Dopo il 18 e 19. Sabato e domenica assemblea nazionale a Roma da: controlacrisi.org

 

Sabato 9 Novembre ore 14.00 alla Sapienza di Roma come annunciato si tornerà a discutere tutti e tutte insieme per compiere un nuovo grande passo collettivo in avanti dopo le manifestazioni del 18 e 19 ottobre. Tutte e tutti sono invitati a portare anche il proprio contributo al dibattito e alla lotta. La #sollevazione continua e c’è bisogno di tutte le nostre forze e intelligenze. Ormai non possiamo più aspettare c’è bisogno di una nuova sollevazione! L’assemblea proseguirà poi domenica 10 novembre alle ore 10 presso l’occupazione di Viale delle Province 196 su convocazione della rete “Abitare nella crisi”.

Il Prc ricorre in Cassazione sul referendum per l’articolo 18 da: controlacrisi.org

 

«Lo scorso gennaio – spiega Paolo Ferrero – un vasto schieramento sociale e politico ha depositato oltre mezzo milione di firme per il ripristino dell’articolo 18 e la difesa del contratto nazionale di lavoro e per l’abrogazione della legge Fornero sulle pensioni e della manovra Sacconi-Berlusconi del 2011. Per cercare di impedire l’indizione dei referendum il Presidente Napolitano ha sciolto le Camere a fine 2012, invece che a inizio gennaio 2013 come abbiamo chiesto più volte. Ma noi non demordiamo ed oggi, mercoledì 6 novembre, presenteremo ricorso in Cassazione per chiedere che il referendum si tenga comunque, quel referendum che il potere non vuole perché sa benissimo che gli italiani voterebbero per ripristinare l’articolo 18 e abolire la riforma delle pensioni della Fornero».

scoperta la tomba di Priebke, nel cimitero di un carcere

 

Scoperta la tomba di Priebke, nel cimitero di un carcereLa salma di Erich Priebke, capitano delle SS e boia delle Fosse Ardeatine, è sepolta in Italia nel cimitero in disuso di un carcere. La tomba è identificata da un numero sulla croce di cui sono a conoscenza solo i familiari. A rivelarlo è Repubblica, in un articolo del direttore Ezio Mauro. Il quotidiano pubblica anche una grande foto del piccolo camposanto invaso dalle erbacce. ”È il cimitero di un carcere”, scrive Mauro. Sulla sepoltura c’è il timbro del segreto di terzo grado da parte dello Stato”. ”Se non si può far conoscere il luogo che ospita la tomba – sottolinea – è giusto far sapere che questa vicenda è conclusa”, ”la democrazia risponde ai suoi doveri e dunque può riprendersi i suoi diritti”.

Mauro ricostruisce i momenti del trasferimento della salma. ”C’erano due uomini sull’auto arrivata alle 3.45 del mattino all’aeroporto militare di Pratica di Mare – scrive – ma uno solo sapeva dove stavano andando e perché, nella notte tra un sabato e una domenica di fine ottobre”. Sulla tomba una croce di legno con sopra un numero che è ”conservato in una busta con i sigilli nella cassaforte del funzionario che ha pilotato l’operazione. Verrà consegnato al figlio di Priebke che a dicembre arriverà da New York”.

”Il direttore del carcere, convocato a Roma per sapere che avrebbe dovuto ricevere l’ospite più indesiderato d’Italia, è ripartito col vincolo del segreto”, ”nemmeno le guardie conoscono il nome dell’ultimo arrivato, e naturalmente non lo sanno il sindaco, il presidente della Regione, la comunità cittadina”. ”Attraverso il segreto, l’autore di una strage ha potuto avere la sepoltura che una democrazia gli deve assicurare… è un gesto di civiltà e un atto di umanità che deve accompagnarsi col ricordo di quanto e’ avvenuto, per non smarrire la nozione del Bene e del Male, dunque del giudizio’.

Donne in carriera, anche nel non profit ostacoli e discriminazioni | Fonte: redattoresociale.it

Famiglia e lavoro inconciliabili? Parrebbe di sì, soprattutto per le donne. La questione viene approfondita dal libro di Federica D’Isanto.  Segregazione di genere e differenziali salariali nel mercato del lavoro italiano.  Il caso delle organizzazioni non profit  (Giappichelli editore, collana L’Economia sociale, diretta da Salvatore D’Acunto e Marco Musella, pagg. 158, euro 19) che tratta il tema della discriminazione salariale delle donne nel mercato del lavoro italiano, oltre che della loro emarginazione, con uno sguardo particolare all’universo delle cooperative sociali.

Il libro parte dall’assunto che le trasformazioni del lavoro stiano mettendo a dura prova la famiglia, e che senza una soddisfacente vita familiare il lavoro rischia di diventare una forma di alienazione. Si tratta di un circolo vizioso che è in gran parte il risultato della deriva lavoristica dell’economia, nel senso che la priorità lavorativa condiziona tutta la vita delle persone. Questo, nonostante da tempo si parli di “conciliare famiglia e lavoro” e nonostante l’Unione Europea abbia varato programmi, direttive e raccomandazioni in tal senso, e in Italia i governi centrali e locali parlino da parecchi anni di misure di conciliazione. Questi programmi fanno riferimento ad una legislazione specifica e a organismi particolari, come le Commissioni di pari opportunità, che dovrebbero servire soprattutto a favorire la donna nell’inserirsi nel lavoro, nel mantenere l’occupazione o ritornarvi se ne è uscita per motivi di vita familiare. In realtà, in particolar modo in Italia, i risultati effettivi di tali misure sono ancora molto scarsi: il mondo del lavoro stenta a vedere la famiglia, e la famiglia non riesce a conciliare le sue esigenze con il lavoro che cambia.

Questo anche nelle organizzazioni non profit, che per mission dovrebbero essere legate ai valori della democrazia e della partecipazione, e che sarebbero quelle deputate ad avere una maggiore attenzione alla non discriminazione. Invece dallo studio della D’Isanto emerge da un lato, la forte componente femminile del lavoro nelle imprese sociali, dall’altro l’esistenza di discriminazioni salariali simili a quelle che si registrano in altre forme di impresa, oltre alla difficoltà delle donne ad accedere alle posizioni verticistiche anche nell’ambito del non profit.

Il libro approfondisce queste problematiche attraverso un analisi teorica ed empirica che beneficia della Banca dati ICSI (indagine sulle Cooperative sociali italiane) 2007: una miniera di informazioni – anche se da aggiornare – sui lavoratori e le lavoratrici delle cooperative sociali italiane che consente di fare un quadro preciso delle condizioni di lavoro nelle imprese sociali del nostro Paese.

Il libro dimostra che la predominanza delle donne nel settore non profit non solo non riesce a tradursi in un’attenuazione delle discriminazioni in termini di carriera, retribuzione ed accesso a ruoli di comando, ma rischia anche di implicare, tramite la mancata valorizzazione del loro apporto, la svalutazione economica dell’intero settore. I dati, infatti, confermano la presenza di meccanismi discriminatori rispetto al genere, tanto più sorprendenti quanto più si consideri l’elevata presenza di donne tra i lavoratori di queste organizzazioni. Anche il non profit, secondo l’autrice, non è immune da pregiudizi e  stereotipi sulle donne e, in particolare, sulle donne in carriera, e da meccanismi di discriminazione come la scarsa valorizzazione delle competenze femminili e l’esclusione delle donne dalle dinamiche del potere e dalle logiche decisionali. Tuttavia la D’Isanto mette in evidenza che non sempre è possibile parlare di discriminazione, in quanto molto spesso sono le donne stesse ad operare delle scelte che le portano a sacrificare in parte le ambizioni professionali e lavorative, optando per il part-time, per la difficoltà di conciliare tempi di vita e di lavoro. Nonostante la critica, la D’Isanto sostiene comunque che la cooperazione sociale ha come prospettiva d’azione una maggiore attenzione alle questioni di genere. (i.p.)

La Mela buona | Fonte: il manifesto | Autore: Simone Natale

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I sondaggi lo davano largamente vincitore, e Bill de Blasio non ha deluso le aspettative nelle elezioni di martedì, diventando il primo democratico a essere eletto sindaco di New York dal 1989. Per lui, si apre ora una scommessa ben più difficile: rispettare le aspettative di un programma molto ambizioso, che promette di intervenire su alcuni dei problemi più gravi ed endemici della metropoli newyorchese.
New York, pur nella sua eccezionalità, è in fondo uno specchio della società americana, in cui le grandi ricchezze industriali e finanziarie convivono con una grande parte di popolazione in condizioni di povertà o addirittura indigenza. In una delle città più ricche del mondo, il 45 per cento degli abitanti vive sotto la soglia di povertà. È sufficiente percorrere la linea 1 della metropolitana da sud a nord di Manhattan per accorgersi di come i passeggeri cambino a seconda del quartiere che si sta percorrendo: gli studenti, in maggioranza wasp, della New York University e della Columbia; gli intellettuali benestanti dell’Upper East Side; gli afroamericani di Harlem; i latinos di Washington Heights. La città è ancora organizzata secondo compartimenti territoriali piuttosto rigidi, frontiere invisibili che dividono la popolazione secondo classe e secondo razza.
L’elezione di Bill de Blasio è arrivata all’insegna della speranza di sconfiggere queste divisioni e queste disuguaglianze. Il nuovo sindaco è riuscito a risvegliare questo sogno in due diversi modi: attraverso la sua figura pubblica e attraverso il suo programma politico. Italoamericano, sposato con la poetessa di origine ghanese Chirlane McCray, padre di due figli che sono un manifesto (nel vero senso della parola, dato che la famiglia è comparsa largamente in volantini e poster elettorali) a favore del matrimonio interrazziale, de Blasio incarna l’immagine di una città le cui differenti realtà si integrano e si mischiano tra di loro. E se la sua immagine pubblica è efficace nell’incarnare questo sogno, il suo programma politico rafforza ulteriormente questa promessa di cambiamento. De Blasio promette di garantire a tutti i newyorchesi abitazioni a prezzi ragionevoli, in una città in cui 50,000 persone, come ricorda il sito internet della sua campagna, dormono per strada o in rifugi di emergenza, e dove il costo degli affitti aumenta in maniera vertiginosa anno dopo anno.
Di fronte al nuovo sindaco si staglia dunque una sfida molto complicata. Come confermano i dati sull’affluenza, addirittura inferiore al 25 per cento degli aventi diritto, né la sua figura pubblica né il suo programma sono riusciti a convincere gli abitanti di quartieri come Harlem a partecipare a questa tornata elettorale. De Blasio si trova dunque nella difficile posizione di convincere anche quei newyorchesi a cui la storia ha insegnato che non vale la pena credere nei cambiamenti promessi dai politici. Sarà tra di loro che, tra quattro anni, dovrà trovare i voti necessari per essere rieletto. Nel frattempo, il suo coraggioso programma, basato su una politica di redistribuzione che dovrà finanziarsi attraverso tasse più alte per le fasce più ricche della popolazione, farà i conti con gli interessi delle élites economiche.
Nel 1994, il repubblicano Rudolph Giuliani (un altro italoamericano, come De Blasio) divenne sindaco di New York promettendo di risolvere con il pugno di ferro l’annoso problema della criminalità. Durante il suo mandato, la polizia ebbe mezzi e poteri senza precedenti, e il tasso di criminalità scese drasticamente.
Oggi, New York è una città relativamente sicura. Il sistema repressivo di Giuliani, d’altronde, non ha fatto che intervenire sui sintomi di un disagio sociale che, specialmente in certi quartieri, sono rimasti intatti. Quello che propone il nuovo sindaco è di andare alla radice dei problemi. Ma come sa bene De Blasio stesso, che nel giardino della sua casa di Brooklyn ha messo su un piccolo orto per coltivare ortaggi, le radici sono a volte più lunghe e resistenti della pianta che vi cresce sopra.

Con i soldi dell’Anpi l’Italia paga le missioni | Fonte: il manifesto | Autore: Carlo Lania

 

Tolti 300 mila euro all’associazione dei partigiani

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I soldi destinati all’Anpi serviranno a finanziare le missioni militari dell’Italia all’estero. E chissà se i partigiani saranno d’accordo. A deciderlo è stata ieri la commissione Bilancio della Camera durante l’esame del decreto sulle missioni in cui sono impegnati i soldati italiani fuori dai confini. A conti fatti i membri della commissione si sono accorti che mancavano circa 300 mila euro per garantire la copertura del decreto ma soprattutto l’operatività dei militari fino al 31 dicembre, data di scadenza del provvedimento. Nessun problema. Nello testo, infatti, sono inseriti anche i finanziamenti destinati a 17 associazioni combattentistiche, tra le quali l’Anpi per la quale era stato previsto 1 milione di euro. Anziché tagliare i costi riducendo l’impegno militare, la maggioranza delle larghe intese ha pensato bene di attingere a piene mani proprio lì, tra i fondi destinati all’associazione dei partigiani per trovare i soldi necessari a coprire il buco. Detto fatto. Giusto il tempo di di rifare i conti e il contributo destinato all’Anpi è stato ridotto a 634 mila euro, mentre 366 mila euro sono passati dalle casse (virtuali) dell’associazione partigiani a quelle delle missioni, con il consenso di tutti i partiti – Pd in testa – e con l’unico voto contrario del M5S.
Il provvedimento prevede un finanziamento complessivo di 730 milioni fino alla fine dell’anno, dei quali 260 solo per la missione in Afghanistan. Nonostante le promesse fatte dal ministro degli Esteri Emma Bonino, che aveva garantito un maggior impegno finanziario italiano per i profughi della Siria, alla cooperazione internazionale restano solo le briciole: appena il 2% del totale, pari a soli 23 milioni di euro.
Una volta messi in ordine i conti, il decreto è dunque arrivato in aula, dove però adesso rischia di rimanere impantanato a lungo. Sel e M5S hanno infatti annunciato di volersi opporre al testo con l’ostruzionismo, cominciato già ieri sera durante la discussione. Il movimento di Grillo ha presentato 12 emendamenti che chiede al governo di fare propri. Tra le richieste più importanti c’è il ritiro di almeno il 10% del personale militare attualmente impegnato in Afghanistan (250 soldati su un totale di 2.900). «Non si tratta di una richiesta assurda», spiega il deputato 5 Stelle Manlio Di Stefano. «Nell’emendamento si chiede di concordare con la Nato una riduzione degli incarichi operativi degli italiani in Afghanistan in modo da permettere il parziale ritiro. Messa in questi termini la proposta è stata giudicata fattibile anche dal relatore, il generale Rossi. Senza contare che , oltre a dare un forte segnale politico, si risparmierebbero anche molti soldi in un momento di crisi». Il M5S chiede anche l’approvazione di un ordine del giorno che metta fine all’impiego di soldati italiani in missioni antipirateria a bordo delle navi mercantili.
Più radicale la scelta di Sel, che al governo chiede invece di spacchettare il decreto in modo da poter votare contro la sola missione in Afghanistan, decretandone così la fine nel caso il voto passasse, e a parte tutto il resto.«Non accettiamo mediazioni come quella proposta dal M5S di ritirare solo il 10% dei soldati – spiega Giulio Marcon -. Quella missione è sbagliata e va ritirata completamente».

Amianto: 20 morti alla Olivetti, indagati Carlo De Benedetti e Corrado Passera Fonte: liberazione.it

“Dopo l’Eternit di Casale Monferrato ora tocca all’Olivetti di Ivrea. La Procura di Ivrea ha aperto un’inchiesta su venti morti sospette provocate dall’amianto negli stabilimenti Olivetti dove si fabbricavano telescriventi e personal computer. Secondo quanto anticipato dal quotidiano La Stampa, tra gli indagati ci sono l’ex presidente Carlo De Benedetti e l’ex amministratore delegato Corrado Passera. Le ipotesi di reato sono di omicidio colposo e lesioni colpose plurime. Le indagini sono concentrate sui decessi di una ventina di lavoratori, avvenute dopo la pensione, tra il 2008 e i primi mesi di quest’anno. Si tratta di uomini e donne che tra la fine degli anni settanta e il Novanta avevano lavorato in reparti contaminati da fibre di amianto e che lì avevano inalato polveri nocive che anno dopo anno li hanno consumati e fatti ammalare di mesotelioma pleurico fino ad ucciderli.

Tutto era cominciato – racconta la Stampa – dopo una denuncia presentata 6 anni fa dai famigliari di una ex dipendente dell’azienda. La donna aveva lavorato nello stabilimento di San Bernardo, a Ivrea, dal 1965 al 1980: morì il 27 dicembre del 2007 a causa di un mesotelioma pleurico maligno. Le perizie avevano dimostrato che quella dipendente si era ammalata per aver inalato talco contaminato con amianto. E per quella storia, grazie anche all’avvocato Enrico Scolari che difendeva la famiglia, fu rinviato a giudizio Ottorino Beltrami, fino al 1978 amministratore delegato della Olivetti. Il processo, però, non si farà, perché Beltrami nel frattempo è morto. Nel frattempo però si scoprono nuovi casi: si era così scoperto che tutti avevano la stessa malattia per contatto con l’asbesto, e che tutti avevano lavorato fino ai primi Anni 90 negli stabilimenti Olivetti: alle Officine Ico, nei capannoni di San Bernardo e nel comprensorio industriale di Scarmagno. Gli atti erano poi stati trasmessi in Procura e erano arrivate le prime denunce. Molte di queste le aveva presentate la Fiom Cgil del Canavese, che attraverso il legale Laura D’Amico oggi sta seguendo decine di casi. L’impressione è che questa storia sia soltanto all’inizio. Poi c’è la testimonianza di Gino, 74 anni, 31 anni, dal 1962 al 1993, spesi aggiustando le caldaie dell’Olivetti. Oggi Gino è fiaccato dalle chemioterapie: “Eravamo giorno e notte a contatto con le condotte delle caldaie, quelle che trasportavano l’aria e il vapore per far funzionare i macchinari della fabbrica”. Tutto materiale rivestito di amianto. “Ma nessuno, a quell’epoca, se ne preoccupava più di tanto, anche se ogni anno l’azienda ci ordinava di fare le lastre ai polmoni”. Era il 1998 e quel giorno lo ricorda come se fosse adesso. «Faticavo a respirare, uno strazio. Mia moglie un mattino mi trascinò in ospedale per una visita». Gino fu sottoposto ad una tac. E sul referto i dottori scrissero due parole che lui subito non capì: «mesotelioma pleurico». Guardò con occhi carichi di domande i medici e si fece spiegare di cosa si trattasse. Gli spiegarono che aveva contratto l’asbestosi, una malattia dovuta al contatto con l’amianto. Dove? Sul posto di lavoro. Così Gino ha iniziato la sua battaglia per il riconoscimento della malattia professionale. Anni passati da un patronato all’altro, da un ufficio all’altro dell’Inail. Alla fine è riuscito a strappare un piccolo risarcimento. Poco più di 2 mila e 400 euro. «Mi fu riconosciuto un danno fisico soltanto per un breve periodo, fino al 1982. Quattro soldi. E’ stato umiliante».