“Io, scampato a Capaci, ora vivo col senso di colpa” Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell’8 giugno 2014

corbo-angelodi Nando dalla Chiesa – 8 giugno 2014

L’uomo parla e spinge indietro la memoria di tutti. Che è un macigno, ma scivola veloce. Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova. L’aula magna dedicata a Cesare Musatti resta sospesa tra le parole di questo relatore anomalo e le immagini di un passato che non passa mai. Angelo Corbo (in foto) non è un nome noto, eppure bastano due parole per associarlo a momenti indimenticabili e terribili della storia della Repubblica.
È uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone usciti vivi dall’inferno di Capaci. 23 maggio del 1992. Ore 18.58, un cratere immenso che si apre d’improvviso sull’autostrada che porta dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Un boato di guerra e le tre auto in fila. Quella di Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo davanti. Quella del giudice e di sua moglie Francesca Morvillo, in mezzo, con l’autista giudiziario Giuseppe Costanza seduto dietro. E poi la sua: lui con Paolo Capuzza e Gaspare Cervello. Che, con Costanza, si salveranno. È praticamente impossibile guardare Angelo e non immaginare, dietro di lui, quei momenti sullo schermo dell’aula magna. Parla a fatica, in certi momenti la voce si incrina, soprattutto quando a distanza di 22 anni vuole ricordare i nomi dei colleghi.

È ancora un uomo giovane, Angelo Corbo. Vestito di chiaro, ha il fare educato e gentile e un’espressione solare. In apparenza. Perché il fondo dello sguardo ti consegna una malinconia acuta, incredibilmente simile (chissà per quale misterioso motivo) a quella che in certe foto si vede nei neri assiepati intorno a Martin Luther King. Ricorda, ai giovani e agli adulti riuniti dalla professoressa Ines Testoni a parlare di mafia e corruzione, il servizio prestato con slancio accanto al magistrato più a rischio d’Italia. Una squadra di amici, affiatata. Racconta a chi non la sappia o se la fosse dimenticata la storia di un uomo lasciato solo in Sicilia e costretto ad andare a Roma; e di loro, poliziotti semplici, che lo capivano e cercavano di farlo capire ai loro superiori. E che pativano per l’ingiusta solitudine. “Era ‘un morto che cammina’, gli dicevano continuamente, e noi lo eravamo con lui, non ci voleva molto a rendersene conto”. “Poi gli altri sono morti davvero e io invece sono qui. E mi sento in colpa”. Il silenzio in platea si fa più fitto. Incredulo. Commosso. Puoi anche avere già letto di lui su un quotidiano, puoi averlo ascoltato in un’intervista in tivù, ma sentirglielo dire mentre lo hai accanto e ne puoi quasi distillare il fiato, mette i brividi. “Ci hanno anche rimproverato, lo ha fatto un ex collega, perché non ci siamo accorti che su una strada parallela si muoveva un’auto dei mafiosi, con Gioacchino La Barbera. Così almeno si è saputo poi. E io, trasformato in colpevole, ho dovuto spiegare che il compito della scorta non è quello di perlustrare le strade vicine ma di proteggere davanti e dietro la persona che può essere colpita, di non fare avvicinare nessuno”. Spiega le tecniche di protezione, descrive le manovre “a fisarmonica”, racconta che ora si viene formati a fare le scorte, i più fortunati anche a sparare, ma che a lui non l’aveva insegnato nessuno, che Angelo Corbo aveva dovuto imparare presto e da solo, con qualche insegnamento pratico dei più “anziani”, come difendere il giudice più odiato da Cosa Nostra. “Non è a noi che devono chiedere perché fu possibile uccidere Falcone”, dice. Uno scatto del pensiero lo porta oltre i risultati delle indagini. “Lo devono chiedere a chi avvisò Cosa nostra che lui stava arrivando a Palermo a quell’ora. Perché neanche noi lo sapevamo. Non avevamo alcuna notizia certa sull’orario. Certe informazioni non si davano in anticipo. Bisognerebbe sapere chi c’era a Ciampino (e qui la voce si fa dura), non dimentichiamo che il giudice partì da lì, non aveva preso un volo di linea ma per sicurezza aveva preso un volo di Stato. E invece loro si fecero trovare all’ora giusta, con precisione. Chi li aveva avvertiti?”. Torna lacerante l’interrogativo che non ha fatto dormire tanti italiani. Una soffiata complice e impunita perché si compisse la grande tragedia collettiva. Il “chi?” che rimane senza risposta. Con lui, Cervello e Capuzza che non riescono ad aprire la portiera della Croma di Falcone e allora restano armi in pugno, sanguinanti, a difenderlo dal possibile colpo di grazia dei killer mafiosi.
Angelo Corbo, medaglia d’oro al valor civile, è ancora in servizio. Ispettore presso la sezione di polizia giudiziaria al tribunale di Firenze. Non è dunque solo un pezzo di memoria. Anche se la memoria, questo è certo, lo ha inchiodato al boato; e gli ha regalato un compagno di vita che non lo molla mai, il rovello di aver visto un giorno i suoi amici saltare in aria e poterlo raccontare. Nel paese in cui masse di corrotti impuniti, anche a pochi chilometri da qui, pretendono applausi, tappeti rossi e onorificenze, tetragoni a ogni vergogna, un uomo onesto e dallo sguardo malinconico, un uomo dello Stato, sente la colpa di essere uscito vivo dalla guerra mafiosa che ha fatto a pezzi i suoi colleghi. Che abisso di umanità, amici…

Tratto da: Il Fatto Quotidiano dell’8 giugno 2014

Napoli, ambulante senegalese fermato e picchiato in caserma | Fonte: redattoresociale.it | Autore: Elisa Tomasso

Picchiato in caserma, solo perché voleva rispondere al cellulare. È successo ieri a Napoli a Magnane Niane, classe ’67, senegalese, venditore ambulante, fermato mentre era in un bar, nel corso di un’operazione anticontraffazione e antiabusivismo della Guardia di finanza. Secondo la ricostruzione del presidente della comunità senegalese a Napoli, Omar Ndiaye, il migrante è stato preso a pugni da un agente, solo perché si dimenava con le manette, nel tentativo di rispondere al cellulare. “Lo ammanettano prima dietro, poi davanti”. Poi, altre percosse. Dolorante, implora aiuto. In cerchio, ridono. “È stato il momento più brutto” racconta Omar. Restano ferite, lividi sui gomiti, sulle ginocchia, sulla testa. In tutto il corpo.

Tutto si svolge  nella caserma della Guardia di Finanza di Gianturco. Il presidente della comunità senegalese di Napoli è stato il primo ad accorrere sul posto dopo essere stato avvisato che “qualcosa non andava”, che “qualcosa stava succedendo”. Il fatto segue a un’operazione antiabusivismo delle fiamme gialle al mercato della Maddalena, in piazza Garibaldi. Una “retata” che ha coinvolto 11 senegalesi e alcuni pachistani “venditori ambulanti”. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto. Magnane sarebbe stato fermato mentre entrava in un bar, non mentre vendeva abusivamente. A chiamare l’ambulanza, dalla caserma, è stato Omar. Alla sua è poi seguita l’ulteriore chiamata dei finanzieri. “Chiedeva aiuto, steso a terra. Diceva: non ce la faccio più, sto morendo, aiutami”.

Omar racconta anche di un altro piccolo spaccato della triste vicenda e lo fa dal Pronto Soccorso del Loreto Mare dove è stato ricoverato l’amico, prima di finire dietro le sbarre, perché “sarà comunque arrestato, non ci sono fratture, ma solo escoriazioni e lividi e contusioni multiple”. La prognosi è di 10 giorni, la terapia e il riposo se li farà in carcere. “C’erano un finanziere in divisa, l’altro in borghese. Io ho preso il mio tesserino per identificarmi. Mi hanno permesso di parlare a Magnane. Ma un istante dopo, quello in divisa mi ha buttato a terra”. “La Costituzione su cui ho giurato io è la stessa su cui hanno giurato anche loro”.

Indignata Liana Nesta, avvocato dell’Arci Immigrati e cassazionista, che si occuperà del caso, anche lei fuori dal Pronto Soccorso. Ha già parlato con Magnane e fotografato le sue ferite. “Un cittadino straniero, se affidato alla giustizia, va trattato con giustizia ed equità. Denunceremo le persone presenti in caserma”. La dinamica del fatto per l’avvocato è chiara e su quella e sulle testimonianze si muoverà l’accusa. “È stato fermato al bar, portato in caserma e percosso. Gli agenti non hanno elementi identificativi, così è più difficile agire legalmente contro di loro, ma andremo avanti”.

“Abusi da parte della polizia”. Manconi e De Cristofaro annunciano un’interrogazione fonte: redattoresociale.it

“Ancora abusi da parte delle forze di polizia, lunedì presenteremo un’interrogazione parlamentare”. E’ quanto fanno sapere i senatori Luigi Manconi, del Partito democratico e presidente  della  Commissione  per la tutela dei diritti umani  di Palazzo Madama , e Peppe De Cristofaro, di Sinistra ecologia e libertà dopo la notizie arrivate nei giorni scorsi da Monza e Napoli riguardo presunte violenze ai danni di alcuni cittadini stranieri fermati dalle forze dell’ordine.

“Nelle ultime ore le agenzie di stampa riportano due vicende avvenute a Monza e a Napoli – spiegano i due senatori in una nota congiunta -. Protagonisti, in entrambe le situazioni, cittadini stranieri e forze di polizia. A Napoli, a seguito di una “retata” per sequestrare merce contraffatta a degli ambulanti, il rappresentante della locale comunità senegalese ha denunciato violenze da parte di alcuni uomini della guardia di finanza. Si apprende che un uomo di 47 anni sarebbe stato “picchiato fino a perdere i sensi” e l’avvocato dichiara le difficoltà riscontrate in ospedale per riuscire a far refertare il suo assistito: “ho dovuto fare una battaglia, sempre sotto lo sguardo di due finanzieri. Ad esempio non avevano riportato le numerose lesioni alle gambe e al gomito e la ferita al capo. Addirittura avevano scritto ‘paziente non collaborativo’ quando semplicemente, non parlando italiano, non capiva cosa gli venisse chiesto”.

Il caso di Napoli , va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali mostrano un cittadino straniero ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Un “gravissimo comportamento attuato dagli agenti di polizia all’interno del commissariato di Monza”, spiegano i senatori. “Tutto questo deve indurre a una riflessione da parte del governo e in particolare da parte dei ministeri da cui dipendono le forze di polizia sui criteri con cui le stesse vengono formate e addestrate – continua la nota -. Sembra potersi dire che si rivela con drammatica frequenza un deficit di preparazione e di consapevolezza dei diritti dei cittadini”.

70 anni dell’Anpi, il senso di una storia Fonte: Il Manifesto | Autore: Enzo Collotti

I settant’anni dell’Anpi sol­le­ci­tano qual­che rifles­sione sulla fun­zione che que­sto orga­ni­smo ha assolto e ancora assolve nell’ambito dell’associazionismo com­bat­ten­ti­stico. Rispetto a que­sto tipo di asso­cia­zio­ni­smo, che anno­vera soprat­tutto asso­cia­zioni d’arma, l’Anpi si è sem­pre distinta per la sua voca­zione non redu­ci­stica, non cor­po­ra­zione d’arma sul filo di una tra­di­zione matu­rata nella soli­da­rietà della trin­cea o dell’inquadramento in for­ma­zioni rego­lari, ma pro­lun­ga­mento di una espe­rienza tipica di un eser­cito di irregolari.In sostanza, l’Anpi non poteva non rispec­chiare le carat­te­ri­sti­che del par­ti­gia­nato fatto di militari-militanti, non chia­mati alle armi per classi di leva, ma di volon­tari mossi da impulsi patriot­tici o poli­tici o anche solo da istinto di difesa e di con­ser­va­zione, tutti alla fine coin­volti in un pro­cesso col­let­tivo di politicizzazione.

Muo­vendo da que­ste pre­messe, la spinta dei par­ti­giani all’associazionismo non poteva pro­ve­nire che dall’aspirazione a pre­ser­vare il patri­mo­nio di idee e di espe­rienze che era stato alla base della scelta di ope­rare nella Resi­stenza. Con que­sto spi­rito, che per decenni è stato incar­nato dal suo primo pre­si­dente, Arrigo Bol­drini, il leg­gen­da­rio Bulow, l’Anpi ha inse­rito il suo ori­gi­nale con­tri­buto tra le forze politico-culturali che hanno ali­men­tato la rico­stru­zione demo­cra­tica del nostro paese dopo il fasci­smo. Se in qual­che momento si può essere gene­rata l’impressione che nell’Anpi si espri­mes­sero posi­zioni di chiu­sura verso una sem­pre più aperta e cri­tica con­si­de­ra­zione dell’esperienza stessa della Resi­stenza, all’Anpi va rico­no­sciuta la fun­zione fon­da­men­tale che essa ha svolto nel custo­dire la memo­ria della Resistenza.

Diremmo che essa ha assolto e assolve una duplice mis­sione: da una parte tenere viva e tra­man­dare la memo­ria; dall’altra assi­cu­rare con la sua pre­senza nella società civile la par­te­ci­pa­zione alla vita demo­cra­tica facen­dosi tutrice dei valori che dalla lotta di libe­ra­zione si sono tra­man­dati nelle isti­tu­zioni e nella società, con par­ti­co­lare rife­ri­mento alla valo­riz­za­zione della Costituzione.

Rispetto ad entrambi que­sti com­piti la soglia dei settant’anni impone cer­ta­mente se non un momento di ripen­sa­mento un pro­cesso di rin­no­va­mento. L’elemento più deci­sivo di que­sto pro­cesso deriva dal ricam­bio gene­ra­zio­nale sot­to­li­neato dal fatto che già da molti anni l’Anpi si è aperta all’associazione di nuovi affi­liati che non pro­ven­gono più dalle gene­ra­zioni che hanno vis­suto la Resi­stenza in per­sona prima. Come nel caso di altre asso­cia­zioni ana­lo­ghe, penso all’Aned degli ex depor­tati, anch’esse depo­si­ta­rie di archivi e memo­rie di inso­sti­tui­bile valore, in que­sta seconda fase della sua vita anche l’Anpi si pro­pone nel plu­ra­li­smo della società, senza pre­ten­dere di avere il mono­po­lio della memo­ria della Resi­stenza, come un indi­spen­sa­bile punto di rife­ri­mento, riserva di ener­gie e di idee, desti­nato ad accom­pa­gnare la cre­scita di una demo­cra­zia che deve trarre giorno per giorno con­ferma della sua vita­lità dalla con­sa­pe­vo­lezza delle pro­prie origini.