“e nel Cuor… l’Italia” Concerto del maestro Leonardo Locatelli con la partecipazione di Federica Tangari. Saranno letti brani sulla Resistenza partigiana e sull’antifascismo 12 AGOSTO 2013 CORTILE PLATAMONE ORE 21 Via Vittorio Emanuele angolo Via Landolina

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La Storia del partigiano Duccio Galimberti

“Firmiamo o sarà la vittoria di B.” di Antonio Ingroia da: il fatto quotidiano

ingroia-c-giorgio-barbagallo-2013-3di Antonio Ingroia – 26 luglio 2013
L’estate, si sa, è sempre galeotta. Tutti assopiti sotto l’ombrellone, compresa la grande informazione sempre più soporifera, è la stagione preferita dai malintenzionati per operare indisturbati. Così ha sempre fatto la mafia per colpire quando la tensione cala. E sta succedendo anche quest’estate. Ma non è dalla mafia che dobbiamo guardarci stavolta, pur tenendo alta la guardia di fronte ai rischi crescenti per i pm di Palermo, e Di Matteo in particolare. Questa volta l’attentato si sta consumando in Parlamento e la vittima predestinata è ciò che di più bello e importante ci resta, l’ultima ancora di salvataggio della nostra democrazia: la Costituzione. E la data in cui si compie l’assalto definitivo alla diligenza è già stabilita: il 29 luglio. Giorno in cui approda alla Camera per la sua definitiva approvazione la modifica dell’art. 138. Un articolo apparentemente anonimo, che è invece l’architrave dell’impianto costituzionale, che fa della nostra Carta una costituzione rigida, forte, una vera cassaforte. E l’art. 138 è il chiavistello della cassaforte, saltato il quale la Costituzione diventa debole, esposta a scorribande e atti di pirateria. E Dio sa quanti pirati sono approdati in Parlamento grazie a una legge elettorale anch’essa incostituzionale… L’art. 138 prevede una serie di meccanismi che irrigidiscono la procedura di revisione della Costituzione per obbligare al più ampio dibattito, parlamentare e nel Paese, prima di ogni modifica. E perciò prevede la doppia lettura, e cioè che lo stesso testo di modifica debba essere approvato per ben due volte da ciascun ramo del Parlamento, e a distanza di almeno tre mesi fra la prima e la seconda votazione, e con in più l’obbligo di un referendum confermativo, tranne il caso in cui la maggioranza parlamentare sia qualificata dal voto favorevole dei 2/3 dei componenti le Camere.

LA MODIFICA del 138, dimezzando fra l’altro i tempi fra le due votazioni (45 giorni anziché tre mesi) e istituendo un comitato parlamentare che porrà mano alla riforma delle strutture portanti della nostra organizzazione costituzionale scardinerebbe la cassaforte costituzionale. E il 29 luglio si aprirà dunque una breccia che, dopo l’approvazione definitiva in seconda votazione entro fine ottobre, e senza referendum confermativo in vista di una maggioranza “bulgara” di ben oltre i 2/3 dei parlamentari, consentirà una slavina di modifiche che cambierà il volto della nostra Costituzione e della nostra Repubblica. Una Repubblica non più parlamentare, ma presidenziale. Una svolta autoritaria che determinerà la neutralizzazione di ogni potere di controllo (magistratura e Parlamento, in primis) in favore della teoria di “un uomo solo al comando”. Così finendo per attuare il progetto principe di Berlusconi che, a sua volta, ha cercato di portare a termine un vecchio pallino di Licio Gelli (il cui progetto tutti concordano nel definire eversivo e golpista). Ma quel che è più inaccettabile è che tutto ciò debba avvenire a totale insaputa degli italiani. Ecco perché alcuni cittadini, giuristi, costituzionalisti e rappresentanti di associazioni hanno deciso di prendere l’iniziativa: rivolgersi ai parlamentari democratici perché consentano ai cittadini di partecipare al processo decisionale, esprimendo le loro opzioni in un referendum confermativo. E perciò chiediamo ai parlamentari di far mancare la maggioranza dei 2/3, la sola che renderebbe superfluo il referendum. Ma per far ascoltare questo appello non basta la voce dei pochi che si sono resi conto dell’emergenza costituzionale in cui siamo, ignara la stragrande maggioranza degli italiani. Occorre che si sollevi una voce alta, forte, popolare. Per questo si stanno costituendo in tutta Italia i comitati “Viva la Costituzione”, che in coordinamento con le altre associazioni, movimenti e comitati sorti in questi anni a difesa della Carta, da domani inizieranno a raccogliere le firme dei cittadini che vorranno aderire all’appello. Un appello per la democrazia. Un appello per la partecipazione dei cittadini al dibattito sulla decisione se e come cambiare la Costituzione. Un appello per rivendicare il diritto alla cittadinanza attiva. Per ribellarci alla solita politica sorda e distante che ci vuole condannare alla sudditanza obbediente e silenziosa.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

…e io ero Sandokan ! Canzone sulla Resistenza

Benito Mussolini arrestato 25 luglio 1943 ore17. Alle ore 22’15 del 25 luglio gli italani apprenderanno dalla radio che il fascismo è crollato

http://www.raiscuola.rai.it/articoli/benito-mussolini-arrestato/6703/default.aspx

Expo, ecco come l’accordo tra le parti distribuisce i soldi della formazione alla casta sindacale Fonte: liberazione.it | Autore: Fabio Sebastiani

 

Ad una prima lettura il cosiddetto accordo sull’Expo (in realtà è un Protocollo d’intesa) formalmente non sposta poi così tanto l’asticella rispetto alle norme effettive vigenti. Alla fine utilizza il contratto del commercio, che per ammissioni degli stessi sindacalisti è già di per se pieno di ‘buchi’ dal punto di vista dei diritti dei lavoratori, e incarta tutto dentro un bel pacchetto fatto di “commi e buone intenzioni” il cui obiettivo è quello di rendere le relazioni sindacali e l’utilizzo degli addetti il più trasparente possibile ed esigibile quel che è scritto nelle norme (si dice per esempio che le buste paga devono essere regolari sia sotto l’aspetto retributivo che contributivo!). Senza questo passaggio, Expo’ spa avrebbe potuto, e dovuto, operare, con più o meno gli stessi strumenti, lasciando però la porta aperta a qualche slabbratura di troppo, soprattutto dal punto di vista della sicurezza e della trasparenza. La trasparenza, e la legalità, è un punto sensibile di questo grande evento internazionale perché non c’è stato appalto fino ad ora che non abbia visto l’interessamento della magistratura.

Come sottolinea Antonio Lareno, che per la Cgil cura proprio il “Progetto Expo”, si tratta di un testo puramente difensivo che non peggiora né migliora niente. Non per questo, però, è meno pericoloso e pieno di insidie. Ci sono due o tre luoghi in cui la minestra cucinata è davvero indigesta.

Il primo è tutto politico, e riguarda l’estendibilità del “laboratorio Expo”. Expo, per definizione, è un evento temporale. E la temporalità, del resto, è stata uno dei criteri ispiratori del protocollo stesso. Come si intenda estendere questa temporalità alla generalità delle imprese resta un mistero. O meglio, si potrebbe cominciare con le grandi opere. E’ tuttavia lecito considerare la grande opera come un utilizzo temporaneo di forza lavoro? C’è poi un secondo punto politico, che riguarda i rapporti sindacali tra le parti sociali e il Governo. Il protocollo Expo dovrebbe porre un argine al cosiddetto articolo 8, quello inserito nottetempo dal ministro Maurizio Sacconi, dimostrando sul campo che si possono fare accordi aziendali senza andare ad intaccare più di tanto il contratto nazionale, come pretende appunto Maurizio Sacconi, e come ha scritto chiaramente in quell’articolo. Quanto potrà reggere questa logica, di accordo aziendale in accordo aziendale? Non si fa prima a mettere fuori legge l’articolo 8? E’ un terreno tutto perdente, non ci sono dubbi. C’è già chi, come fa il Sole 24 ore oggi, scrive come con questa logica si potrebbe addirittura bypassare la sentenza della Cassazione sulla rappresentanza. La Fiom è avvertita. La cosiddetta emergenza nazionale della crescita e l’occupazione giovanile finiranno per asfaltare qualsiasi diritto del lavoro. E i sindacati lo dovranno accettare senza colpo ferire, anche perché anche loro hanno sottolineato la stessa cosa. Un bel capolavoro. Se avessero costruito una piattaforma contro la crisi le cose, forse, sarebbero andate diversamente; ma questo è un altro discorso.

Nel merito, invece, il Protocollo Expo, più di qualche bruttura la mette in campo. A cominciare da quel lavoro volontario, che viene in qualche modo ufficializzato. Si tratta di qualche centinaio di persone, non poche visto che i cosiddetti “regolari” sono ottocento. Il sindacato non ha provato nemmeno ad entrare nel merito dell’organizzazione del lavoro. Ha dovuto accettare il fatto che ormai in “qualsiasi grande evento” è prevista una quota di lavoro volontario. Questo lavoro è stato sì quantificato e regolamentato, ma sul fatto che l’azienda copra con il suo utilizzo “processi produttivi” che potrebbero essere occupati da lavoro retribuito non si dice niente. O meglio, i concetti utilizzati sono molto sfumati e difficilmente verificabili. Addirittura, oltre a quello “ufficiale” rimarrà fuori sacco una quota di lavoro volontario che attualmente sfugge alla percezione diretta, tipo l’opera dell’associazione “Ex Carabinieri”, una associazione che a Roma viene utilizzata per esempio in metropolitana nelle varie fermate al posto della guardiania di addetti Metro o vigilantes.

A ben guardare anche gli stage non saranno pagati con una regolare busta paga. Nel Protocollo di Intesa si parla di rimborso spese (più i buoni pasto). La presenza della busta paga è importante perché è attraverso questa che si controllano i vari istituti contrattuali e il relativo valore in denaro. Gli straordinari, ad esempio; o la produttività, oppure lo stesso inquadramento, che nel caso dell’Expò è molto basso, non a caso. Si tratta di voci che verranno godute da una ristretta cerchia di persone.

Come si è capito, l’epifania del Protocollo d’Intesa, non è certo per i lavoratori, che faticheranno con compensi poco sopra l’assegno della pensione sociale (stage). La ciccia è, manco a farlo apposta, per i sindacati, che attraverso gli enti bilaterali e organismi vari, si spartiscono la torta della formazione e dei servizi al lavoro. Migliaia di ore per le quali sono previste finanziamenti pubblici che verranno pagate profumatamente alla casta sindacale e al funzionariato vario. Senza contare l’invisibile mano delle agenzie interinali, sempre pronte a “reperire” persone sul mercato. Ci si chiede, ma con tutta questa disoccupazione che c’è è davvero così impossibile trovare persone disposte a lavorare?

Il peggio, comunque, deve ancora arrivare. E riguarda la sessione contrattuale su orario di lavoro, turni e riposi. Se le premesse sono queste è lì che gli imprenditori daranno la zampata finale. E’ lì che verrà concentrato l’attacco sulla flessibilità, già ampliamente spalmata su questo primo testo. Ai padroni la flessibilità non sembra mai abbastanza. E non perderanno l’occasione per riaffermarlo con tutta la forza possibile.

Mantova, operaio chiede chiarimenti sulla busta paga, datore di lavoro lo picchia | Autore: g.m. da: controlacrisi.org

 

Un giovane ha chiesto chiarimenti su una busta paga e il suo datore di lavoro lo ha picchiato.

L’aggressione è avvenuta nell’ufficio dell’imprenditore, davanti alla moglie e alla figlia dell’operaio. La posizione del datore di lavoro è ora all’esame dell’autorità giudiziaria. Questa è la denuncia presentata da un metalmeccanico domiciliato a Mantova e poi finito all’ospedale con una prognosi di 15 giorni.Tutto è iniziato quando il giovane è andato in ufficio da Nereo Parolin, gestore di un’impresa metalmeccanica nel Mantovano, e che inoltre ha un incarico di assessore comunale presso Gazzo Veronese.

Le incongruenze trovate dall’operaio: mancata annotazione di diverse ore di straordinario e il mancato pagamento degli assegni familiari.

Il chiarimento è finito tuttavia malamente e l’operaio è finito all’ospedale mantovano di Pieve di Coriano, per esserne dimesso con una prognosi di 15 giorni. L’imprenditore-assessore si è mosso anche lui a propria tutela.

Dice di essere stato lui a essere aggredito dal giovane; precisa inoltre di avere pagato regolarmente e sempre gli stipendi.

Per quanto riguarda invece il pagamento degli assegni familiari, l’azienda è in attesa di chiarimenti da parte dell’Inps, perché il modulo consegnato dal dipendente per ottenerli in parte è incompleto.

La vicenda ha avuto un seguito anche politico: a Gazzo (Verona), alcuni consiglieri hanno chiesto le dimissioni del politico. Altri invece hanno ritenuto la vicenda una questione privata.

Una forza di sinistra fuori e contro il Pd Fonte: il manifesto | Autore: Alfonso Gianni

 

L’azione dal basso non basta, troppi cantieri mai aperti, serve un’assunzione di responsabilità. E da Messina, con l’elezione del nuovo sindaco, arriva un segnale

Può succedere persino che un dibattito finora insabbiato nelle speculazioni sulle quotidiane interviste di Matteo Renzi o le facete proposte di congressi paralleli e convergenti fra grandi e piccole forze di una coalizione che dopo avere perso di fatto le elezioni si trova divisa fra governo e opposizione – pessimo oltre l’immaginabile il primo quanto inadeguata la seconda, se non altro per mancanza di insediamento sociale, si pensi solo all’astensionismo – riceva improvvisamente una scossa da nuovi fatti e argomenti. Quando succede non bisogna perdere l’occasione per tentare di rivivificare una sinistra d’alternativa che pare anch’essa “in sonno”.

Mi riferisco ad esempio all’esito di un’elezione paradigmatica, quella di Messina, su cui così poco si è ragionato. Ed è un peccato perché non si tratta di una tarda propaggine dei successi elettorali, alcuni già un po’ ingialliti, di Milano, di Genova, di Cagliari o di Napoli, ma di un risultato nuovo e originale, costruito completamente al di fuori del quadro politico dato e fondato sulla capacità di aggregazione dei movimenti, delle loro nuove pratiche di democrazia diretta, o, meglio, deliberativa e delle intelligenze politiche presenti al loro interno.

Sull’altro lato, quello del dibattito vero è proprio, si collocano con evidenza la discussione promossa da un supplemento all’ultimo numero di Micromega e due articoli pubblicati su questo giornale (Marco Revelli e Giorgio Airaudo in coppia con Giulio Marcon). Tutti questi hanno un tratto comune che va valorizzato: l’obiettivo della costruzione di una nuova soggettività politica della sinistra in connessione con lo sviluppo della sinistra diffusa nella società.

Se il tentativo di Micromega si era risolto con un mezzo insuccesso, secondo la severa autoanalisi dello stesso Paolo Flores d’Arcais, non era però trascorso invano, visto che nella sostanza soprattutto l’articolo di Revelli ne riprende i temi. In particolare quello della insufficienza di una azione dal “basso” e della necessità di un ente “catalizzatore”, ovvero «di qualcuno – un gruppo di donne e di uomini – che dall”alto’ dia un segnale con pochi semplici denominatori comuni», dalla difesa intransigente della Costituzione, al primato del lavoro, passando per la difesa dei beni comuni, per imporre all’Europa un cambio radicale della sua politica economica e al nostro paese una bonifica politica e morale.

Un compito tanto più urgente se si registra che anche Casaleggio, il guru di Grillo, prevede rivolte per autunno (c’è solo da stupirsi che non ci siano state finora) e queste rischiano di consumarsi in esplosioni isolate se non incrociano almeno un abbozzo di forza alternativa dotata di un programma e di una ferma determinazione di radicale cambiamento.

Una discussione di questo genere non può venire isolata in un resort, ma tanto meno lasciata all’equivoco delle primarie o delle tante promesse di cantieri della sinistra che mai si aprono e tantomeno si chiudono con un qualcosa di fatto. C’è bisogno di un’assunzione di responsabilità di quel quadro pensante, diffuso e privo di contorni partitici, ma pure esistente e resistente, intrecciato con esperienze di movimento, di ricerca intellettuale, di militanza sindacale, di costruzione di nuovo senso di sinistra nella società.

Non saprei dire quale è il numero delle questioni da porre per dare concretezza ad una simile discussione. Probabilmente più delle quattro cui fanno riferimento Airaudo e Marcon. Ciò che conta è il punto di partenza e la linea di direzione verso un possibile approdo, pur da verificare e rettificare quanto si vuole strada facendo.

La premessa non può non essere che la constatazione della morte dell’attuale centrosinistra. L’operazione è cominciata con il governo Monti, contando già su solide premesse; è stata ispirata, sostanziata e guidata dalle scelte della nuova governance europea; è approdata a «quell’odore marcio del compromesso» di cui ha scritto Barbara Spinelli, che è tale proprio perché a lungo covato. Solo il non esito, questo difficilmente prevedibile, delle ultime elezioni politiche ha fatto sì che Sel, contrariamente alla retorica governista sviluppata negli ultimi tempi, si trovasse all’opposizione e il Pdl per intero al governo.

Ma la Grosse Koalition non è un’invenzione dell’ultima ora. Parafrasando Giulio Bollati – quando parlava del fascismo, che è cosa diversissima, per dire che non era improvviso né imprevedibile – «il fenomeno può essere condensato in una formula: nulla è (nelle larghe intese) quod prius non fuerit nella società, nella cultura, nella politica italiana, tranne che (le larghe intese) stesse» da almeno 25 anni a questa parte. Infatti questa forma di governo a-democratica, prima ancora che tecnocratica, è la più congrua al capitalismo finanziario nel quadro europeo.

Il Pd è diventato il pivot di questa politica. Non ha senso proporsi di modificarlo all’interno (oltretutto tutti lavorano per Renzi) né attenderne la possibile implosione. Il “campo del cambiamento” va organizzato fuori e contro. La caduta del governo Letta è il primo compito di un’opposizione di sinistra che si rispetti e non può essere messo in ombra da calcoli congressuali. Se entro l’anno si giungesse a una grande manifestazione nazionale contro il governo, capace di raccogliere tutte le forze che ad esso si oppongono, questo sarebbe l’unico modo per cambiare tutte le agende politiche.

Coerentemente lo sbocco europeo deve essere ricercato nel campo della sinistra di alternativa su scala continentale. Serve una campagna di massa, capace di unire i temi della concreta sofferenza sociale con le cause che la provocano e che stanno nelle politiche di austerità di Bruxelles, ma a questa non si potrà poi dare una rappresentanza politica scelta nell’ambito di quel socialismo europeo che, a partire dalla Germania, si attrezza a essere garante di quelle politiche.

Le possibilità vanno raccolte da subito senza timidezza o pretese di primogenitura, ma avendo il coraggio di produrre scelte di campo nette e riconoscibili.

L’F-35 decolla sul parlamento | Fonte: il manifesto | Autore: Manlio Dinucci

 

Nuovi aerei da 14 miliardi. Mentre in Sicilia la regione riapre i lavori nella mega-base radar Usa Il 12 luglio scorso, mentre le camere votavano la sospensione nell’acquisizione dei nuovi caccia, la Northrop Grumman consegnava a Cameri la prima fusoliera pronta per la linea di montaggio. Una consegna su cui il governo italiano ha taciuto

Il parlamento è sovrano. Ha quindi deciso anche sui caccia F-35. La mozione bipartisan approvata dalla camera il 26 giugno «impegna il governo, relativamente al programma F-35, a non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito, ai sensi dell’articolo 4 della legge 31 dicembre 2012, n. 244». La stessa formula è stata usata nella mozione approvata dal senato il 16 luglio.

Siamo dunque in attesa che il Parlamento si esprima nel merito. Intanto però si è espressa la Northrop Grumman Corporation, uno dei maggiori contrattisti del programma statunitense dell’F-35 che fa capo alla Lockheed Martin. In un comunicato diffuso ieri l’azienda Usa annuncia di aver «consegnato il 12 luglio all’impianto Faco di Cameri la sezione centrale della fusoliera del primo F-35 Lightning II dell’Italia». Questa «puntuale consegna – sottolinea la Northrop Grumman – permette il primo assemblaggio di un F-35 all’impianto Faco». Precisa quindi che quella appena consegnata costituisce «la prima delle 90 sezioni centrali della fusoliera che saranno fornite all’impianto Faco per assemblare gli aerei italiani». La Northrop Grumman, come la Lockheed Martin, non ha quindi alcun dubbio che l’Italia acquisterà 90 F-35. Forse di più, come ha fatto intendere il ministro della Difesa Mauro.

Dunque, quattro giorni prima che il senato, confermando quanto già deciso dalla camera il 26 giugno, impegnasse il governo a «non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione» dell’F-35, la catena di assemblaggio dell’impianto di Cameri si è messa in moto per sfornare il primo caccia della serie. Oggi si capisce bene quindi perché l’inaugurazione ufficiale, prevista per il 18 luglio, sia stata rimandata «a data da destinarsi». Se si fosse tenuta il 18 luglio, con la partecipazione del generale statunitense Bogdan (responsabile del Pentagono per il programma F-35), sarebbe venuto alla luce quanto si è saputo ieri dal comunicato della Northrop Grumman: ossia che, in barba a quanto deciso dal Parlamento italiano, è iniziata la produzione degli F-35 che l’Italia acquisterà sborsando quasi 15 miliardi di euro.

L’impianto Faco di Cameri, con 20 fabbricati e una superficie di mezzo milione di metri quadri, è costato (sempre con denaro pubblico) circa 800 milioni. Da impianto di assemblaggio e collaudo dei caccia verrà in seguito trasformato in centro di manutenzione, revisione, riparazione e modifica (con ulteriori esborsi di denaro pubblico). Esso è solo una parte della rete dell’F-35, che in Italia coinvolge oltre venti industrie: Alenia Aeronautica, Galileo Avionica, Datamat e Otomelara di Finmeccanica e altre tra cui la Piaggio. Queste aziende funzionano come reparti della «grande fabbrica» dell’F-35 sotto la direzione della Lockheed Martin, che concede alle singole industrie solo il know how strettamente necessario alle parti dell’aereo che assemblano o producono.

La partecipazione dell’Italia al programma F-35 viene presentata come un grande affare. Non si dice però quanto verranno a costare i pochi posti di lavoro creati in questa industria bellica. Non si dice che, mentre i miliardi dei contratti per l’F-35 entreranno nelle casse di aziende private, quelli per l’acquisto dei caccia usciranno dalle casse pubbliche. Non si dice, soprattutto, che con questo programma si rafforza anche in Italia il potere del complesso militare-industriale. Come conferma il fatto che è stata la Northrop Grumman a farci sapere quanto avrebbe invece dovuto dirci il governo.

Alleva: Sentenza Fiom è sconfitta della Fiat e della sua linea ideologica | Fonte: il manifesto | Autore: Piergiovanni Alleva

 

Non è frutto di un caso né costituisce una sorpresa la sentenza della Corte Costituzionale n. 231/2013 che, “riscrivendo” il testo dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, ha consentito il rientro della democrazia nei posti di lavoro e sconfitto in modo definitivo l’intenzione della Fiat di escludere e discriminare i sindacati non proni al suo volere. E’ il frutto della volontà e della determinazione della Fiom-Cgil di resistere in una situazione difficilissima, riaffermando il diritto dei lavoratori a scegliere il sindacato da cui farsi rappresentare e a non essere ricattati all’insegna dell’alternativa “o questo o il licenziamento”, che era invalsa nell’era di Marchionne e cui il senso comune mostrava di consentire.

Chi non ricorda lo slogan “uno, cento, mille Marchionne” scandito da Matteo Renzi o l’adesione di uomini “di sinistra” come Fassino e Chiamparino, o del segretario di uno dei grandi sindacati che è giunto a proclamarsi “complice” della parte datoriale? La Fiom ha resistito e ha dovuto ingaggiare un fitto contenzioso giudiziario, valendosi di una piccola schiera di giuristi volontari – alla quale anche chi scrive si è onorato di appartenere – che hanno iniziato tante cause quante erano le fabbriche Fiat dalle quali la Fiom veniva espulsa.

La strategia era che almeno una di queste cause finisse con una remissione alla Corte Costituzionale nella speranza ben riposta che la Corte non venisse meno al suo ruolo di garante dei diritti costituzionali fondamentali. Altri sindacati, organi di stampa e mass-media hanno ripetutamente irriso la linea della Fiom, ma era la linea giusta, come si è dimostrato e come crediamo si dimostrerà in altre situazioni in cui diritti fondamentali saranno messi in discussione. Il nucleo della importante decisione in esame è che l’art. 19, a seguito di un referendum abrogativo del 1995, presentava un testo che poteva prestarsi ad un uso strumentale e stravolto, in quanto diceva che potevano formare Rsa sindacati che avessero firmato un contratto collettivo applicabile in azienda. Questo era un criterio minimale di incentivo all’attività sindacale, che consentiva ad un sindacato anche piccolo e modestamente rappresentativo, di poter formare un Rsa se fosse riuscito almeno a sottoscrivere un contratto.

La Fiat ne ha voluto dare una lettura meramente testuale, stravolta e rovesciata, affermando che un sindacato anche altamente rappresentativo, che in ipotesi raccogliesse anche la maggioranza assoluta delle adesioni dei lavoratori, se si fosse rifiutato di firmare un contratto proposto dal datore di lavoro, non avrebbe potuto formare una Rsa ovvero la sua Rsa sarebbe decaduta nel caso si trattasse di un nuovo contratto dopo la scadenza del vecchio. In tal modo la Fiat, iniziando una stagione di contrattazione tutta sua dopo l’uscita dalla Federmeccanica e sulla quale ha raccolto l’adesione servile di alcuni sindacati, ha preteso di cacciare la Fiom da tutte le sue fabbriche. E’ proprio questo uso stravolto che la Corte Costituzionale ha ritenuto incostituzionale per violazione degli artt. 2-3- e 39 Cost. giacché , in quel modo «i sindacati sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto dei lavoratori che riguarda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e quindi giustifica la stessa partecipazione nella trattiva bensì del rapporto con l’azienda».

Questa è stata la sconfitta della Fiat e della sua linea ideologica di interpretazione: invero anche nella discussione orale davanti alla Corte, la Fiat ha sostenuto essere del tutto logico e giusto che solo i sindacati che si siano dimostrati comprensivi delle esigenze aziendali, firmando il contratto proposto dal datore di lavoro, potessero avere un’organizzazione stabile e opportuni sostegni in azienda ( Rsa, permessi, assenze retribuite, ecc.). Il contrario di quanto ha sostenuto la Fiom: il sindacato è qualificato nella sua azione e deve essere riconosciuto e incentivato dall’ordinamento per il consenso che raccoglie tra i lavoratori e non dalla controparte datoriale, affermando la natura dialettica- e non dialogica o consociativa- delle relazioni intersindacali. Tesi pienamente accolta dalla Corte: non è necessario che un sindacato, per poter aver la sua Rsa, firmi l’accordo con il datore di lavoro: può rifiutarlo se nel corso della negoziazione valuta inaccoglibili le proposte datoriali. La partecipazione alle trattative è il crisma della rappresentatività. La Corte l’aveva già detto nella sentenza 244/1996 trattando il caso (in apparenza opposto) del piccolo sindacato che ottenesse di firmare il contratto collettivo senza averlo però negoziato: la Corte negò che un simile sindacato firmatario per grazia datoriale potesse pretendere di costituire Rsa, perché non aveva proceduto alla negoziazione pur avendo apposto poi la firma. Dunque la partecipazione alla trattativa è sempre stata l’elemento che davvero conta. Adesso la Corte lo ha detto in positivo integrando con una sentenza c.d. additiva il testo dell’art. 19.

Già subito dopo la notizia del dispositivo della Corte, nel campo datoriale gli “illuminati” hanno subito tratto la conclusione che è necessaria una legge che indichi chiaramente i requisiti di rappresentatività (magari sulla scorta degli accordi interconfederali del 28.06.2011 e del 31.05.2013). Mentre i datori “reazionari” si ostinano a voler pignoleggiare sul concetto di partecipazione alle trattative per cercare ancora di escludere i sindacati non conformisti. Ma importa notare che la Corte Costituzionale nella sentenza 231/2013 ha già esorcizzato la tentazione di ricorrere ad una “discriminazione al quadrato” verso i sindacati non graditi (discriminazione non solo dalla firma ma anche dalle trattative) ricordando al punto 7 della motivazione «la tutela dell’art. 28 dello Stat. Lav. nell’ipotesi di un eventuale non giustificato, negato accesso al tavolo delle trattative».

Anche noi vogliamo sperare che da parte datoriale non si insista in scaramucce di retroguardia ma si convenga con l’invito finale che la Corte fa al legislatore di optare verso coerenti soluzioni legislative che coniughino nel modo migliore rappresentatività e democrazia sindacale.