sostituto Procuratore di Palermo, Antonino Di Matteo e il Presidente nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia 

 

 

Antifascismo ieri, oggi e domani“: dal 19 al 22 giugno, a Bologna, prima Festa provinciale dell’ANPI 

 

 

ARGOMENTI

 

Notazioni del Presidente Nazionale ANPI, Carlo Smuraglia:

 

Alla gravissima  vicenda dell’Expo, su cui mi sono già intrattenuto in precedenza,  considerandola quasi l’apice di una situazione insostenibile, si è aggiunta quella di Venezia e dintorni, che non solo non è meno grave, ma conferma che dovunque si metta mano ad un’opera di notevole impegno anche economico, la corruzione è una componente normale e pressoché “inevitabile”(…)

Il 2 giugno, a Modena, si è celebrata la Festa della Repubblica e della Costituzione, con una riuscitissima manifestazione, che ha visto non solo una forte presenza di cittadine e cittadini, ma anche una ritrovata unità d’azione tra le Associazioni più rappresentative e impegnate sui temi della Costituzione e delle riforme. Mentre ne prendevamo atto con piacere e soddisfazione, anche perché questa manifestazione seguiva, a poca distanza di tempo, quella organizzata dall’ANPI all’Eliseo di Roma il 29 aprile, ugualmente riuscita e unitaria, abbiamo dovuto rilevare l’enorme silenzio stampa che è calato in modo diffuso su quasi tutti gli organi di informazione(…)

►  Il Pontefice ha compiuto un atto di coraggio e di speranza, riunendo nella sua sede, per una preghiera comune, esponenti di Israele e della Palestina e rappresentanti di religioni diverse, E’ stato un atto altamente e simbolicamente positivo, il massimo che possa fare un Papa di buona volontà, che sa che il suo fondamento principale sta nella pace, nell’amore, nelle convivenza pacifica(…)

La situazione in  Ucraina è sempre più complessa e pericolosa per la libertà dei popoli e per la pace. Alle originarie aspirazioni (del tutto comprensibili) di una parte rilevante del popolo ucraino, di avvicinarsi all’Europa e, se possibile, divenirne parte, si sono aggiunte, da un lato, le aspirazioni populiste (e talvolta di tipo nazista) di movimenti e partiti che pensano a tutto fuorché alla libertà ed all’autonomia dei popoli, e dall’altro alcuni moti popolari di “simpatia” per la vicina Russia, fomentati e utilizzati, in varie forme, da chi aspira a ricostituire, se non proprio un grande impero russo, una potenza in grado non tanto di difendersi, quanto e soprattutto di far valere la propria forza a livello mondiale(…)

Una notizia positiva: la vicenda di Ostra, su cui mi ero intrattenuto in un numero precedente della news (il progetto di un “cippo” dedicato ai fascisti caduti, proprio in una strada intitolata ai “Partigiani” e in una zona in cui settant’anni fa ci furono brutali e violenti rastrellamenti da parte dei fascisti, con torture, fucilazioni e deportazioni di partigiani), si è risolta positivamente(…)

►  La vicenda degli sbarchi sulle coste italiane di donne, uomini e bambini in fuga da Paesi in guerra, da carestie, disagi, difficoltà perfino di sopravvivenza, ha ormai assunto un andamento biblico. Ottocento persone che arrivano contemporaneamente a Palermo, con dieci bare, sono un fatto sconvolgente; ma non è un’eccezione, purtroppo, in questo periodo(…)

ANPINEWS N. 124

19 giugno 2014. USB REPLICA AL MINISTRO MADIA

L’INPS SCUOTE IL GOVERNO SULLE ASSUNZIONI, A RISCHIO LE PRESTAZIONI Comunicato n. 42/14 da:USB Pubblico Impiego INPS

Nazionale –lunedì, 16 giugno 2014

Finalmente l’Inps si decide a porre con decisione al governo l’esigenza di nuove assunzioni per evitare gravi ritardi nell’erogazione delle prestazioni. L’allarme, contenuto nel Piano industriale triennale dell’ente, è stato rilanciato ieri da diverse testate giornalistiche nazionali.

Le richieste avanzate a più riprese dalla USB, a cominciare dal pieno utilizzo delle graduatorie ancora valide dei concorsi pubblici espletati e dalla conferma del personale in comando presso l’Inps, trovano ora puntuale riscontro nell’allarme lanciato dai vertici dell’Istituto. E’ necessario, tuttavia, agire con tempestività e decisione.

Alla richiesta di assunzioni andrebbe tuttavia aggiunta quella di adeguate risorse economiche per finanziare il processo d’integrazione del personale degli enti soppressi Inpdap e Enpals con quello Inps, altrimenti permarrebbero insostenibili e ingiustificabili differenze stipendiali.

Negli ultimi dodici anni, tra il 2002 e il 2014, il personale in forza all’Inps (eccetto Inpdap e Enpals), è diminuito da 33.000 a 23.000, compreso l’assorbimento di Inpdai e Ipost, mentre l’organico teorico ha subito un taglio ancora più pesante.

Tornare ad assumere è indispensabile. Tornare ad investire sull’Inps è necessario, per assicurare ai cittadini un pezzo fondamentale di welfare. Altrettanto importante è rimettere mano alle norme sulla previdenza sociale pubblica, per assicurare in futuro una pensione dignitosa ed evitare che l’Inps si trasformi in un ente esclusivamente assistenziale, erogatore di soli assegni sociali.

Nello sciopero generale del 19 giugno ci sono anche questi temi, insieme alla rivendicazione del rinnovo del contratto collettivo scaduto nel 2009 e alla bocciatura della Riforma della pubblica amministrazione, appena varata dal governo Renzi, che prevede la mobilità obbligatoria a 50 chilometri di distanza e il demansionamento in caso di esuberi.

Le lavoratrici e i lavoratori dell’Inps devono continuare ad essere in prima fila nella difesa delle funzioni dell’ente e nella rivendicazione dei propri diritti. Allo sciopero possono partecipare anche dirigenti, professionisti e medici, grazie all’adesione dell’ANMI-FeMEPA all’iniziativa di protesta.

 

USB Pubblico Impiego INPS

16 giugno 1944, una tragedia operaia nella Resistenza | Autore: Paolo Arvati da: controlacrisi.org

Settanta anni fa, il 16 giugno 1944, quasi 1.500 lavoratori genovesi furono deportati dai tedeschi nei campi di lavoro in Germania. Molti di loro non fecero ritorno a casa. Paolo Arvati è stato sociologo, direttore dell’Istituto Gramsci, tra i massimi esperti di statistica a livello nazionale, docente universitario e storico del sindacato, del movimento operaio e di Liberazione. Ha lasciato innumerevoli opere sulla storia della Camera del Lavoro genovese e sulla Resistenza. Qui di seguito la sua riflessione sui fatti che portarono al 16 Giugno 1944.16 giugno, una tragedia operaia nella Resistenza [Paolo Arvati]

Il 16 giugno 1944 non può essere compreso al di fuori della storia delle lotte operaie nella Resistenza genovese. Se una ragione della retata va ricercata nell’esigenza dell’occupante tedesco di disporre di manodopera da inviare in Germania, è ancora più forte la necessità politica dei nazifascisti di chiudere una volta per tutte la lunga e difficile partita aperta con i lavoratori genovesi sin dall’autunno del 1943. La prima grande lotta è infatti datata 27 novembre: sono i tranvieri a scendere in campo con uno sciopero che ha motivazioni politiche, perché è la risposta all’arresto di tre organizzatori antifascisti. Lo sciopero paralizza la città, mostrando clamorosamente la debolezza del controllo nazifascista sull’ordine pubblico. Dieci giorni dopo, lunedì 6 dicembre, scioperano i lavoratori dell’industria. La motivazione delle fermate, che inizialmente interessano tre stabilimenti, è economica, perché la protesta è contro una disposizione che riduce di un terzo la razione mensile dell’olio per persona. Gli “scioperi dell’olio” impegnano a scacchiera le fabbriche del ponente cittadino per una decina di giorni, sino al 17 dicembre, giorno in cui si fermano tutti gli stabilimenti del gruppo Ansaldo. E’ un’onda di piena che coinvolge circa trentamila lavoratori. I GAP, là dove possono, forniscono sostegno armato ai manifestanti che popolano numerosi le strade dei quartieri operai. I gappisti intervengono per bloccare la circolazione dei mezzi pubblici, facendo saltare binari e recidendo le aste dei tram.
Le autorità nazifasciste, colte di sorpresa dalla forza e dall’estensione del movimento, tentano il sistema del bastone e della carota. A Sestri, durante i tentativi di blocco della circolazione dei tram, è freddato un giovane operaio. A Bolzaneto vengono arrestati due lavoratori, Maffei e Livraghi, che sono fucilati sabato 18. Nello stesso tempo si avviano tentativi di trattativa in cui s’impegna lo stesso amministratore delegato dell’Ansaldo, ingegner Agostino Rocca. I tentativi non portano a nulla, perché la linea dei comitati di agitazione è di non trattare. E’ un manifesto di Zimmermann affisso per tutta la città lunedì 20 dicembre a sancire unilateralmente concessioni salariali e alimentari. I comitati di agitazione dispongono il ritorno al lavoro a partire da martedì 21, dopo due settimane di scioperi.
A gennaio è ancora alta la volontà di lotta, tanto che il giorno 13 parte uno sciopero al Fossati che coinvolge il Cantiere, la San Giorgio e poi le fabbriche di Cornigliano, Sampierdarena e Rivarolo, sino all’Alta Valpolcevera. I GAP alzano il tiro, colpendo direttamente i tedeschi la sera del 13 gennaio. Buranello e Scano in Via Venti Settembre sparano ad ufficiali tedeschi, uccidendone uno e ferendone gravemente un altro. Questa volta la reazione è pronta e durissima: nella notte tra il 13 e il 14 otto antifascisti sono prelevati dalle carceri e successivamente giustiziati al Forte di S.Martino. Venerdì 14 gennaio è ancora sciopero. Il giorno dopo gli stabilimenti sono chiusi a tempo indeterminato, per ordine del Prefetto Basile. Il lavoro riprende solo giovedì 20, senza trattative e, soprattutto, senza risultati per i lavoratori.[1]
La sconfitta di gennaio è molto dura ed è la causa principale del fallimento nelle fabbriche genovesi dello sciopero del 1° marzo 1944. Nel giorno della grande mobilitazione dei lavoratori del Nord, Genova manca l’appuntamento nazionale, salvo isolate fermate, in particolare alla San Giorgio. Il ripiegamento degli operai genovesi durerà quattro mesi. A parte le iniziative in occasione del 1° maggio 1944, quasi tutte esterne alle fabbriche e prodotte da piccoli gruppi, se non addirittura individuali, il movimento entra in un cono d’ombra di apparente tranquillità, anche perché numerosi militanti sono costretti dalla repressione a dileguarsi, senza poter più rimettere piede in fabbrica sino alla Liberazione. Inoltre la Resistenza in questi primi mesi del 1944 subisce altri colpi gravissimi: il 2 marzo cade Buranello, rientrato in città per sostenere militarmente lo sciopero, il 6 aprile avviene il massacro della Benedicta e il 19 maggio l’eccidio del Turchino.
La mancanza di scioperi non significa però cedimento. Significa solo scelta di modalità differenti di resistenza. Come l’opposizione – straordinaria per forza ed estensione – al tentativo fascista di “normalizzare” la vita sindacale con la costituzione di nuove commissioni interne. Il sindacato fascista effettua il massimo sforzo proprio tra marzo e i primi di maggio del 1944, approfittando del momentaneo ripiegamento delle lotte. I comitati clandestini di agitazione denunciano la natura collaborazionista dell’iniziativa e chiamano i lavoratori a votare scheda bianca oppure ad annullare il voto, segnando i nomi di Buranello e di Livraghi. Buona parte dei lavoratori si rifiuta di votare. Chi va a votare, in grande maggioranza, annulla la scheda. I risultati delle principali fabbriche sono raccolti dagli organismi clandestini e diffusi dal bollettino della Federazione del PCI.[2] Significativamente i risultati peggiori per il sindacalismo collaborazionista vengono da tre delle quattro fabbriche poi investite dalla rappresaglia del 16 giugno: al Cantiere di Sestri su 2339 votanti, tra operai e impiegati, 1519 annullano la scheda; i voti nulli sono poi 200 su 350 alla Piaggio e 2115 su 3969 alla Siac. Si segnalano ancora i risultati del Fossati di Sestri (1845 voti nulli su 2448), della Ceramica Vaccari di Borzoli (342 su 350), dell’Odero T.O. (152 su 258), del Cantiere Ansaldo di Sampierdarena (1840 su 2122). Il fallimento della controffensiva politica fascista è evidente. La risposta dei lavoratori non è la lotta aperta come nei mesi autunnali del 1943 e come a gennaio, ma è altrettanto efficace perché colpisce i fascisti sul terreno della battaglia per il consenso, sconfiggendo l’opzione collaborazionista.
E’ nella seconda metà di maggio che si creano le condizioni per una nuova fase di lotta.[3] Gli obiettivi sono di carattere economico perché le condizioni di vita sono nettamente peggiorate. In particolare è drammatica la situazione alimentare, per l’esaurimento graduale delle scorte e per la difficoltà gravissima dei rifornimenti. Si vive alla giornata, per di più nel terrore costante dei bombardamenti che tra marzo e giugno si accaniscono sul ponente cittadino con centinaia di morti e feriti. In diversi stabilimenti si torna a rivendicare salario con modalità inedite: nessuna delegazione per le trattative, nessuna elezione di rappresentanze per non esporre i compagni. Spesso a dar voce alle rivendicazioni ci pensano le donne. Talvolta i dirigenti aziendali sono chiamati a discutere nei piazzali e nei reparti: si parla lì e le voci dei compagni provengono dalle seconde e dalle terze file, senza nome e senza faccia. Anche ai dirigenti va bene così: meglio non vedere e non sapere chi parla a nome di tutti. Il fermento è così alto che il prefetto Basile decide di fare un giro nelle fabbriche tra il 19 e il 20 di maggio, proprio nei giorni della strage del Turchino. Basile minaccia e blandisce e sopporta anche fischi e insulti che gli piovono addosso dagli operai, specie al Meccanico di Sampierdarena.
Il 1° giugno è sciopero alla San Giorgio, al Fossati e al Cantiere. Nel pomeriggio all’Allestimento Navi la polizia spara e rimane ucciso un operaio. Il giorno dopo, venerdì 2, gli scioperi dilagano da Sestri a tutta la Valpolcevera. Nel pomeriggio si fermano le fabbriche di Sampierdarena e di Cornigliano: Meccanico, Carpenteria, Elettrotecnico e Siac. Domenica 4 giugno, giorno della liberazione di Roma, un pesante bombardamento sulla bassa Valpolcevera causa cento morti e centocinquanta feriti. Cresce ancora la rabbia e gli scioperi proseguono per tutta la settimana successiva, incoraggiati dalla notizia dello sbarco alleato in Normandia, dal giorno 7 di dominio pubblico. E’ di nuovo un’onda di piena, come a dicembre e come a gennaio. Fascisti e tedeschi non possono non cogliere il collegamento tra le agitazioni e la nuova fase del conflitto, dopo l’ingresso degli Alleati a Roma e lo sbarco in Normandia. Venerdì 9 lo sciopero si è ormai diffuso in tutti gli stabilimenti e Basile decide di porvi fine, ordinando la serrata di sette fabbriche. Il testo del comunicato, apparso sui giornali cittadini sabato 10 è chiarissimo. Ho cercato – scrive in sintesi Basile – di spiegarvi come stanno le cose, ma non avete voluto ascoltarmi e ieri, di nuovo, avete scioperato tutti quanti. Perciò ordino la serrata sino a martedì prossimo di Siac, Piaggio, San Giorgio, Cantieri Navali, Carpenteria, Ferriere Bruzzo, Ceramica Vaccari. Vi avverto che questa è la prima e la più blanda delle misure che sto preparando per voi. Ad ulteriore dimostrazione che si sta facendo sul serio, la mattina del 10 poliziotti guidati dal questore in persona, insieme ad un gruppo di SS, irrompono al Meccanico di Sampierdarena, durante uno sciopero di reparto. E’ un’azione molto rapida: il reparto in sciopero viene isolato e sessantaquattro operai sono prelevati, caricati sui camion e portati via. Operazioni di questo tipo sono già state effettuate per lavori di cui i tedeschi hanno urgenza, ma non hanno mai interessato operai prelevati in fabbrica, bensì gente presa a caso per strada.
Nonostante tutti questi segnali, nessuno all’interno della Resistenza immagina quello che succederà di lì a pochi giorni, nessuno mette in conto la possibilità di una deportazione di massa. Lunedì 12 nelle fabbriche ancora aperte il lavoro riprende regolarmente. Lo stesso succede mercoledì 14 nelle fabbriche sottoposte a serrata. La giornata del 15 trascorre tranquillamente. Venerdì 16, nella tarda mattinata di una giornata caldissima, scatta la rappresaglia guidata dalle forze di occupazione tedesca con la partecipazione di polizia e brigate nere. L’azione è condotta con tecnica militare e ha caratteristiche di un’adeguata preparazione. Innanzi tutto nella scelta degli obiettivi. Per la Siac l’operazione è abbastanza semplice, perché lo stabilimento è relativamente isolato, circondato da colline e i binari della ferrovia hanno diramazioni che arrivano sino alla fabbrica. Più complessa è invece l’operazione per Cantiere, San Giorgio e Piaggio, perché gli stabilimenti sono situati nel contesto urbano di Sestri e hanno parecchie vie di uscita. La contiguità delle tre fabbriche e uno straordinario dispiegamento di forze favoriscono tuttavia il successo, con l’effetto aggiuntivo, probabilmente cercato, di coinvolgere e terrorizzare tutta Sestri. I fatti successivi sono noti e confermati da numerose testimonianze: i lavoratori sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su autobus e camion così come sono, in tuta, con gli zoccoli, molti in canottiera. Nella rete cadono in circa millecinquecento, successivamente portati ai punti di concentramento a Campi e a Rivarolo e caricati come bestie su carri ferroviari con destinazione Mauthausen.
Due giorni dopo, il 18 giugno, escono sulla stampa cittadina due comunicati, uno del comando tedesco, l’altro, truculento e delirante, di Basile che non vuole perdere l’occasione di godersi la festa: “Vi avevo messo sull’avvertita…Non avete voluto ascoltarmi…Oggi più di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed illudere…”. Le parole di Basile tradiscono però anche impotenza e paura: “…Intanto quei pendagli da forca che si gabellano per comunisti, si appostano all’angolo dei carruggi o all’uscita di un rifugio al cessato allarme, per colpire alla schiena uno dei nostri, borghese o militare… Meditate bene quanto sto per dire: la pazienza ha un limite…”. I “pendagli da forca” l’indomani colpiranno duro, questa volta molto in alto. Dopo essere sfuggito ad un primo attentato proprio il 16 giugno in Via Garibaldi, vicino a Palazzo Tursi, il 19 a Savignone è liquidato a colpi di mitra il generale della GNR Silvio Parodi. Il 25 giugno esplode una bomba in un bar di Via del Campo frequentato esclusivamente da soldati tedeschi: i morti sono sei e diversi i feriti. Il 30 giugno a Pedemonte sono colpiti a morte quattro ufficiali tedeschi. Il 2 luglio in Piazza Aprosio a Sestri è la volta di un sottufficiale di P.S.
Tornando alla gigantesca retata del 16 giugno è necessario ricordare che questa si svolge praticamente senza resistenze, salvo qualche isolato episodio di protesta di donne a Sestri. Le testimonianze raccolte da Clara Causa[4] ricordano un gesto disperato del partigiano Piva che nel Cantiere Navale riesce a sparare qualche colpo di pistola contro i tedeschi. Altre testimonianze raccolte da Manlio Callegari[5] citano episodi di azioni individuali di aiuto per la fuga dei deportati. Nel complesso tuttavia l’operazione si svolge nel disarmo completo dell’organizzazione della Resistenza. La domanda obbligata riguarda la possibilità di prevedere, evitare o contrastare la deportazione del 16 giugno. Prevedere forse si, considerando premesse e segni premonitori. Evitare probabilmente no, considerando la sproporzione delle forze in campo in quel momento. Contrastare, attenuando le conseguenze, sicuramente si. Ad avvalorare questa tesi è proprio la testimonianza di Remo Scappini, all’epoca responsabile del Partito Comunista, uno dei capi della Resistenza genovese: “Il rastrellamento rivelò serie deficienze anche del nostro partito, poiché dimostrò che le squadre operaie di difesa avevano trascurato la sorveglianza nelle fabbriche. Certo, di fronte ai mitra puntati non sarebbe stato possibile opporre resistenza, ma se la sorveglianza avesse funzionato e se ci fosse stato un minimo di reazione, si sarebbe creato scompiglio facilitando così la fuga di molti operai, come avvenne in altre circostanze a Genova, a Torino e altrove.” [6]
Ora è possibile trarre una prima conclusione storiografica. Il 16 giugno chiude drammaticamente a Genova una fase della Resistenza contrassegnata dalla centralità delle grandi lotte operaie.[7] Ci saranno altri scioperi alla fine di ottobre del 1944, contro la minaccia di nuove deportazioni, a novembre contro la diminuzione della razione di pane, e infine nei mesi della mobilitazione pre-insurrezionale.[8] La fabbrica però non è e non potrà più essere il centro dell’iniziativa politica antifascista e antitedesca. Sono i lavoratori per primi a comprenderlo, sino a trarre coerenti conclusioni con il rifiuto (di fatto) dell’indicazione del Partito Comunista e del CLN dello sciopero generale insurrezionale nell’aprile 1945. La mancata effettuazione dello sciopero generale non impedirà, come è noto, il pieno successo dell’insurrezione “modello” di Genova, con il contributo determinante della classe operaia, specie a Sestri e nel ponente industriale della città.[9] A questo proposito Giorgio Bocca ha scritto – efficacemente, anche se impropriamente – che a Genova e in Liguria la lotta di Liberazione ebbe le caratteristiche di una “rivincita operaia”.[10]
Il secondo problema storiografico collegato al 16 giugno riguarda il peso che nella vicenda ebbe l’esigenza di reclutare lavoro forzato per l’economia di guerra tedesca. Quella della deportazione di manodopera è una storia lunga che inizia dopo l’8 settembre con l’occupazione tedesca dell’Italia del Nord e della città di Genova. Già nel novembre 1943 l’amministratore delegato dell’Ansaldo Agostino Rocca riesce ad impedire la deportazione di novecento lavoratori destinati alla costruzione di sommergibili a Kiel.[11] Il problema si ripresenta alla fine di gennaio del 1944, quando Rocca viene a sapere dell’esistenza di un piano tedesco di prelievo di circa trentamila lavoratori genovesi, tremila dei quali dovrebbero essere messi a disposizione dall’Ansaldo. Utilizzando i buoni rapporti con Leyers, ingegnere e generale di corpo d’armata plenipotenziario per l’Italia del Nord di Albert Speer, ministro per gli armamenti e la produzione bellica, Rocca riesce nuovamente ad opporsi al trasferimento, offrendo in cambio un aumento di produzione nei propri stabilimenti. Rocca capisce e quindi gioca sul fatto che le pressioni maggiori per il trasferimento di manodopera in Germania vengono dagli industriali tedeschi, più che dalle autorità militari in Italia.
La situazione precipita alla fine di marzo, allorché vengono inviate agli operai dell’Ansaldo mille cartoline precetto che equivalgono ad un ordine di partenza. Rocca fa ritirare le cartoline e per questo rischia l’arresto da parte delle SS. Alla fine a partire sono solo un centinaio di operai, anziché i tremila in un primo tempo previsti. Un nuovo tentativo tedesco viene effettuato un mese dopo con la richiesta di duemila operai dell’Ansaldo Fossati: il numero è stabilito sulla base della quantità di disoccupati che in quel momento risultano percepire sussidi totali o parziali. Questa sembra la volta buona, perché vengono fissate sia la data della deportazione, il 10 maggio, sia addirittura le procedure di trasferimento, con l’avvertenza tedesca che “le maestranze partiranno come si trovano sul posto di lavoro”. Alla fine salta anche l’appuntamento del 10 maggio, per ostacoli frapposti dalla stessa amministrazione di Salò. Le autorità germaniche preferiscono rinviare l’operazione ad un momento più favorevole che arriverà presto, il 16 giugno, appunto. Quando non saranno possibili obiezioni in presenza di “…una misura di polizia (reazione ad uno sciopero), contro la quale la considerazione costi – profitti – come nel caso delle richieste di aziende di operai per la produzione bellica nel Reich – non avrebbero potuto prevalere.”[12] Sull’intera vicenda della mancata deportazione del Fossati osserva Manlio Calegari: “L’impreparazione, lo stupore, la disperazione di quel giorno (16 giugno, ndr) deriveranno anche dal fatto che in città nulla era trapelato del progetto del 10 maggio. Il fatto che di nulla il CLN avesse avuto sentore, porterebbe a pensare che localmente l’attenzione a simili soluzioni fosse scarsa, tanto esse apparivano irrealistiche. Non ci si aspettava ancora un anno di guerra, né che la Germania mettesse in opera il massiccio trasferimento di risorse materiali e umane che aveva più volte annunciato e tentato.”[13]
Dal punto di vista tedesco per altro le complicate vicende genovesi sono emblematiche di un più generale fallimento, se rapportato agli obiettivi iniziali di oltre un milione di lavoratori italiani al servizio dell’industria bellica germanica. Fallisce tanto il reclutamento di volontari attuato con la propaganda, quanto l’arruolamento coatto, sia civile, sia militare. “Se esaminiamo le cifre – osserva ancora Klinkhammer – nel 1944 da gennaio a dicembre gli operai dell’industria arruolati furono complessivamente 65.954. Rispetto ai progetti di Sauckel dell’inizio dell’anno, che prevedevano il rastrellamento di un milione e mezzo di lavoratori, e più ancora rispetto alla dichiarazione di Hitler nel marzo, secondo la quale dall’Italia se ne potevano ricavare anche tre milioni, il numero dei lavoratori effettivamente “arruolati” testimonia con tutta chiarezza il fallimento dell’organizzazione Sauckel. Anche di fronte a circa 450.000 militari internati, che in agosto furono trasformati d’autorità in lavoratori civili, e che per altro lavoravano già in precedenza nell’industria degli armamenti, risulta evidente la scarsa importanza che ebbero per l’industria bellica tedesca i nuovi arruolamenti.”[14] In altri termini il reclutamento di lavoratori italiani da parte dell’occupante tedesco si ridusse a quello che in effetti fu il 16 giugno a Sestri: pura operazione di polizia, di repressione della protesta, di umiliazione e di annichilimento di un’intera comunità.
In conclusione una riflessione su un ultimo problema storiografico legato al 16 giugno. Colpisce la sproporzione tra il peso che quella tragedia ebbe nella storia della Resistenza genovese e che tuttora ha nella memoria collettiva dei sestresi, tramandata com’è di generazione in generazione, e l’attenzione tutto sommato scarsa che il 16 giugno ha avuto e nella storiografia locale (salvo le eccezioni più volte citate), e ancor più nella storiografia nazionale della Resistenza e, più in generale, del periodo 1943 – 1945. Una maggiore attenzione deve essere sollecitata ed anche pretesa. Il modo giusto per farlo, a livello locale, è però quello di aiutare la ripresa della ricerca mettendo a disposizione una testimonianza come quella di Orlando Bianconi che, senza nulla togliere ad altre testimonianze, [15] ha il pregio di essere stata prodotta (quasi) contemporaneamente allo svolgimento di una difficile vicenda di deportazione.
I diari possono essere letti da due punti di vista. Il primo riguarda la terribile vicenda di un uomo non più giovane (quarantatre anni al momento della deportazione) che improvvisamente, in una “…giornata d’estate…” in cui “…nulla fa presagire quanto sta per accadere…” deve subire una violenza cieca che lo costringe ad abbandonare tutto, lavoro, casa, famiglia, affetti: “ore 19 partenza, lungo la linea numerose persone, tra cui donne e fanciulli piangenti, salutano noi e maledicono loro…”. Lo stile è asciutto, essenziale, ma nulla è dimenticato: un gesto di generosità (“…a Ronco Scrivia una ragazza mi offre tutto il denaro del suo borsellino, ringrazio il suo buon cuore, ma cosa farne?”), il pensiero della fuga (“A tratti odo come se il predellino del carro urtasse in un mucchio di sabbia, ma comprendo cos’è il rumore: è la caduta dei fuggitivi…Sono avvilito per non poter essere anch’io tra loro, mi consola il pensiero che almeno qualcuno riesca a fuggire.”). Poi l’arrivo, con il terrore di una scoperta: “…riesco a leggere il nome della stazione d’arrivo: Mauthausen. Comprendo come un fulmine…ricordo il terribile campo dove durante la guerra 1914 – 18 perirono migliaia di prigionieri.”
E ancora il freddo, la fame, i maltrattamenti gratuiti (“…come se si fosse una mandria di bestie…”), il disagio (“…bisogna arrangiarsi, in tre su un pagliericcio…”), soprattutto l’incertezza (“L’argomento principale è come finiremo, ci manderanno al lavoro o ci terranno lì a far la vita del campo?”). Con l’incertezza arriva la paura di ammalarsi (“Per quanto può durare a fare una vita simile un individuo? Poco, perché appena si ammala per lui c’è il forno crematorio…”), di prendere botte (“…schiaffi e pedate, per gusto, basta non togliersi il berretto quando passa sia un soldato che un ufficiale, anche a una certa distanza, lavorando o no…”), soprattutto di non rivedere più i propri cari (“…quando sono a letto penso a mia moglie e al mio bimbo Severino, che chissà quando e se li rivedrò…”).
La seconda chiave di lettura dei diari riguarda l’operaio specializzato elettricista Orlando Bianconi, entrato alla Piaggio di Sestri perché “…è una delle poche fabbriche che non costringeva i suoi dipendenti all’iscrizione obbligatoria al Partito Nazionale Fascista”. “Era un libero pensatore – osserva il figlio Severino – anche dopo la Liberazione Orlando continuò ad esserlo, senza mai iscriversi ad alcun partito”. La vena libertaria si sposa con il forte attaccamento al lavoro e con l’orgoglio di appartenere ad una realtà culturalmente più avanzata: “…si credono una razza eletta…Vale più un semplice manovale di noi che un capo di loro. Un lavoro che in Italia si impiega un giorno per farlo bene, qui ne occorrono tre per farlo male…Conoscono solo il lavoro, mangiare, dormire e avere figli. Loro vivono per lavorare, mentre noi lavoriamo per vivere”. E’ grazie al proprio mestiere che Orlando riesce a migliorare un poco la propria condizione di deportato. Si dà da fare e nel tempo libero ripara radio, facendosi così apprezzare dagli austriaci. Una volta accettato, Orlando scopre che anche tra i tedeschi ci sono “…molte brave persone…” e che tra i suoi compagni di lavoro c’è chi come lui odia fascismo e nazismo (“…Eric Streif è un antinazista, ci offre sempre da fumare e mai un rimprovero per nessun motivo. Comprende che siamo vittime di un partito e forzati a fare un lavoro non nostro, perciò quello che facciamo è fin troppo…”). Quando finalmente arriva il giorno della libertà, Orlando è lapidario, quasi a trattenere un’emozione inesprimibile, troppo grande per poter essere raccontata con più di dieci parole: “4 maggio 1945. Esco, appena fuori spunta la prima macchina americana. Sono le 8,30.”
Con la sua sensibile (e ruvida) personalità Orlando Bianconi narra se stesso e, forse senza rendersene conto, anche la sua classe sociale. L’operaio “medio” genovese è infatti adulto, istruito, ad elevata qualificazione professionale. Mestiere, orgoglio professionale, coscienza fiera, indipendenza intellettuale (che si sia “liberi pensatori” o militanti di partito poco importa): questi sono i tratti molto nitidi di un soggetto sociale forte, capace di esprimere autonomamente valori e culture. Da questo punto di vista la Resistenza genovese è stata veramente una straordinaria “rivincita operaia”.

Sestri, dicembre 2008 Paolo Arvati

[1] Sulle lotte dell’autunno inverno 1943 – 1944: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Istituto Storico della Resistenza, Genova 1968, pp. 71-86; M.Calegari, Comunisti e partigiani, Genova 1942 – 1945, Selene Edizioni, Milano 2001, pp. 149 – 171.
[2] L’episodio è analizzato dettagliatamente da Antonio Gibelli in Genova operaia nella Resistenza, cit. pp.101-108.
[3] L’analisi più completa del periodo maggio – giugno 1944, oltre che dello stesso evento del 16 giugno, è di Manlio Calegari in Comunisti e partigiani, cit. pp. 192 – 205.
[4] C.Causa, La Resistenza sestrese, ANPI Sestri Ponente, Genova 2000, pp. 82 – 85.
[5] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag. 201.
[6] R.Scappini, Da Empoli a Genova, La Pietra, Milano 1981, pag. 199.
[7] A questa conclusione giungono i contributi di M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. , S. Antonini, La Liguria di Salò, De Ferrari, Genova 2001, P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, ILSREC, Storia e Memoria, n. 2, 2004.
[8] Su questi episodi di lotta: A.Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, cit.
[9] Sull’insurrezione di Genova: M. Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pp. 483 – 489; P. Arvati, Organizzazione antifascista e lotta sindacale nella Resistenza genovese, cit.; M.E.Tonizzi (a cura di), A wonderful job, Carocci, Roma 2006.
[10] G.Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Arnoldo Mondadori, Milano 1995, pag.331.
[11] Sulla deportazione di lavoro forzato: L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 161 – 165 e 366 – 411.
[12] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, cit. pag.165.
[13] M.Calegari, Comunisti e partigiani, cit. pag.194.
[14] L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, cit. pag. 371.
[15] Si ricorda in particolare: P.Villa, Ricordi di un deportato nel Terzo Reich, Nuova Editrice Genovese, Genova 1997.

Iraq, l’offensiva dell’Isis cambia le alleanze nello scacchiere mediorientale Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Gli Usa, pur non confermando l’autenticità dei fatti, hanno condannato il massacro di 1.700 soldati iracheni compiuto a Tikrit dai combattenti sunniti dell’Isis. L’azione era stata diffusa su twitter e documentata con alcune foto e filmati. Intanto Washington si sta preparando a “colloqui diretti” con Teheran per trovare il modo di affrontare la drammatica situazione in Iraq e il dialogo dovrebbe cominciare gia’ in settimana. A darne la notizia sono fonti dell’amministrazione Obama al Wall Street Journal. Le fonti non precisano quali saranno i canali attraverso i quali avverranno i colloqui. Una possibilita’ potrebbero essere i negoziati sul nucleare iraniano che riprendono oggi a Vienna e che vedono riuniti diplomatici di Washington e Teheran.

Tuttavia l’Iran, che nei giorni scorsi attraverso il suo presidente Hassan Rohani si era detto pronto ad aiutare Baghdad nel “combattere il terrorismo”, anche attraverso una cooperazione con gli Usa, è comunque ostile a “qualsiasi intervento militare straniero in Iraq”. Dopo che gli Stati Uniti hanno dispiegato una loro portaerei nel Golfo, anche la Lega Araba si mostra prudente. Durante una riunione al Cairo, di cui ha riferito l’agenzia egiziana Mena, i rappresentanti permanenti dell’organizzazione hanno espresso il rifiuto di immischiarsi nelle questioni interne dell’Iraq e hanno auspicato la realizzazione di un’intesa nazionale per risolvere la crisi.

Intanto Tony Blair, primo ministro britannico ai tempi dell’invasione anglo-americana che porto’ al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, respinge le critiche – prima di tutto quelle della Russia – di chi ritiene che le origini del caos odierno vadano ricercate in quell’intervento. “L’invasione dell’Iraq del 2003 non e’ da biasimare per l’insurrezione violenta che ormai attanaglia il Paese”, scrive sul suo sito Blair. La violenza, aggiunge, e’ invece la conseguenza “prevedibile e maligna” dell’inazione in Siria.

Anche se l’esercito iracheno ha annunciato una sorta di controffensiva, l’Isis controlla ormai, dopo la recente conquista di Mosul in Iraq, un’area piu’ grande della Giordania, che si estende da est di Aleppo a ovest di Baghdad e dove vivono circa 6 milioni di persone. Comandati da Abu Bakr al Baghdadi, famoso per la sua crudelta’ e ferocia, hanno fatto il grande balzo dopo aver annunciato, nell’aprile del 2013, l’espansione in Siria e conquistato il controllo lo scorso anno della citta’ siriana di Raqqa, punto strategico da cui hanno potuto sfruttare i vicini pozzi petroliferi e accumulare ingenti risorse nel ‘business’ dei rapimenti di siriani e sopratutto stranieri. E’ li’ che, fra l’altro, e’ stato sequestrato il gesuita Paolo Dall’Oglio. Con il passaggio in Siria, il gruppo ha anche cambiato nome: da Isi, ovvero lo Stato islamico dell’Iraq, la sigla e’ divenuta Isis, aggiungendo una ‘s’ che sta per ‘Sham’, ovvero ‘Levante’ o ‘Grande Siria’, ed ottenendo fondi dai paesi del Golfo nemici di Assad, tra cui il Qatar e il Kuwait. I jihadisti dell’Isis contano – secondo esperti citati dell’Economist – su circa 6 mila combattenti in Iraq e su un numero variabile tra i 3 mila e i 5 mila in Siria, inclusi circa 3 mila stranieri: si parla di un migliaio di ceceni e di cinquecento o piu’ europei, provenienti per lo piu’ dalla Francia e dalla Gran Bretagna.

Piuttosto che combattere semplicemente come un frangia di Al Qaida, come facevano prima del 2011, i guerriglieri dell’Isis hanno deciso di controllare il territorio, imponendo non solo il loro codice morale, ma anche le tasse alla popolazione locale. In altre parole hanno creato una bozza di Stato islamico, un ‘califfato’ nei loro disegni, a cavallo tra la Siria e l’Iraq, approfittando della guerra civile siriana e del conflitto etnico iracheno.
Con l’aiuto degli ex sostenitori di Saddam Hussein e con i fondi e gli aiuti accumulati nella siriana Raqqa, e’ cosi’ partita l’offensiva verso Baghdad di questi giorni, con la spettacolare conquista di Mosul, la seconda citta’ piu’ popolosa dell’Iraq. A Mosul – riferiscono fonti citate dall’Economist – i jihadisti dell’Isis non si sono limitati agli eccidi e alle atrocita’ da loro stessi documentati sul web, ma si sono impossessati di enormi arsenali di armi americane, di 6 elicotteri Black Hawks e di circa 500 miliardi di dinari (430 milioni di dollari) in denaro contante.

Marx? Non era un opinion maker | Fonte: il manifesto | Autore: Benedetto Vecchi

Tempi presenti. Le dieci tesi di Terry Eagleton in difesa del filosofo tedesco pubblicate dalla casa editrice Armando. Un brillante pamphlet pubblicato per contrastare una riabilitazione che in Europa tende a neutralizzare la portata politica della sua opera

Terry Eagleton è un sofisticato e iroso intellettuale di spicco della «nuova sinistra» inglese. Di origine irlandese e docente di letteratura comparata, è una firma che compare spesso sui giornali al di là della Manica. Ogni suo articolo scatena polemiche a non finire. L’ultima, in termini di virulenza, lo ha visto incrociare la penna con Martin Amis sull’«occidentalismo», cioè sulla rivendicata, da parte dello scrittore inglese, superiorità dei sistemi politici occidentali — garanti dei diritti civili individuali — rispetto a quelli dei paesi terzi. In quell’occasione Eagleton non esitò ad accusare Amis, da sempre vicino al «New Labour» di Tony Blair, di razzismo. Scoccarono scintille e la polemica dilagò per mesi sulla stampa inglese. Ma questa  attitudine alla polemica è complementare alla sua capacità di scrivere saggi critici sulla storia della letteratura inglese, sulla filosofia novecentesca e sul marxismo. In Italia, sono stati tradotti Figure del dissenso, Ideologia, Il senso della vita e L’idea di cultura e un suo intervento critico sul noto libro di Jacques Derrida Spettri di Marx.

Una scoperta sospetta

Quasi a riprendere il filo rosso di quel testo, Eagleton ha mandato in libreria un pamphlet dal titolo Why Marx Was Right, finalmente tradotto da Armando con il titolo Perché Marx aveva ragione (pp. 239, euro 19). L’anno della pubblicazione del volume è il 2011 e l’autore interveniva nel pieno di di una riabilitazione dell’opera dell’autore del Capitale che periodicamente occupa il centro della scena nella discussione pubblica.
Sono infatti anni che riviste, giornali quotidiani, intellettuali conservatori non fanno che elogiare la critica al capitalismo di Marx alla luce della crisi che dal 2007 ha messo in ginocchio Stati Uniti e Europa.
L’opera marxiana è così riabilitata, nonostante il fallimento del socialismo reale, per la sua capacità di prevedere le crisi, mentre Marx è elevato al rango di uno studioso che tutti i capitalisti dovrebbero leggere per evitare di ripercorrere gli errori che hanno portato all’attuale crisi. È contro questa riabilitazione che Eagleton si scaglia, per sottrarre Marx a una vulgata che neutralizza la sua critica dell’economia politica.
Prendendo a modello un famoso testo dedicato a Feuerbach, il libro è costruito partendo da dieci «tesi» diffuse negli ambienti conservatori per confutarle. Al microscopio sono passati tutti i luoghi comuni che circolano attorno a Marx: il determinismo economico; l’egualitarismo nemico della «vera» natura umana; una filosofia della storia che considera come inevitabile il socialismo; l’inevitabile fine del marxismo perché lo sviluppo
capitalistico ha dissolto come neve al sole la classe operaia; la tendenza dei partiti che si rifanno a Marx a edificare società tiranniche; la nefasta utopia di una società di liberi e eguali; la tendenza a ridurre la realtà all’economia; il gretto materialismo che cancella la spiritualità; la spiegazione del divenire delle società a partire dalla lotta di classe; l’apologia della violenza come levatrice della storia; la statolatria dei marxisti; l’indifferenza dei marxisti per i nuovi movimenti sociali.

Eagleton ha gioco facile per ribattere punto su punto. Per fare questo, mette tra parentesi il marxismo consolidato, evidenziando invece la problematicità che caratterizza i testi del filosofo di Treviri. E tuttavia la sua è un’arringa difensiva che non fa che confermare proprio quel marxismo consolidato dal quale invita a prendere congedo. Sia ben chiaro, gli scritti di Marx sono attraversati da un’attitudine antidogmatica che lo ha portato a «correggere» alcune tesi iniziali, nella prospettiva di dare fondamento scientifico alla sua critica dell’economia politica. Assegnare alla lotta di classe la centralità che merita non ha, infatti, mai significato per Marx che altri «fattori» non svolgano un ruolo fondamentale nello sviluppo individuale.

Quel che ha sempre tenuto a sottolineare è che la divisione in classe della società e la condanna a vivere nel «regno della necessità» esercitano un evidente condizionamento nella vita dei singoli. Sta forse in questo lo svelamento della frase «è l’essere sociale a determinare la sua coscienza». Niente determinismo, dunque, ma un’indicazione di ricerca sui molti sentieri aperti da un’«opera aperta», a partire dal nodo inerente la formazione delle soggettività collettive e di come la produzione culturale, nella sua autonomia, svolga un ruolo nel vivere in società. E nel definire le gerarchie sociali. Dunque nessun determinismo economico. Tutto ciò per dire che il problema non è tanto la difesa dell’opera marxiana, bensì la definizione di un progetto di ricerca e di elaborazione che, partendo proprio dai nodi problematici, si ponga l’obiettivo di colmare lacune, aporie, contraddizioni.

Un gioco interpretativo

Le argomentazioni di Eagleton in difesa di Marx perdono forza nella sovrapposizione che egli compie tra la sua opera e il marxismo reale, cioè quell’articolata biblioteca di interpretazioni che per tutto il Novecento ha riempito scaffali di saggi e libri. Soltanto che il marxismo non è un ordine del discorso unitario, ma è segnato da letture e interpretazioni differenti, spesso confliggenti l’una con l’altra. In altri termini, Eagleton compie un cortocircuito tra la storia politica del marxismo e l’opera di Marx. Operazione legittima, sia chiaro, ma solo se esplicitata fino in fondo, elemento che è invece assente in questo pamphlet.

Il libro di Eagleton si propone però di sottrarre Marx a una lettura «pacificata», memore di quella undicesima tesi su Feuerbach che invitava a cambiare il mondo dopo averlo interpretato.

Per lo studioso inglese, infatti, Marx è soprattutto un militante. La sua prassi teorica è stata sempre finalizzata a «abolire lo stato di cose presenti». Resta però da fornire una risposta alla domanda: perché il pensiero dominante lo riabilita? Perché lo ha ridotto a una specie di profeta o, tutt’al più, a un brillante pensatore da usare più o meno come si può usare un qualsiasi altro studioso della società. È questa neutralizzazione della portata «politica» l’oggetto polemico dello studioso irlandese. Più che prendersela con i conservatori, sotto traccia, gli spettri da combattere sono le tesi di intellettuali come Jacques Derrida laddove invitavano a studiare Marx, lasciandone da parte la dimensione «politica»; oppure l’opinion maker Jacques Attali, che ha scritto una biografia del filosofo di Treviri descritto come un promettente storico dell’economia. Oppure a quella riduzione di Marx a classico della filosofia, con i suoi testi allineati in un ipotetico scaffale che segue quello di Hegel. Insomma, un filosofo da consegnare alla storia e nulla più. Il libro di Eagleton è un antidoto a tutto ciò. È questo il suo più grande merito.

il Manifesto 8.1.2014

info sul libro: http://www.armando.it/schedalibro/22782/Perch–Marx-aveva-ragione

Mineo, Chiti e la democrazia Fonte: sbilanciamoci | Autore: Guglielmo Ragozzino

Una grande controversia è nata intorno al senatore Corradino Mineo. Egli è in disaccordo con la maggioranza del suo partito, Pd (partito democratico), in tema di Rai Radio Televisione italiana e di Senato della Repubblica. Il governo si propone di mettere in vendita una parte della Rai o forse l’intera Rai e ha cominciato con l’annuncio di un taglio di 150 milioni al bilancio Rai; e la messa sul mercato di Rai Way, la società che gestisce gli impianti di trasmissione del gruppo, è la seconda novità Rai. Forse a legarle insieme è stato il direttore generale della Rai Luigi Gubitosi che come uomo di finanza trova opportuno cedere gli impianti che non servono a fare profitto, affidandoli ad altre imprese del ramo, tenendo invece per sè i programmi della Rai che rendono o possono rendere profitto, in termini di pubblicità e di canone.

Il senatore Mineo dal canto suo ha svolto intensa attività professionale proprio nella Rai, come giornalista, nella parte più attaccata alla tradizione pubblica della società, quella soprannominata Telekabul da altri operatori giornalistici e da politici di orientamento diverso. Di conseguenza è certamente contrario a vendere parti della Rai, che considera un bene pubblico. D’altro canto il senatore Mineo, come del resto il senatore Vannino Chiti, e una dozzina di altri, ritiene che un Senato depotenziato e anzi composto da personalità non elettive rappresenti uno scadimento irreparabile per la tenuta stessa della democrazia italiana.

Il voto e in genere l’opposizione di Mineo e Chiti contribuiscono a rallentare il Pd che detesta i ritardi e quindi considera perdite di tempo ogni discussione. La discussione corrisponde a un veto sulla base di un ragionamento di questo genere: il tempo è scarso; o si fa tutto subito o non si fa più niente; quindi se si vuole fare, si deve fare subito; se si vuole fare subito, non si può che mettere in un canto la discussione, chiamandola dissenso e quindi veto . Da questa collana di sillogismi, veri o falsi che siano, poco importa – anzi importa moltissimo se non si deve perdere tempo – deriva una piccola frase “conta il voto, non il veto” che si rifà chiaramente al 40,8% delle elezioni europee e al ruolo di parlamentare nominati e non eletti dei due dissidenti che non ottengono neppure il diritto di parola o di replica alla direzione (o assemblea o come si chiama) del loro partito.

C’è qualche democratico (si può usare ancora questa parola o ne cercheremo un’altra?) che osserva l’esistenza di un diritto costituzionale ad esercitare le funzioni di parlamentare “senza vincolo di mandato”. Di solito si parla così, ma chi parla così esclude di fatto dal discorso la prima parte dell’articolo 67 che pure è uno dei tre o quattro più brevi dell’intera Costituzione. L’articolo dice: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Ogni membro del Parlamento “rappresenta la Nazione”, anche i senatori quindi, e in quanto rappresenta la Nazione non ha più vincoli con il suo partito o con i suoi particolari elettori. Alcuni personaggi minori, uomini o donne, a capo del Pd insistono sull’elemento che un parlamentare nominato (come tutti in questa fase), di elettori con i quali esercitare il proprio diritto a superare il vincolo di mandato, non ne ha affatto; quindi non esiste l’elettore e neppure l’eletto, non esiste il vincolo, esiste solo il partito, al quale assicurare fedeltà. Partito che deve essere aiutato in tutti i modi nel momento in cui per affermarsi deve fare in fretta. L’unica cosa che conta – dicono le seconde linee del Pd – è sapere che il dissenso è ammesso e nessuno viene espulso. Basta che non ci faccia perdere tempo. Inoltre le Commissioni parlamentari sono altra cosa; è il partito che nomina e può quindi revocare i propri rappresentanti. Solo che questo non è vero. La Costituzione all’art. 72 spiega che “le commissioni, anche permanenti, (sono) composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari”. Non si parla di fedeltà al partito, anzi si prevede che una minoranza qualificata possa chiedere che il provvedimento in esame torni all’assemblea plenaria. Si ammette insomma – si capisce tra le righe – che il divieto di vincolo di mandato valga anche in commissione. Insomma cacciata dalla porta, la democrazia si ripresenta alla finestra, perfino in parlamento. Perfino in Senato.

Fuori dal ghetto? Fonte: campagneinlotta | Autore: campagneinlotta.org


Una storia che si ripete, quella che sta andando in scena in queste settimane, e che si snoda attorno all’ormai celebre Grand Ghetto di Rignano Garganico (FG) – una baraccopoli sorta alla fine degli anni Novanta e abitata prevalentemente da lavoratori agricoli di origine africana, attualmente sotto minaccia di sgombero. Anzi, di ‘svuotamento’, secondo gli equilibrismi linguistici delle istituzioni pugliesi che, dopo anni di quasi totale silenzio, si stanno attivando con un progetto dal nome e dai contenuti anch’essi piuttosto funambolici: ‘Capo Free, Ghetto Off’.
Lo scandalo scatenato oltralpe da un documentario dell’emittente France2, che denunciava il grave sfruttamento che si cela dietro iversi prodotti agroalimentari commercializzati da alcune catene di supermercati francesi, ha senz’altro sortito qualche effetto. E lo stesso si può dire dei servizi di un altro gigante mediatico come la BBC e delle iniziative di boicottaggio avvenute in Norvegia e Gran Bretagna. La domanda potrebbe dunque farsi strada tra i più cinici: alle istituzioni sta davvero a cuore combattere lo sfruttamento, oppure il loro obiettivo principale è quello di salvaguardare l’immagine della regione e delle imprese locali nel mondo?
Stando alle dichiarazioni della giunta regionale, quello da poco approvato è un piano di azione sperimentale per un’accoglienza dignitosa e il lavoro regolare dei migranti in agricoltura che prevede, tra l’altro, l’allestimento di ben cinque tendopoli della Protezione civile entro il primo luglio, per un totale di 1250 posti disponibili fino al 30 settembre. I fondi (circa un milione e trecentomila euro, a giudicare dalla delibera dello scorso 2 aprile – che però non dà indicazioni molto chiare a riguardo) saranno probabilmente stornati da quelli precedentemente utilizzati per la fornitura di acqua e bagni chimici e per il presidio sanitario di Emergency (in questi anni, una volta alla settimana, un solo poliambulatorio mobile ha fornito cure di base a un insediamento in continua espansione, che nel picco della stagione ospita fino a 1500 persone). A quanto sembra, solo tre dei cinque siti sono stati finora individuati: l’area servizi dell’ex-aeroporto militare di Amendola; un sito in località Vulgano; il terreno adiacente all’albergo diffuso che si trova nel comune di San Severo. Eppure, finora, non c’è l’ombra di una tenda.
L’albergo diffuso, appunto. Un precedente esperimento del governo regionale a marchio SEL, del 2006: progetto sperimentale di prima accoglienza per cittadini stranieri immigrati impiegati come lavoratori agricoli stagionali nelle zone degli ambiti territoriali di Foggia, San Severo e Cerignola. Una specie di campo di lavoro, in regime di apartheid, nel nulla della campagna: regole ferree, ospiti vietati (a meno che non si tratti del coniuge), orari di ingresso e uscita, retta giornaliera di 5 euro, solo immigrati regolari. L’esperimento non ha funzionato. Gli alberghi diffusi sono rimasti semideserti. Che cosa è cambiato da allora?
Da qualche settimana è attiva una task force incaricata di rendere operativa la decisione della regione. Lo scorso mese l’assessore alle Politiche giovanili, Trasparenza e Legalità, Guglielmo Minervini, si è personalmente recato al Grand Ghetto per comunicare agli abitanti la decisione del governo regionale. L’accoglienza, com’è facile immaginare, non è stata delle più calorose.
Nel ghetto l’atmosfera è tutt’altro che serena. C’è chi è arrivato da poco in Italia, magari espulso dalle strutture di ‘accoglienza’ che sono state messe in piedi per far fronte alla cosiddetta Emergenza Nord Africa del 2011. C’è chi ha perso il lavoro e quindi la casa. C’è chi non si può più permettere di vivere in città, soprattutto al Nord. C’è chi nel ghetto ci abita da decenni, stagionalmente o non. E c’è anchechi, servendosi degli intricati meccanismi dell’economia informale che inevitabilmente si è sviluppata in un posto tanto isolato, ricava guadagni dall’erogazione di servizi di ristorazione, trasporto, sesso a pagamento, intermediazione di manodopera. Inutile dire che costoro non sono contenti di perdere la propria fonte di sostentamento e i propri legami locali. Né hanno perso l’occasione di far sentire la propria voce e di esporre il proprio punto di vista – tramite petizioni, sui media, in prefettura.
Una baraccopoli lontana chilometri da ogni centro abitato non è certo un luogo dove si vive piacevolmente, e se qualcuno lucra su questa situazione non c’è proprio di che stupirsi. Certo i loro guadagni sono il frutto di un perverso e complesso meccanismo di sfruttamento e di frammentazione sociale. La dinamica dello sfruttamento rilancia se stessa lungo tutta la filiera: al vertice sta lo strapotere della grande distribuzione organizzata (GDO) e cioè di poche aziende leader (in definitiva sono sette) che operano in regime di oligopolio. Non solo fissano quantità e prezzi dei prodotti loro necessari, ma, a produzione già iniziata ed in base alle esigenze del momento, decidono di cambiare le carte in tavola. L’enorme offerta di prodotti, a cui le aziende della GDO possono attingere, consente loro di tenere sotto scacco le imprese fornitrici, che a loro volta si rifanno sui produttori. Il gioco al ribasso applicato sui prezzi ricade inevitabilmente sull’ultimo anello della catena, i lavoratori. La filiera è in realtà ben più complessa e caratterizzata da un’elevata frammentazione delle fasi produttive che rende estremamente difficile – in una struttura a scatole cinesi – identificare i responsabili. Allo stesso tempo i produttori si trincerano dietro il fatto di subire i dettami della GDO per giustificare paghe infime (fino a 2,70 euro l’ora), l’impiego di manodopera irregolare ed il ricorso ai caporali che rappresentano l’ultima articolazione, perfettamente funzionale e integrata, della filiera.
Adesso come in passato le istituzioni pugliesi – e non solo loro – inseguono lo spettro del caporalato – criminalizzato con una legge del 2011. E minimizzano le responsabilità di chi se ne serve per profitto e lo usa come strumento di controllo di una manodopera resa docile dal bisogno e da un diffuso clima di intimidazione (a cui ovviamente contribuiscono le attuali leggi sull’immigrazione).
Ma nemmeno quelli che accettano paghe da fame, quelli che lavorano spesso a cottimo, saltuariamente e senza alcuna garanzia, quelli che spendono i loro soldi nel ghetto per pagare servizi di cui non possono fare a meno sembrano tutti convinti che andarsene sia un bene. Soprattutto se l’alternativa è una tendopoli, anch’essa in mezzo al nulla. Sono spaventati e confusi, si chiedono come faranno a trovare nuovi ingaggi o come potranno raggiungere i campi dove lavorano con la speranza di guadagnare abbastanza per iniziare altrove.
Dall’altra parte del progetto regionale di attivare un sistema di trasporti si sa poco. La delibera parla di un’operazione, anch’essa ‘sperimentale’,per l’inclusione sociale, per l’inserimento lavorativo e il trasporto dei lavoratori, con lo scopo di garantire accoglienza temporanea presso le aziende agricole e la mobilità dei lavoratori stagionali, per impedire il controllo dei caporali.
Il modello scelto dalla Regione Puglia ricorda pericolosamente quello di un altro fallimentare ‘esperimento’. Alla rivolta di Rosarno del gennaio 2010 il governo centrale rispose proprio con l’allestimento di una tendopoli, sbandierata sui media come esempio di dignitosa accoglienza dei lavoratori stagionali. La tendopoli si trasformò in baraccopoli. Venne smantellata e sostituita con una nuova tendopoli. Oggi la seconda tendopoli è un altro ghetto dove nemmeno luce e acqua sono garantite. E vicino alle tende sono risorte le baracche. Che cosa fa pensare agli amministratori pugliesi che nella loro regione le cose andranno diversamente? Non è che da un ghetto ne nasceranno cinque?
Sembra che in Italia si sia ormai consolidata la prassi di utilizzare dispendiose soluzioni emergenziali (le tendopoli usate per l’accoglienza dei lavoratori stagionali sono identiche a quelle usate per far fronte a disastri ambientali come il terremoto dell’Aquila o dell’Emilia) in situazioni nient’affatto contingenti ma strutturali, qual è appunto quella del lavoro agricolo stagionale. La mobilitazione del complesso militare-umanitario, che per qualcuno costituisce una potente macchina da soldi, non avviene solo nelle zone di raccolta del Sud Italia. Basti pensare a Saluzzo (CN), dove già dall’anno scorso, ma solo per la stagione di raccolta, sono a disposizione dei lavoratori regolarmente assunti diversi campi container, in cui vigono regole del tutto simili a quelle degli alberghi diffusi. Quest’anno ha visto la luce una nuova tendopoli, gestita dalla Caritas e pensata come alternativa alla baraccopoli formatasi nel corso degli anni al Foro Boario. Ma in fin dei conti dove sta la differenza tra un ghetto e una tendopoli? Non sono forse entrambe zone di contenimento di una forza lavoro in eccesso, utilizzata alla bisogna e scaricata quando non serve più? E le nuove tendopoli serviranno davvero ai lavoratori che vivono nei vari ghetti della Capitanata, e che peraltro non sembrano particolarmente propensi a trasferirvisi? Non saranno piuttosto la dimora di coloro che continuano ad arrivare in Italia dall’inizio dell’operazione Mare Nostrum (anch’essa militare-umanitaria)?
Il settore agroindustriale è da anni un laboratorio politico e sociale dove si sperimentano condizioni lavorative e di vita tra le più dure e degradanti: lavoro irregolare, cottimo (che nella provincia di Lecce è stato addirittura regolarizzato grazie alla Cgil), emarginazione socio-abitativa, esclusione sistematica dei lavoratori, quasi tutti stranieri, dai servizi di assistenza (sanitaria, legale ecc.). Le istituzioni, insieme al terzo settore, sembrano convinte di poter cambiare le cose appiattendo il dibattito pubblico sulla questione abitativa (declinata in termini di decoro o di emergenza sanitaria). È l’ennesimo tentativo di spostare l’asse del discorso sulla questione umanitaria e di marginalizzare il tema lavorativo. Come se lo sfruttamento dei lavoratori fosse conseguenza di un certo modo di abitare e non viceversa. Come se il vero problema fosse il Grand Ghetto di Rignano. Come se quell’insediamento abusivo, che in realtà è solo il più famoso di una lunga serie, fosse l’unico nella provincia di Foggia e in Italia. Come se eliminarlo fosse sufficiente per abbattere un sistema di sfruttamento che regge l’intero comparto agricolo italiano.
La Regione Puglia, si obietterà, promette misure per l’eliminazione del caporalato e l’emersione del lavoro irregolare: liste di prenotazione per l’assunzione diretta da parte delle aziende, incentivi a chi assume regolarmente per almeno 21 giorni, marchi di eticità. Tutte cose che vengono proposte come soluzioni innovative, ma che in realtà esistono, sulla carta, già dl 2006. La stessa domanda di prima si ripresenta quasi identica: nel modo di vedere dell’amministrazione Vendola, che cosa farebbe sì che soluzioni rivelatesi fallimentari inizino per incanto ad avere effetti positivi contro lo sfruttamento? E perché premiare i datori di lavoro che mettono i loro dipendenti in regola? Nell’attuazione di politiche neo-liberali neanche troppo mascherate, la lunga e oscura filiera dello sfruttamento non viene mai messa in discussione.
Ciò che sta succedendo intorno e nel ghetto di Rignano Garganico è emblematico di ciò che è già accaduto e accade altrove. Si tratta infatti di un tentativo, per quanto maldestro, di una messa a sistema dell’organizzazione del lavoro agricolo e dei flussi migratori rispetto alle esigenze dei grandi capitali. Le tendopoli e i campi-container, in quest’ottica, sono veicoli ideali per la massimizzazione del profitto. Là i lavoratori stranieri vanno a formare una manodopera a bassissimo costo, sia in termini produttivi che riproduttivi, e sulle loro spalle si lucra anche quando non producono, attraverso i dispositivi umanitari. È assolutamente necessario e doveroso condannare e opporsi a operazioni come quella ideata dal governo pugliese, un’operazione che non affronta il problema e avvalla in modo pericoloso pratiche e politiche che producono ulteriore marginalizzazione, sfruttamento e criminalizzazione.