INTERVENGONO I PARTIGIANI:
DI SALVO NICOLO’ ( CORSARO),
MANGANO ANTONINO (MITRAGLIA),
MILITTI SALVATORE (SMIT).
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INTERVENGONO I PARTIGIANI:
DI SALVO NICOLO’ ( CORSARO),
MANGANO ANTONINO (MITRAGLIA),
MILITTI SALVATORE (SMIT).
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Il ragazzo turco seduto accanto a me sull’aereo che da Istanbul ci sta riportando a Milano parla bene l’italiano. Con occhi curiosi e orgogliosi mi chiede subito se mi è piaciuta la Turchia. Gli dico che mi è piaciuta moltissimo, la vita pulsa in ogni angolo di questa stupenda città che è Istanbul. Si sente tutta l’energia dell’incredibile crescita economica di questi anni. Commentiamo che in questo momento si sta probabilmente meglio in Turchia che in Italia; lui mi dice che se non avesse l’impegno di un bar/kebab aperto a Cremona tornerebbe in Turchia volentieri. Gli chiedo di dove è originario e se è venuto per votare. Noto subito il suo imbarazzo nel rispondermi. Esita, fa un sorrisetto nervoso. Capisco al volo e suggerisco: Kurdistan? I suoi occhi si illuminano. Sì è curdo, viene da Diyarbakir; anche se, come ci tiene a specificare, è ovviamente turco, come tutti, e poi curdo. Certo, gli dico, non preoccuparti ho presente la situazione. In Italia è arrivato con una richiesta di asilo politico. È uno dei casi fortunati: gli è stato concesso e ora ha il permesso di soggiorno, tutto regolare. Non ha combattuto direttamente, ma per quel che ha fatto, per il suo supporto al Pkk, in Turchia non sarebbe uscito carcere per molto, molto tempo.
Il popolo curdo è stato duramente oppresso e soppresso in Turchia; la loro lingua vietata, la bandiera curda bandita, perfino la musica censurata. I curdi hanno lottato, con ogni mezzo, per affermare la loro identità negata, e in parte ce l’hanno fatta. Il curdo non è più vietato, anzi può essere usato nelle scuole, la loro bandiera sventola durante le manifestazioni e si danza al ritmo delle belle musiche curde. Ma, senza dimenticare gli oltre 40.000 morti che si contano dal 1984, migliaia di prigionieri politici sono ancora nelle prigioni turche, sottoposti ad abusi e torture. E sono davvero molti i guerriglieri pronti a imbracciare di nuovo le armi non appena ve ne fosse bisogno. La tregua è fragile e apparente.
Sto tornando proprio da Van, all’estremità della Turchia orientale, geograficamente quasi al confine con l’Iran. Si tratta di una delle più grandi città del Kurdistan turco, un tempo capitale dell’antichissimo regno di Urartu, affacciata sulle sponde del più grande lago della Turchia.
Sono stata qui come membro di una delegazione di osservatori internazionali venuti allo scopo di monitorare le elezioni amministrative del 30 marzo. Nessun incarico ufficiale dell’Onu o dell’Unione Europea (che non avevano mandato osservatori in Turchia). Siamo qui in risposta all’invito rivoltoci dalla società civile curda, ed in particolare dal Partito per la Democrazia e la Pace (Bdp) che sta portando avanti con forza, coraggio e assoluta determinazione la nuova linea dettata da Öcalan: alla lotta armata sostituire la lotta politica. Alla violenza la democrazia. L’invito a deporre le armi per cercare la via della pacificazione è chiaro ed è stato veicolato pochi giorni, fa ancora una volta per lettera, ai milioni di persone che hanno festeggiato il Newroz (il capodanno curdo). Non vi è dubbio che il tentativo sia serio e, da quanto abbiamo potuto osservare, stia già dando i suoi frutti.
Tutti i giornali hanno ripreso la notizia degli otto morti (vittime di scontri tra famiglie a Urfa, non lontano da Diyarbakir) nel giorno delle elezioni, ma nessuno ha parlato della grande responsabilità dimostrata dai rappresentanti curdi del Bdp, che non hanno risposto alle provocazioni, che pure ci sono state, da parte dei militari e della polizia. A tre giorni dal voto, in occasione del comizio a Van tenuto da Erdoğan in persona, la polizia ha sparato – ufficialmente in aria per disperdere dei manifestanti, in realtà, come dimostrano le foto, mirando a bruciapelo – ed ha colpito al petto un giovane che assisteva dalla finestra del Grand Hotel. Poteva essere tragedia, una seconda Gezi Park, e se non lo è stata è solo grazie ai rappresentanti del partito che hanno tenuta a bada la rabbia della gente, richiamando al senso di responsabilità per non fare degenerare la situazione a poche ore dalle elezioni.
Il voto del 30 marzo era di fondamentale importanza non solo per il primo ministro Erdoğan, che aveva bisogno di verificare il livello di consenso ancora detenuto, a pochi mesi dalle elezioni politiche e presidenziali e nonostante gli scandali che lo hanno travolto nell’ultimo anno.
Queste amministrative hanno assunto significato di referendum anche per i rappresentati del popolo curdo, che puntano ad una autonomia all’interno della Turchia. La campagna elettorale del Bdp è stata entusiasmante e, nonostante la dura repressione da parte del governo turco seguita alle elezioni del 2009 (con migliaia di arresti politici), ancora piena di speranza. L’agenda politica è democratica e progressista, con particolare riguardo alle donne: piuttosto che sulle quote, il modello è basato sulla condivisione di ogni funzione direttiva tra un rappresentante maschile e uno femminile. Questo principio, già applicato per tutte le posizioni di dirigenza del partito, verrà ora esteso alle varie cariche amministrative a livello di zona, comunale, provinciale e regionale. Il Bdp non ha vinto ovunque (molti, anche nella regione orientale hanno votato per il partito di Erdoğan), ma dove ce l’ha fatta, a Diyarbakir, a Hakkari, a Van e in molte altre città e paesi del Kurdistan, la funzione di sindaco sarà ora condivisa da due persone: un uomo e una donna. Nessuna decisione potrà essere presa senza accordo tra i due rappresentati. Sebbene non riconosciuto ufficialmente da Ankara, il modello attuato di fatto dal Bdp nelle sue amministrazioni, ha l’obiettivo non solo di cambiare le istituzioni ma anche di apportare un forte impulso all’interno della società curda, dove la situazione e il ruolo delle donne lasciano ancora molto a desiderare.
Con fuochi d’artificio e clacson incessanti, musica e falò sotto la neve, Van ha festeggiato i risultati elettorali: in realtà i festeggiamenti erano iniziati ben prima dell’annuncio ufficiale dei risultati, tutta la campagna elettorale si è tinta di festa. L’entusiasmo è palpabile da queste parti, almeno quanto la speranza di una nuova stagione politica, che sia in grado di valorizzare l’identità di questo popolo, troppo a lungo negata.
di Chantal Meloni
Il Fatto Quotidiano | 1 aprile 2014
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Decine di migliaia di persone sono arrivate al villaggio di Amara nel quartiere Halfeti di Urfa per festeggiare oggi il 65° compleanno del leader del popolo kurdo Abdullah Ocalan.
Questa mattina la gente ha lasciato Halfeti dove ieri sono cominciati due giorni di celebrazioni per il compleanno di Öcalan.
Migliaia di persone hanno marciato da Halfeti al villaggio dove ora stanno visitando la casa in cui è nato Öcalan. Enormi manifesti del leader curdo sono stati appesi all’ingresso del villaggio.
Un striscione su cui si legge “An Azadi, An Azadi” “o Libertà o libertà” nel giardino della casa di Ocalan, insieme con le fotografie di Mahsum Dogan e Mustafa Dağ che persero la vita a causa della brutalità della polizia durante le celebrazioni di Amara nel 2009.
Dopo le prime visite a casa di Ocalan una torta di compleanno è stata tagliata la mattina presto mentre tutti cantavano lo slogan “Rojbuna te piroz be ey serok Apo” [Buon Compleanno Presidente Apo].
La torta è stata tagliata dai bambini e dalla moglie di Mustafa Dağ che è morto dopo essere stato colpito con una bomboletta di gas lacrimogeno sparato dalla polizia.
Il messaggio di Ocalan letto a Halfeti
Decine di migliaia di persone si sono riunite nel quartiere Halfeti di Urfa giovedì per festeggiare il 65° compleanno del leader del popolo kurdo Abdullah Ocalan, che oggi sarà anche acclamato nel suo villaggio di Amara.
Un messaggio inviato dal leader curdo è stato letto durante i festeggiamenti a Halfeti dove decine di migliaia di persone da tutta la Turchia e dal Kurdistan settentrionale si sono riunite da ieri sotto lo slogan “Liberate il Leader, Liberate il Kurdistan”.
Il messaggio di Öcalan è stato letto sia in turco sia in curdo.
Nel suo messaggio attraverso il quale Öcalan si è rivolto al popolo del Kurdistan, il leader curdo ha salutato tutti i suoi compagni, i giovani e le donne che danno al 4 aprile il significato della rinascita di un popolo e fondono i loro sogni di libertà nella sua persona.
Ocalan ha messo in risalto che il territorio del Kurdistan era un giardino dei popoli dove le realtà con differenti culture, identità e credi vivevano insieme, aggiungendo: “La lotta per la libertà che abbiamo lanciato 40 anni fa contro lo sfruttamento del Kurdistan è arrivata alla soglia dell’auto- amministrazione grazie alla vostra devozione, allo sforzo dei nostri indiscutibili valori e alla lotta determinata di tutte le nostre istituzioni”.
Il leader curdo ha osservato che i popoli del Medio Oriente hanno affrontato il volto massacratore della realtà dello stato-nazione mentre gli attacchi della modernità capitalista contro di loro sono divenuti più selvaggi. “E’ stato compreso che la gente in queste terre non potrà più vivere con i vecchi regimi e le loro ideologie. La costruzione di una società libera sarà possibile solo con l’avanzare delle amministrazioni autonome democratiche, e la costruzione dei domani liberi avverrà sostituendo l’umano schiavizzato con quello libero. L’ispirazione data ai popoli di tutto il mondo con la nostra pratica di lotta è stato il fatto che le prigioni sono state trasformate in spazi di libertà. Quando non si osserva da questo punto di vista si sa che un intero paese con le sue montagne, pianure e città, si è trasformato in una prigione oscura”, Ocalan ha sottolineato.
Il leader curdo ha sottolineato che la separazione fisica tra lui e il popolo kurdo non era importante , aggiungendo: “Io sono insieme con voi oggi al tavolo del tramonto ad Amara e sono tra tutti i miei compagni. Consegno le nostre terre, le quali hanno visto la nascita non solo della nostra ma anche di tutta la civiltà, alla coscienza del nostro popolo, in primo luogo alle nostre donne e ai giovani compagni.”
Ocalan ha concluso il suo messaggio abbracciando il popolo curdo e ha espresso la sua fiducia che “tutti noi saremo uniti in una terra libera”.
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Certo, questo favore confuso e indistinto che soffia nelle vele di Matteo Renzi, non è solo il risultato dell’abilità comunicativa del nostro presidente del Consiglio. A reggere il suo atteggiamento oggi apertamente ricattatorio c’è, come ha scritto Norma Rangeri su questo giornale (1/4) «la forza d’urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra». Come negarlo? Quali sono state le idee, le proposte, le iniziative mobilitanti che son venute dal Pd in questi ultimi anni, così drammatici per tanti cittadini italiani? Nulla che non fosse l’applicazione dei dettami della politica di austerità imposta dalla Ue, sia dall’opposizione (ultimo governo Berlusconi) sia nel governo Monti e non diversamente nel governo Letta. E qualcuno ha udito, in questi ultimi 4 anni di disoccupazione dilagante, una, una sola idea, una qualche iniziativa all’altezza dei tempi, venir fuori dalla Cgil di Susanna Camusso? Il più opaco e impiegatizio tran tran tran quotidiano ha scandito la vita del maggiore sindacato italiano nel corso di una della pagine socialmente più drammatiche nella storia della repubblica.
Si capisce, dunque, il favore, l’impazienza, la fretta, con cui tanta parte del paese guarda al «fare» di Renzi. Dopo tanta inerzia e inconcludenza (ma anche, dovremmo ricordare, dopo tante scelte ferocemente antipopolari) finalmente qualcuno che passa all’azione. Qualunque essa sia.
Un’altra e più vasta corrente sotterranea alimenta gli spiriti animali del presente «decisionismo». È la crescente velocità con cui il capitalismo si muove sulla scena mondiale. È la rapidità delle decisioni e delle scelte, di investimenti, di speculazioni con cui multinazionali e gruppi finanziari spostano fortune da un capo all’altro del mondo, condizionando la vita degli stati. È una nuova dimensione temporale (e spaziale) dell’economia che spiazza le antiche cronologie della politica. Di fronte alla celerità degli scambi, degli accordi commerciali, della manovre finanziarie, propria del capitalismo attuale, la politica appare, nelle sue più connaturate forme, come lenta, dilatoria, inconcludente. E la democrazia, che è dialogo, discussione, ponderazione delle scelte, ascolto delle diverse voci, procedura formale, appare un rituale vecchio e obsoleto, incapace di ricadute positive sulla vita dei cittadini. E qui sta il nodo su cui occorre riflettere.
È vero, ci sono rituali nella vita parlamentare italiana che oggi non sono più accettabili e occorrerebbe dare all’intera macchina legislativa una maggiore snellezza ed efficienza. Qui la sinistra dovrebbe mostrare maggiore convinzione e originalità di proposta. Ma occorre avere sguardo storico per capire il nodo che ci si para davanti, per non replicare gli errori che ci hanno portato alla situazione presente. La politica appare lenta e inefficiente soprattutto perché essa, per propria scelta, negli ultimi 30 anni ha ceduto moltissimi dei suoi poteri all’economia capitalistico-finanziaria. Dalla Thatcher a Reagan, da Clinton a Mitterand per arrivare ai nostri vari governi, essa si è privata di tanti controlli sulle banche, sui movimenti dei capitali, sui vari strumenti della politica economica. Al tempo stesso, e conseguentemente, ha indebolito i suoi tradizionali legami con le masse popolari, ponendosi così in una condizione di subalternità progressiva nei confronti del potere economico. E’ la politica che ha favorito il disfrenamento della potenza anonima del mercato. Ciò che oggi appare come una condizione data, quasi naturale, spingendo i commentatori odierni ad accettarla come uno stato ineludibile, un principio di realtà, è di fatto il risultato di una scelta di un’autolimitazione della sovranità statuale. Anche autorevoli osservatori oggi ricorrono alla parola magica globalizzazione, come se si riferissero alla siccità o al maltempo. Ma un più sorvegliato uso delle parole consiglierebbe il ricorso a un altro termine, ora fuori moda: deregulation. Perché questa globalizzazione non è che una forma mondiale di dominio, privato di molti freni e regole da parte dei governi nazionali. Non è — come si vorrebbe far credere — il normale avanzare della storia del mondo.
L’attuale impotenza dei governi, la loro incapacità di mettere sotto controllo le iniziative delle potenze infernali lasciate libere di condizionare la vita delle nazioni, li spinge a restringere il campo del comando, a concentrarsi sulla macchina pubblica, sull’efficienza e la rapidità delle decisioni. E’ la surrogazione di un potere perduto, che cerca un risarcimento limitando gli spazi della democrazia, strappando margini di manovra alla rappresentanza, restringendo il protagonismo delle masse popolari. E cosi riproducendo le cause storiche della propria subalternità.
Ma la china autoritaria del governo Renzi si coglie appieno non solo mettendo assieme la riforma elettorale con la proposta di rafforzamento della figura del premier e l’abolizione del Senato. Anche il Jobs act rientra in piena coerenza con la tendenza. Nel momento in cui non si riesce a ottenere da Bruxelles il via libera a una politica economica espansiva, si ricalca con proterva ostinazione il vecchio sentiero. Non si punta su investimenti e sul ruolo decisivo che il potere pubblico potrebbe svolgere in una fase di depressione, ma si cerca di far leva sulla piena disponibilità della forza lavoro alle convenienze delle imprese. È la politica fallimentare degli ultimi decenni. Essa ha creato lavoro sempre più precario, generato bassi salari, indebolito la domanda interna, spinto gli imprenditori a contare sullo sfruttamento della forza lavoro più che sull’innovazione, contribuito a ingigantire la scala della sovrapproduzione capitalistica mondiale alla base della crisi di questi anni. Gli oltre 3 milioni di disoccupati appena censiti dall’Istat sono il seguito naturale di tale storia, nazionale e mondiale.
In Italia questa via contribuirà ad allargare l’area del “sottomondo” in cui vivono ormai milioni di persone, con lavori saltuari e mal pagati, privi di certezze, di identità e di speranze: uno solco ancor più profondo fra società e ceto politico. Quando, tra meno di due anni, occorrerà togliere dal bilancio pubblico intorno ai 40–50 miliardi di euro all’anno per onorare il rientro dal debito, come vuole il fiscal compact, occorrerà aver pronto uno stato forte per controllare l’esplosione di conflitti che seguirà alla distruzione definitiva del nostro welfare. Come si fa a non vedere già oggi la curvatura autoritaria che sta prendendo il nostro Stato?
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Come si risponde?
In una logica internazionalista di ricostruzione non soltanto di una sinistra antagonista ma anche una sinistra che mette insieme le aree sociali più importanti, quelle colpite dalla crisi e apre un confronto con i movimenti e le soggettività che si pongono il rifiuto del modello neoliberista. Nel nostro paese il rapporto tra sinistra antagonista e movimenti è arretrato. Rischiamo di perdere il treno con l’Europa perché l’altra Europa dei movimenti e della sinistra radicale continua nonostante le crisi a crescere come ha dimostrato anche il voto francese. Esiste il problema in Italia delle sconfitte e delle divisioni che bisogna superare. Bisogna interrogarsi di fronte agli scenari drammatici e fare tutti un passo indietro. Fare quello che è stato fatto in Grecia con Syriza come lo strumento cardine per impedire le politiche della Troika. Ma imparare quello che è stato fatto in America Latina dove si sono creati fronti ampli che di fatto stanno impedendo la colonizzazione degli Usa. Il trattato di libero commercio è stato fermato dalle organizzazioni sociali.
Il modello Syriza segue il filone di una “lotta contaminante”.
Ecco appunto, partiamo da un’altra esperienza come la lotta contro il Ponte sullo stretto. Una città difficile e un’area drammatica da un punto di vista sociale con il controllo di mafia e massoneria. Quella lotta ha permesso di costruire un movimento che è andato al di là delle organizzazioni sociali. Un risultato inimmaginabile, la vittoria come sindaco di Accorinti. Sei si costruiscono processi dal basso e ci si mette in discussione quelle che sono lotte territoriali diventano lotte di trasformazione e di rimpossessamento dei territori. Elementi che le logiche del governo Renzi mettono in discussione perché cancellano le autonomie locali e le forme di rappresentanza dal basso. La mia candidatura in linea con l’esperienza di “Messina dal basso” e con Accorinti. Oggi le lotte territoriali non sono solo contro i processi liberisti ma anche per riappropriarsi della democrazia.
La giornata di Tsipras a Palermo è stata caratterizzata dal grande entusiasmo e da una forte caratterizzazione politica che ha creato un filo diretto tra i poteri criminali in Italia e lo strapotere di certe cordate politico-burocratiche a Bruxelles.
Certo, nel caso di Bruxelles non parliamo di organizzazioni militari come la mafia e la ‘ndrangheta ma certamente di gruppi bancari criminogeni. Quello che mi ha piacevolmente sorpreso è l’aver battuto tantissimo da parte di Tsipras, sia durante la visita che nel suo intervento, sulle mafie. La scelta di Palermo è un esempio per tutta l’Europa proprio per il modello di lotta sociale antimafia. Tsipras ha riconosciuto una identità storica a Palermo e alla Sicilia. E l’incontro con Di Matteo e la scelta di andare all’albero Falcone lo testimoniano. Tra le vittime di mafia, poi, ha scelto Rosario Di Salvo e Pio La torre ovvero figure di comuniste presenti e attivi nelle lotte scoiali e nella lotta per la pace.
Qual è il tuo slogan come candidato in questa competizione elettorale europea?
Non mi voglio più vergognare di essere l’europeo che guarda da questa parte della rete i fratelli dei Cie o, sempre diviso da una rete, i cacciabombardieri e i droni che spargono distruzione a livello continentale.
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