PALAGONIA 1 aprile 2014: Istituto Comprensivo ” Gaetano Ponte” giornata di studio su ” Le donne nella Resistenza”

L’ANPI Provinciale di Catania ha organizzato con le terze medie dell’ Istituto comprensivo ” Gaetano Ponte ” di Palagonia il 1 Aprile una giornata di studio dal titolo ” Le donne nella Resistenza”. Gli alunni e in particolar modo le alunne hanno prodotto delle ricerche sul ruolo delle donne nella Resistenza in particolar modo sulle donne partigiane catanesi Beatrice Benincasa e Graziella Giuffrida.

Alla presentazione degli elaborati ha partecipato la presidente dell’ANPI Santina Sconza,la componente provinciale Sara Costanzo , il partigiano Nicolò Di Salvo,il sindaco Valerio Marletta e il comandante dei carabinieri

Gli alunni preparatissimi dai loro docenti di storia hanno saputo correlare la lotta della Resistenza con la nascita della Repubblica Italiana e della Costituzione.

Un particolare ringraziamento va alla professoressa Tilde Amato e alla dirigente scolastica Concetta Politino.

DSC06651 DSC06628

Storia del femminismo- prima parte

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/storia-del-femminismo-in-italia/741/default.aspx

Nicolas Maduro scrive al popolo degli Stati uniti Fonte: Il Manifesto | Autore: Geraldina Colotti

Un «appello alla pace» sulle pagine del New York Times fir­mato Nico­las Maduro. In que­sto modo, il pre­si­dente del Vene­zuela si è rivolto «al popolo sta­tu­ni­tense» per con­te­stare «la nar­ra­zione» for­nita dal governo Usa in merito alle pro­te­ste dell’opposizione, che durano dal 12 feb­braio (37 morti). I mani­fe­stanti — ha scritto Maduro — ven­gono defi­niti «paci­fici», men­tre hanno come unico obbiet­tivo «quello di far cadere con mezzi anti­co­sti­tu­zio­nali un governo eletto democraticamente».

Da qui, l’appello al popolo sta­tu­ni­tense affin­ché inviti il Con­gresso del suo paese ad «aste­nersi» da adot­tare san­zioni con­tro il Vene­zuela che «col­pi­reb­bero i set­tori più poveri». Roberta Jacob­son, sot­to­se­gre­ta­ria di Stato Usa per l’Emisfero occi­den­tale, la set­ti­mana scorsa ha annun­ciato l’arrivo di un pac­chetto di san­zioni, sol­le­ci­tate in que­sti giorni dal sena­tore repub­bli­cano della Flo­rida, Marco Rubio. Una linea fer­ma­mente respinta, invece, dagli atti­vi­sti dell’Osservatorio per la chiu­sura della Scuola delle Ame­ri­che, tri­ste­mente famosa per aver adde­strato i dit­ta­tori lati­noa­me­ri­cani del secolo scorso.

I gover­nanti nor­da­me­ri­cani — ha detto ancora Maduro — stanno dalla parte «di quell’1% che vuole ripor­tare il nostro paese all’epoca in cui il 99% era escluso dalla vita poli­tica e solo le élite, com­prese quelle delle imprese sta­tu­ni­tensi, bene­fi­cia­vano del petro­lio vene­zue­lano». Prima, «le tasse che paga Pdvsa e quelle dei cit­ta­dini anda­vano a van­tag­gio della bor­ghe­sia paras­si­ta­ria, oggi ogni boli­var otte­nuto dalle impo­ste viene desti­nato al benes­sere di tutta la società e al raf­for­za­mento di un’economia socia­li­sta che pro­tegge il lavoratore».

All’opposto, le parole di Jorge Roig, pre­si­dente di Fede­ca­ma­ras (la Con­fin­du­stria vene­zue­lana), che ha tuo­nato con­tro «gli attac­chi alla pro­prietà pri­vata»: con­tro gli espro­pri di grandi imprese e lati­fondi «che non ven­gono inden­niz­zati»; con­tro la legge per «il prezzo giu­sto», che cerca di tam­po­nare le spe­cu­la­zioni; e con­tro la tes­sera bio­me­trica isti­tuita per con­trol­lare l’accaparramento di pro­dotti for­niti a basso costo dal governo e riven­duti a caro prezzo di con­trab­bando. E con­tro la nuova legge sulle case, che impone ai pro­prie­tari di ven­dere agli affit­tuari che risie­dano nell’alloggio da almeno vent’anni. «Ogni dol­laro che usiamo per impor­tare, potrebbe essere uti­liz­zato per pro­durre una quan­tità di cibo 4 volte mag­giore», ha detto Roig, evi­den­ziando suo mal­grado il succo dei pro­blemi eco­no­mici: la buli­mia di dol­lari delle grandi imprese, che inta­scano dol­lari a tasso age­vo­lato dal governo, ma non li inve­stono nella pro­du­zione locale.

L’11 aprile del 2002, Fede­ca­ma­ras mise un pro­prio uomo, Pedro Car­mona Estanga, a capo del governo gol­pi­sta che disar­cionò bre­ve­mente l’allora pre­si­dente Hugo Cha­vez (poi ripor­tato in sella a furor di popolo), e sospese tutte le garan­zie costi­tu­zio­nali. In gioco, allora c’erano le nuove leggi con­tro il lati­fondo e la pesca indu­striale a stra­scico. Oggi, la par­tita si rin­nova, com­pli­cata dall’inevitabile logo­ra­mento del sistema di governo boli­va­riano, che con­ti­nua comun­que a scom­met­tere sul «socia­li­smo uma­ni­sta» e sulla giu­sti­zia sociale.

Oriz­zonti lon­tani da quelli dello scrit­tore peru­viano Mario Var­gas Llosa: che andrà a Cara­cas per soste­nere la depu­tata di estrema destra Maria Corina Machado (desti­tuita), ieri in Bra­sile a chie­dere di san­zio­nare il Venezuela.

Salario minimo, la mistificazione del modello tedesco Fonte: Il Manifesto | Autore: Tommaso Nencioni

In Ger­ma­nia, a par­tire dal 2017, il sala­rio minimo sarà ele­vato a 8,5 euro. La gran­cassa media­tica si è già messa in moto per pre­sen­tare que­sto risul­tato come la logica con­se­guenza della vita­lità del modello tede­sco, un modello da seguire tanto nei suoi aspetti strut­tu­rali quanto in quelli politici.

Si tende oltre­tutto, spe­cial­mente da sini­stra, a pre­sen­tare que­sta misura come una vit­to­ria della social­de­mo­cra­zia. Il modello è sem­pli­ci­sti­ca­mente descritto, con qual­che sfu­ma­tura, nella seguente maniera.

Un Paese con isti­tu­zioni solide; con un sin­da­cato dei lavo­ra­tori non ideo­lo­gico, mode­rato, «respon­sa­bile» e dispo­sto, per il bene futuro, a sop­por­tare «sacri­fici»; con una bassa inten­sità della con­flit­tua­lità poli­tica, che trova la pro­pria qua­dra nel modello della «grande coa­li­zione»; con una lea­der­ship forte e sicura di sé; tutto que­sto por­te­rebbe, quasi natu­ral­mente, ad una cre­scita eco­no­mica armo­nica, nel medio periodo desti­nata a far rica­dere, a piog­gia, bene­fici su tutte le fasce della popolazione.

Si tratta in realtà di una descri­zione misti­fi­ca­to­ria, basata a ben vedere su di un totale rove­scia­mento delle cause e degli effetti del «secondo mira­colo» tede­sco. Già il grande teo­rico labu­ri­sta inglese Harold Laski, riflet­tendo, nel corso degli anni Trenta del secolo scorso, sulla sto­ria del pro­prio Paese, aveva dimo­strato che è il suc­cesso eco­no­mico ad essere alla base della sta­bi­lità demo­cra­tica nei regimi libe­rali, e non vice­versa. E che, in un sistema come quello capi­ta­li­stico, di per sé ten­dente alla pro­du­zione e alla accen­tua­zione delle disu­gua­glianze, que­ste pre­con­di­zioni si regi­strano in realtà di tipo impe­riale; in sistemi politico-sociali, cioè, ove più facile sia sca­ri­care sulle «peri­fe­rie» il prezzo del benes­sere dif­fuso nella «metro­poli». Venendo alle cose nostre di oggi, la lezione di Laski viene utile per dimo­strare che, da una parte, le virtù del modello poli­tico tede­sco, più che pro­durlo, risul­tano como­da­mente assise sul suc­cesso eco­no­mico; e dall’altra, che tale suc­cesso risulta a sua volta lar­ga­mente costruito sulla scon­fitta dei com­pe­ti­tors più deboli.

Se infatti il sala­rio minimo tede­sco cre­scerà, si trat­terà tut­ta­via di un recu­pero, vista la pres­sione verso il basso cui gli stessi salari tede­schi sono stati sot­to­po­sti a par­tire dai primi anni Due­mila (l’operazione fu avviata dai governi social­de­mo­cra­tici gui­dati da Gerhard Schöe­der, con la famosa «Agenda 2010», det­tata al Par­tito ope­raio per eccel­lenza dal Top Mana­ger di uno dei più influenti gruppi capi­ta­li­stici del Paese). Come ha messo in luce una recente ras­se­gna pub­bli­cata da Giaime Pala , il dum­ping sala­riale tede­sco, unito a una bassa infla­zione dovuta a una domanda aggre­gata interna ane­mica, portò nella Ger­ma­nia dei primi anni Due­mila ad una vera e pro­pria sva­lu­ta­zione interna masche­rata; stru­mento cui, con l’entrata in vigore dell’euro, i paesi più deboli non pote­vano più far ricorso; e pro­prio nel momento in cui essi si inde­bi­ta­vano per acqui­stare pro­dotti tede­schi più com­pe­ti­tivi e subi­vano sulla pro­pria pelle (soprat­tutto, sui pro­pri ter­ri­tori) l’invasione dei capi­tali dei paesi più forti in libera uscita. Il capo­la­voro eco­no­mico delle classi diri­genti tede­sche è con­si­stito quindi nello sca­ri­care sulle eco­no­mie dei cosid­detti «Pigs» i costi del loro suc­cesso; quello poli­tico nel masche­rare quello che è stato un vero e pro­prio attacco sotto il manto della costru­zione euro­pea, cosic­ché classi diri­genti miopi e subal­terne cul­tu­ral­mente non hanno nep­pure vis­suto l’attacco come tale. Non a caso, sot­to­li­nea ancora Pala, alla base dell’accordo della Grande Coa­li­zione tede­sca vi è l’esplicito veto, per il futuro, ad una armo­niz­za­zione dei regimi fiscali e delle poli­ti­che del lavoro dell’Unione europea.

È quindi fio­rita una nar­ra­zione quasi antro­po­lo­gica sulle defi­cienze dei Paesi del Sud, che non tiene asso­lu­ta­mente in conto lo stato reale dei rap­porti di forza pre­senti nel Con­ti­nente e delle loro cause. Una nar­ra­zione oltre­tutto – e qui sta il pro­blema, che altri­menti si rischia di cadere in una sorta di demo­no­lo­gia su una Ger­ma­nia «dal destino e dalla voca­zione al male segnati» – accet­tata supi­na­mente dalle éli­tes dei Paesi peri­fe­rici. Que­ste pren­dono come unico rife­ri­mento e bus­sola varianti locali dell’«Agenda 2010» e delle misure neo­li­be­rali che essa det­tava, igno­rando le cause straor­di­na­rie che ne hanno accom­pa­gnato il suc­cesso. E, nel frat­tempo, accet­tano l’austerità euro­pea, con l’effetto di inde­bo­lire ulte­rior­mente le pro­prie eco­no­mie: pri­va­tiz­za­zioni scon­si­de­rate inde­bo­li­scono il patri­mo­nio pro­dut­tivo nazio­nale; tagli alla ricerca favo­ri­scono l’attrazione verso le «metro­poli» delle migliori ener­gie intel­let­tuali; la pre­ca­rietà del lavoro, lungi dal favo­rirla, mina la com­pe­ti­ti­vità delle nostre aziende, sti­mo­late meno ad inno­vare e più a tagliare i costi del lavoro.

La rispo­sta poli­tica che ceti medi impo­ve­riti, classi popo­lari senza più rap­pre­sen­tanza poli­tica ed éli­tes inte­res­sate stanno dando agli effetti disa­strosi di que­sto per­verso cir­colo vizioso non fanno dor­mire sonni tran­quilli in vista delle pros­sime ele­zioni euro­pee. La sini­stra dal canto suo, se dav­vero è inte­res­sata ad ela­bo­rare una via d’uscita pro­gres­si­sta alla crisi, dovrebbe sfrut­tare l’imminente agone elet­to­rale e dar bat­ta­glia attorno a que­sti temi, per non rischiare di vedersi tagliata fuori in un bipo­la­ri­smo tutto rac­chiuso nella sfida tra tec­no­crati libe­ri­sti e destre populiste.

La breccia di porta Renzi Fonte: il manifesto | Autore: Giorgio Airaudo e Giulio Marcon

Lista Tsipras. La posta in gioco non è semplicemente il risultato elettorale (superare la soglia del 4% non sarà semplice), ma riaprire il dibattito e una iniziativa su uno spazio politico a sinistra del Pd non subalterno e residuale

Matteo Renzi At The Democratic Party PD National Assembly

Girando per l’Italia, due sono le sen­sa­zioni per l’avventura appena ini­ziata della Lista per l’ Altra Europa con Tsi­pras : la dif­fi­coltà e la fatica (di rac­co­gliere le firme, ma anche di con­tem­pe­rare diver­sità e vec­chie rug­gini) e l’entusiasmo per un’iniziativa che ha rimesso in gioco ener­gie e spe­ranze per una sini­stra senza agget­tivi  e per un suo ritorno al par­la­mento euro­peo dopo cin­que anni di assenza. C’è innanzi il tre­mendo osta­colo con cui ci si è con­fron­tati — e che sem­bra sulla via di solu­zione — della rac­colta delle firme: rac­co­glierne 3mila in Valle d’Aosta e 15mila in Sici­lia è una richie­sta pale­se­mente incon­grua, ingiu­sta e ves­sa­to­ria verso chi cerca di per­cor­rere la strada di una rap­pre­sen­tanza poli­tica nuova. La posta in gioco poi non è sem­pli­ce­mente il risul­tato elet­to­rale (supe­rare la soglia del 4% non sarà sem­plice), ma ria­prire il dibat­tito e una ini­zia­tiva su uno spa­zio poli­tico a sini­stra del Pd non subal­terno e residuale.

Per chi avesse – anche den­tro Sel – guar­dato nei mesi scorsi soprat­tutto all’evoluzione interna del Pd dev’essere ormai chiaro che l’ipotesi di fare la quarta o quinta cor­rente di sini­stra den­tro il Pd (oltre ai civa­tiani, dale­miani, ber­sa­niani, gio­vani tur­chi, ecc) non ha alcun senso poli­tico: è una stra­te­gia con­dan­nata al fal­li­mento dal “nuo­vi­smo con­ser­va­tore” di Mat­teo Renzi. Anche nella ipo­te­tica rico­stru­zione di un rap­porto — dina­mico e con­flit­tuale — con il Pd, l’esistenza di una forza di sini­stra auto­noma, irri­du­ci­bile alle lar­ghe intese e radi­cal­mente oppo­sta alla logica dell’austerità e del fiscal com­pact diventa un pas­sag­gio fon­da­men­tale da per­cor­rere sino in fondo. Renzi, nel suo eclet­ti­smo deci­sio­ni­sta e velo­ci­sta, mescola con­fu­sa­mente qual­che buon pro­po­sito tutto da vedere (come il taglio dell’Irpef) nelle non indif­fe­renti moda­lità di ero­ga­zione con la con­ti­nua­zione della pre­ca­riz­za­zione del mer­cato del lavoro come rispo­sta alla domanda di lavoro: la più clas­sica e ver­go­gnosa delle ricette libe­ri­ste che sca­rica sulla soli­tu­dine della per­sona la respon­sa­bi­lità di un’ occu­pa­zione qual­si­vo­glia dove il lavoro è svalutato.

Se la Lista per l’Altra Europa dovesse otte­nere un buon risul­tato, nulla sarà come prima e nes­suna forza poli­tica che a que­sto risul­tato ha con­tri­buito potrà pen­sare di col­ti­vare la pro­pria auto­suf­fi­cienza. Bensì dovrà essere capace, con gene­ro­sità e pren­dendo l’iniziativa, di costruire un campo più largo e plu­rale, per­cor­rendo strade nuove. Non certo quelle della vec­chia sini­stra arco­ba­leno o dei vec­chi car­telli — redu­ci­sti e mino­ri­tari — di pic­coli par­titi e forze ormai con­su­mate in que­sti ultimi quat­tro anni che hanno cam­biato tutto nel pano­rama poli­tico e sociale.

Se, come ha detto più volte Nichi Ven­dola il tema non è quello del par­tito , ma della par­tita , quella da gio­care dopo il 26 mag­gio — se la Lista Tsi­pras avrà un risul­tato — è di pren­dere l’iniziativa, e non subirla, per met­tersi al ser­vi­zio della costru­zione di un campo della sini­stra senza agget­tivi. Una sini­stra sog­getto del governo del cam­bia­mento, radi­cal­mente alter­na­tivo alle lar­ghe intese e alle “pic­cole patrie” gene­rate dalla crisi della sini­stra, in grado di aggre­gare chi è col­pito dall’austerità. Quelle lar­ghe intese e quell’austerità che hanno segnato la subal­ter­nità di una parte della sini­stra euro­pea (come ricor­dato anche da Schulz) alle ricette di un con­ser­va­to­ri­smo tec­no­cra­tico che — pro­vo­cando depres­sione eco­no­mica, impo­ve­ri­mento e dise­gua­glianze — ha impe­dito un’uscita della crisi nel segno del lavoro, dell’eguaglianza e di un nuovo modello di sviluppo.

In que­sto senso vanno pen­sate anche le rela­zioni con il Movi­mento 5 stelle. Non si tratta né di farne degli “intoc­ca­bili della poli­tica”, né di imba­stire ope­ra­zioni poli­ti­ci­ste, spe­rando di stac­care qual­che pezzo di gruppo par­la­men­tare. Occorre par­lare diret­ta­mente a chi (mol­tis­simi vec­chi elet­tori della sini­stra) ha votato per i 5 Stelle e in secondo luogo assu­mere i temi, anche con mag­giore radi­ca­lità, che sono alla base di quel movimento.

La strada giu­sta , in Ita­lia come in Europa, è quella pre­sen­tata qual­che giorno fa a Bru­xel­les dall’incontro della Rete euro­pea degli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti (Euro-pen): fine dell’austerità, supe­ra­mento della pre­ca­rietà, demo­cra­tiz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee, pro­mo­zione di un new deal sociale ed eco­lo­gico, regole dei mer­cati finan­ziari. E’ in gioco il supe­ra­mento delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste e con esse della tena­glia tecnocrazia-populismo che ha stri­to­lato in que­sti anni la poli­tica demo­cra­tica, la sovra­nità popo­lare, la rap­pre­sen­tanza, il lavoro.

L’offensiva populista parte dalla riforma del senato Fonte: il manifesto | Autore: Claudio De Fiores

Concentrazione del potere nelle mani del capo del Governo, maldestre manovre di restaurazione “coattiva” del bipolarismo, tentativi di espulsione delle forze politiche minori, rischiano di consegnarci un futuro senza politica e senza democrazia

elenco_198366

Con la pre­sen­ta­zione da parte del governo del dise­gno di legge costi­tu­zio­nale la riforma del bica­me­ra­li­smo entra nel vivo del con­fronto poli­tico. E ciò non può che essere accolto con sod­di­sfa­zione. Non solo per­ché di una riforma dell’assetto bica­me­rale vi era biso­gno da tempo, ma anche per­ché que­sta volta il per­corso di riforme, dopo le fal­li­men­tari avven­ture costi­tu­zio­nali del governo Letta, viene coe­ren­te­mente avviato nel solco dell’art. 138. E non si tratta solo di “forma”, posto che anche l’obiettivo di fondo per­se­guito dal dise­gno di legge appare ampia­mente con­vin­cente: la fine dell’anomalia ita­liana del bica­me­ra­li­smo per­fetto e la rimo­du­la­zione del rap­porto di fidu­cia tra una sola Camera (quella dei depu­tati) e il Governo.

Così come non sfugge alla nostra atten­zione che dopo anni di abusi e di ubria­ca­ture del ter­mine “fede­rale”, il dise­gno di legge si sot­trae abil­mente a que­sta sorte, scan­sando le mode isti­tu­zio­nali fino a oggi in voga. Di fede­rale nella riforma non v’è nulla. E anzi preso atto dei fal­li­menti della pre­ce­dente revi­sione del titolo V il pro­getto di riforma par­rebbe inten­zio­nato a pro­ce­dere ad un vistoso (e per molti aspetti oppor­tuno) ri-accentramento delle mate­rie a livello sta­tale (coor­di­na­mento della finanza; ordi­na­mento sco­la­stico; distri­bu­zione dell’energia; tutela della salute … ). E anche le norme di con­torno par­reb­bero con­fer­mare tale impianto: ricom­pare l’interesse nazio­nale, non c’è più la pote­stà ripar­tita Stato-Regione (causa dell’impennata del con­ten­zioso costi­tu­zio­nale di que­sti anni) e nem­meno la cd. devo­lu­tion debole (art. 116.3 Cost.).

Ciò che però non si com­prende è come que­sto pro­cesso di accen­tra­mento delle fun­zioni sta­tali possa mai rac­cor­darsi con la com­po­si­zione ter­ri­to­riale del futuro Senato. Cosa hanno a che fare pre­si­denti di Regione e sin­daci con l’istituzione di una Camera che nulla ha di ter­ri­to­riale (salvo il nome di “Senato delle auto­no­mie”)? E quale il loro ruolo spe­ci­fico all’interno di una Camera dotata di fun­zioni essen­zial­mente con­sul­tive e di una azione nor­ma­tiva che non va oltre l’approvazione delle leggi costituzionali?

Se obiet­tivo del Governo era quello di “rot­ta­mare” il Senato, si sarebbe allora più coe­ren­te­mente potuto optare per la solu­zione mono­ca­me­rale, sulla scia dei modelli adot­tati in altre demo­cra­zie euro­pee (Dani­marca, Fin­lan­dia, Gre­cia, Por­to­gallo, Sve­zia, Norvegia…).

Sia ben chiaro l’idea di un Senato delle Auto­no­mie non ha nulla di ever­sivo. In pas­sato molti di noi (com­preso chi scrive) ave­vano rite­nuto che per com­pen­sare gli effetti distor­sivi pro­dotti dalla riforma del titolo V fosse neces­sa­ria una ride­fi­ni­zione del ruolo del Senato (sul modello del Bun­de­srat tede­sco). Oggi, però, nel dise­gno di legge quel titolo V non c’è più. E gli squi­li­bri che inve­stono il sistema (e che lo stesso pro­getto in parte disvela) sono altri e di altra natura. E riguar­dano, in par­ti­co­lare, i rischi di con­cen­tra­zione del potere poli­tico nelle mani del capo del Governo (che adesso avrà a sua dispo­si­zione anche “la tagliola”), le mal­de­stre mano­vre di restau­ra­zione “coat­tiva” del bipo­la­ri­smo, i ten­ta­tivi di espul­sione delle forze poli­ti­che minori dal qua­dro poli­tico. E tutto ciò all’insegna di una costante mani­po­la­zione dell’etica pub­blica che, nel pun­tare a ridurre indi­scri­mi­na­ta­mente (a pre­scin­dere dai con­te­sti e dalle fun­zioni) i costi della poli­tica e della demo­cra­zia, rischia di con­se­gnarci un futuro senza poli­tica e senza democrazia.

La riforma del Senato è oggi parte inte­grante di que­sta offen­siva popu­li­sta. Non a caso, nel senso comune, essa viene rece­pita come una sorte di sfida riso­lu­tiva tra inno­va­zione e con­ser­va­zione. Da una parte i difen­sori dei pri­vi­legi e degli sti­pendi dei sena­tori, dall’altra i pala­dini di un Senato senza costi e senza inden­nità. In mezzo ci sono però i deli­cati con­ge­gni dell’architettura isti­tu­zio­nale deli­neati dalla Costi­tu­zione repub­bli­cana che rischiano di essere stri­to­lati in que­sta morsa.

Lo schema del Governo andrebbe per­tanto pro­fon­da­mente cor­retto se si vuole pro­vare a supe­rare, senza strappi e senza rot­ture, l’attuale con­di­zione di impasse. E una coe­rente solu­zione in que­sta dire­zione potrebbe essere rap­pre­sen­tata dall’istituzione di un Senato delle garan­zie. Una camera a com­po­si­zione ridotta, ma legit­ti­mata a con­cor­rere all’esercizio del potere nor­ma­tivo ogni qual volta si tratti di legi­fe­rare sui diritti, sul sistema elet­to­rale, sulla riforma della Costi­tu­zione. E ciò al fine di sot­trarre (quanto meno) diritti, demo­cra­zia poli­tica e Costi­tu­zione alle per­ver­sioni del mag­gio­ri­ta­rio e all’inquietante dila­ta­zione dei poteri del Governo oggi in atto.

Ma se que­sto è l’obiettivo da per­se­guire è evi­dente che le sud­dette fun­zioni non pos­sono essere affi­date, in ordine sparso, a pre­si­denti e rap­pre­sen­tanti di Regioni, sin­daci e sena­tori “pre­si­den­ziali”. Per rea­liz­zare tali fina­lità è neces­sa­rio un Senato demo­cra­ti­ca­mente legit­ti­mato e per­tanto eletto diret­ta­mente dai cit­ta­dini con il sistema proporzionale.

La blin­da­tura e i ricatti impo­sti al con­fronto par­la­men­tare non paiono tut­ta­via con­sen­tire vie d’uscita di que­sta natura. Altra è la dire­zione imboc­cata a tutta velo­cità dal Governo. Una dire­zione scon­clu­sio­nata e debole, per­ché rical­cata sui logori schemi dell’ingegneria isti­tu­zio­nale ita­liana. Que­gli stessi schemi che gli stra­te­ghi delle riforme si osti­nano a pro­pi­narci da oltre trent’anni incu­ranti del tempo e delle tra­sfor­ma­zioni del mondo.