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Avete appena pagato il saldo Imu o state per farlo (l’ultimo giorno utile è lunedì)? Nonostante l’incasso dovrebbe ammontare a quasi tre miliardi più del previsto, non vi potete rilassare: dal 1 gennaio e per tutto il mese dovete pagare “la piccola Imu”, una nuova imposta comunale che debutta nel 2013, detta Tares, calcolata in base alla grandezza della casa (è solo la prima rata, le altre ad aprile, luglio e ottobre).
E’ la classica bomba ad orologeria: il governo Monti l’ha istituita con la manovra del dicembre 2011, ma entra in vigore con l’anno prossimo. Non c’è speranza di rinvii: alcune norme necessarie per la sua applicazione sono state inserite nella legge di stabilità. Si può già dare per certo che sarà l’ennesimo aumento di tasse, ma la faccenda va spiegata. La Tares (tariffa comunale sui rifiuti e i servizi) è una creatura bifida: da un lato sostituisce Tarsu e Tia, vale a dire le imposte sui rifiuti, dall’altro introduce un ulteriore balzello per pagare i “servizi indivisibili comunali” (illuminazione, anagrafe, verde pubblico, etc).
Partiamo dall’immondizia: per quei comuni che hanno istituito la Tia (la tariffa ambientale) gli aumenti dovrebbero essere pesanti, ma non enormi. Peccato che siano solo il 17% del totale: il resto (6.700 su circa 9.000) ha la vecchia Tarsu e per i cittadini saranno mazzate. E’ previsto, infatti, che la nuova Tares debba coprire l’intero costo del servizio. Facciamo un esempio. A Milano raccolta e smaltimento costano 271,5 milioni l’anno: nel 2011 il comune ha raccolto con la Tarsu 209 milioni, saliti a 257 con gli aumenti di quest’anno. Risultato: nel 2013 Pisapia dovrà alzare l’imposta per trovare altri 14 milioni. Nota bene: il resto dei comuni con la Tarsu sono messi mediamente assai peggio di Milano.
Finita? Macchè. Resta la parte sui servizi. Per quella si pagherà di sicuro 30 centesimi per ogni metro quadro calpestabile sull’80% di case, negozi e capannoni, ma potranno essere 40 se il comune riterrà che gli servono altri soldi. Sconti non ce ne saranno: quei soldi – un miliardo di euro il gettito previsto – il governo li ha già messi a bilancio e verranno automaticamente decurtati dai trasferimenti ai comuni per il 2013. In sostanza i sindaci stanno facendo da gabelliere per conto dello Stato. Nelle città, quasi tutte nel centronord, che hanno già fatto i conti, dicono che l’aumento medio per i comuni con la Tia sarà del 20% circa (a Firenze si parla di oltre 30 euro in più ad utente), per gli altri parecchio di più. Confcommercio ha calcolato che l’aggravio medio per gli esercizi commerciali sarà invece pari al 293%. Nei comuni, peraltro, ora è caos organizzativo: tra Imu, tagli e Tares, troppe sono le novità e le variabili per chiudere i bilanci di previsione entro fine mese e così – grazie ad un altro emendamento arrivato ieri – ai sindaci è stata concessa una proroga fino a giugno. Una buona notizia? Per ora le rate saranno parametrate sulla vecchia tassa, la mazzata arriverà tra luglio e ottobre.
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In questo senso occorre con legge disporre la nullità assoluta, per causa illecita, delle transazioni finanziarie speculative e tassare le stesse con una patrimoniale progressiva, ai sensi dell’art. 51 Costituzione.
Il modello capitalistico al quale si rifà il rigore del Governo Monti è in contrasto con i principi della nostra Costituzione, violando apertamente gli articoli che garantiscono la dignità della persona umana, l’eguaglianza tra i cittadini, lo sviluppo materiale e spirituale della società, il paesaggio ed il patrimonio storico-artistico del Paese, la proprietà personale dei beni strettamente indispensabili per la necessità della vita, la proprietà comune e collettiva demaniale. Tuttavia, nonostante la crisi globale, gli Stati hanno ancora ampie risorse, troppo spesso accaparrate abusivamente sotto forma di rendita e privatizzazione dei beni comuni, che la buona politica deve saper restituire alla comunità, stabilendo priorità ed offrendo indicazioni per il loro uso funzionale.
In Italia c’è un nuovo senso comune maggioritario che aspetta solo di potersi esprimere, come dimostrano quotidianamente le mobilitazioni dei giovani, delle donne, dei migranti, dei lavoratori, degli studenti, dei senza lavoro, contro i saccheggi dei territori e per la valorizzazione del lavoro.
Ripartiamo dall’eliminazione dei privilegi, da una politica “di mestiere” con costi fin troppo fuori controllo. Puntiamo all’annullamento del fiscal compact ed alla rinegoziazione del debito pubblico, attraverso un audit che ne certifichi le relative responsabilità e puntiamo all’introduzione di un reddito di cittadinanza, al potenziamento degli interventi a sostegno delle fasce più deboli.
Questi sono i primi passi, necessari, per combattere l’Europa delle banche e dei banchieri, e per avviare un programma di rilancio dell’economia, in grado di sostenere un tessuto economico fatto di microimprese e cooperative, per favorire l’occupazione giovanile e il reinserimento dei lavoratori espulsi dal sistema produttivo.
Vanno ripristinate da subito le tutele occupazionali e dei lavoratori cancellate dai governi Berlusconi e Monti, attivata un’imposizione fiscale più incisiva sui redditi elevati, sui patrimoni e sulle rendite finanziarie, cancellando gli aumenti delle imposte indirette e gli inasprimenti della fiscalità nei confronti dei redditi medio-bassi.
Moralità della politica per dare un segnale forte al ripristino della legalità, bloccando ogni tipo di infiltrazioni nelle istituzioni e nel sistema produttivo. Un fronte che deve esterndersi alla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, con recupero di risorse da destinare ad un welfare risanato dal clientelismo.
La scelta politica dei movimenti, inoltre, è soprattutto una scelta pacifista e di dialogo tra i popoli, con la destinazione dei risparmi delle spese militari a sanità, scuola pubblica, ricerca e innovazione. Cambiare si può, lottando ogni forma di discriminazione e razzismo, per una società inclusiva dove ci sia il pieno riconoscimento dei diritti civili di individui e coppie a prescindere dal genere, dove la cittadinanza sia un diritto per tutti i nati in Italia.
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Per l’Italia, per la sua Costituzione, violata e vilipesa dai governi e dalle stesse istituzioni che dovrebbero presidiarla le cose stanno anche peggio: del solenne giuramento con cui si era ripudiata la guerra bandendola dal consesso dei popoli civili non è rimasto più nulla e le spese per munire gli arsenali militari dei più sofisticati armamenti e per finanziare le “missioni” all’estero sono lievitate sino all’assurdo.
E tuttavia, la guerra è stata e viene scatenata anche in forme diverse. Anzi, parafrasando von Clausewitz, possiamo ben dire che, oggi più che mai, la politica è la continuazione della guerra, sebbene condotta con altri mezzi. Ci riferiamo alla politica sequestrata dal capitalismo finanziario che proprio in Europa si è direttamente insediato al potere e che per il tramite della Banca centrale detta agli stati un tempo sovrani la perentoria ricetta economica e sociale che sta demolendo il welfare e archiviando le moderne costituzioni fondate sui diritti sociali e sulla democrazia parlamentare.
Il mercatismo assoluto alla von Hayek e alla Milton Friedman è la spina dorsale che ispira l’Europa della moneta, del mito del pareggio di bilancio, non meno che della speculazione finanziaria, calati come clave chiodate su tutte le conquiste sociali del secondo dopoguerra.
Il capitalismo reagisce oggi alla più devastante delle sue crisi con una concentrazione inaudita delle leve di comando nelle proprie mani a cui corrisponde un’analoga polarizzazione della ricchezza prodotta dal lavoro.
La sconfitta del movimento operaio e lo spostamento dei rapporti di forza fra le classi hanno contemporaneamente prodotto due effetti fra loro concatenati: la crescita del plusvalore assoluto estratto dal lavoro vivo, la disgregazione delle idee e della capacità di coalizione delle classi subalterne e della loro rappresentanza politica.
L’approvazione della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e del Fiscal compact da parte dei partiti di ispirazione socialista (e a maggior ragione di quelli, come il Partito democratico, che sono approdati sulle sponde della liberaldemocrazia) si configura come una resa senza condizioni, prima culturale che politica, all’ideologia delle classi dominanti, paragonabile al voto sui crediti di guerra che alla vigilia del primo conflitto mondiale portò allo scacco della socialdemocrazia e alla dissoluzione della Seconda internazionale.
Se il paragone sembra ardito, si guardi alle conseguenze reali che la politica economica, definita con molta audacia di “austerità”, ha provocato, in Grecia in proporzioni già ora catastrofiche, ma in forme tendenzialmente simili in Spagna, Portogallo e, solo un passo indietro, in Italia. Si capirà allora quanto perversamente classista sia quel disegno e quanto il circolo vizioso sia senza via d’uscita. A meno che non si trovi la lucidità di analisi che si è smarrita, la capacità di proposta e di aggregazione politica che consenta di “fare saltare il banco” e di aprire un’altra fase.
La forza dei poteri dominanti è infatti sin qui consistita nella capacità di insufflare nelle menti la convinzione che una diversa strada non è data, che c’è “nelle cose” un’inerzia invincibile. Rompere questa camicia di forza, uscire da questo fatalismo impotente sono le precondizioni necessarie per affrancarsi dal giogo liberista.
E’ dunque di vitale importanza sottrarsi al gioco di specchi in cui si svolge la contesa fra gli schieramenti politici maggiori, quelli sostanzialmente intercambiabili in virtù del comune afflato montiano, quelli profondamente innervati di populismo reazionario o, ancora, quelli che sono espressione di una protesta molto urlata, ma priva di bussola e di progetto.
Il progetto politico e di governo in gestazione nella coalizione di forze, movimenti, associazioni, cittadini che va raggruppandosi intorno a “Cambiare si può”, segna invece un punto nella direzione giusta, apre una strada nuova, redistribuisce le carte ad un gioco politico ingessato, demistifica i luoghi comuni che riducono la politica ad una finta contesa, feroce nella forma, inconsistente nei contenuti.
Nel poco tempo a disposizione, le assemblee in corso di svolgimento in tutta Italia devono apportare contributi e consolidare la coesione programmatica che deve rimanere il solo punto discriminante della coalizione.
Anche nella composizione delle liste deve vivere un metodo nuovo, dialogante, aperto alle soggettività prodotte dal multiforme conflitto sociale di questi anni: senza che nessuno avanzi pretese di primazia, ma senza pregiudiziali esclusioni; senza boria di partito, ma anche senza spocchia professorale. Tutti alla pari: movimenti, cittadinanza attiva, partiti. Sì, anche partiti, quelli che con coerenza si sono battuti contro le politiche di Monti non meno che contro quelle di Berlusconi: perché non tutti i gatti sono bigi e non servono lavacri purificatori officiati da sacerdoti con zelo manicheo.
Concentriamoci invece sul lavoro di inclusione, di costruzione e di divulgazione che ha bisogno di tutte le risorse che possiamo mettere in campo, perché all’oscuramento mediatico, che sarà totale, dovremo opporre la generosità della militanza, la più estesa e capillare possibile.
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Cade il governo e ricomincia la solita storia: panico e preoccupazione per la reazione dei mercati. Il solito ricatto che sentiamo da almeno 12 mesi. Non si può fare politica, bisogna semplicemente ubbidire a quello che richiede il mercato, pena la bancarotta.
E dunque, lo scorso weekend è stato tutto un piangersi addosso. Ha iniziato Napolitano che invece di tranquillizzare ha deciso di buttare benzina sul fuoco, con parole torve e minacciose: «I mercati? Vedremo cosa fanno lunedì». E poi han continuato Corriere e Repubblica e tutti gli altri grandi sponsor del governo tecnico: «Comunità internazionale che non capisce e da lunedì ci farà pagare un prezzo assai alto» (De Bortoli), «Le dimissioni di Monti sono arrivate come un fulmine. Non certo un fulmine a ciel sereno perché sereno non è affatto ed anzi è rigonfio di nubi nere e cariche di tempesta….una campagna elettorale con l’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, con i mercati in agguato e la finanza pubblica a rischio di grave pericolo» (Scalfari). Il messaggio era chiaro: non si può mettere in discussione la linea di politica economica finora adottata.
Lunedì la Borsa ha aperto in ribasso, lo spread è salito, ed ecco che tutti i giornali titolavano sul grande rischio che correva l’Italia. Intanto Monti ribadiva: «I mercati? Li capisco». E di questo, almeno, nessuno ha mai dubitato. Forse allora avevano avuto ragione l’anno scorso quando ci era stato imposto il governo tecnico, una sorta di male necessario per evitare il peggio.
Ed invece… Mercoledì l’asta dei Bot è stata un successo coi rendimenti in ribasso, nonostante la crisi di governo. E giovedì è intervenuto addirittura Moody’s con una dichiarazione che ha tagliato la testa al toro: «Le turbolenze politiche in Italia hanno conseguenze limitate sull’affidabilità creditizia del Paese». Ma che sorpresa! Allora si può andare a votare senza mettere a rischio la stabilità del Paese, come d’altronde, nel mezzo della crisi, avevano fatto in Spagna, Portogallo, Irlanda e perfino, per ben due volte, in Grecia.
Attenzione però, ci dicono ora. Votare va bene, ma bisogna votare in un certo modo. Non a caso la preoccupazione principale del centrosinistra è quella di rassicurare i mercati e i partner europei (così giorni fa l’Unità ed anche Bersani intervistato dal Wall Street Journal). Che tradotto vuole circa dire, votate, vinciamo, ma la famosa agenda rimane sempre la stessa perché lo vogliono i mercati. E chi la discute è demagogico, populista, irresponsabile.
Ma siamo sicuri che sia proprio così? Chi sono questi mercati e cosa vogliono esattamente? Occorre fare chiarezza. I mercati sono entità astratte, composte da migliaia di operatori. I mercati, in fondo, siamo anche noi quando compriamo un Bot o un CCT. Gli investitori, quelli cioè che hanno messo i soldi, vogliono semplicemente una cosa, che i debiti vengano onorati. Che lo si faccia tassando i ricchi o i poveri, per loro ha poca importanza. Altra cosa, invece, è quella che vogliono i grandi capitalisti (anche se non tutti, per fortuna): loro vogliono meno tasse per i ricchi, libertà di licenziamento, salari bassi. C’è una bella differenza.
Per un anno e più ci hanno detto che l’austerity non si poteva discutere se non si voleva fallire. E che austerity non vuol dire, ad esempio, patrimoniale, ma Iva maggiorata e tagli a sanità e scuola. Ma eran tutte balle. In America, dove non c’è stata austerity, ed il debito è salito, i tassi di interesse sono scesi, non saliti. E recentemente, l’ex vice presidente di Moody’s ha attaccato Monti e Draghi, responsabili dei pessimi risultati dell’Italia. Ed anche un editoriale del Financial Times ha festeggiato le dimissioni di Monti, le cui politiche si sono rivelate inadeguate. Tanto per citare alcune autorevoli voci dei mercati finanziari che non credono in questo tipo di politica economica che arricchisce alcuni ma mette a rischio la tenuta proprio di quei famosi mercati di cui tanto parliamo. Gli investitori, infatti, sarebbero ben più contenti se l’Italia crescesse, perché soltanto con la crescita, e non certo con l’austerity, si possono pagare i debiti.
In realtà in questo anno, sotto il cosiddetto ricatto dello spread, si è approfittato della crisi per scassinare la Costituzione e far passare a tamburo battente le contro-riforme del lavoro e delle pensioni. L’agenda Monti è stata l’agenda del grande capitale che si approfitta di crisi, disastri ed emergenze per imporre politiche altrimenti inaccettabili, come spiegato già qualche tempo fa da Naomi Klein nel suo Shock Doctrine. Ora ci vorrebbero far votare sotto lo stesso ricatto, ripetendo le stesse bugie
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SCAFFALI
Un codice penale dentro la biopolitica
Il seminario «Du gouvernement des vivants» è stato tenuto da Michel Foucault alla Sorbona nel 1980 e si aggiunge ai testi sul governo dopo la lunga parentesi in cui il filosofo francese aveva affrontato il tema della governamentalità, forma specifica di esercizio del potere dove c’è compresenza di governo, produzione di soggettività – la soggettivazione – e sottrazione al potere. Il seminario è stato raccolto nel volume pubblicato da Seuil (pp. 400, euro 40), che si aggiunge agli altri testi già pubblicati dalla casa editrice francese. «Mal faire, dire vrai», pubblicato dalla casa editrice dell’Università cattolica di Lovanio (euro 30), è invece inedito. Raccoglie gli atti del seminario tenuto nel 1981 attorno al rapporto tra governo e verità e nasce da un’intenzionalità politica. In quel periodo, infatti, Foucault collaborò spesso con un gruppo di giuristi radicali, impegnati nella riforma del codice penale belga.
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