La destra che occupa lo spazio pubblico — Guido Caldiron, da: il manifesto.it

Saggi. Dall’affaire Dreyfuss al Front National. «Les Droites et la rue» di Danielle Tartakowsky. Una importante analisi storica sull’uso della piazza da parte di estrema destra e maggioranza silenziosa

Prima la Manif pour tous che ha mobi­li­tato per mesi milioni di per­sone in tutto il paese con­tro la legge in favore dei «matri­moni gay», quindi la rivolta fiscale dei Bon­nets Rou­ges che ha riem­pito le piazze della Bre­ta­gna, poi la Mar­cia per la vita all’inizio dell’anno che ha messo insieme in nome della lotta all’aborto la destra reli­giosa e quella poli­tica di Ump e Front Natio­nal, infine, alla fine di gen­naio, il cosid­detto «Giorno della col­lera» che ha riu­nito nella capi­tale gli oppo­si­tori più radi­cali al governo, gli estre­mi­sti neo­fa­sci­sti e i seguaci di Dieu­donné, gli inte­gra­li­sti cat­to­lici lefeb­vriani e gli iden­ti­tari che chie­dono senza mezzi ter­mini le dimis­sioni di Hollande.

Mai, nella sto­ria più recente della Fran­cia, la piazza era stata così for­te­mente ege­mo­niz­zata dalla destra. Mai dei movi­menti e delle mobi­li­ta­zioni nati per motivi spe­ci­fici, e tra loro molto diversi, ave­vano finito per con­ver­gere in una sorta di pro­gramma comune, quello della cac­ciata della gau­che dal potere, quasi si pen­sasse che pro­prio da quelle piazze potesse arri­vare la spal­lata deci­siva alle isti­tu­zioni repub­bli­cane oggi occu­pate da una sini­stra con­si­de­rata come «abu­siva» per­ché mino­ranza nel paese. Tutto ciò, ben prima che dalle urne delle recenti ele­zioni ammi­ni­stra­tive, uscisse pla­sti­ca­mente rap­pre­sen­tata que­sta situa­zione con la vit­to­ria di Marine Le Pen e del par­tito degli eredi di Sarkozy.

Neo­fa­sci­sti e nazionalisti

Con il clima che si respira oggi a Parigi, non potrebbe giun­gere più tem­pe­stiva la pub­bli­ca­zione dell’ultimo lavoro di Danielle Tar­ta­ko­w­sky, Les Droi­tes et la rue (La Décou­verte, pp. 208, euro 18), la più ampia e arti­co­lata ana­lisi del rap­porto che le destre hanno cono­sciuto lungo l’intero arco della vicenda sto­rica tran­sal­pina con «la piazza» e le mobi­li­ta­zioni pub­bli­che. Stu­diosa dei movi­menti sociali e spe­cia­li­sta delle mani­fe­sta­zioni di piazza, si deve a lei un’importante ricerca sul valore delle cele­bra­zioni del Primo mag­gio nello svi­luppo della sini­stra fran­cese (La Parte du reve, 2005) e la con­di­re­zione dell’ampia Histoire des mou­ve­ments sociaux en France (2012), Danielle Tar­ta­ko­w­sky prende in esame una arco tem­po­rale che va dalla Terza repub­blica ai giorni nostri, par­tendo dalle mani­fe­sta­zioni nazio­na­li­ste e anti­se­mite che scan­di­rono le tappe dell’affaire Drey­fuss alla fine dell’Ottocento per giun­gere fino alle odierne mobi­li­ta­zioni di segno omo­fobo in difesa della «fami­glia tradizionale».

A dispetto di ciò che si sarebbe por­tati a cre­dere, la sto­ria delle destre è in Fran­cia anche e soprat­tutto una sto­ria di occu­pa­zione e presa dello spa­zio pub­blico, quando non di ten­ta­tivi di uti­liz­zare le pro­te­ste popo­lari per modi­fi­care lo sta­tus quo del sistema poli­tico. Il cata­logo offerto da Tar­ta­ko­w­sky non potrebbe essere più espli­cito da que­sto punto di vista: si tratti delle «manifestations-insurrections» dei seguaci del gene­rale Bou­lan­ger prima, o di quelli dell’Action fra­nçaise di Mau­rice Bar­res poi, dei «ras­sem­ble­ments catho­li­que» che si oppo­ne­vano alle sini­stre negli anni Venti o alle marce delle leghe patriot­ti­che, para­fa­sci­ste e vio­lente, con­tro il governo del Front popu­laire negli anni Trenta, del cor­teo che attra­versò Algeri nel mag­gio del 1958, segnando l’inizio della rivolta dei pieds-noirs con­tro l’indipendenza del paese nor­da­fri­cano dalla Fran­cia, o di quello che il 30 mag­gio del 1968 rispose alle pro­te­ste stu­den­te­sche riaf­fer­mando per le vie di Parigi il soste­gno di una parte del paese al gene­rale De Gaulle.

Per molti versi, il punto di svolta deci­sivo è pro­prio rap­pre­sen­tato dal Ses­san­totto e dalla suc­ces­siva fine del gaul­li­smo. Negli anni suc­ces­sivi emer­ge­ranno infatti, da un lato la defi­ni­tiva con­sa­cra­zione della piazza come luogo di espres­sione delle sini­stre poli­ti­che e sociali. dall’altro lato, la crisi irre­ver­si­bile di quella cul­tura nazional-patriottica che aveva tal­volta tenuto insieme con­ser­va­tori ed estre­mi­sti, la «mag­gio­ranza silen­ziosa» e i nostal­gici di Pétain, spesso all’ombra di un desi­de­rio di rivin­cita sulla repub­blica nata dalla Rivo­lu­zione che ema­nava da taluni set­tori della Chiesa cat­to­lica. Que­sto, per­lo­meno fino ad anni recenti.

Annun­ciate spo­ra­di­ca­mente dalle pro­te­ste del ceto medio e delle pro­fes­sioni libe­rali con­tro la pre­si­denza Mit­te­rand, e poi repli­cate nelle mobi­li­ta­zioni in difesa della «scuola libera» a metà degli anni Novanta, le piazze di destra sono infatti tor­nate pre­po­ten­te­mente pro­ta­go­ni­ste nell’ultima sta­gione della poli­tica fran­cese. Quella che, non a caso, all’ombra della figura di Nico­las Sar­kozy ha pro­dotto su molti punti un avvi­ci­na­mento, quando non una con­ver­genza, tra la destra repub­bli­cana e quella estrema.

Un amaro bilancio

Per la sto­rica fran­cese, il bilan­cio da trarre al ter­mine della sua lunga immer­sione in vicende spesso poco note, non solo fuori della Fran­cia, non potrebbe essere per­ciò più inquie­tante. «Si tende a dimen­ti­carlo — spiega Tar­ta­ko­w­sky -, ma le mani­fe­sta­zioni di piazza fanno parte della cul­tura di alcune com­po­nenti della destra fran­cese, soprat­tutto le più radi­cali, ma non solo, visto che nel pas­sato è stato que­sto il ter­reno su cui si è misu­rata l’estrema destra delle leghe patriot­ti­che o dei monar­chici di Bar­res, ma anche i movi­menti socio­pro­fes­sio­nali del ceto medio e dei padron­cini. Da que­sto punto di vista, sia la Manif pour tous che il debutto dei Bonnets Rou­ges, s’iscrivono per­fet­ta­mente in que­sto pro­cesso di lungo corso carat­te­riz­zato dalle mobi­li­ta­zioni con­tro la sini­stra che hanno spesso avuto pro­por­zioni molto vaste e sono riu­scite a pesare anche in modo deter­mi­nante sul scelte del potere. In ogni caso, lungo l’intera sto­ria repub­bli­cana, ogni volta che la destra ha scelto la via della piazza, ha finito per pro­durre una sorta di rea­zione a catena dalle forti con­se­guenze sia in ambito sociale che politico».

Toh, la Cgil si accorge che nelle coop c’è lo sfruttamento bestiale. Dove sta il trucco? | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

”Ci vuole una nuova legislazione sulle cooperative”. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, intervenendo al congresso nazionale della Filt-Cgil due giorni fa a Firenze, ha impresso una vera e propria svolta nel sindacato. Verrebbe voglia di dire “benvenuta Cgil”. Anche perché sembra di toccare con mano la fine di una alleanza storica con il mondo delle coop. Dopo l’ultraconcertazione che ha accompagnato di fatto un processo al ribasso culminato con la lotta, contrastata fino in fondo dalla Cgil, dei facchini della filiera Granarolo, sembra levarsi una dichiarazione di guerra. “Se l’attuale legislazione – ha osservato Camusso – ha permesso una cosi’ ampia presenza in tutti i settori di forme false, spurie di imprese che teoricamente danno lavoro ma non rispettano le regole, evidentemente c’e’ qualche buco e bisogna quindi sanare la situazione. Chiediamo al ministro che una nuova legislazione sia una priorita”’. A quale ministro? E qui casca l’asino. Perché la Cgil, e in particolare Susanna Camusso, improvvisamente imprime questa svolta al sindacato? Come mai il più grande sindacato dei lavoratori si accorge che, pensate un po’, ci sono “forme false e spurie” di aziende celate sotto la dicitura “sovietica” di coop? E’ semplicemente perché non si può più nascondere lo schifo dello sfruttamento e del ricatto? Ovvero, orari massacranti di lavoro, licenziamenti ritorsivi, paghe da fame. Può darsi. Ma c’è una ragione più eminentemente politica che attiene alla crisi della Cgil e al progressivo “spiaggiamento” dell’azione del suo segretario generale, Susanna Camusso, che ha deciso di mandare un segnale esplicito al Governo colpendolo in uno dei suoi ventri molli. Il conflitto di interessi del ministro del Lavoro Poletti è sotto gli occhi di tutti. La Cgil dapprima ha fatto finta di niente ma dall’altro giorno ha cambiato atteggiamento. La ragione è non è così misteriosa. Poletti e Renzi hanno fatto catenaccio sulla precarizzazione del mondo del lavoro. Questa battaglia era l’ultima carta rimasta in mano a Camusso, che ne ha fatto uno dei filoni del suo intervento non appena eletta alla guida della Cgil. Chi non ricorda la campagna mediatica “Non più disposti a tutto”? Campagna che culminò con una manifestazione a Roma. Insomma, il segretario della Cgil rischia di presentarsi al congresso di maggio senza niente in mano. Nemmeno un incontro con il “governo amico” di Renzi; sfacelo totale sul fronte del pubblico impiego. Ovviamente non parliamo di tutti gli altri temi, a cominciare dalla crisi economica. In più c’è un sindacato mai così diviso da decenni. Insomma, anche la gestione “collaterale” e “politica” con la quale Camusso ha di fatto disarmato sul fronte della lotta sindacale vera e propria sembra naufragare miseramente. Ed allora ecco la pensata! Perché non colpire sui denti il ministro Poletti?

Elezioni in Ungheria: (estrema) destra pigliatutto | Fonte: Contropiano.org | Autore: Marco Santopadre

Le elezioni politiche di ieri in Ungheria hanno confermato una tendenza già evidente negli anni scorsi, con la destra di governo che conserva le sue posizioni di dominio e l’estrema destra neonazista all’opposizione che cresce. Aumenta anche l’astensionismo, di quattro punti percentuali, collocandosi la partecipazione al 61%.L’ex partito liberale Fidesz, portato dal primo ministro uscente Viktor Orban su posizioni apertamente reazionarie, populiste e xenofobe, ha ottenuto il 44,5% dei voti, percentuale che gli concede un’ampissima maggioranza nel parlamento di Budapest. E comunque la destra stacca di ben 20 punti i socialdemocratici, che ottengono solo un 25,9% a fronte dei nazisti di Jobbik che sfondano il muro del 20%, ottenendo il 20,7% dei consensi (era il 16,7 nel 2010). Solo un 5,2% per gli ecologisti dell’LMP, che basterebbe comunque a permettergli l’ingresso in parlamento visto che la soglia di sbarramento è fissata al 5%. In base a questi risultati, quasi definitivi, il Fidesz otterrebbe 133 seggi, il centrosinistra 38, altri 23 l’estrema destra di Jobbik e 5 gli ecologisti. Nei prossimi giorni dovrebbero però arrivare alcune centinaia di migliaia di voti espressi dagli ungheresi che vivono nei paesi limitrofi, ai quali il governo Orban ha recentemente concesso il diritto di voto e che potrebbero aumentare ulteriormente il vantaggio della destra populista.
Certo il Fidesz ha perso otto punti percentuali rispetto alle elezioni di quattro anni fa – quando prese il 52,7% – ma con 133/134 seggi Orban può comunque contare sui due terzi dei seggi totali dell’assemblea nazionale di Budapest, il che gli permetterà di avere i voti sufficienti, senza dover negoziare con nessuno dei partiti dell’opposizione, per imporre leggi di natura costituzionale.

Orban e i suoi non hanno nascosto l’entusiasmo di fronte ai risultati. “L’Ungheria è il paese più unito d’Europa” ha affermato trionfalmente il primo ministro al suo terzo mandato quadriennale, in un’esplicita frecciata all’establishment dell’Unione Europea che negli ultimi anni ha fortemente criticato e pressato l’esecutivo di Budapest dopo il varo di alcune leggi e la riforma della costituzione considerate non in linea con la giurisprudenza continentale e improntate a un nazionalismo aggressivo, autoritario e xenofobo. Ad esempio nel 2012 il governo ha cambiato unilateralmente la legge elettorale, cambiando la geografia dei distretti elettorali per favorire i candidati del Fidesz e portando i seggi da 386 a 199, oltre a cancellare il ballottaggio. Altre misure contestate da Bruxelles, oltre che dall’opposizione, sono state la riduzione dei poteri della Corte Costituzionale, il prepensionamento obbligatorio di molti magistrati invisi al governo e l’introduzione di una dura censura sui media, chiamata non a caso ‘legge bavaglio”.
Ma per molti ungheresi Orban è un campione degli interessi nazionali, visto che ha ridotto le tasse sui redditi ed ha abbassato le bollette elettriche aumentando il controllo statale sul settore energetico (anche grazie ad un accordo con la Russia inviso a Bruxelles). In campagna elettorale il leader del Fidesz ha promesso che taglierà le ipoteche in valuta straniera che pesano su molte famiglie, attaccando gli interessi delle banche di vari paesi dell’Ue che spadroneggiano in Ungheria. Oltretutto negli ultimi anni il governo ha ridotto il debito pubblico, ha aumentato i salari e ridotto la disoccupazione sotto il 10%. Argomenti che hanno fatto breccia in un elettorato poco incline a identificarsi nelle critiche ‘politiche’ delle opposizioni.

A preoccupare è naturalmente anche la crescita dei fascisti di Jobbik, che in molte circoscrizioni hanno di gran lunga superato il blocco formato dai socialisti e dai loro alleati. La campagna elettorale dell’estrema destra è stata aggressiva e martellante, al grido di ‘No all’Unione Europea, si alla Grande Ungheria’. «Vogliamo farla finita con la vecchia classe politica – ha gridato nei tanti comizi Márton Gyöngyösi, uno dei dirigenti di punta di Jobbik -. Il nostro obiettivo è prendere le distanze da Bruxelles, combattere il crimine, la corruzione e lo strapotere delle banche». Un linguaggio euroscettico che veicola contenuti apertamente fascisti e razzisti, sostenuti in questi anni dalle aggressioni contro esponenti della sinistra e soprattutto le comunità Rom. Nel novembre del 2012, mentre le squadracce dell’estrema destra, sopravvissute allo scioglimento della Milizia del partito, assaltavano interi villaggi abitati dagli ‘zingari’, in parlamento Gyöngyösi proponeva la schedatura non solo di tutti gli appartenenti alla minoranza Rom, ma anche dei parlamentari di origine ebraica. Durante la vittoriosa campagna elettorale ha chiesto « l’istituzione di una gendarmeria nazionale sul modello delle milizie create nel primo dopoguerra dall’ammiraglio Horty», il dittatore fascista che dal 1920 al 1944 guidò il paese con il pugno di ferro, alleandosi con i nazisti tedeschi.
Il governo di Orban compete con i fascisti – gli argomenti dei rispettivi schieramenti sono spesso gli stessi – ma al tempo stesso li legittima, spostando gradualmente a destra il proprio discorso. “Oggi l’Ungheria è dominata da una lobby politico-economica di stampo oligarchico – dichiara lo sconfitto candidato dell’opposizione, il socialista Attila Mesterházy -. Le forze di sinistra sono state letteralmente imbavagliate. Inoltre, ci sono stati brogli durante la raccolta delle firme. Le forze di maggioranza hanno dato vita a una vera e propria tirannia parlamentare, liquidando il pluralismo e lo stato di diritto». Ma sembra ormai ovvio che né l’europeismo nè il conformismo in campo economico e sociali delle opposizioni arresteranno l’ascesa delle due destre estreme nella doppia versione governi sta ed estremista. Anzi.

“Il grande Valerio”: il racconto inedito di Stefano Benni domani a Roma da: controlacrisi.org

Libri & Conflitti. Sarà presentata domani a Roma, Una bella bici che va, Aa. Vv. a cura di Isabella Borghese: martedì 8 aprile, ore 18,00 Libreria ARION piazza Santa Maria Liberatrice, 23/25 Roma. Presenta Stefano Gallerani, critico di Alias – partecipano Andrea Satta, voce dei Têtes de Bois – Giovanni Battistuzzi, del collettivo della Ciclofficina La Strada

Un’antologia dedicata alla bicicletta Una bella bici che va, a cura di Isabella Borghese (Giulio Perrone editore) con la partecipazione di Stefano Benni, Fulvio Ervas e Andrea Satta, ma anche un progetto antologico che coinvolge autori meno conosciuti. Si tratta di un lavoro che la curatrice ha ideato ispirata da un’affermazione di Margherita Hack: «Non le nascondo che ho sempre pensato che prima la bicicletta era un mezzo indispensabile per andare a scuola, a lavorare. Oggi lo considero un mezzo che richiama la libertà, ecologico, per divertirsi». Ma una bella bici che va non è solo l’opportunità di leggere storie “a pedali”, diventa anche l’occasione di ricordare che questo mezzo si sta imponendo nei nostri territori, laddove si va in bici nonostante le nostre città non siano esattamente a misura di bicicletta. Ed è così l’opportunità di ricordare che nel 2012 la vendita di biciclette nel nostro Paese ha superato quella delle macchine: 1.606.000 bici contro 1.450.000 automobili; e che nel 2013 i ciclisti urbani – chi usa dunque la bicicletta nel quotidiano – hanno superato i cinque milioni.

Per Controlacrisi Il grande Valerio, di Stefano Benni 

Valerio ha ottantasei anni. E’ l’ultimo riparatore di biciclette del centro di Bologna. Bologna è in gran parte una città di ricchi, viziati e motorizzati, quando si rompe una bicicletta se ne compra un’altra. Ma tanti non hanno i soldi per farlo, e anche se hanno delle biciclette vecchie, vanno da Valerio. Che impreca, bestemmia, dice che quella bici è un rottame, e non si può aggiustare. Ma alla fine lo fa.

E così, tanti anni fa, mentre facevo aggiustare una mia bicicletta, ho conosciuto il mago dei ripara-bici e la sua storia.

Valerio ha fatto la guerra partigiana, è stato ferito, gli hanno ammazzato un fratello. E dopo la guerra si è messo subito a lavorare in una fabbrica di biciclette da corsa. La bici, ripete sempre, è una delle più grandi invenzioni dell’uomo, insieme al camino e alla fisarmonica. E in effetti nel dopoguerra, tutti in Italia andavano in bicicletta, era come avere la macchina, se l’avevi tutti ti invidiavano. E guai a farsela rubare!

Poi sono passati gli anni. C’è stato il boom delle auto. La fabbrica è fallita, Valerio si è sposato e con la moglie ha messo su in piccolo negozio, sotto i portici, nella città vecchia. Ed è diventato subito il più bravo. Noi ragazzi passavamo ore a vederlo lavorare, smontava le biciclette rotte e teneva tutti i pezzi, da una salvava il pedale, da un’altra una ruota, dall’altra la catena e poi riciclava tutto. Non si arrendeva mai, gli portavi una bicicletta distrutta e dopo una settimana l’aveva riparata. E poi raccoglieva le biciclette abbandonate, anche quelle arrugginite, le rimetteva insieme e le rivendeva.

Quando le aveva aggiustate, ci faceva sentire il rumore della ruota che girava bene e dei pedali.

“E’ come ascoltare l’Aida” diceva a occhi chiusi. E aggiungeva: “Anche se tutti adesso vanno coi macchinoni di lusso la bicicletta ha fatto la storia del nostro paese. Guai a dimenticarla”. E quando vedeva le biciclette moderne, quelle con le ruote da cross, gli optional e quaranta cambi, sorrideva. “Va be’, sono belle e costose, ma non hanno niente di veramente nuovo… La bicicletta è sempre quella, tu pedali e la ruota gira. E se pedali forte, gira forte ”.

Ogni anno, andava al giro d’Italia. Prendeva venti giorni di ferie, lui e la moglie si facevano tutte le tappe, spendevano tutto quello che avevano guadagnato e si facevano una bella vacanza. Nella sua piccola bottega, appese al muro c’erano le foto di Coppi, di Anquetil, di Merckx, tutte con l’autografo.

Poi qualche anno fa la moglie di Valerio è morta. E lui ha cominciato a diventare muto e silenzioso. Non scherzava più. Finché un giorno davanti alla bottega ha messo un cartello. “La ditta chiude. Andate a farvele riparare in Cina, che là vanno ancora in bicicletta”.

Ci siamo rimasti malissimo, la voce si è sparsa. Subito è comparso un biglietto, attaccato alla serranda chiusa. “No Valerio ti prego non chiudere”. Poi un altro “ La mia bicicletta ha pianto tutta notte”. E ancora “Valerio sei il Mozart dei riparatori.” E un altro “Guarda che da lassù Coppi ti vede”. Insomma in una settimana la saracinesca della bottega di Valerio era completamente sommersa da centinaia di biglietti di vecchi clienti.

Così poco tempo fa Valerio, a furor di popolo, ha riaperto. Sono andato a trovarlo. Come sempre imprecava perché non trovava i pezzi per riparare una bicicletta vecchia di trent’anni. Mentre eravamo lì è entrato un immigrato, un ragazzo lungo lungo e nero nero.

Ha detto: vorrei una bicicletta usata, ho pochi soldi. Mi serve per andare al lavoro.

– Che lavoro fai?

– L’apprendista meccanico – ha detto il ragazzo.

Valerio l’ha guardato e poi gli ha messo in mano una bicicletta ridipinta di giallo. Stravecchia ma funzionante.

– Quanto mi dai ? – ha chiesto Valerio.

– Ho solo venti euro – ha detto il ragazzo.

– Allora vaffanculo, te la do gratis. Ma non dirlo a nessuno.

Il nero se ne è andato quasi senza crederci.

– Magari col tempo diventa un bravo meccanico – ha detto Valerio – e un giorno forse sarà lui che prenderà il mio posto a riparare le biciclette. Gli italiani non vogliono più fare certi lavori.

– Sarà così – ho detto io – ma bravo come te, nessuno lo diventerà mai.

Anche se abito a Roma, tutte le volte che passo a Bologna, lo vado a trovare Valerio, gli porto un giornale sportivo, e chiacchieriamo un po’, lui mi racconta del giro d’Italia e io gli racconto di quando sono stato in Cina e di quante biciclette ho visto. E non me ne andrei mai da quella botteguccia che odora d’olio e gomma. Valerio è uno dei miei eroi.

BIOGRAFIA CURATRICE
Isabella Borghese, giornalista, ufficio stampa. Responsabile rubrica culturale Libri & Conflitti, di controlacrisi.org. Ideatrice del progetto stylish-editoriale “Livres & Bijoux” (2009), ha pubblicato Dalla sua parte (Edizioni Ensemble, 2013) e ha curato l’antologia Sto qui perché una casa non ce l’ho (Edizioni Ensemble, 2013).

UNA BELLA BICI CHE VA…
Aa.Vv.
a cura di Isabella Borghese
Giulio Perrone editore
Collana Le Nuove Onde
pagine 80
euro 13

Nestlé, scontro tra sindacati e azienda che vuole precarizzare tutti i dipendenti | Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

Nestlè ha interrotto il tavolo delle trattative e i sindacati hanno dichiarato lo stato di agitazione del gruppo. Il Coordinamento Sindacale e le Segreterie nazionali Fai, Flai e Uila accusano l’azienda di voler come pregiudiziale la soluzione di alcune problematiche organizzative in tre siti (Perugia, Frosinone, Parma) prima di affrontare la discussione dei punti della piattaforma dell’integrativo. Ad avviso dei sindacati, la proposta dell’azienda per tre siti risulta impraticabile in quanto prevede di trasformare il contratto di lavoro da tempo indeterminato e tempo pieno in altre forme contrattuali per centinaia di lavoratori. Ciò “intaccherebbe i diritti dei singoli dal punto di vista del reddito e previdenziali”.”Il coordinamento sindacale e le segreterie nazionali Fai, Flai e Uila hanno ripetutamente chiesto di tenere separate le discussioni del rinnovo dell’integrativo – si legge in un comunicato – dai temi della riorganizzazione ma – prosegue la nota – la Nestlè ha dichiarato la propria indisponibilità, assumendosi così la responsabilità di interrompere le trattative. Per queste ragioni dichiariamo lo stato di agitazione del gruppo, il blocco delle flessibilità e degli straordinari e convochiamo le assemblee dei lavoratori”.
Sara Palazzoli, segretaria Flai dell’Umbria, spiega così la vertenza. “La questione – ricorda – e’ sempre quella della cosiddetta ‘curva bassa’ produttiva che riguarda sia il cioccolato prodotto nello stabilimento Perugina di San Sisto”, dove si producono i ‘Baci’, “sia il gelato dei siti di Parma e Ferentino, in provincia di Frosinone. Su questa problematica, da tre anni la dirigenza Nestle’ torna alla carica con ricette diverse per risolvere il problema costituito, dal loro punto di vista, dall’eccesso di dipendenti full time in questa fase di calo produttivo. Prima – ricorda ancora Palazzoli – ha cominciato proponendo il cosiddetto ‘patto generazionale’ tra padri dipendenti e figli, poi quest’anno la cassa integrazione. Ora subordina il confronto sull’integrativo alla riorganizzazione del lavoro nei tre siti italiani: una soluzione – ribadisce la segretaria di Flai Umbria – per noi inaccettabile, prima di tutto per la differenza di situazioni fra i tre stabilimenti. E poi perche’ – prosegue Palazzoli – il nostro obiettivo e’ che Nestle’ ci dica quali sono le sue intenzioni per quanto riguarda il proprio futuro in Italia, con tutto cio’ che segue per le strategie di mercato. Vogliamo parlare anche, e soprattutto, di questo, nell’incontro gia’ fissato per il 16 aprile prossimo in Confindustria a Perugia. Un fatto e’ certo – conclude Palazzoli – e cioe’ che Nestle’ non puo’ scaricare sui lavoratori un calo produttivo e di vendite dovuto anche alle scelte del management”.

Il crollo dell’occupazione e le bugie sul costo del lavoro Fonte: Scenari Globali | Autore: Alfonso Gianni

gianni

dati forniti dall’Istat sulla disoccupazione italiana  non stupiscono chi da tempo segue l’andamento dell’economia e del calo dell’occupazione, ma sono certamente drammatici.

In sostanza il nostro autorevole istituto ufficiale afferma che – forse – vi è qualche segnale di ripresa economica, ma per adesso è solo un fatto statistico che non incide sulla disoccupazione. Tanto che a febbraio il tasso dei senzalavoro segna un nuovo record: il  13% , mai così alto dal 1977. Oltre  3,3 milioni di persone sono in cerca di lavoro : +8 mila su mese e +272 mila su base annua. La componente giovanile è sempre altissima, ovvero è la più penalizzata dalla crisi economica e dalle politiche sbagliate attuate in Italia e in Europa. Tocca il 42,3% in lievissima diminuzione su gennaio, ma con un +3,6% su base annua. Il che traducendo dai numeri alle persone in carne, ossa e cervello significa 678mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro, con scarsissime probabilità di trovarlo, e nessuna in modo stabile, visto l’ultimo decreto Poletti.

Confrontandoci con altri paesi europei l’Italia risulta essere all’avanguardia nel triste primato dell’incremento della disoccupazione nell’arco di un anno: +13% a febbraio (inferiore solo a Cipro e Grecia). Il tasso di occupazione a febbraio è al  55,2% , lontanissimo dagli obiettivi fissati a Lisbona: si torna indietro di 14 anni e in media si perdono mille occupati al giorno.

Il dato della ripresa è del tutto improbabile e comunque da verificare nei prossimi mesi. Quello che già sappiamo è che se ci sarà, si tratterà certamente, stando le attuali politiche economiche e del lavoro, una ripresa senza occupazione ( jobless recovery  come dicono gli anglosassoni).

Renzi ammette che i dati sono “sconvolgenti”, ma ne trae la conseguenza che bisognerebbe affrettare le sue misure, dal  decreto Poletti  al più articolato Jobs act, che in realtà non migliorerebbero la situazione ma la peggiorerebbero con l’eternalizzazione della precarietà, perpetuando di 36 mesi in 36 mesi i contratti a termine senza obbligo di casuale e togliendo persino al rapporto di lavoro di artigianato l’obbligo di formulare un programma scritto di formazione, permettendo quindi di aggirare tranquillamente l’obbligo formativo.

Queste misure sono molto piaciute nella Ue. Si capisce il perché: la bufala della “austerità espansiva” cominciava a fare il suo tempo, visto che i processi economici andavano ovviamente in senso contrario. Quindi bisognava inventarsi qualche cosa d’altro da parte delle élite che comandano in Europa. Ecco quindi la nuova trovata: la “precarietà espansiva”- secondo la puntuale definizione di alcuni economisti critici, come Emiliano Brancaccio – secondo cui basterebbe abbattere ogni regola sul mercato del lavoro e sulla tutela dei diritti dei lavoratori per sviluppare l’economia reale.

Quanto alla questione dell’elevato costo del lavoro ci viene in soccorso, per fare finalmente chiarezza, un’indagine di Eurostat di qualche giorno fa, che smentisce il luogo comune secondo cui in Italia il peso di retribuzioni, oneri sociali e tasse sia il più alto in Europa. Un’ora lavorata da noi costa 28,1 euro contro i 28,4 dell’Eurozona, cioè dell’Europa a 17. Superano l’Italia nel costo dell’ora lavorata la Svezia (40 euro),la Danimarca (38,4), la Francia (34,3), la Germania (31,3) e persino l’Irlanda (29 euro) nonché altri paesi che si collocano tra quelli citati. Il peso del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro in percentuale rispetto al salario in Italia (28,1%) supera di poco la media dell’Eurozona (25,9%).

Mi pare quindi che si possa dire che la liberalizzazione dei rapporti di lavoro in atto da tempo e giunta al suo atto finale con il decreto Poletti (contro il quale l’Associazione nazionale giuristi democratici ha avanzato una denuncia alla Commissione europea per violazione delle stesse norme della Ue in materia di lavoro) non aumenta l’occupazione ma solo la  precarietà  e che insistere sul tema del costo del lavoro ci porta fuori strada. Ci vuole quindi una inversione di rotta rispetto alle attuali politiche, basata sullo sviluppo di un intervento pubblico in settori innovativi e ad alta intensità di lavoro, unita a un salario minimo orario e a forme di reddito di cittadinanza, nonché all’estensione dei diritti dei lavoratori.

Quello che la lista “L’altra Europa con Tsipras” propone per tutta l’Europa .