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Il dibattito a sinistra sulla candidatura di Tsipras alle elezioni europee sta assumendo toni e modalità a dir poco curiosi: la discussione sul forte impatto simbolico che un evento politico del genere potrebbe esercitare, e sulle implicazioni programmatiche che comporterebbe, vengono oscurati dai bizantinismi in merito alla “collocazione” che la lista potrebbe/dovrebbe avere nel quadro degli equilibri parlamentari europei e italiani (vedi l’articolo http://ilmanifesto.it/candidiamo-tsipras-alle-europee di Airaudo e Marcon su Il Manifesto di venerdì 17 gennaio) e dai distinguo in merito a quali soggetti, come e con quali procedure potrebbero/dovrebbero partecipare alla sua costruzione (vedi l’appello http://ilmanifesto.it/a-sinistra-una-lista-per-tsipras dal titolo “A sinistra, una lista per Tsipras”, ancora su Il Manifesto del giorno successivo). Airaudo e Marcon scrivono che “Bene ha fatto Vendola a sottolineare l’esistenza, anche per la sinistra italiana, di uno spazio fra Schultz e Tsipras”. Ma dal momento che tale spazio palesemente non esiste (o si è con Schultz, dirigente di un partito Socialdemocratico che gestisce, in condominio con Angela Merkel, la rappresentanza degli interessi del capitale finanziario che asfissia le classi subordinate di tutta Europa, o si è con Tsipras, che guida la più agguerrita compagine europea che si oppone a quegli interessi nel Paese che più di tutti ne ha pagato il fio), la sensazione è che i nostri mirino soprattutto a giustificare gli equilibrismi di Sel, eternamente in bilico fra il liberismo soft del Pd e un velleitario riformismo radicale. Un riformismo che cerca sponde europee per non confondersi con la sinistra radicale “reducista” e “ideologica”. L’appello apparso il giorno dopo non va in cerca di questo “spazio” immaginario, ma invita a schierarsi con Tsipras senza se e senza ma. Tuttavia, per un “reducista ideologico” come chi scrive, le “falle” programmatiche sono molte ed evidenti. Mi limito ad annotare che in nessuna parte del documento si dichiara esplicitamente che questa Europa e questo capitalismo finanziarizzato sono irriformabili, e che nessun ritorno all’europeismo dei padri fondatori, così come nessuna rianimazione del compromesso fra capitale e lavoro dei “Trenta gloriosi”(chi sono i nostalgici?) sono oggi possibili. Certo: all’inizio del documento si parla di “rivoluzione”, e in altre parti si evoca la necessità di avviare un processo costituente per costruire un’Europa realmente democratica, ma le soluzioni politiche indicate sembrano dare per scontata la possibilità di uscire dalla crisi attraverso alcuni radicali mutamenti di rotta in materia di politica economica, come se ciò fosse possibile senza una svolta in senso socialista, e non semplicemente democratico. Ciò detto, e tenuto conto che in queste elezioni si tratta soprattutto di aggregare un ampio fronte di lotta contro fiscal compact, devastazioni ambientali, privatizzazioni di beni comuni, negazione dei diritti dei migranti, sarei stato tentato di sottoscrivere l’appello, se non fosse per quanto si legge nell’ultima parte, laddove si spiega che la proposta degli estensori consiste nel costruire una lista che sostenga Tsipras ma non faccia parte del Partito della Sinistra Europea che lo esprime come candidato, cioè una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, che candidi persone, anche con appartenenze politiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio. A parte l’ultima condizione (con la quale si è dichiarato d’accordo http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2014/1/16/39048-lettera-aperta-a-tutti-e-tutte-coloro-che-vogliono anche il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero – che è uno dei “convitati di pietra” evocati nel documento), tutto il resto solleva interrogativi radicali. 1) Chi sono le “personalità” della società civile? Alla voce personalità il Devoto Oli recita: “Chi gode di grande stima o che occupa una posizione di prestigio in un determinato campo: illustri p. della cultura, della politica, delle scienze” e ancora: ”Culto della personalità, ossequio esagerato verso un personaggio pubblico, spec. politico, che induce a stimarlo e a rispettarlo più per il ruolo e la funzione che ricopre, che non per le doti personali che gli vengono attribuite”. Curioso che un’area politico culturale che rifiuta il culto dei leader carismatici, la personalizzazione e la spettacolarizzazione della politica, e rivendica un’ampia democrazia di base, ecc. usi simili parole: con quali criteri si stabilisce che qualcuno è una “personalità”? Non si rischia che a deciderlo siano le “personalità” che promuovono la lista? Il vero peccato del Movimento5Stelle è forse quello di essere guidato da una sola personalità (se fossero tante andrebbe bene)? 2) Che cosa è la società civile? Va bene non essere ideologici, ma sarebbe il caso di ricordare che della società civile fanno parte sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori: li vogliamo rappresentare tutti, indistintamente, oppure stare con Tsipras significa rappresentare gli interessi di una parte sociale, la più debole? Certo la parola parte è pericolosamente contigua alla parola partito, il cui solo suono fa rabbrividire gli estensori. Peccato che Syriza – come molte altre forze della sinistra radicale europea e come praticamente tutte le sinistre unitarie nate dalle rivoluzioni antiliberiste in America Latina – sia il frutto di un processo di aggregazione federativa di partiti, movimenti e associazioni. È per questo che si invita ad appoggiare Tsipras ma non la Sinistra Europea, una scelta paradossale e del tutto incomprensibile, che si giustifica solo tenendo conto delle interminabili faide che dilaniano le nostre sinistre radicali. 3) Naturalmente nell’appello si parla anche di movimenti. Già, ma il guaio è che una parte tutt’altro che trascurabile dei movimenti (vedi quelli che hanno dato vita alle manifestazioni del 18/19 ottobre scorsi) non si riconosceranno mai in un appello che esprime una visione populista di sinistra più che esplicitamente anticapitalista. Ma tanto quelli non votano comunque, qualcuno mi ha obiettato: più che probabile, ma forse, se la smettessimo di dividere i movimenti in buoni (girotondi, popoli viola, liste civiche, paladini della Costituzione, ecc.) e cattivi (gli antagonisti) le cose potrebbero cambiare
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Come primo obiettivo il segretario ha indicato la cancellazione del Senato e il superamento del bicameralismo perfetto, con la conseguente riduzione dei costi della politica. A seguire ha ribadito l’intenzione di mettere ordine al Titolo V della Costituzione, con la razionalizzazione della ripartizione di competenze fra stato centrale e Regioni. Ed è infine entrato nel merito della legge elettorale. Una riforma, vale la pena sottolineare, di cui non c’è alcun bisogno (lo ha chiarito bene la Corte Costituzionale, secondo la quale si può votare con la legge attualmente in vigore, cioè quella uscita dalla sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum), ma che tanto a Berlusconi quanto a Renzi serve per mantenere lo scettro del comando nei rispettivi partiti/coalizioni, senza il fastidio di dover fare alleanze e senza dover subire “ricatti” dai “piccoli”. Non a caso, la proposta avanzata produce effetti bipolari ed è tesa a premiare i partiti maggiori, a danno di quelli minori. E pazienza se nella sentenza della Consulta, tra l’altro, si faceva esplicito riferimento all’articolo 48 della Costituzione, quello in cui si stabilisce che «il voto è personale ed eguale», mentre tra premi di maggioranza e sbarramenti si finisce con l’alterare «il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi)». Si vede che il parere della Corte costituzionale va bene solo a fasi alterne. Tant’è, la proposta di Renzi è così concepita: premio di maggioranza pari al 18% se si raggiunge almeno il 35% (e non è lo stesso una porcata dare la maggioranza assoluta a chi la maggioranza assoluta nelle urne non ha preso? Vale la pena ricordare che la Legge “Truffa” del 1953 assegnava un premio di maggioranza a chi avesse comunque ottenuto la maggioranza del 50% più uno nelle urne), ballottaggio per ottenere il premio se nessuna coalizione raggiunge il 35%, listini corti (e bloccati, bye bye Consulta) di sei candidati per ogni collegio, sbarramento al 5% per le forze che fanno parte di una coalizione e all’8% per chi si presenta da solo. Con tanti saluti alla rappresentanza democratica.
Ma soprattutto, Renzi ha chiarito che Riforme e nuova legge elettorale fanno parte di un unico pacchetto non modificabile frutto anche dell’intesa raggiunta con Silvio Berlusconi. E in questo senso, ha sottolineato, «l’accordo politico non prevede le preferenze». Il segretario ha poi ribadito che il Pd sceglierà i suoi candidati con le primarie («Un’idea già attuata lo scorso anno da Bersani») e di volere per le proprie liste il «vincolo assoluto della rappresentanza di genere», ovvero l’alternanza uomo-donna negli elenchi sottoposti agli elettori.
La proposta del ballottaggio dovrebbe (sarebbe dovuta) servire a limitare i malumori interni, assecondando almeno in parte le richieste di chi fin dall’inizio si era espresso per un doppio turno alla francese o per una legge sul modello di quella con cui si eleggono i sindaci dei comuni sopra i 15 mila abitanti. Non a caso il bersaniano Alfredo D’Attorre, che nei giorni scorsi era arrivato ad evocare una rottura dopo l’intesa con Berlusconi, parla ora di «un passo avanti rilevante» auspicando un ulteriore ritocco con il superamento delle liste bloccate. Stessa linea per il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza. Ma dal presidente dei democratici, Gianni Cuperlo, arriva l’altolà:
«La riforma elettorale non risulta ancora convincente perché non garantisce né la rappresentanza adeguata né il diritto dei cittadini di scegliere gli eletti né una ragionevole governabilità». Il leader della minoranza interna, inoltre, vede nella proposta avanzata «profili di dubbia costituzionalità». «Al nostro interno non c’è una maggioranza che spinge per cambiare e una minoranza che vuole restare ferma immobile sulle gambe o peggio intralciare un processo riformatore: vogliamo essere tutti noi protagonisti del passaggio a una repubblica rinnovata consolidando le istituzioni di una democrazia in crisi», ha aggiunto il presidente parlando alla Direzione Pd. E c’è da registrare l’affondo dell’ex viceministro Stefano Fassina, secondo il quale «l’accordo (con Berlusconi, ndr) non è stato fatto dal Pd, che si dovrà esprimere, ma dal segretario Renzi. Mi sono un po’ vergognato come dirigente del Pd nel vedere l’incontro di Renzi con Berlusconi. E’ stato un errore politico. Andava certo coinvolta Forza Italia, ci sono i capigruppo e non dovevamo certo rilegittimare il Cavaliere per la terza volta, dopo che c’è stata una sentenza di condanna». Fassina ha smentito ipotesi scissioniste («Resto e credo nel partito come sempre») ma avanza l’idea di un referendum tra gli iscritti che potrebbe diventare la proposta della minoranza piddina nella Direzione di oggi: «Come prevede lo statuto, sarebbe possibile consultare gli iscritti anche per via telematica, rapidamente, per sapere cosa pensino della legge elettorale». Ma l’obiezione di Renzi è già pronta: sono appena stato votato alle primarie, il mandato degli elettori ce l’ho già (fa niente se “elettori” e iscritti” non sono esattamente la stessa cosa, è roba da partiti novecenteschi).
Stroncatura senza appello, invece, dalla Lega, con il segretario Matteo Salvini che invoca una mobilitazione contro quella che definisce «una legge truffa» (detto da chi il Porcellum l’ha pensato e poi votato lascia interdetti). E da Beppe Grillo, che alla nuova proposta di legge ha già dato, di par suo, il nome di «Pregiudicatellum».
Per Paolo Ferrero, segretario del Prc, «la proposta di Renzi è di una gravità inaudita: calpesta la sentenza della Corte sulla legge elettorale riproponendo nei fatti il Porcellum e con il suo compagno di merende Berlusconi, resuscitato per l’occasione, si vuole pappare tutto il Parlamento. Renzi e Berlusconi, che la pensano nello stesso modo su quasi tutto, vogliono occupare tutto il parlamento impedendo ad altre forze che non condividono le loro politiche di austerità di poter dire la loro. Renzi – conclude Ferrero – si nasconde dietro la prima repubblica ma in realtà vuole affossare la democrazia mantenendo in piedi solo la finzione teatrale del bipolarismo».
ECCO IL DOCUMENTO IN PDF ALLEGATO ALLA RELAZIONE INTRODUTTIVA DI MATTEO RENZI
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Il 26 gennaio del ’94 Berlusconi annunciava, con un celebre messaggio televisivo, la sua «discesa in campo». Venti anni dopo, lo stesso Berlusconi si trova ingloriosamente fuori dal Parlamento, assediato da ricorrenti guai giudiziari, il suo movimento politico appare in piena crisi, diviso e sfibrato. Si può tuttavia parlare di «fallimento del berlusconismo»?
Non certo del fallimento della cultura politica di cui Berlusconi si è fatto portatore.
Il suo «anti-antifascismo» – come lo ha classificato il suo più lucido studioso, Giovanni Orsina – fino agli anni Ottanta relegato in posizioni minoritarie dello spettro politico, si basava e si basa su una critica organica al carattere programmatico dell’antifascismo, ben tradotto nella nostra Costituzione. Ebbene, è purtroppo difficile negare che il «discorso» berlusconiano sui limiti e i difetti congeniti della carta costituzionale (e della democrazia dei partiti da essa scaturita) mantenga una salda egemonia nel senso comune di tutti gli schieramenti politici. A questo mirava la battaglia delle idee della destra italiana, e questo obiettivo ha raggiunto grazie al berlusconismo.
Si dirà, è la critica che proviene da ambienti del «moderatismo», che Berlusconi non ha saputo attuare quella rivoluzione «liberale», della quale a parole si era presentato come araldo. Ma, senza tirare in ballo l’utopia di Adam Smith, bisognerà ammettere che l’ordine neo-liberale è stato bene o male restaurato nel ventennio. I partiti assomigliano sempre più a club di notabili, sul modello liberale ottocentesco, che non alle esecrate macchine ideologiche di massa che hanno strutturato la politica nel Novecento. La presenza dello Stato nell’economia è oggi ai minimi rispetto agli altri paesi civilizzati; «lacci e lacciuoli» all’iniziativa privata ce ne sono ancor meno.
Bisognerebbe semmai affrontare un ragionamento serio su come questa libertà assoluta sia stata usata dalle nostre classi dirigenti economiche. Ma questo tipo di ragionamento non è molto congeniale al nostro «moderatismo», troppo occupato a chiedere caparbiamente «di più» in questa suicida direzione, senza fermarsi a considerare le conseguenze di quanto fino ad ora ottenuto.
Se si getta poi uno sguardo oltreconfine, ci si accorgerà che il berlusconismo, lungi dal rappresentare un’anomalia rispetto al panorama politico dell’Occidente, ben si è configurato come l’aspetto italiano di un fenomeno più generale. Il legame di ferro tra interessi affaristici (direttamente rappresentati ai vertici dello Stato) e potere mediatico ha contraddistinto tanto l’Italia berlusconiana quanto gli Stati Uniti di Bush, la Spagna di Aznar e la Gran Bretagna di Blair. In tutti questi paesi si è assistito ad un ingente processo di redistribuzione verso l’alto della ricchezza attraverso l’attacco al salario diretto e differito, di asservimento dei mezzi di comunicazione e di restringimento dei tradizionali spazi democratici. Ancora una volta, la fase getta una luce sinistra sull’utilizzo di questi margini di manovra da parte delle classi dirigenti; ma a tanto esse hanno mirato, e tanto hanno ottenuto.
Quella del «fallimento del berlusconismo» pare dunque una categoria autoassolutoria per chi, durante questo ventennio, al berlusconismo si è presentato come alternativo.
Ma non è stato piuttosto il centro-sinistra, che in questi anni di Berlusconi è stato il contraltare, a fallire? Attorno al Cavaliere si è infatti cementato un blocco sociale fatto di interessi nuovi, sorti dalla crisi dell’età dell’oro del capitalismo, e di interessi parassitari atavici, ed a questo blocco sociale i governi berlusconiani hanno dato risposte concrete: governi duraturi, infatti, perché rispondenti ad interessi reali, per quanto retrivi. I governi di centro-sinistra invece, del potenziale blocco sociale che attorno alle varie coalizioni sembrava via via prender forma, hanno creduto di poter fare a meno: prendevano voti da una parte, ma li mettevano a servizio dell’altra.
Si rassicuravano «l’Europa», i «mercati», gli «alleati», mentre gli elettori e i militanti della sinistra vedevano, una dopo l’altra, naufragare le conquiste ottenute a fatica nel corso della precedente esperienza repubblicana.
Di qui, a ben vedere, la crisi reale del centro-sinistra italiano degli ultimi vent’anni: coalizioni che hanno pensato di poter compensare con l’alchimia politica le proprie deficienze di comprensione del reale e di azione su di esso. Le spiegazioni complottistiche delle difficoltà esperite dalla sinistra al governo, con al centro le mene dei vari Bertinotti, D’Alema, Mastella, rappresentano la spia di un atteggiamento tutto politicista, appannaggio non a caso di gruppi dirigenti ripiegati su se stessi.
All’uscita di scena di Berlusconi può insomma non corrispondere una crisi del berlusconismo: è una cultura politica destinata a caratterizzare anche il futuro del Paese, a meno di un radicale cambiamento di rotta da parte dei suoi oppositori.
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Israele. Un centinaio di industriali e uomini d’affari sono intenzionati ad affermare a Davos che in assenza di un accordo con i palestinesi, Israele si ritroverà isolato anche economicamente
Il premier Netanyahu con ogni probabilità userà la vetrina della prossima Conferenza economica di Davos, in Svizzera, per ripetere le ragioni di Israele al tavolo della trattativa (fantasma) con i palestinesi e per lanciare ulteriori accuse all’Iran e all’accordo che ha raggiunto con l’Occidente per il proseguimento del suo programma nucleare. Alla conferenza però prenderanno parte anche un centinaio di industriali, uomini d’affari e varie personalità israeliane, riuniti nel comitato “Breaking The Impasse”, intenzionati ad affermare su quel palcoscenico che in assenza di un accordo con i palestinesi, Israele subirà un boicottaggio internazionale sempre più incisivo.
Ofra Strauss, Moshe Lichtman, Yossi Vardi, Shlomi Fogel, Danny Rubinstein, Itamar Rabinovich, Morris Kahn, per citarne alcuni, hanno anche sottoscritto un appello «alla pace» riportato con evidenza dalla stampa israeliana. Non sono sostenitori dei diritti dei palestinesi e neppure pacifisti. Sono soltanto dei grandi imprenditori e capitalisti preoccupati per i loro futuri profitti. Hanno il merito però di dire apertamente ciò che il primo ministro e il suo governo di destra preferiscono ignorare, pur di realizzare il loro disegno ideologico. Israele affronta un crescente boicottaggio internazionale, specialmente dall’Europa, e senza una soluzione politica all’occupazione dei Territori che dura da quasi 47 anni, le cose non potranno che peggiorare. A penalizzare in modo crescente l’economia israeliana non è più solo il Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) attuato da associazioni e gruppi di attivisti di diversi Paesi contro l’occupazione militare e a favore dei diritti del palestinesi, ma sono anche le decisioni che stanno prendendo grandi società ed imprese private. Il “Financial Times” riferisce che oltre a quello olandese , altri importanti Fondi-pensione di vari paesi europei hanno deciso di ritirare i loro investimenti nelle banche israeliane perchè operano nelle colonie israeliane costruite in violazione del diritto internazionale.
Sviluppi che non interessano proprio al ministro dell’economia Naftali Bennett, leader del partito ultranazionalista “Focolare ebraico”, che si è scagliato contro i negoziati. Secondo Bennett «Lo stato palestinese distruggerà l’economia israeliana». Intanto il presidente dell’Olp e dell’Anp, Abu Mazen, fa sapere a Netanyahu e ai mediatori americani di considerare «inaccettabile» la volontà attribuita al premier israeliano di «annettere» quattro e non tre blocchi di colonie in Cisgiordania. «Quello che richiediamo è ciò che ci ha dato la comunità internazionale nel 1967», ha detto Abu Mazne durante una visita ufficiale in Marocco, facendo riferimento alle linee di armistizio precedenti la guerra dei Sei Giorni.
Netanyahu vorrebbe annettere a Israele anche Beit El oltre ai già noti blocchi di Ariel al nord, Maale Adumim all’est e Gush Etzion al sud. E’ il 13% del territorio del possibile Stato palestinese, in cambio del 3 o il 4% di territorio israeliano — in bassa Galilea, nella zona del “triangolo” a maggioranza araba — più una compensazione in denaro per il resto.
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