A Catania due giorni di Cultura alta e per tutti. Una notte al museo da: zenzero quotidiano

A Catania due giorni di Cultura alta e per tutti. Una notte al museo

Dopo tredici anni di saccheggi e devastazioni delle casse comunali, una cosa così sarebbe stata impensabile. E invece, ancora una volta – grazie ad artisti, istituzioni culturali ed operatori economici che si sono messi a disposizione per il rilancio della città -, per la seconda volta in poche settimane, dopo l’esperimento della riapertura del Teatro antico, domani e domenica (28 e 29 settembre) Catania sarà di nuovo città della Cultura “alta” e per tutti, e a “costo zero” per il Comune.
Unica città siciliana ad aver aderito alla Notte dei musei promossa dal Mibac (Ministero dei Beni e delle Attività culturali) su tutto il territorio nazionale, domani Catania terrà aperti i suoi musei fino a mezzanotte: la nostra si chiama “Una notte al museo”. E anche stavolta – come ha spiegato questa mattina nel corso di una conferenza stampa l’assessore comunale ai Saperi e alla Bellezza condivisa, Orazio Licandro – non si tratterà soltanto di “un’apertura straordinaria, ma di un’offerta culturale nei siti più prestigiosi, ricchi di arte”: all’interno di Palazzo Platamone, del Castello Ursino, delle Terme Achilliane, come per le vie del barocco, catanesi e turisti troveranno lungo il percorso artisti più diversi che reciteranno, suoneranno, canteranno. Qualche esempio: esecuzione di brani musicali classici, a cui assistere per gruppi, all’interno delle Terme; performance teatrali nel maniero federiciano; e fuori, nella piazza antistante il castello e nelle principali vie e piazze del centro, le esibizioni di teatranti, giocolieri, mangiatori di fuoco, musicisti. Fra loro, l’Associazione Manomagia, che da 25 anni a Catania offre cultura a genitori e bambini, che presenterà uno spettacolo di teatro di figura su nero; mentre la Compagnia giocoleresca Deceptio intratterrà con i suoi numeri acrobatici e teatro di strada fra le piazze Università, Duomo e Federico di Svevia, e la Banda Roncati – “un collettivo musicale importante, oggetto di studio nelle università” e “autentici trascinatori”, li ha definiti Licandro – attirerà i catanesi lungo il percorso delle principali strade del centro storico.
E se la giornata di sabato farà rientrare Catania nel circuito nazionale, quella di domenica la lancerà invece in un ambito internazionale con l’adesione alla Giornata europea della cultura ebraica che farà conoscere un pezzo di storia cittadina finora sconosciuto ai più. Si tratterà della commemorazione di Kertész Géza, allenatore del Catania negli anni Trenta dopo essere stato giocatore della nazionale ungherese di calcio, che una volta rientrato in patria si ribellò alla barbarie del nazismo e costituì un’organizzazione clandestina grazie alla quale salvò dai campi di sterminio un centinaio di ebrei a rischio della propria vita: fu infatti per questo incarcerato e fucilato dalla Gestapo. Un esempio – ha sottolineato l’assessore – di come attraverso lo sport si possano coltivare “ideali di libertà, democrazia e fratellanza”.
Il ricordo di Kertész Géza troverà posto nella sua sede naturale: quella piazza Verga che all’epoca si chiamava piazza Esposizione e fino al 1938 coincise con il campo di calcio. Appuntamento alle dieci per una presentazione della figura dello “Schindler ungherese”, le partite dei bambini delle scuole di calcio e una mostra sullo storico allenatore del Catania.
La giornata proseguirà nel pomeriggio (dalle 17) al Castello Ursino, con un convegno su “Natura e cultura ebraica”, preceduto dall’inaugurazione di una mostra di epigrafi con iscrizioni giudaiche, facenti parte della collezione del Museo civico.

Smuraglia: basta ai ricatti, all’eversione “bianca” comunicato stampa anpi nazionale

 

Il Presidente Nazionale dell’ANPI, Carlo Smuraglia, costretto a casa da una indisposizione, intende richiamare l’attenzione sulla netta e chiara presa di posizione di Ezio Mauro, nel fondo de la Repubblica del 27 settembre, sulla gravissima situazione – anche sul piano costituzionale – determinata dalla iniziativa recente di Berlusconi e dei suoi parlamentari che minacciano dimissioni di massa.

Smuraglia non solo aderisce alla definizione di questa iniziativa come atto di eversione, fuori e contro la Costituzione, ma aderisce anche all’invito all’impegno per fermare la deriva antidemocratica in corso e per la mobilitazione delle coscienze, degli organi costituzionali e delle cittadine e dei cittadini.

“Bisogna dire – sottolinea – “basta” ai ricatti, all’eversione “bianca”, agli attacchi alla Costituzione e alle regole. Bisogna rientrare nella “normalità e correttezza costituzionale” e senza ulteriori strappi”.

Il Presidente Nazionale dell’ANPI invita tutti alla riflessione sulle iniziative e vicende di questi giorni: la decisione delle dimissioni in massa dei parlamentari del PDL, oltre ad essere inedita, è fortemente irresponsabile. Si torni subito alle regole e ai principi di uno Stato di diritto.

“Per non lasciare solo nessuno”. La Fiom chiama lo sciopero generale | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

 

Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini propone a Fim Cisl e Uilm uno sciopero generale di tutti i lavoratori metalmeccanici “per non lasciare solo nessuno, per difendere il lavoro, per avere una politica industriale degna di questo nome”. Il leader delle tute blu della Cgil parlando all’assemblea nazionale della Fiom a Rimini ha anche chiesto alla Cgil una mobilitazione generale dei lavoratori. Quella attuale e’ ”una situazione in cui non ci siamo mai trovati. Siamo nel pieno di una deindustrializzazione” del Paese ha detto Landini. ”Oggi e’ il momento di difendere il lavoro” e, per questo, ”avanzo una proposta a Fim e Uilm. Dobbiamo chiedere loro un incontro e andare verso uno sciopero generale dei metalmeccanici”. Una proposta, ha precisato dal palco, “per non lasciare solo nessuno, per difendere il lavoro, per avere una politica industriale degna di questo nome. Landini, che ha aperto i lavori dell’assemblea nazionale in programma fino a sabato, non ha mancato di lanciare qualche frecciata al governo. ”Non serve un Governo che non e’ in grado di decidere – ha detto -: avere un Governo che non e’ in grado di risolvere un problema che e’ uno non e’ piu’ accettabile”. Secondo Landini ”non si puo’ continuare a subire il ricatto di uno che e’ condannato in terzo grado”. Parlando al termine del suo intervento, a margine dell’assemblea riminese, Landini ha poi aggiunto che ”di fronte a cio’ che sta facendo Berlusconi non si puo’ stare sotto il ricatto: penso – ha chiosato – che il Parlamento dovrebbe fare la legge elettorale e, se necessario, andare a votare per dare un Governo vero in grado di fare delle cose”.

La proposta è stata rispedita al mittente dagli altri due sindacati di categoria di Cisl e Uil. L’unica cosa di unitario che la Fiom sa proporre a Fim e Uilm sono gli scioperi. Per fare scioperi insieme, bisogna avere come minimo piattaforme e obiettivi comuni, e una valutazione condivisa su come si fa sindacato e su come affrontare la crisi industriale nel Paese. Niente di tutto questo oggi ci unisce alla Fiom”, ha detto il segretario generale della Fim Cisl, Giuseppe Farina. “Proporre scioperi generali confusi negli obiettivi sindacali e con ogni evidenza piu’ pensati per il congresso della Cgil e la politica, non servono ai lavoratori e non aiutano per rilanciare l’industria e l’occupazione nel nostro Paese”, aggiunge.

Fascino e illusioni della democrazia diretta | Fonte: costituzionalismo.it | Autore: Alberto Burgio

Tra liberismo e fascismoIn estrema sintesi, il senso di questo intervento consiste nell’affermare che è possibile comprendere la crisi della politica, nell’ambito della quale si pongono fenomeni oggi particolarmente vistosi come l’astensionismo di massa, la critica della democrazia rappresentativa e l’invocazione della democrazia diretta, soltanto se la si inquadra in un contesto ampio e di lungo periodo. Ampio, nel senso che questa crisi si collega alla crisi sociale ed economica (in verità anche a una crisi che Gramsci definirebbe «intellettuale e morale»); di lungo periodo, poiché essa chiama in causa una «grande trasformazione» verificatasi nel corso degli ultimi 50-60 anni.

 

Si tratta, insomma, di un fenomeno radicato nella storia, che ha caratteristiche e precedenti storici. Per questo, al fine di intendere il nesso che collega l’odierna crisi della politica alle sue radici economico-sociali (più precisamente: alle conseguenze sociali della controrivoluzione neoliberista che inizia nella seconda metà degli anni Settanta), sembra utile risalire subito a un passaggio storico analogo (a un’altra grande trasformazione), che ha luogo a cavallo tra Otto e Novecento.

 

Nello schema sotteso all’opera maggiore di Karl Polanyi (The Great Transformation, 1944), l’età classica del liberismo (che trasforma il capitalismo industriale in un sistema sociale[1]) abbraccia poco meno di un secolo.

 

Comincia nel 1834, con l’abolizione del regolazionismo paternalistico di Speenhamland e l’adozione del Poor Law Reform Act (una normativa che, codificando la «finzione del lavoro come merce», instaura il sistema del cosiddetto mercato autoregolantesi). E regge sino al crollo di Wall Street nel 1929.

 

In realtà, l’utopia (la distopia) del libero mercato (socialmente distruttiva: causa di disoccupazione e miseria di massa) entrò in crisi già dopo i primi quarant’anni (con la grande depressione del 1873-96), innescando forti tensioni di classe e risposte collettivistiche di stampo protezionistico sul piano sociale e nazionale. Vanno annoverati in questo quadro da una parte la nascita del sindacalismo e il primo affermarsi di elementi di welfare; dall’altra, il nazionalismo, l’interventismo economico, il consolidarsi di mercati monopolistici e il rafforzarsi di tensioni interimperialistiche, tra le cause primarie del primo conflitto mondiale.

 

I successivi sessant’anni segnano in sostanza la lunga agonia del liberismo, che approda (con il crollo di Wall Street) all’implosione dell’ultima delle sue istituzioni, la base aurea.

 

II fascismo – questa, com’è noto, la fondamentale tesi polanyiana – fu la conseguenza di questa agonia. Più precisamente, costituì una risposta alle conseguenze del drammatico cedimento del sistema monetario internazionale caratteristico della fase liberale.

 

Così si comprende, secondo Polanyi, la differenza tra mondo anglosassone e destino europeo. Mentre Stati Uniti e Inghilterra, padroni della moneta, abbandonano per tempo la base aurea (tra il 1931 e il ’33), esautorano il potere politico della finanza[2] e optano per politiche espansionistiche (di welfare) salvaguardando la democrazia; la maggior parte dei paesi europei punta tutto sulla difesa deflazionistica della moneta (in quanto i loro sistemi industriali dipendono dall’acquisto delle materie prime sul mercato estero). Dinanzi all’alternativa tra salvataggio del sistema economico (cioè dell’industria nazionale) e risanamento della moneta (viadeflazione) da un lato, e difesa del lavoro (occupazione e redditi) dall’altro, l’affermarsi (a questo punto inevitabile) del primo corno del dilemma implica negli anni Trenta l’adozione di politiche repressive (incentrate sull’adozione di poteri d’emergenza e sulla sospensione delle pubbliche libertà).

 

Il risultato – scrive Polanyi – è squilibrato e politicamente tragico: «l’ostinazione con la quale, nel corso di un decennio critico, i liberali sostengono l’interventismo autoritario ai fini di una politica deflazionistica si risolve semplicemente in un indebolimento decisivo delle forze democratiche che avrebbero altrimenti potuto allontanare la catastrofe fascista»: «nel corso di vani sforzi deflazionistici i liberi mercati non vengono ricostituiti, anche se i liberi governi sono sacrificati»[3]. In questo senso, nulla fu meno sorprendente o casuale dell’avvento al potere dei fascismi europei, che «rispose alle necessità di una situazione obiettiva», quella di «una società di mercato che si rifiutava di funzionare»[4]. La morale della favola è chiara: avere a lungo rifiutato di governare il processo economico (in omaggio all’ideologia della sua naturale autonomia), avere lasciato briglie sciolte agli «spiriti animali» del capitalismo, distruttori della coesione sociale, costringe alla fine ad approdare all’estremo opposto: non soltanto al governo sociale-politico dell’economia, ma all’adozione di politiche totalitarie, liberticide e criminali.

 

Non molto diverso nelle conclusioni appare lo schema tracciato una decina di anni prima (da un punto di vista prevalentemente politico) da Harold Laski (Democracy in Crisis, 1933). Laski ritiene che la crisi democratica degli anni Trenta discenda dal «rapido e profondo risentimento» provocato nelle masse popolari dal fatto che la democrazia rappresentativa non ha mantenuto le promesse di riscatto sociale[5]. Ai suoi occhi non è un caso se «la sproporzione che sussiste fra il potere economico (detentore di un «governo invisibile») e il potere politico formale è quasi fantastica»[6]. La crisi democratica discende, a suo giudizio, da una contraddizione fondamentale, alla base della democrazia borghese. Se – scrive – «il problema consiste nel proporsi di impiegare le ricchezze per il bene totale della comunità, il potere di disporne e di dirigerle per l’utile privato si trova ad essere protetto dalle salvaguardie costituzionali»[7]. «Le banche, l’energia, il petrolio, i trasporti, il carbone, tutti i servizi essenziali dai quali dipende il benessere pubblico son tutti interessi acquisiti in mano dei privati», e «il problema diventa ancor più astruso per il fatto che la lunga prosperità aveva convinto l’uomo medio che la costituzione fosse sacrosanta per quanto può esserlo uno strumento simile»[8]. In una battuta, «quando il mercato cessò di espandersi, la classe dominante si rifiutò subito di consentire alle masse di raccogliere le briciole dalla sua tavola»: di qui, secondo Laski, «un senso di disillusione nei riguardi della democrazia, ancor più diffuso, e uno scetticismo verso le istituzioni popolari ancor più grande che in qualsiasi altro periodo della storia»[9]. Di qui anche la delegittimazione delle istituzioni democratiche, la crisi di credibilità dei sistemi rappresentativi e delle grandi organizzazioni politiche e sindacali, e l’invocazione di uomini provvidenziali.

 

La controrivoluzione neoliberista

 

Questo schema – in entrambe le varianti ricordate – calza a pennello con la vicenda di quest’ultimo cinquantennio. Tra gli anni Sessanta e Settanta si registrano in tutto l’Occidente capitalistico inediti avanzamenti sul terreno della democrazia sociale e politica, della mobilità sociale, della conquista di sovranità reale da parte della classe lavoratrice. Le Costituzioni post-belliche reagiscono all’esperienza del fascismo predisponendo cornici istituzionali funzionali a questo sviluppo. E l’esigenza della ricostruzione (dei paesi devastati dal conflitto e di un sistema economico mondiale) offre l’opportunità di coinvolgere il lavoro in un compromesso progressivo che non solo propizia l’accumulazione e la distribuzione di ricchezza, ma promuove la partecipazione democratica delle classi subalterne.

 

Naturalmente questa è una sintesi di parte, che può essere contrastata considerando la stessa storia da una diversa prospettiva. Se dal punto di vista del lavoro e della democrazia il trentennio 1945-75 può essere considerato senz’altro una fase progressiva, nell’ottica del capitale esso fu invece un incubo, caratterizzato da ricorrenti fiammate inflazionistiche e da un’imponente quanto allarmante dinamica redistributiva. Nei paesi sviluppati la ricchezza sociale aumentava (il Pil crebbe in media del 4% l’anno negli Usa, del 5% nei paesi della Comunità economica europea, dell’11% in Giappone), ma contemporaneamente il saggio medio di profitto del capitale investito nelle attività direttamente produttive diminuiva. Giunto (nel 1950) sino al 22%, cominciò a ridursi, assestandosi tra il 7,5% (nel 1970) e il 10% (nel 1975)[10]. I mutamenti che si verificarono nel secondo dopoguerra e che andarono a regime negli anni Sessanta provocarono (o accentuarono) una riduzione del saggio di profitto del capitale privato e furono di fatto considerati da componenti significative delle classi dirigenti occidentali perniciosi e minacciosi per la stabilità dei sistemi economici e sociali.

 

La posizione destinata ad affermarsi nel successivo trentennio venne teorizzata nel famoso convegno che la Commissione Trilaterale dedicò nel 1975 proprio alla «crisi della democrazia»[11]. In che cosa consisteva tale crisi dal punto di vista dell’establishment capitalistico? In sostanza, in presunti «eccessi» di democrazia (in particolare nell’eccessivo potere negoziale delle organizzazioni sindacali, forti del regime di piena occupazione), causa a loro volta di inflazione (così pretendeva la vulgata, benché l’inflazione derivasse dallo shock petrolifero del 1973) e di una conflittualità sociale ritenuta intollerabile o – come si cominciò a dire allora – «non compatibile».

 

Che quel convegno sia stato un evento periodizzante, fondativo della nostra attuale condizione, lo dimostra il fatto che a ben guardare vige tuttora la medesima logica e retorica, con la sola differenza che i pretesi «eccessi», di cui si parla da vent’anni a questa parte, riguardano la democrazia economica piuttosto che quella sociale e politica. L’idea di un eccesso di democrazia economica (cioè la convinzione che il lavoro percepisse troppo reddito sotto forma di retribuzioni e di servizi) ha ispirato la costruzione dell’Unione europea (basata sul veto all’impiego redistributivo ed espansivo della finanza pubblica) e oggi costituisce, per così dire, l’implicito concettuale della grande «crisi», che dalla stragrande maggioranza dei politici, dei banchieri e degli opinionisti viene rappresentata come crisi fiscale (dei debiti sovrani) mentre è in realtà soltanto l’effetto recessivo (economicamente e socialmente devastante) di un gigantesco travaso di ricchezza dal lavoro al capitale (e dal pubblico al privato), operato per via finanziaria, monetaria e fiscale attraverso le politiche deflattive della cosiddetta austerità[12].

 

Ma torniamo agli anni Settanta. Dalla crisi di redditività del capitale industriale e da un livello crescente di conflitto sociale prese avvio la svolta neoliberista, che avrebbe radicalmente trasformato la costituzione materiale dei paesi occidentali a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (in Italia ne furono avvisaglie prima la svolta dell’Eur, con la teorizzazione dei vincoli di compatibilità, l’idea della «responsabilità nazionale» del movimento operaio, e il primato della «governabilità»; poi la marcia dei quarantamila diretta dalla Fiat, che – con buona pace del sindacato – sancì la criminalizzazione del conflitto operaio, dipinto come nemico dell’interesse generale).

 

Che cos’è accaduto sul piano economico-sociale negli ultimi quarant’anni e in particolare dopo la fine della Guerra fredda, a valle dell’89-91? Il neoliberismo si fonda su tre pilastri: sul piano industriale, la delocalizzazione produttiva (che di fatto, grazie alla rivoluzione informatica e dei trasporti, ha unificato il mercato mondiale del lavoro e offerto al capitale la possibilità di giocare su enormi differenze salariali); sul piano finanziario, la deregolazione (che ha permesso l’impiego speculativo delle risorse in precedenza destinate all’economia produttiva) e la liberalizzazione dei movimenti di capitale (che ha unificato i mercati speculativi riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria degli Stati); sul piano politico-istituzionale, l’accentramento dei poteri negli esecutivi (sia in ambito nazionale che nel contesto continentale europeo), che ha permesso la direzione tecnocratica dei processi in simbiosi con le oligarchie economiche (avviando la crisi storica dello Stato pluriclasse e la tendenziale regressione a forme autoritarie di comando). Un quarto pilastro (del quale in genere non si parla, come se non inerisse al terreno economico) riguarda i rapporti internazionali, affidati a un classico mix tra libera concorrenza economico-finanziaria tra i maggiori gruppi transnazionali e ferreo controllo militare (anche attraverso la guerra) delle aree strategiche sul piano geopolitico da parte delle grandi potenze.

 

Il risultato complessivo dell’interazione di questi pilastri della «costituzione neoliberista» può essere riassunto (per ciò che attiene ai processi economici, sociali e politici) nella triade: finanziarizzazione dell’economia (principalmente per effetto dell’enorme squilibrio di rendimento dei capitali speculativi rispetto al capitale industriale); privatizzazione (non solo delle maggiori imprese e dei sistemi diwelfare ma anche delle istituzioni, della giurisdizione e della sovranità); precarizzazione strutturale del lavoro dipendente (salariato o eterodiretto), con la conseguente caduta dei redditi da lavoro e proletarizzazione dei ceti medi.

 

Nel giro di trent’anni (a partire dagli anni Ottanta) le condizioni consolidatesi nel trentennio precedente (i «Trenta gloriosi», che Eric Hobsbawm definì «età d’oro» del secolo breve e Paul Krugman designa come «epoca della grande compressione», alludendo alla marcata dinamica redistributiva che vide drasticamente ridursi il reddito dei settori più abbienti: negli Stati Uniti la quota della ricchezza nazionale posseduta dallo 0,1% più ricco della popolazione si dimezzò, passando da oltre il 20% al 10%[13]) sono state cancellate e ribaltate, come dimostrano i dati sulla distribuzione della ricchezza in tutti i paesi occidentali.

 

Ne bastino qui pochi inequivocabili. Nei quindici paesi Ocse più ricchi, nel trentennio liberista (1976-2006) la quota salari (l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil) è passata dal 68 al 58%. Negli Stati Uniti (dove i salari reali sono fermi dai primi anni Settanta a fronte di un aumento della produttività pari all’83%, e dove la disoccupazione effettiva coinvolge oltre il 15% della forza-lavoro) il reddito del 10% più ricco della popolazione ha raggiunto il 50% del reddito nazionale (tornando ai livelli precedenti la seconda guerra mondiale); in questi anni di crisi, sempre negli Stati Uniti, oltre il 90% dell’incremento della ricchezza va al 10% più ricco della popolazione (mentre il 60% più povero continua a impoverirsi). Stesse considerazioni valgono per l’Italia, dove i salari reali, da tempo tra i più bassi in Europa, ristagnano da una quindicina d’anni e la quota salari è crollata al 53% (il che, in valori assoluti, equivale a una perdita di circa 240 miliardi di euro nel giro di trent’anni)[14]. Si tratta di un colossale aumento delle disuguaglianze, che non compromette soltanto l’equità e la coesione sociale, ma (come ha mostrato da ultimo Joseph Stiglitz) impedisce anche la funzionalità del sistema economico e ne pregiudica la capacità di riprodursi. In questo senso l’epoca del neoliberismo ricalca quella del secolo liberista (1834-1929) ricostruito da Polanyi.

 

Democrazia diretta e investimento carismatico

 

Ma le analogie riguardano anche le conseguenze politiche delle trasformazioni economico-sociali, e qui veniamo direttamente all’odierna crisi della politica e della democrazia rappresentativa, che con ogni probabilità discende, almeno in parte, da processi analoghi a quelli che nel Novecento spinsero gran parte dell’Europa continentale nelle braccia del fascismo (ma in qualche misura la sindrome carismatica coinvolse anche gli Stati Uniti di Roosevelt).

 

Come sappiamo, un secolo fa la crisi capitalistica sfociò appunto nell’affermazione di regimi monocratici, dispotici o, come si è ritenuto di definirli, «totalitari». A prima vista si trattò quindi di una crisi delle istituzioni rappresentative del tutto diversa dall’attuale o addirittura opposta, in quanto oggi la critica «antipolitica» della rappresentanza si vuole ispirata dalla radicale sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche o – in una versione meno estremistica – dalla rivendicazione di forme di democrazia diretta. In realtà vi sono meno differenze di quanto non sembri, nel senso che tanto il rifiuto antipolitico delle istituzioni che oggi si esprime nella massiccia diserzione delle urne, quanto l’estremismo anarcosindacalistico e la deriva plebiscitaria alla base di quello che non per caso Emil Lederer chiamò «Stato delle masse»[15] possono ben essere ricondotti a una domanda iperdemocratica di partecipazione diretta al comando politico.

 

Per quanto paradossale possa apparire (in effetti è un paradosso, ma anche un dato di fatto), la delega totale al capo carismatico e l’esercizio della sovranità in regimi di democrazia diretta appaiono antitetici, ma sono in realtà gemelli siamesi. In apparenza la democrazia diretta consiste nella riappropriazione del potere sovrano da parte della collettività. Ma – quali che siano i riferimenti storici che si vogliono invocare – non solo non vi è alcun esempio di esercizio della sovranità da parte di un’intera popolazione (nemmeno nell’Atene del quarto secolo, paradigma di democrazia diretta: l’ekklésia era composta dai soli cittadini – maschi adulti liberi – e contribuiva all’autogoverno insieme a istituzioni rappresentative – prima tra tutte la boulé – incaricate di correggere gli eccessi dell’assemblearismo e forse anche di “liberare” la città da un eccesso di politica); non solo è noto che quanto più si svaluta la rappresentanza, tanto più il conflitto politico si riduce a negoziato diretto tra portatori di interessi costituiti (a detrimento dei ceti per i quali il numero costituisce la fondamentale risorsa politica)[16]; non solo la retorica antirappresentativa che, a partire dal Sessantotto, ha preteso di costituire l’espressione più radicale della critica è stata sussunta in pieno dal «nuovo spirito del capitalismo postfordista», che se ne è avvalso per presentarsi «come una rivolta libertaria contro lo Stato e contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo corporativo e del socialismo reale»[17]; ma è soprattutto evidente l’incoercibile scivolamento della pretesa partecipazione diretta alla sovranità verso l’affidamento al capo.

 

In altre parole, la critica radicale della rappresentanza non muove verso l’obiettivo, di per sé condivisibile, dell’integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa e deliberativa. Essa in realtà cela un cuore nero (schmittiano) nella misura in cui offre un argomento tra i più efficaci ai governanti desiderosi di «prendere in via definitiva il largo» dai governati[18]. Perché questi non se ne accorgono? Perché, in altri termini, l’affidamento al capo non è vissuto come espropriazione e quindi come antitesirispetto alla democrazia diretta? Per il fatto che, come notò Freud in tempi non sospetti (1921) sulla scia di Le Bon e McDougall, con il capo ci si identifica (sulla scorta di dinamiche narcisistiche), ragion per cui le sue decisioni vengono vissute (almeno dapprincipio, finché persiste l’infatuazione carismatica) come fossero le proprie, i suoi gesti vengono ammirati come fossero i propri, il suo potere accolto e subito nell’illusione di esercitarlo in proprio. Da quando Freud svolse queste classiche analisi è trascorso quasi un secolo, ma non si saprebbe certo sostenere che i pericoli che egli segnala siano venuti meno. Gli attuali sistemi di comunicazione sembrano piuttosto accrescerli, nella misura in cui tendono a spettacolarizzare ogni narrazione a scapito del vaglio critico. L’informazione di massa è così strutturata da aumentare l’impatto simbolico, favorendo la trasfigurazione dei personaggi posti sulla scena mediatica e alimentando la relazione narcisistica (l’identificazione inconsapevole tra le figure pubbliche e l’«ideale dell’Io» proprio degli spettatori). Dimodoché effettivamente informazione e accecamento ideologico sembrano di norma correre di pari passo.

 

Democrazia diretta ed euforia plebiscitaria mobilitano passioni, soddisfano pulsioni, forniscono gratificazioni che la relazione politica disciplinata nel quadro della democrazia rappresentativa non è in grado di offrire. La rappresentanza vive nella mediazione, cioè nella distanza e nell’alterità. Come sottolineava John Stuart Mill, consente (almeno in linea di principio) il controllo del potere[19] e favorisce la critica delle decisioni assunte da parlamento e governo, ma per ciò stesso mantiene bassa la temperatura nel sistema delle relazioni politiche. Il rappresentante non è il rappresentato, che non dimentica nemmeno per un momento questa alterità, in base alla quale avanza rivendicazioni ed elabora critiche.

 

Ma quando le prestazioni della politica appaiono troppo insoddisfacenti (o quando le strutture valoriali, simboliche e organizzative dell’identità collettiva – a cominciare dai partiti politici – diventano troppo fragili e indistinte per alimentare in forme virtuose la relazione di simpatia e comunicazione ideologica in cui il processo rappresentativo si sostanzia[20]), una reazione spontanea tende a travolgere non soltanto l’insieme dei rappresentanti, ma il sistema stesso della rappresentanza. La temperatura si alza. Il corpo sociale entra in fibrillazione, febbricita, rigetta la mediazione ed esige di entrare in gioco in prima persona. Senonché, la «ribellione delle grandi masse» può condurre a molti esiti (a cominciare dall’insorgenza rivoluzionaria) ma non certo al loro protagonismo immediato in un quadro istituzionale, impossibile anche tecnicamente (com’era chiaro allo stesso Rousseau) se non nella forma paradossale, e di norma passiva, dell’assenza (la diserzione massiccia dalle urne). La rivendicazione iperdemocratica – per dirla con Ortega – si risolve di norma nel loro euforico, dionisiaco identificarsi nel protagonismo del capo. Che le seduce promettendo grandi risultati e, non di rado, totale impunità, e le soggioga, persuadendole di incarnarne la soggettività. Naturalmente si tratta di una suggestione. Come l’affidamento al capo implica la delega totale, quindi non il protagonismo della massa ma la sua espropriazione, così l’irruzione del capo non costituisce l’apoteosi della democrazia ma la sua negazione radicale. La massa si illude di essere finalmente in sella, avendo cacciato gli usurpatori che pretendevano di rappresentarla. Si ritrova in realtà del tutto spossessata e costretta al ruolo di ancella adorante. Ma anche in questo caso il fatto che l’esperienza storica abbia comportato dolori e lutti non sembra preservarci dal rischio di repliche tragiche o grottesche.

 

Eclissi e responsabilità della sinistra

 

Qui veniamo a un ultimo snodo del ragionamento. Perché l’esperienza non basta, e perché dovrebbe bastare? Tutto o molto dipende dall’idea che ci si è fatta di come si costituisce e funziona la «ragione pubblica» o l’«intelletto generale».

 

Per chi non si accontenta di schemi spontaneistici e problematizza il processo di sviluppo della coscienza collettiva, la politica (intesa come azione di soggetti organizzati, variamente volta a partecipare all’esercizio della sovranità) ha, tra gli altri, il compito di diffondere consapevolezza e di produrre soggettività attraverso la costruzione partecipata del discorso analitico e critico. In fondo è questo uno dei compiti essenziali che la Costituzione repubblicana assegna ai partiti politici, ed è anche la ragione per cui Kelsen (come già Weber) ritiene che non possa esservi democrazia senza partiti. Di certo è il cuore della teoria gramsciana del moderno principe, organismo radicalmente democratico non solo perché vincolato al rispetto di clausole partecipative nella costruzione dei gruppi dirigenti e nella determinazione degli obiettivi del conflitto sociale e politico, ma anche (in primo luogo) perché finalizzato a quello che i Quaderni chiamano «progresso intellettuale di massa»[21] (quel progresso che Gramsci è convinto di avere contribuito a realizzare con particolare vigore nel corso dell’esperienza ordinovista).

 

Posta la questione in questi termini, si può sostenere con buone ragioni che i maggiori partiti politici abbiano effettivamente assolto il compito dell’alfabetizzazione civile e politica di massa nel corso del primo trentennio postbellico (non per caso, il periodo coincidente con l’età d’oro della democrazia europea). Per quanto riguarda l’Italia, ci si può riferire ai grandi partiti al plurale, attribuendo questo merito storico anche alla Democrazia cristiana in quanto partito popolare, ma è indubbio che esso vada ascritto in particolare al Partito comunista italiano, quale che sia il giudizio retrospettivo sulle scelte politiche di fondo da esso assunte al tempo della cosiddetta prima Repubblica.

 

Fu il Pci, per ragioni per dir così ontologiche, ad assumersi l’onere principale di “civilizzare” le classi subalterne, di fornire loro strumenti di lettura della realtà, di decifrazione critica, quindi di autocomprensione e di oggettivazione della propria esperienza e condizione. L’apparato del partito, di cui si sarebbe poi lamentata la pesantezza, obbediva in buona misura a questa esigenza, la quale informava di sé un articolato e radicato complesso di strutture e attività, dalla stampa d’informazione alle scuole di partito, dall’organizzazione dell’intellettualità organica nei diversi settori della formazione pubblica alla produzione di saperi, dalla promozione di iniziative culturali alla creazione di istituzioni, alla direzione della cosiddetta «battaglia delle idee».

 

Tutto questo implode a partire dall’89-91, dopo essere entrato gradualmente in crisi già nel corso degli anni Settanta. La crisi coinvolge, beninteso, tutti i partiti della cosiddetta prima Repubblica, che – com’è stato osservato ancora di recente da Gianni Ferrara – non soltanto si «degradano» in ragione del loro convertirsi «alla funzione servente della cosiddetta “governabilità”», ma, per ciò stesso, finiscono anche con l’abiurare i propri compiti costitutivi, primi fra tutti l’estrazione di «domande sociali coordinate in programmi credibili» e il loro collegamento a un «qualche progetto almeno dignitoso di società e di Stato»[22]. Ma la regressione investe con particolare violenza il Pci – non fosse che per la sua specifica vocazione a promuovere l’emancipazione anche culturale e politica delle classi subalterne.

 

In breve (mai come in questo caso vale l’osservazione che i tempi della costruzione sono lenti e quelli della distruzione fulminei) si è smantellato un potente complesso di casematte e si è sradicato il discorso che esso aveva contribuito a consolidare e a trasformare in senso comune. Quando si riflette sul ruolo del gruppo dirigente post-berlingueriano (ma forse molte responsabilità gravano sullo stesso Berlinguer, che quel gruppo dirigente aveva selezionato e promosso nel corso della prima lunga fase della sua segreteria), troppo raramente si considera questo elemento specifico: l’avere non soltanto assunto e interiorizzato le categorie dell’avversario (legittimando la trasformazione neoliberista come neutrale modernizzazione e per ciò stesso razionalizzando le sperequazioni come effetti collaterali e transitori dello sviluppo), ma l’avere quindi anche disarmato culturalmente (oltre che scomposto politicamente) un blocco storico di forze sociali, deprivate di criteri intellettuali e morali di orientamento e giudizio, sradicate da quadri di riferimento liquidati come ideologici. Ragion per cui non c’è ormai evidenza che tenga – pure a fronte di una crescente iniquità del modello sociale esistente – perché possa essere ingaggiata una coerente battaglia culturale e politica contro la primazia del capitale privato nel tentativo di contrastare efficacemente le tesi della destra, di per sé insostenibili.

 

È la grande questione della crisi della politicizzazione di massa, che invece di essere riconosciuta sì come un portato dei tempi e dei nuovi modelli di vita, ma anche come un problema (dunque come un compito che imponeva una ricerca di nuovi strumenti di direzione della politica emancipativa), è stata invece subita e avallata, spesso senza nemmeno accorgersi che dalla generale disgregazione sociale, politica e culturale derivava la passività delle masse e la loro subalternità all’egemonia «intellettuale e morale» del capitale e della destra[23].

 

È stato scritto di recente a questo riguardo che in tutta Europa la maggior parte delle sinistre ha rassegnato le «dimissioni dalla propria funzione critica»[24] e che «gli avvocati» che rappresentavano la parte più vulnerabile e meno protetta della società non solo «si sono mostrati incapaci di giocare d’anticipo» rispetto all’offensiva neoliberista, ma hanno altresì deciso di smantellare gli «impegnativi apparati di mobilitazione» (i grandi partiti socialisti e comunisti) al fine di rafforzare «la divisione del lavoro tra rappresentanti e rappresentati» e di riservare a sé (gli addetti ai lavori della mediazione tra interessi) «il monopolio della politica» (lasciando al popolo «la cura degli affari e dei piaceri privati»)[25]. Pensiamo, per fare solo un esempio, al New Labour di Blair e Brown, la cui azione di governo – recisi i legami col mondo del lavoro e le Trade Unions e confluita verso il cosiddetto «centro riformista» (un effetto classico del nuovo bipolarismo politico, che spinge alla ricerca del cosiddetto voto fluttuante post-ideologico) – si è dichiaratamente ispirata al modello thatcheriano. Rimodellando il laburismo in base ai cardini economico-sociali del «turbocapitalismo»[26] e aderendo senza scarti all’assetto politico-istituzionale «post-democratico», conseguenza e al tempo stesso causa dell’indebolimento delle forme tradizionali di espressione della sovranità popolare[27].

 

Ad ogni modo, vero o falso che sia questo severo resoconto, sta di fatto che oggi in Italia ci ritroviamo in un frangente della vita del paese non soltanto avvilente ma anche assai rischioso. Dinanzi a chi non opti per il diniego della realtà (come sembra fare talvolta un ceto politico ossessionato dagli imperativi dell’autoconservazione e forse anche per questo intenzionato a varare ambiziose riforme costituzionali, la cui portata urterebbe con una fragile legittimazione) si stende uno scenario allarmante, l’immagine di un paese allo sbando, che sa di non potersi fermare ma ignora la direzione da intraprendere. In termini di classe, il discorso pubblico è tuttora – ovviamente – monopolizzato dalle forze dominanti, nonostante i disastri provocati dal liberismo. E indiscutibilmente pesano, in questo scenario, anche le gravi responsabilità di un’informazione che pressoché unanimemente rappresenta la crisi sotto un’angolatura che ne impedisce qualsiasi lettura critica.

 

Anche a questo riguardo il caso italiano sembra paradigmatico. Se in tutto l’Occidente la crisi morde con particolare violenza nelle condizioni di vita e di lavoro dei settori sociali subalterni (il mondo del lavoro salariato o eterodiretto; il precariato; i pensionati; i giovani in cerca di prima occupazione e l’esercito di disoccupati e inoccupati); in Italia sussiste una specifica anomalia, che conferisce alla crisi un segno di classe spiccatamente regressivo. Siamo il paese con tre record davvero poco invidiabili: la maggiore pressione fiscale sui redditi da lavoro (pari ormai al 54%); il più alto tasso di evasione ed elusione fiscale (al quale fa riscontro un’economia sommersa capace di produrre – secondo stime recenti – oltre 270 miliardi di euro l’anno, pari al 17,4% del Pil); e – com’è abbondantemente risaputo – il debito pubblico proporzionalmente più elevato (circa il 130% del Pil) non solo dell’eurozona, ma di tutta l’Ue. Ma siamo anche, come si diceva, il paese con il debito privato più contenuto, il paese che ha privatizzato di più nel corso degli ultimi vent’anni e quello nel quale l’impresa privata, soprattutto media e piccola (che tuttavia rappresenta poco meno del 90% del tessuto produttivo nazionale), investe meno in ricerca e innovazione tecnologica.

 

Posti in un quadro unitario e letti alla luce delle politiche di «risanamento e rigore» adottate dai governi susseguitisi alla guida del paese nell’ultimo quinquennio, questi dati rivelerebbero la coerenza e l’efficienza della dinamica critica, il suo operare come un possente dispositivo di redistribuzione della ricchezza verso l’alto. La crisi della finanza pubblica consegue in larga parte alla gigantesca sottrazione di risorse private dovute alla fiscalità generale; nella misura in cui ad essa si fa fronte colpendo sempre più pesantemente i redditi da lavoro (per un verso tramite riduzioni della spesa pubblica e della base occupata, per l’altro con l’aumento della pressione fiscale) e premiando la rendita (attraverso la vendita a interesse del debito pubblico), il meccanismo della crisi non solo non viene minimamente contrastato (con ciò compremettendo le prospettive di sviluppo del paese), ma viene anzi alimentato quale fattore di ristrutturazione oligopolistica dell’economia nazionale (e, a cascata, di regressione oligarchica dell’assetto dei poteri di controllo sociale e di governo politico).

 

Mai, tuttavia, l’informazione di massa offre un quadro organico di tale stato di cose, che ne rappresenti la portata sistemica, e consenta di coglierne l’efficiente coerenza nel segno della tradizionale indifferenza di buona parte della borghesia italiana (si pensi, ancora una volta, alle severe diagnosi gramsciane) rispetto agli interessi generali del paese. E se anche, per un verso, la presa egemonica delle narrazioni correnti viene gradualmente meno (il segno antisociale del modello post-reaganiano è ogni giorno più evidente agli occhi di chi non ha lavoro, versa in povertà e non vede vie d’uscita dall’emarginazione); se anche in settori sociali sempre più vasti si diffonde un’ostile diffidenza nei confronti dei mezzi d’informazione e della stessa politica, considerata come un’arma puntata sul più debole – non per questo sorge e si rafforza una coscienza critica di massa. Per il fatto stesso di avere abdicato alla direzione politica di un processo critico dopo averne smantellato i fondamenti ideologici, non si è ora in condizione di impedire che il disagio si riversi nel risentimento o nella depressione, che il malessere, sapientemente stimolato (colgono nel segno le analisi che riconducono l’exploit di Grillo alla martellante campagna anti-casta del «Corriere della sera») confluisca nella protesta qualunquistica e plebea. Peggio: non si è nemmeno in grado di decifrare le ragioni obiettive della protesta e di ricondurle al quadro storico di lungo che, solo, permetterebbe di comprenderle e forse di prevederne e contrastarne gli effetti.

Se le cose stanno così, è allora impossibile concludere queste nostre considerazioni con una nota di ottimismo, della quale, pure, avvertiamo il bisogno. E questo, si badi, non già perché ci si trovi di fronte a un capitalismo trionfante, che impone al lavoro la dura legge dei rapporti di forza in termini di sfruttamento, di riduzione dei salari e di intensificazione della pressione coercitiva. Ma, paradossalmente, proprio per il contrario: perché siamo nel mezzo di una crisi sistemica gravissima (Gramsci direbbe «organica») che genera contraddizioni estreme (da un lato gigantesche masse di capitale prive di sbocchi, dall’altra masse immense di lavoratori senza occupazione né reddito, pur a fronte di enormi e crescenti bisogni sociali insoddisfatti); e perché nuovamente, come un secolo fa, l’istanza nichilistica del dominio preclude ogni via d’uscita verso soluzioni razionali, che implicherebbero trasformazioni radicali del sistema. È vero che la storia non si ripete mai uguale a se stessa, ma è altresì ragionevole ritenere che, in costanza di contesti strutturali, i processi presentino analogie e rischino di replicare dinamiche essenziali.

“In Alitalia il film è sempre lo stesso. Pagano i lavoratori”. Parla Usb | Autore: fabio sebastiani da: controlacrisi.org

 

Francesco Staccioli è un sindacalista dell’Usb. E’ membro dell’esecutivo del Lavoro Privato, ma è anche un dipendente Alitalia e come tesserato Usb, esattamente come gli altri, l’azienda ha pensato bene di metterlo in cassa integrazione. «Ci hanno fatto fuori dalla Rappresentanza peggio della Fiom – dice – ma adesso la sentenza della Consulta ci dà più forza e siamo pronti a dare battaglia anche perché le adesioni al nostro sindacato non sono mai venute meno».Air France è pronta a mangiarsi in un sol boccone Alitalia. Quanti tagli temete che ci siano?
Non si può fare una valutazione. Certo, se tanto mi dà tanto, in questi anni dall’ultima ristrutturazione l’azienda ha continuato sulla stessa linea. E poi da calcoli fatti il settore ha in pancia diverse migliaia di esuberi, tra volo e servizi a terra.

Cioè, vuoi dire che la famosa cura dei capitani coraggiosi non è servita a nulla?
A parte che molti di loro stanno in carcere. E’ chiaro che stiamo andando con il cappello in mano a chiedere al padrone di concederci ancora un po’ di vita. Non capisco quelli che parlano di nazionalità e cose del genere. In questi anni abbiamo perso le rotte internazionali e degli aerei, i lavoratori oltre agli esuberi ci hanno rimesso il 10% dello stipendio e una bella ristrutturazione contrattuale.

E di cosa si dovrebbe parlare?
Si dovrebbe parlare di un piano industriale. Se Air France viene con soldi e idee per gli investimenti bene, altrimenti bisogna capire cosa vuol fare il governo. Ovvero, se ritiene o no questo settore come strategico.

Non sembra che girino soldi e idee…
L’orizzonte è davvero cupo e oggi c’è una situazione diversa da quella di qualche anno fa quando lo sconvolgimento sociale degli esuberi si affrontò con la cassa integrazione. Con questi numeri sugli esuberi e una situazione non certo florida degli ammortizzatori sociali potrebbe succedere di tutto.

Sul piano delle relazioni sindacali cosa accadrà?
Cgil, Cisl e Uil hanno il monopolio della situazione, che in questi anni si è tradotto in un “non disturbate il manovratore”. Come ora si vede, invece, qualcosa da dire c’era.

Telecom, per i Cobas la troppa complicità del sindacato ha portato al disastro Autore: fabrizio salvatori da: controlacrisi.org

 

“Tutti responsabili”. Così i Cobas sulla vicenda Telecom. Il sindacato di base, che propone la “ripubblicizzazione” dell’azienda punta il dito contro la classe politica “che varò le privatizzazioni del gruppo, favorendo le operazioni pericolose di Colaninno e la voracità di Tronchetti Provera, nonostante fossero privi di uno straccio di progetto in un settore strategico”, e i Sindacati Confederali “che ci hanno regalato, con una complicità sconcertante, una serie infinita di accordi peggiorativi di tutti gli aspetti della vita lavorativa, dagli ammortizzatori sociali allo spezzatino aziendale”.

Il segno della complicità di “un sindacato ridotto ormai ad uno stuolo di passacarte” è arrivato con gli accordi del marzo scorso, che già contenevano,sempre secondo i Cobas, la societarizzazione e quindi il passaggio di mano ad un socio straniero. Ai lavoratori “rimane solo l’amarezza degli ammortizzatori sociali, ossia soldi pubblici estorti per finanziare i dividendi degli azionisti. Grazie a quell’accordo i nuovi padroni spagnoli hanno già la strada spianata verso una facile espulsione delle migliaia di colleghi inscatolati dentro Caring Services, mentre le banche incasseranno un surplus sul valore reale delle azioni come ringraziamento per il servizio reso”.

Secondo i Cobas la soluzione prospettata sulla scorporo della rete imposta dall’Authority è la classica soluzione all’italiana che “non salverà la stragrande maggioranza dei dipendenti dal pericolo della perdita del posto di lavoro”. E’ per questo che invitano tutti i lavoratori a partecipare allo sciopero generale del 18 ottobre.

Svendita Italia a loro insaputa | Autore: Giorgio Cremaschi da: controlacrisi.org

 

Ora governanti e manager dicono che non lo sapevano, preferiscono fare la figura dei cretini piuttosto che quella dei complici.
Ma la svendita di Telecom è solo un altro atto di un percorso annunciato e realizzato da decenni, da parte di una classe politica e imprenditoriale che ha cercato di salvare se stessa e i suoi fallimenti con la vendita all’incanto dei beni del paese. E cha ha usato il liberismo, l’Euro e il fiscal compact, La Merkel come scusa e protezione del proprio potere. Ora dopo la svendita di Telecom alla principale concorrente, la Telefonica spagnola, assisteremo a qualche giorno di lacrime di coccodrillo e di compunte dissertazioni sulle politiche industriali e le riforme. Poi tutto continuerà come prima perché tutta l’Italia è in svendita.
La Grecia dopo qualche anno di politiche di austerità europea ha conservato di suo il debito pubblico e la polizia che bastona chi protesta. Tutto il resto è venduto, appaltato, posto sotto controllo estero. Noi, più lentamente ma altrettanto inesorabilmente, stiamo percorrendo la stessa strada. Perché abbiamo la stessa classe dirigente.
Il governo, se durerà, ha pronto un piano di privatizzazioni che non può che riguardare ciò che resta del patrimonio produttivo. Ansaldo Energia è già in vendita, seguiranno Enel, ENI, Finmeccanica, Fincantieri e Trenitalia, che opportunamente è già stata separata dalla rete delle ferrovie locali e pendolari in disarmo, per le quali non si spende nulla. E per chi non è d’accordo ci sono le truppe di Alfano e i teoremi di Caselli.
Alitalia è già francese nonostante il paravento berlusconiano degli imprenditori patriottici, tra cui Riva, sì proprio lui, e Colaninno grande affondatore della Telecom, che aveva scalato con la benedizione di Massimo D’Alema. Le banche privatizzate sono state oggetto e soggetto sia delle svendite sia dei disastri industriali, dalla Fiat alla Pirelli a tutto il Made in Italy. Ed è bene ricordare che tutta la politica delle privatizzazioni dissennate degli anni 90 ha come autori principali Ciampi e Prodi, che Putin ha definito l’altro suo amico italiano assieme a Berlusconi.
Anche nel disastro industriale del paese trionfano le larghe intese e non da oggi. La vera differenza tra PDl e PD è che il primo è il partito di un solo padrone, mentre il secondo vuole rappresentarli tutti. E tutti assieme controllano la formazione del senso comune , in modo che anche i cittadini vivano, senza colpa, a loro insaputa.
Sono due mesi che la casta politica,manageriale e finanziaria ci spiega che c’è la luce in fondo al tunnel. È una balla, ma come si fa a non crederci visto che il Presidente della Repubblica invoca e impone stabilità proprio sulla base di essa.
Intanto i dati sul reddito di una delle province più ricche d’Italia, Brescia, parlano di tutta un’altra storia.
Nel 2011, quando il peggio della crisi doveva ancora venire, il reddito medio della provincia lombarda è calato dell’11% rispetto all’anno precedente, meno 2500 euro su poco più di 20000. E sappiamo che questa è una media del pollo perché nella crisi i più ricchi si arricchiscono. Eppure secondo l’Istat la gente vede rosa e questo ottimismo può essere speso in Borsa e soprattutto per salvare il governo delle larghe intese. Ottimismo diceva Tonino Guerra in una pubblicità, chi non è ottimista è un disfattista.
Andrà avanti, anzi indietro, così fino a che ci sarà una rottura con le politiche economiche italiane ed europee di questi ultimi trenta anni. E fino a che la classe politica e imprenditoriale responsabile, anche a sua insaputa, di esse non verrà mandata a casa.
Uno ai domiciliari, a casa gli altri responsabili del disastro, a partire dal loro massimo rappresentante Giorgio Napolitano.

Il capitalismo non ha nazione Fonte: Il Manifesto | Autore: Marco Bascetta

 

Mercoledì scorso, all’indomani dell’affondo spagnolo sulla proprietà di Telecom, L’Unità e Il Tempo uscivano con un titolo di prima pagina praticamente identico nel suo significato: Fermiamo la svendita dell’Italia. Stampa e telegiornali elencavano sconsolati le numerose aziende italiane passate «in mani straniere», i «gioielli del made in Italy» che avevano cambiato nazionalità. Su queste stesse pagine, in un articolo peraltro apprezzabile, Enrico Grazzini, affermava in conclusione: «Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia».

Tutto ciò è preoccupante e sono, come sempre accade, il linguaggio e la rappresentazione a segnalare il pericolo. Che non è affatto riconducibile alla conduzione scriteriata di singole vicende, sia pure rilevanti, come quella di Telecom o di Alitalia. Già nel definire «straniere», mani europee, si indirizza l’opinione pubblica verso una concezione competitiva della presenza dei singoli stati nell’Unione. Se poi ci si mette di mezzo anche il «patriottismo» i termini della questione si fanno ancora più sinistri. In tutta la discussione sul mercato delle aziende e sulla politica industriale la dimensione europea semplicemente scompare. Si torna a parlare di famiglie e di «gioielli di famiglia». Ma, tanto per restare nel campo dei gioielli in senso stretto, dubito che anche un solo disoccupato o precario italiano si sia disperato per il passaggio di Bulgari «in mani straniere». Così come non credo che i capitali esteri penetrati nelle griffe del bel paese, soffocheranno la «creatività» del made in Italy, se ancora ve ne è una, e ridurranno una occupazione ormai ampiamente delocalizzata. O che la proprietà transalpina di Parmalat debba farci rimpiangere Calisto Tanzi.

C’è qualcosa di paradossale, anzi di incomprensibile, nel rivendicare l’italianità delle imprese italiane dopo avere elencato con dovizia di particolari l’insipenza, o la corruzione, della classe politica, allegramente privatizzatrice, che ci ha governato e ci governa. Dopo aver illustrato la grettezza, l’inefficienza, la vista corta di buona parte del nostro mondo imprenditoriale. Fino a reclamare una Norimberga (La Repubblica) per i crimini commessi in Italia «contro il capitalismo». Che dio li perdoni per questo paragone. Sarebbe dunque questa l’italianità da preservare? La patria economica da difendere fino alla morte, magari accettando tassi di sfruttamento più «competitivi»? O qualcuno intravede un improvviso e imprevisto momento di redenzione? Che i capitali circolino liberamente e i mercati si attengano solo alle proprie regole non è certo una novità. Il problema è che altro non circola, resta racchiuso nella presuntuosa impotenza delle «patrie».

C’è poi una singolare leggenda presente soprattutto nella mitologia sindacale. Quella secondo cui i padroni nazionali sarebbero più teneri con i loro dipendenti, forse preoccupati da una ostilità sociale più prossima, meno cinici dello «straniero» che si avvale della distanza. È una visione paternalistica, arcaica e stucchevole, smentita innumerevoli volte. Nessun patriottismo imprenditoriale (fatta salva l’eticità difesa fino alla disperazione da qualche piccola o media impresa) è mai valso a contrastare chiusure, delocalizzazioni, esuberi, riduzione dell’occupazione e dei salari. C’è infine chi crede che i padroni nostrani sarebbero più ricattabili, o condizionabili, da un governo del paese seriamente impegnato nella politica industriale. L’esperienza ci dice il contrario. A maggior ragione in una situazione di crisi in cui scarseggiano tanto i bastoni quanto le carote. Ci dicono i sindacati italiani: Telefonica, la compagnia spagnola che sta assumendo il controllo di Telecom, ha scaricato diversi settori produttivi, creando esuberi e disoccupazione. Lo stesso potrebbe fare anche qui da noi. Ma dove stavano il sindacato italiano e gli altri sindacati europei quando questo accadeva? Nelle rispettive patrie, naturalmente, a strepitare contro l’Europa invece di organizzare lotte sovranazionali che la trasformino, contrastando le politiche liberiste. Al di sotto della dimensione europea, rinchiusi nel cortile nazionale, si perde sempre e comunque. Facile a dirsi, ne convengo. Ma se non si coltiva almeno un simile immaginario contro ogni forma di patriottismo (economico, politico o culturale), di retorica dell’italianità e del «sistema-paese» l’Europa e tutto ciò che essa contiene resterà saldamente non in «mani straniere», ma in quelle di una élite speculativa senza remore e senza argini.

Un piccolo esempio di «internazionalismo» possibile, e uso di proposito questo termine desueto: le politiche restrittive imposte dalla troika alla Grecia stanno conducendo alla chiusura dei maggiori atenei di quel paese. Non sarebbe un segnale chiaro e determinato se tutte le università d’Europa chiudessero, almeno per un giorno, in segno di lutto per qualcosa che accade altrove, ma incombe sul futuro di tutti? Si avvicina il centenario del 1914. Cerchiamo di celebrarlo con saggezza.

No Tav, perquisita la casa di Alberto Perino, uno dei leader del movimento Fonte: osservatorio sulla repressione | Autore: fabrizio salvatori

 

Gli agenti della Digos di Torino hanno perquisito questa mattina a Condove, in Val Susa, la casa di Alberto Perino, volto storico del movimento No Tav, accusato da Caselli e la magistratura inquirente torinese di instigazione a delinquere. A darne notizia è “L’Osservatorio sulla repressione”

Non è la prima volta che l’abitazione di Alberto Perino viene “setacciata” dalla polizia. L’ipotesi di reato, in questo caso, è istigazione a delinquere per alcune notizie che Alberto ha pubblicato sul web, notizie relative allo spostamento dei macchinari delle aziende che lavorano sulla Tav e invitando a presidiare l’autostrada A23 per bloccarli. La perquisizione è stato eseguita dalla Digos su mandato dei pm torinese Andrea Padalino e Antonio Rinaudo.

“Continua dunque l’opera sistematica di intimidazione da parte della magistratura e della politica – si legge sul sito di O.s.R. contro gli attivisti del movimento No Tav e le personalità che si sono schierate a loro fianco. Mentre ci sono ancora decine di attivisti sotto processo e diversi ancora in carcere, è’ notizia di ieri l’indagine aperta contro Gianni Vattimo e la voce su una denuncia contro lo scrittore Erri De Luca. Ad Alberto Perino va tutta la nostra solidarietà”.

Ezio Locatelli, segretario provinciale Prc, esprime solidarietà a Perino e ritorna sul tema repressione in Val di Susa: ”Assurda è l’ipotesi di istigazione a delinquere formulata nei confronti di Alberto Perino a cui è stata anche perquisita l’abitazione in data odierna. Ormai è un continuo stillicidio di intimidazioni, denunce, provocazioni rivolte contro il movimento No Tav e i suoi esponenti più rappresentativi. Invece che il confronto aperto, democratico si continua a perseguire la strada della repressione. Questa è ottusità allo stato puro che non produrrà alcuna normalizzazione sociale di una comunità che giustamente protesta contro la distruzione del proprio territorio. A Perino va la solidarietà mia e di Rifondazione Comunista. Detto ciò va data una risposta corale, sul piano della mobilitazione democratica al clima di caccia alle streghe che si è scatenato contro tutti gli oppositori del Tav in Val di Susa. In tal senso rinnoviamo il nostro impegno politico e di presenza”.

L’autonomia perduta della sinistra. Recensione dell’ultimo libro di Mario Tronti | Fonte: il manifesto | Autore: MARCO BASCETTA

 

«Nell’ultimo libro di Mario Tronti, Per la critica del presente il lessico politico del Novecento è messo alla prova per definire una sinistra non subalterna. Da qui la critica dell’autore ai movimenti sociali, ritenuti “un’istanza simbolica”. Ma così facendo l’obiettivo di una “potenza politica organizzata” rimane una visione».

Voci e visioni.È da questa partizione che converrà partire per intendere lo spirito che anima il breve scritto (breve solo quanto al numero di pagine che lo compongono, non certo ai temi che tocca) che Mario Tronti dedica alla critica del presente (Ediesse, pp. 152, euro 12). Voci, dunque. Non quelle di un dizionario, di un glossario, di un lessico aggiornato della politica. Che dizionari e lessici definiscono, non problematizzano le definizioni. Qui è invece la dimensione della ricerca a prevalere. Non a partire da un vuoto, o dalla pretesa di assoluto del «nuovo», che ha smesso di avanzare e si è prepotentemente accomodato. Ma muovendo dal lato ignoto, irrisolto, divenuto tale o forse mai del tutto compreso, delle «voci» che hanno segnato la storia e la politica del Novecento: Autonomia, Popolo, Stato, Partito, Lavoro, Crisi. È una tonalità, una Stimmung, quasi nietzschiana a pervadere questo scritto, a conferirgli la forza evocativa e, al tempo stesso, frammentariamente perentoria dell’aforisma. La consapevolezza, più lucidamente severa che rabbiosa, di una sorta di indebolimento patologico dell’epoca in cui viviamo, di una soddisfatta apatia su cui prospera il potere di pochi. Deriva, decadimento. E la necessità di tornare a «filosofare con il martello», senza timore di schiacciarsi le dita. Rompendo il senso comune, l’idea, vuoi compiaciuta, vuoi rassegnata, che non si diano alternative allo stato di cose presente, se non nei termini di modesti aggiustamenti o di un evoluzionismo beatamente e sconsideratamente ottimista. Un pensiero, insomma, che orienti il cambiamento senza subire l’egemonia di ciò che è dato, che compenetri l’agire collettivo conferendogli potenza creativa, solidità e durata.
Autonomia, dunque, è la voce decisiva, quella con cui tutte le altre debbono misurarsi. L’elemento fondativo che non si limita a regolare, ma abbatte e istituisce, distrugge e crea. Non c’è rottura dell’esistente senza scontro con il nomos che lo fonda. Ma «Autonomia» non unisce, divide. Non è semplicemente il punto di vista incondizionato di una parte, ma anche i punti di vista che la attraversano e la lacerano. Che si fronteggiano e si scontrano. È la politica stessa, non una sua prerogativa esclusiva. Non basta rivendicare l’autonomia della politica dai poteri economici che la hanno asservita o sostituita. Autonomia è anche dalla tradizione, dall’influenza di paradigmi logorati, dall’uso paralizzante della storia, da quel concetto di esperienza, oggi in gran voga, che ci sconsiglia dal tentare qualsiasi esperienza ulteriore. Individui e collettività, movimenti e partiti, classi e corporazioni, governanti e governati, stati e istituzioni sovranazionali si fronteggiano in nome della propria «autonomia», aspirano cioè a darsi la propria legge, all’esercizio in proprio della Politica. Dove sta, allora, il confine tra le pretese degli interessi particolari e la politica come autonomia? Sta appunto in quella determinazione a istituire altro, a costruire un diverso paradigma, a gettare le fondamenta di un nuovo assetto che il tempo presente ha escluso perfino dal campo del nominabile.

Gli incerti confini

Ma quale è la mano in grado di impugnare il martello? Una classe dirigente, una élite (una avanguardia?) – risponde Tronti – capace di trasformare il popolo impolitico del populismo nel popolo politico dei lavoratori e orientarne l’azione. I lavoratori dunque. Chi sono costoro? Un arcipelago dagli incerti confini, la piena occupazione tanto integralmente realizzata da includere financo il suo contrario, coscienza e inconsapevolezza, indipendenza e subalternità, competizione e coopeazione, rabbia e ottundimento. È il capitale, in primo luogo quello finanziario che scorre nelle vene dell’intero pianeta, a governare questo puzzle di contrasti, a impugnare saldamente il martello, e non per fare della filosofia. A imporre la prevalenza del «dentro» sul «contro», della rendita sui bisogni e le aspirazioni della collettività umana. Fuori da ogni contratto sociale e dunque da ogni mediazione. Il raggio di azione della mediazione politica si limita oggi a quanto dentro il patto sociale è rimasto, sia pure l’esagerazione simbolica del 99 per cento. È invece indifesa e inefficace nei confronti dei poteri che ne sono usciti verso l’alto, godendo della più piena autonomia. Ma fuori dal contratto sociale vi è solo un crudo rapporto di forze. Non si può mettere allora a tema la politica senza mettere a tema la violenza. Chiedersi di che cosa si tratti, quale sia la forza e il modo di esercitarla che vinca senza annientare chi la mette in campo e le sue ragioni. È una «voce» che manca, anche se tutte le altre (stato, partito, crisi), ne sono attraversate, nei loro geni e nella loro storia. E gran parte dell’umanità la subisce in forme quotidiane ed estreme. Voce roca o addirittura impronunciabile, che Luisa Muraro ha preso in esame non molto tempo fa con un coraggio inconsueto per i tempi che corrono.
I lavoratori e l’élite dunque. Ma come si configura questo rapporto a partire da una condizione disomogenea, stratificata, perfino contraddittoria? Forse il motore delle lotte e la soggettività che le organizza non possono più essere pensati come un gruppo dirigente (che si rivela, più che altro, rissosa estensione della politica personalizzata). Piuttosto come un luogo di elaborazione, un blocco teorico e un tavolo operativo al quale si sovrappongono e si susseguono diversi commensali, portandovi sapere diffuso e molteplice esperienza, all’altezza del tempo presente e a confronto con la vita reale. Autonomia che non germoglia dalla separatezza, dalla professione intesa come corporazione, ma dall’aver appreso a orientarsi tra i paradossi della contemporaneità.

Il cattivo nuovo

Si dice che le rivoluzioni divorino i propri figli, e anche i loro padri. Lo si è visto, sempre. Che se così non fosse non si tratterebbe di rivoluzioni. Tra Rivoluzione e Partito non c’è rapporto lineare, c’è attrito, c’è contraddizione. La fondazione travolge i fondatori, e forse sarà proprio per questo che nessuno intende fondare più nulla. Ma Rivoluzione di tutte le «voci» è la più impronunciabile, in un tempo in cui non vi è tecnologo, pubblicitario o mattatore che non annunci quotidianamente la sua «rivoluzione». Rassegniamoci, non è una faccenda all’ordine del giorno, se non in questa inflazione retorica del termine.
Partito non gode di miglior fama. «Casta» o forse, più precisamente, milizia mercenaria, quella di cui Machiavelli ci invitava a diffidare, pronta a tradire per maggior guadagno e incline a fingere di menar le mani senza farsi troppo male. Ma non è vero che i partiti non rappresentino – scrive Tronti – rappresentano fin troppo, riproducono l’esistente, rispecchiano, non hanno nulla da dire o da proporre, inseguono i vizi e i capricci della cosiddetta società civile. Vero. Eppure c’è un rispecchiamento «contro». Quello che rovesciava l’organizzazione di fabbrica nel partito operaio, l’esercito industriale in esercito rivoluzionario. E oggi? Quali caratteristiche, quali forme dei poteri che ci dominano possono essergli rovesciate contro? Questo è il problema del partito oltre il partito, della «macchina da guerra», quella vera, non quella «gioiosa» della guerra dei bottoni. Il problema di maneggiare la realtà, compreso il «cattivo nuovo» che la pervade. Qualcuno, guardando al capitale finanziario, indica la parte dei debitori, la loro organizzazione contro la rendita (Maurizio Lazzarato), il sacrosanto rifiuto di pagare i costi della crisi, di piegarsi alla potenza del denaro che produce denaro. È un terreno interessante, temuto dai padroni della finanza, ma accidentato, infestato di compromissioni, minacciato da derive nazionaliste.
Oggetto della visione è invece la sinistra. Ci vorrebbe Bernadette per carpirne i segreti. Ha perduto molto. Cultura, radicamento, qualità antropologiche, concezione del mondo. Le ha tentate tutte: strategie mimetiche, «alleggerimenti», lo smart e il cool. Ha preso commiato dal vecchio linguaggio, ma non ne ha creato uno nuovo oltre l’imitazione impacciata di quello del mercato. Si è arenata sulla secca della «responsabilità». Ecco: essere di sinistra è essere responsabili! Verso chi e che cosa? Verso i patti a cui il capitale ci vincola senza esserne vincolato? Verso la Nazione e l’idea di popolo che ne discende? Verso il sistema delle leggi esistenti? Verso le regole della competitività? Poco importa, la «responsabilità» è diventata una qualità senza referenti, una sacralizzazione del limite che lo sottrae alla contingenza e lo proietta verso l’eternità. È la mancanza di alternative come dogma e come identità. Ma sinistra non è solo questo. C’è una storia e un retaggio concettuale che la collocano dalla parte degli oppressi, che oppongono il basso all’alto, un pensiero che svela gli equilibri oligarchici del potere e ricerca gli strumenti per scardinarli. C’è o c’era? Sinistra può ancora significare questa scelta di campo?

L’impasse della ambivalenza

I movimenti dal basso – scrive Tronti – sono la domanda, non la risposta. Idea non realizzata, ma da realizzare, una «istanza simbolica». Non credo sia produttivo porre la questione in questi termini. Né l’una, né l’altra cosa. Nella domanda stessa c’è buona parte della risposta, nell’idea i criteri della sua realizzazione, nelle forme dell’agire un principio di organizzazione, non testimonianza simbolica, ma imposizione di stati di fatto, pratica dell’obiettivo, come si diceva una volta. Certo, i movimenti possono perdere e, da un bel pezzo, continuano a perdere. Ma non è così anche per le forze organizzate della sinistra? Da dovunque partiamo siamo nella stessa impasse. Ma se non altro i movimenti quando perdono la partita lo capiscono ed è solo questa comprensione che permette di ricominciare, di radunare le fila e andare avanti. Se vi è un luogo dove l’autonomia, del pensiero e della pratica, ha ancora cittadinanza, è lo spazio dei movimenti. L’unico nel quale la politica si sforzi di sciogliere le ambivalenze del presente. Non ci riesce? Non basta? Certo che non basta. Ma se continuiamo ad attenerci allo schema delle masse che chiedono, delle élites che ascoltano, raccolgono e traducono in programma, già per il fatto che tutto questo non è accaduto, non accade né promette di accadere, i contorni di una «potenza politica organizzata» resteranno una visione, per la quale, appunto, servirebbe la mediazione di Bernadette.

Il manifesto, 26 settembre 2013